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Enigmi e giochi di logica


D.

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Le richieste erano due, Quint:

 

I. Risolvere la seconda parte dell'enigma;

II. Scoprire se esiste un collegamento con la prima parte.

 

Hai quasi la soluzione in mano, qualche altro sforzo. :look:

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630 972 202 13156 12132 100 306 306 972

 

{25013/7; 51022/11; 21503/2; 10527/17; 50218/23; 12051/5}

 

Soluzione (9, 1, 9)

 

E' trascorsa una settimana, è ora di dare la soluzione, o non si andrà più avanti.

Ma voglio consolidare l'abitudine della discrezione, cosicché chi voglia cimentarsi in privato non debba leggere.

 

Risolviamo la prima parte, fin qui quint e silent erano riusciti perfettamente, in due modi diversi.

 

Che si prenda la prima cifra dei numeri proposti, o si faccia la somma ed estrazione della radice, è la stessa cosa, dacché il quadrato è sempre mancato per un solo termine, 6x6 equivale [e mi rivolgo a quint] a scrivere 6x(1+1+1+1+1+1), non fa alcuna differenza scrivere 6x[(1+1+1+1+1)+1], ovvero 30+6. Ad ogni modo, traducendo secondo l'ordine gematrico dai numerali alle lettere, otteniamo F I B O N A C C I. Fatto questo, passiamo alla seconda parte.

 

Qui tutto è sembrato più complicato di quanto in realtà non fosse. I numeri posti tra parentesi graffe, fanno parte appunto di un insieme (!), per scoprire quale, osserviamo tutti i denominatori: sono sempre numeri primi. Vuol dire che abbiamo a che fare con numeri fratti, ovvero l'insieme dei numeri razionali, indicato dall'insiemistica con la lettera [quint!] Q. Non abbiamo risolto alcunché, abbiamo solo constatato la natura dell'insieme, ora come comportarci con le cifre sempre ricorrenti 0125? E soprattutto come si legano le parti tra loro?

 

Ebbene, la stringa 0125 è ambivalente, da una parte è il corrispondente di }, ma se posto in un altro ordine, e cioè 1250, diventa una data, o meglio l'anno della morte del matematico del Liber abaci. Ed ecco il collegamento tra prima e seconda parte: il 1250.

 

Per cui alla fine la soluzione è: Fibonacci è razionale

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Gli enigmi degli enigmi.

 

 

Caro Delta,

 

qualche cosa non mi quadra nelle formulazioni dei due enigmi:

forse perché non sono un alunno diligente d'Euclide.

 

 

Circa le tre C.

 

Se concediamo vera la soluzione di Quinta, mi domando:

perché Leonardo scrisse tre C e non due sole ?.

 

Affinché la sentenza, che giuoca sulla forma semicircolare delle lettere, abbia significato, è sufficiente che le C siano due:

dunque, perché scriverne tre ?.

 

E' forse anch'esso un enigma ?.

 

 

Circa la prima serie di numeri.

               

Anche qui mi pare che qualche cosa sia superfluo, se pur non sia un altro enigma:

perché scrivere 202 e non 22, perché 100 e non 1, perché 306 e non 36 ?.

 

Sarebbe stato razionale, se tutti i numeri fossero stati composti di tre segni, ma alcuni sono composti di cinque.

 

 

Circa la seconda serie di numeri.

 

Se ho inteso bene, quella serie è significante solamente in tanto, in quanto in primo luogo contenga i numeri che rappresentano, secondo il calcolo dell'età volgare, l'anno in cui nacque il Fibonacci, in secondo luogo sia una serie di numeri razionali.

 

E di nuovo mi domando:

perché scrivere sei numeri e non tre o nove o quant'altri ad arbitrio ?.

 

Forse è un terzo enigma ?

 

Per altro, qui concederai che il salto, dai segni che compongono il numero 1250, sparsi senz'ordine tra i numeri della serie, all'anno di nascita del Fibonacci, è quasi mortale per Edipo: 

la Sfinge pare abbia vinto.

 

 

Anakreon.

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Circa le tre C.

 

Se concediamo vera la soluzione di Quinta, mi domando:

perché Leonardo scrisse tre C e non due sole ?.

 

Potremmo anche chiederci perché non quattro o infinite; dal momento che è occorrente un plurale, due o tre, che differenza fa?

Ad ogni modo, tale quesito, eplicitamente postato come non mio, rinvia la soluzione al suo inventore.

 

Circa la prima serie di numeri.Anche qui mi pare che qualche cosa sia superfluo, se pur non sia un altro enigma:

perché scrivere 202 e non 22, perché 100 e non 1, perché 306 e non 36 ?.

Sarebbe stato razionale, se tutti i numeri fossero stati composti di tre segni, ma alcuni sono composti di cinque.

 

In realtà la scelta è molto rigorosa, in quanto solo tra cifre di numero dispari è possibile una regola univoca e fissa.

La pocedura di addizone difatti pone sempre una legge proporzionale, se l'addizione su stringhe a tre cifre è data da il primo elmento più gli altri due intesi come decine e unità, ovvero su una stringa abc, la soluzione è 'a + [(bx10)+c]', possiamo iterare la procedura e farla diventare ricorsiva anche con le centinaia, aumentando infatti di una cifra il primo termine, il secondo a sua volta ne acquisisce un altro, e cioè: se abc prevede la somma di 'a+(bx10)+c]', nelle stringhe più complesse del tipo abcde si ha '[(ax10)+b]+[(cx100)+(dx10)+e]'. Insomma, con tre elementi nelle stringhe elementari ho potuto mantenere l'ordine posizionale e, con esso, una intera logica, altrimenti impossibile da sostenere.

 

Circa la seconda serie di numeri.

 

Se ho inteso bene, quella serie è significante solamente in tanto, in quanto in primo luogo contenga i numeri che rappresentano, secondo il calcolo dell'età volgare, l'anno in cui nacque il Fibonacci, in secondo luogo sia una serie di numeri razionali.

 

E di nuovo mi domando:

perché scrivere sei numeri e non tre o nove o quant'altri ad arbitrio ?.

 

Qui non esiste alcuna ragione, del resto, qualora avessi messo frazioni in numero diverso, ancora avresti chiesto lumi.

Importante erano le parentesi graffe ad indicare l'insieme, non la cardinalità dell'insieme stesso.

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La Sfinge insaziata.

 

 

Circa le tre C.

 

La pluralità incomincia col due e quindi due C sarebbero state assai per significare: “se mi cerchi”.

 

Perché scriverne dunque tre ?;  perché scriverne una vanamente ?.

 

Tu affermi, caro Delta, che tra due segni e tre o quattro eccetera, quanto alla pluralità, non è differenza:

affermi il vero.

 

Ma, se alcuno elegge lo scrivere tre segni piuttosto che due o quattro od altri, quando due sarebbero assai per significare quel ch’egli si propone, vien spontaneo domandarsi perché quegli abbia scritti tre o quattro o più segni, potendone scrivere due solamente.

 

E’ solo un errore della Sfinge o Te ne sfugge l’esplicazione ?.

 

 

Circa la prima serie di numeri.

 

Tu proponi una regola aritmetica universale, ma l’enigma è costretto nei confini non solo delle ventuno lettere dell’alfabeto, ma anche d’un loro ordine significante secondo la lingua corrente, tant'è vero che ne deduci un cognome Italiano: Fibonacci.

 

Segnati tali confini, per risolvere l’enigma mi pare sia sufficiente la regola che debba essere un quadrato la somma del numero indicativo della posizione, nell’alfabeto, della lettera eletta e dei numeri seguenti, quanti siano e se pur siano:

quindi è inutile scrivere 202 in luogo di 22 o 306 in luogo di 36 o 100 in luogo di 1.

 

E veramente, quanto a 202 ed a 100, perciò non si potrebbero eleggere né la lettera sita alla ventesima posizione dell'alfabeto né quella sita alla decima, perché né 22, cioè 20+2, né 10, cioè 10 + 0, sono quadrati; necessariamente quindi devono essere elette le lettere site alla seconda posizione ed alla prima, elezione che si può fare anche ponendo i numeri 22 ed 1, in luogo di 202 e di 100.

 

Quanto a 306, è ben vero che 36, cioè 30 + 6, è un quadrato, ma è anche vero che non è alcuna lettera trentesima nell'alfabeto nostro:

perciò non si può che eleggere la lettera sita alla terza posizione, sì che il numero corrispondente possa ben essere, in luogo di 306, 36, donde si deduce il numero quadrato 9, cioè 3+6.

 

 

Circa la seconda serie di numeri.

 

Non qualsiasi numero di frazioni Ti si sarebbe potuto opporre, ma solamente quello che non avresti potuto razionalmente giustificare:

a ben considerare, proprio perciò, che la soluzione vuol essere “razionale”, sarebbe stato razionale che il numero di frazioni eletto non fosse casuale.

 

 

Anakreon.

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Circa le tre C.Tu affermi, caro Delta, che tra due segni e tre o quattro eccetera, quanto alla pluralità, non è differenza:

affermi il vero.

 

Ma, se alcuno elegge lo scrivere tre segni piuttosto che due o quattro od altri, quando due sarebbero assai per significare quel ch’egli si propone, vien spontaneo domandarsi perché quegli abbia scritti tre o quattro o più segni, potendone scrivere due solamente.

 

E’ solo un errore della Sfinge o Te ne sfugge l’esplicazione ?.

 

Tre considerazioni:

 

I. Quali riverberi avrà questa conversazione nella soluzione dell'enigma? Che siano due tre o mille i segni C, non indicheremo sempre la pluralità? Tornarvi sopra con tanta insistenza è parimenti discutere intorno al sesso degli angeli; a che pro, insomma?

 

II. Chiedere lumi su una voce plurisecolare e probabilmente infondata, circa 'CCC', confligge con la brillante esplicazione da te  stesso offerta su questo stesso topic, con le tue parole

 

secondo Anonto d'Arcania, che lo riferisce nell'opera sua inscritta "Leonardo da Vinci disvelato", le tre CCC avevano duplice significato:

 

quando Leonardo era d'animo benigno, significavano: "CAVE CERBERVM CVSTODEM", per chi ignora la lingua Latina: "attento a Cerbero custode"

 

quando di contro era d'animo maligno, significavano:  "CARET CVSTODE CASA", cioè "manca d'un custode la casupola".

 

Quale significato avrà, dunque, chiedere conto dei propri scritti? Argomenti di conoscere il significato delle tre C, e subito chiedi spiegazioni sul numero dei segni?

 

III. Per la terza volta dichiaro di non essere l'inventore dell'enigma, ma non voglio essere ingeneroso. Una traccia, il giornale del Sisini.

 

Scrivi pure a redazione@settimanaenigmistica.it

 

 

Circa la prima serie di numeri.

 

Tu proponi una regola aritmetica universale, ma l’enigma è costretto nei confini non solo delle ventuno lettere dell’alfabeto, ma anche d’un loro ordine significante secondo la lingua corrente, tant'è vero che ne deduci un cognome Italiano: Fibonacci.

 

Questo è falso. La soluzione numerica si avvale del sistema decimal-posizionale, la corrispondenza gematrica è un passo successivo e non necessario; è, per così dire, accidentale. Il solutore non può sapere in anticipo cosa i numeri ottenuti possano indicare, egli ha a disposizione l'infinità dei numeri naturali, non solo ventuno. Prima di dotarsi di significato i numeri vanno tradotti dal sistema da me proposto in quello decimale, solo successivamente divengono significanti di qualcosa. Da questo segue l'errore dell'argomentazione ulteriore, ove tu noti

 

E veramente, quanto a 202 ed a 100, perciò non si potrebbero eleggere né la lettera sita alla ventesima posizione dell'alfabeto né quella sita alla decima, perché né 22, cioè 20+2, né 10, cioè 10 + 0, sono quadrati; necessariamente quindi devono essere elette le lettere site alla seconda posizione ed alla prima, elezione che si può fare anche ponendo i numeri 22 ed 1, in luogo di 202 e di 100.

 

Anche questa volta è falso. Scrivere 22 in luogo di 202 disorienta il solutore, il quale potrebbe non poter più discernere se abbia a che fare con decine od unità. Scrivendo 202, indico {2+[(0x10)+2]}, tu sostieni inutile il passaggio (0x10) poiché ovvio, ma tale non è, dacché non tutte le cifre mediane sono nulle. E ripeto, essendo delle stringhe interpretabili sotto l'intero dominio dei numeri naturali, il principio universale della codificazione posizionale è l'unico necessario, o non avremmo alcuna logica. Lo zero non è inutile.

 

Circa la seconda serie di numeri.

 

Non qualsiasi numero di frazioni Ti si sarebbe potuto opporre, ma solamente quello che non avresti potuto razionalmente giustificare:

a ben considerare, proprio perciò, che la soluzione vuol essere “razionale”, sarebbe stato razionale che il numero di frazioni eletto non fosse casuale.

 

E perché? Ci interessa forse la cardinalità di Q? O non piuttosto la proprietà o insieme di proprietà, sotto cui raccoglie i propri elementi? Importante era la constatazione di trovarsi di fronte a numeri razionali (denominatori tutti primi..), e assegnazione di razionalità laterale sulla base del 1250, ovvero come dato fondato. La natura dei numeri era importante, non la cardinalità dell'insieme.

 

 

Anakreon.

 

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L’enigma perfetto.

 

Caro Delta,

 

chiedere lumi non è di Edipo né, per altro, se pur li chiedesse, la Sfinge lo illuminerebbe.

 

Ma perché altrui non è concesso ?:

è stata offerta un’esplicazione che spiega la pluralità delle C, ma non perché il loro numero sia tre piuttosto che due, il quale sarebbe sufficiente per ottenere una sentenza plurale.

 

Non lice domandarsi se anche il numero di tre sia significante ?:

se non lice, non domandiamo.

 

Quanto alla mia conoscenza, io non conosco il significato delle tre C, forse lo conosceva solo l’autore:

io ho solo riferita un’esplicazione, reperta da un interprete antico; una delle molte possibili, forse quella più improbabile, ma che tuttavia dà ragione di tutti i tre segni.

 

Quanto alla prima serie di numeri, mi pare che un ordine razionale sarebbe stato tuttavia, se pur si fosse scritto 22, 1, 36.

 

Per certo sarebbe stato più difficile da esplicare, forse impossibile, ma un enigma perfetto non dovrebbe essere inesplicabile ?:

ringraziamo, dunque, la benignità della Sfinge.

 

Quanto alla seconda serie, è probabile che un numero di segni che avesse avuta una ragione e non fosse stato casuale, non avrebbe fatto sì, che l’esplicazione fosse tuttavia  intelletta:

ma dovremmo domandare ad Edipo.

 

Per altro l’esplicazione non è stata intelletta, dunque qui forse la Sfinge è stata maligna e l’enigma perfetto.

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Su, non litigate per un quesito.

Ho letto la soluzione. Non ci sarei mai arrivato, prevede la conoscenza di cose che non sapevo, o che forse ho fatto alle medie ma chiaramente non ricordo: insiemi? Q? non ho neanche una sensazione di deja vu. :ok:

In effetti non sono nemmeno sicuro di aver capito, anzi non ho capito neppure la spiegazione della prima parte, che pure avevo risolto. :ok:

 

Ma dunque? Che si fa? Devo inventarmi qualcosa io? :ok:

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Enigmi negli enigmi.

 

 

Caro Quinta,

 

nessun litigio, solo opinioni diverse circa gli enigmi negli enigmi...

 

La seconda serie di numeri, quale rappresentazione di tutti i numeri razionali, donde il vocabolo di "razionale", mi pare ben eletta, ancorché sia necessario conoscere i segni usati dai matematici per dedurne un vocabolo significante:

ma questo vale per ogni segno usato in qualsivoglia enigma.

 

Quello che mi pare un salto molto difficile da discernere è il numero 1250, quale anno di morte del Fibonacci, ma a ben considerare questo non aggiunge alcunché alle possibilità di ricognizione della voce di "razionale", perché essa dipende solamente daila natura della serie di numeri indicata tra le parentesi articolate.

 

In più, ho congetturato che i numeri della seconda serie siano sei in virtù d'un enigma nell'enigma:

ma abbiamo accertato che così sono sei come potrebbero essere sessanta; non altrimenti pare che le C di Leonardo siano tre come potrebbero essere trenta, pur che siano almeno due.

 

La prima serie di numeri rappresenta un ragionamento perfetto fatto dalla Sfinge, ma che forse Tu stesso mi confermi non essere, in quella forma, necessario per la soluzione.

 

D'altronde è un fatto che, in tale prima serie, i nove numeri siano ordinati in tal modo non per la necessità d'una regola aritmetica, ma per la necessità di significazione secondo le regole della nostra lingua e della posizione delle lettere nel suo alfabeto, tant'è vero che secondo l'alfabeto Greco avrebbero altra o forse nessuna significazione e soprattutto che, mutando l'ordine dei nove numeri, non sarebbe violata, se almeno non è qui un enigma nell'enigma, alcuna regola della successione aritmetica, ma sarebbe tuttavia impedita quella significazione in lingua Italiana voluta dalla Sfinge, cioè il cognome del Fibonacci. 

 

Perciò, asserire, come asserisce Delta, che:

 

"La soluzione numerica si avvale del sistema decimal-posizionale, la corrispondenza gematrica è un passo successivo e non necessario"

 

a mio giudizio è un'asserzione errata.

 

La corrispondenza tra numero e posizione della lettera nell'alfabeto Italiano è inconfutabilmente necessaria non solo alla soluzione, ma anche all'ordine dei nove numeri della prima serie, perché appunto esso non è un ordine tale, che obbedisca ad una regola aritmetica, ma tale necessariamente che obbedisca alle regole della lingua Italiana, affinché sia composto un vocabolo significante, qual è il cognome del Fibonacci.

 

Anakreon.

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Ok, cedo alla richiesta di D. e posto una cosa che mi è venuta in metne qualche giorno fa.

 

AGCGEGGGIGKGMGOGQGSGUGWGYG

 

La soluzione è una parola. Di più, per ora, non vi dico.

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Esplicazione troppo facile.

Un'esplicazione potrebb'essere:

Parigi.

 

La lettera G, quando non è collocata nella sua sede propria, è sempre collocata in sedi pari dell'alfabeto indicato, che può essere l'alfabeto Francese;

in più, tutte le lettere G scritte sono 14, dunque sono di numero pari;

per tanto: pari gi.

 

Ma mi pare troppo facile...

 

Anakreon.

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Sarà troppo faile, ma è la soluzione esatta.

Dopo quella di D., tutto sembra più facile. ;)

 

A questo punto passo la palla ad Anakreon.

 

P.S.: il fatto che le G fossero 14, e quindi pari, è puramente casuale, ovviamente contava la posizione.

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L’errore di Edipo.

 

Caro Leprotto Albino:

 

esplicando l’enigma proposto da Delta:

“A dice che B mente; B dice che C mente; C dice che A e B mentono. Chi mente e chi dice la verità?

 

annoti:

“No, ok, C deve per forza dire la verità su uno dei due: C mente, perché se dicesse il vero su entrambi e quindi A mentisse, ci sarebbe una contraddizione su B (perché mentirebbe sia per C che per A, ma A direbbe il falso); però non può nemmeno essere che sia A che B dicano il vero, perché A dice che B mente; quindi C dice la verità su A, che dice il falso, ma mente su B. Quindi, ricapitolando, A dice il falso, B dice il vero e C (globalmente) dice il falso.”

 

A mio giudizio neppure B può asserire il vero, non producendo contraddizione tra tutte le asserzioni.

 

Congetturiamo  che B asserisca il vero.

 

Perciò, in primo luogo, che B asserisce che C menta  e perciò, in secondo luogo, che C asserisce che B menta, ne consegue per necessità razionale che B può ben asserire che C menta, senza contraddizione alcuna con la congettura che esso B asserisca il vero:

e veramente,  se B asserisce il vero, ne consegue che C  mente circa il mendacio dello stesso B e ne consegue quindi anche che nulla impedisce che esso B possa, secondo congettura, asserire il vero.

 

Ma C asserisce anche altro e cioè asserisce che A menta parimenti, che menta B.

 

Dunque se, secondo congettura, B asserisce il vero, allora C mente quando asserisce che A menta;  ma se C mente, così A necessariamente asserisce il vero come asserisce il vero B.

 

Tuttavia, perché A, per parte sua, asserisce che B menta, perciò dunque si produce contraddizione con la congettura che B dica il vero e che quindi C menta e che, per tanto, A asserisca il vero:

se A asserisce il vero, B mente e dunque è fallace la Tua congettura che B asserisca il vero;

se, vice versa, A mente, allora la Tua congettura che B asserisca il vero è prima salva,  ma perisce tuttavia poi, a causa della necessaria conseguenza sia della verità dell’asserzione di B sia del dipendente mendacio di C; 

e veramente perisce, insieme col mendacio di B, anche il mendacio di A, il quale dunque dice il vero e non mente, generando così contraddizione con quanto congetturi, che cioè B asserisca il vero.

 

Tu, caro Leprotto Albino, annoti:

“quindi C dice la verità su A, che dice il falso, ma mente su B”.

 

Ma perciò non è possibile che C, in una, asserisca il vero circa A e menta circa B o vice versa, perché la sentenza attribuita a B nell’enigma proposto è:

“B dice che C mente”,

la quale indubitatamente significa solo né altro può significare, se non che, secondo B, tutto quanto asserisca C sia mendacio.

 

Ma che asserisce C ?:

“che A e B mentono”,

asserzione che significa appunto che sia A sia B mentono, ciascuno per la parte sua.

 

La questione è dunque:

se solo A mentisse, ma non B, il quale asserisse il vero, oppure, per converso, se solo B mentisse, ma non A, il quale asserisse il vero;  allora C asserirebbe il vero  o mentirebbe ?.

 

Stante il significato dei vocaboli e la struttura della lingua Italiana, non vedo come si possa concedere che C, accusato da B d’essere mendace, possa in parte asserire il vero ed in parte mentire.

 

Se B avesse voluto significare che C fosse in parte mendace ed in parte verace, per necessità d’intelligenza degli ascoltatori l’avrebbe dovuto significare, asserendo:

“C mente in parte ed in parte asserisce il vero”

oppure:

“C mente quanto a me B, ma dice il vero quanto ad A”.

 

Ma non avendo B così significato, non è altra ragione per cui aggiungiamo noi alcunché talmente significante, se non per togliere una contraddizione evidente;  tuttavia, per togliere la contraddizione evidente, ripugniamo al significato necessario della sentenza proposta nell’enigma.

 

D’altro canto, se concedessimo che si potesse asserire che perciò solo C mentisse, perché egli mentisse quanto a B;  non vedo perché non potremmo parimenti concedere che si potesse asserire che perciò solo C  asserisse  il  vero, perché egli asserisse il vero quanto ad A.

 

Ma, se concedessimo ciò e non potremmo non concederlo secondo la Tua interpretazione, allora la sentenza di B, proposta nell’enigma potrebb’essere indifferentemente una delle due:

“C mente”

oppure:

”C asserisce il vero”.

 

E non sarebbe assurdo se due sentenze contrarie potessero razionalmente avere la medesima significazione?;

possiamo accettare che la sentenza “egli mente”  significhi il medesimo che significhi la sentenza “egli mente” ?:

non dissolveremmo così ogni facoltà altrui d’intelligenza del nostro dire ?.

 

Forse il Tuo errore procede dalla confusione tra due sentenze ben diverse, quella qui  proposta nell’enigma:

“B dice che C mente e C dice che A e B mentono”

e quella che permetterebbe l’esplicazione che Tu ne vorresti offrire:

“B asserisce che C mente e  C asserisce essere vera l’asserzione che sia A sia B mentano.”.

 

Solo quest’ultima sentenza permetterebbe di separare, nel giudizio dato da C, l’asserzione del mendacio di A da quella del mendacio di B così che, se si congetturasse che B asserisse il vero e che quindi C mentisse, il mendacio di C potesse far vero solo quanto asserito da B, ma non necessariamente anche quanto asserito da A, evitando dunque la contraddizione tra la verità dell’asserzione di A e la congettura che vice versa ponesse vera l’asserzione di B. 

 

E ciò sarebbe possibile perché allora l’asserzione di C non sarebbe: 

“A e B mentono”,

come nella sentenza proposta nell’enigma, ma sarebbe un’asserzione circa la verità dell’asserzione “sia A sia B mentono”.

 

Il mendacio di C asserito da B, non varrebbe, dunque, sia per l’asserzione proferita da A sia per quella proferita da B, ma varrebbe solamente per tutta l’asserzione “sia A sia B mentono”,  la quale sarebbe per tanto falsa se pur solo uno dei due, A o B, asserisse il vero e concederebbe dunque che C potesse pur mentire, ancorché uno solo dei due, cioè A o B, asserisse il vero.

 

Ma la sentenza proposta nell’enigma non è quest’ultima esaminata, bensì la prima:

“ B dice che C mente e C dice che A e B mentono”

circa la quale è debito argomentare.

 

E’ in somma, a ben considerare, una variazione del famoso ed antichissimo paradosso del mentitore, il quale asseriva mentire e dunque, se asseriva il vero, mentiva, ma, se mentiva, asseriva il vero:

la differenza sta solo in ciò, che il mentitore asseriva circa il suo stesso mentire;  di contro  A, B e C, nell’enigma proposto, asseriscono bensì circa il mentire altrui, ma formando un circuito d’asserzioni  in virtù del quale la prima asserzione di verità o di mendacio si riflette tuttavia sul primo proferente.

 

A tal proposito, circa cioè il primo proferente, osservo  che nella forma delle sentenze, quali sono proposte nell’enigma,  mi pare manchi qualche cosa.

 

E veramente, l’asserzione:

“A dice che B mente”,

dovrebb’essere corretta in:

“A dice che B mente sempre”.

 

Se altrimenti, non capisco come possa A asserire che B menta, se B non ha ancora asserito alcunché…

 

La medesima osservazione vale per l’asserzione di B circa il mentire di C, il quale vice versa, proferendo ultimo, conosce le asserzioni di A e di B.

 

Anakreon.

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Esistono due diversi approcci alla soluzione dell'enigma di Carroll.

 

I.

Approccio formale.

Basta costruire una tavola di verità, secondo il criterio delle operazioni proposizionali.

In particolare, la congiunzione [cito dal mio Cohen] risulta possedere valore di verità vero, se e solo se gli enunciati congiunti, antecedente e susseguente, hanno uguale valore. In altre parole, congiunti due enunciati A e B, in una proposizione C: "A e B", C sarà vero se e solo se lo sono anche A e B. Questo per definizione.

 

Nel nostro caso, abbiamo gli enunciati A, B, C, con C: "-A e -B"

 

Tavola di verità alla mano

 

A  B  C

 

V  V  V

V  F  F

F  V  F

V  F  V

F  F  V

V  V  F

F  V  V

F  F  F

 

Come è facile evincere, l'unica combinazione a non produrre contraddizioni, è la terza 'FVF', e questo perché, evitando la circolarità del paradosso, la definizioni parla chiaro, perché C: "A e B" sia falsa, è sufficiente che uno solo degli enunciati congiunti sia falso, in questo caso "-B".

 

II.

Il secondo approccio richiede acume, ed è stato definito come temporizzazione di Gardner; spostata la questione dal livello formale ad un piano temporale, è evidente di per sé che l'unico a dire il vero sia C, in quanto egli acquisisce gli enunciati di A e B e interviene per ultimo. In questo modo A non può lanciarsi in un "-B" [b mente], dacché non sappiamo ancora cosa B abbia da dire. Sarebbe come se io in questo momento dicessi: quanto Anakreon dirà nel post successivo è falso.Il che non ha alcun senso, dal momento che lo ignoro. Ma è solo un altro modo di vederla.

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Vorrete scusare il doppio post, ma è necessario. L'enigma deve sussistere da solo.

 

La sfinge maligna.

 

Durante uno dei suoi frequenti viaggi per lo stato di ***, alla ricerca del segreto ultimo di ogni metafisica, e dunque proprietà invariante o sostanza dell'universo, il signor C, si imbatté misteriosamente in un buffo signore dall'aspetto trasognante e misero, lo avrebbe detto un elemosinante, o addirittura un mistico.

 

- Buongiorno, buonuomo -, ebbe l'ardire di salutarlo.

Con fare annasposo ma cordiale, questi si volse e - buongiorno a voi, forestiero -, replicò.

Il signor C. non ebbe modo di formulare una risposta, che l'anziano riprese: - Cosa vi conduce a questi luoghi? -

- Sapesse, caro signore! Da molto tempo ho perduto il godimento dei sogni, non m'avanza altro scopo che scoprire qual logica vi sia, se pur una si dia, in questo smisurato calcinaccio d'universo; m'avanzo, sobbalzo, rovino, retrocedo, e non v'è modo ch'io abbia esperimentato, che conduca questa mia ricerca a porti sicuri, vi confido infine la mia rasentata disperazione. -

- Ma voi, caro signore, siete un cercatore! E ditemi, ditemi, avete mai osservato il numero? Oh! Quanta potenza cela nel grembo! Esso e non altro è manifestazione del Dio, pur con qual nome lo si voglia intendere; vedere il numero, amico mio, è la sola strada verso i giardini della Comprensione. -

Detto questo, estrasse dalla tasca un taccuino ingiallito e consunto; vi tracciò sopra alcuni segni e disse: - Tenete, questo vi guiderà sul vostro sentiero; che l'Iddio compassionevole e misericordioso di tutte le genti sia sempre con voi, Egli che ogni cosa ripone al suo posto. -

 

Ormai lontano, il signor C. diede furtivo uno sguardo al foglio spiegazzato e risecchito.

Stupito, vi lesse:

 

"1001111010 1112 11120 apre ogni visione, dall'Uno al Tutto."

 

Per giorni interruppe i sonni e trascurò di cibarsi, cessò ogni desiderio sulla sua sposa, vagò dimentico della vita, crivellò col pensiero montagne ridottesi a mucchi di polveroso fastidio, diede intero se stesso e finalmente, inattesa ed al prezzo di tanto inane sforzo, giunse alla chiave. Era dunque quello lo strumento della Serratura, aveva veduto per la seconda volta.

 

Solo allora, atterrito, comprese chi fosse il suo interlocutore.

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Esplicazione possibile.

 

Un esito dell’enigma proposto da Delta:

"1001111010 1112 11120 apre ogni visione, dall'Uno al Tutto."

potrebb’essere:

“ZEN”, 

forma antica del nome di Zeus.

 

Tal nome s’ottiene così:

 

assumendo, in primo luogo,  che i numeri indicati dalla Sfinge siano scritti il primo secondo un ordine fondato su due segni significanti  e  gli altri due secondo un ordine fondato su tre segni significanti;

 

trasponendo, in secondo luogo, i numeri secondo un ordine fondato su dieci segni significanti, cioè secondo quell'ordine che è oggi d’uso comune;

 

sommando, in terzo luogo,  i singoli segni significanti per ciascuno dei tre numeri indicati;

 

estraendo, in quarto luogo, dal più antico alfabeto Greco, dove anche la E lunga era scritta “E” e non ”H” , quelle tre lettere che, per posizione, corrispondano alle tre somme or ora ottenute;

 

invertendo, in quinto luogo, l’ordine delle tre lettere così risultanti.

 

Esplicazione della via seguita.

 

Il numero due, su cui si fonda la significazione del primo numero proposto, rappresenta quel numero che permette la generazione, per moltiplicazione, di tutte le cose dall’uno, secondo una congettura che fu già di Platone, il quale, nelle dottrine non scritte, pose la diade di grande e piccolo quale principio generatore di tutto, per moltiplicazione dell’uno primigenio.

 

Il numero  tre, su cui si fonda la significazione degli altri due numeri proposti, è somma dell’uno primigenio e del due generatore del molteplice e quindi rappresenta non solo le cose generate per virtù del numero due, ma anche il principio primigenio dell’uno stesso, in una mirabile e semplicissima composizione significante.

 

La trasposizione dei tre numeri indicati, in altrettanti numeri scritti secono un ordine fondato su dieci segni significanti, che è quello oggi d’uso comune, rappresenta il nesso tra la generazione primigenia dell’universo, avvenuta per opposizione del due all’uno, e l’abito della vita presente nostra.

 

La somma dei singoli segni significanti, per ciascuno dei tre numeri così ottenuti, rappresenta la riduzione, possibile e desiderabile, dal molteplice al semplice e dall’esito più remoto e multiforme della generazione delle cose, al principio unico e pristino onde tutto è nato.

 

L’antico alfabeto Greco, secondo cui è calcolata l’isopsefia, rappresenta la fonte e la radice della sapienza onde è fluita la nostra cultura umana presente, che ci permette tanto mirabili figurazioni d’enigmi ingegnosi.

 

L’inversione dell’ordine delle tre lettere “NEZ”, così ottenute, rappresenta il ricorso eterno delle cose dell’universo, che prima procedono  dal primo all’ultimo e poi di nuovo dall’ultimo al primo, in un circuito perpetuo: 

tale inversione spiega quindi la vera natura del moto delle cose tutte.

 

Il nome ottenuto, in fine, cioè “ZEN”, fu il nome del massimo dio dell’Olimpo, re e rettore del cielo e della terra, ma anche padre di tutti gli dei e di tutti gli uomini, come già l’appellò Omero:

rappresenta dunque il principio ordinatore della parte vivente dell’universo, secondo una corrispondenza già notata dagli antichi, tra il nome “ZEN” che significava “Zeus” ed il verbo “ZEN” che significava “vivere”.

 

Anakreon.

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Mi spiace dover rifiutare come errata una così splendida esplicazione.

 

Purtroppo non è quella esatta, ma voglio dare un aiuto: non tutto nel tuo ragionamento è fallace.

Leggete le parole del vecchio, contengono ogni traccia.

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Correzioni.

 

O tremenda ed implacata Sfinge,

 

non Ti piaccia inasprire il tormento pestifero dei Tebani, perché io, pur infelicemente Edipo, ora Ti correggerò:

 

l'esplicazione che T'ho proposta non è bensì fallace, ma non è quella che Tu hai meditata.

 

Anakreon.

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Quanto meno questa volta l'intervento è infaticabilmente corretto.

 

La Sfinge può ancora una volta rimandare di scagliarsi contro se stessa.

 

Segretamente sono pro Edipo.

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La lingua usata nelle asserzioni.

 

Caro Delta,

 

se l’enigma proferisce:

“B dice che C mente e C dice che A e  B mentono”, 

non so come alcuno, il quale intenda la lingua Italiana secondo la sua propria struttura, possa interpretare  tali asserzioni in modo tale, che, confidando che il signor B sia verace, tutto quanto asserisca il signor C non sia mendacio e quindi non solo che sia mendace l’asserzione di C che il signor B menta, ma anche che sia mendace l’asserzione di C che menta il signor A.

 

E veramente la sentenza proposta, cioè “C dice che A e B mentono”,  distribuisce il mendacio, asserito da C, equamente sulle asserzioni  fatte da ciascuno dei due, fatte cioè sia da A sia da B, i quali dunque, se confidiamo che C sia veridico, non possono non mentire singolarmente e separatamente e, vice versa, se confidiamo che C sia mendace, non possono non asserire il vero ciascuno singolarmente e separatamente:

questo significa la struttura della proposizione, dove la congiunzione “e” collocata tra i due soggetti  A e B riferisce a ciascuno dei due il predicato verbale “mentire”, così che il mendacio di C porti seco necessariamente il non mentire sia di A sia di B.

 

Se vogliamo, non di meno, congetturare che A menta e che B asserisca il vero, l’asserzione di C, che cioè e A e B mentano, non potrà essere appellata né verità né mendacio, ma, al più, per metà verità e per metà mendacio, cioè vera quanto all’asserzione di A e mendace quanto all’asserzione di B:

non so proprio come potremmo, prestando fede all’asserzione di B, affermare che C mentisse, se pur accertassimo che questi avesse mentito solamente quanto all’asserzione di B, ma non quanto all’asserzione di A.

 

Necessariamente dunque, se volessimo accusare C di mendacio quanto a B, ma riconoscerlo veridico quanto ad A, non potremmo usare della sentenza:

“C mente asserendo che A e B mentono”,

ma dovremmo indicare a chi dei due C assegnasse la verità ed a chi il mendacio.

 

A mio giudizio, se non segnassimo tali confini, non potremmo noi e dunque neppure potrebbe B né affermare che C mentisse né affermare che C asserisse il vero.

 

Capisco che, sostituendo alle congiunzioni della grammatica i segni dell’aritmetica, l’interpretazione delle asserzioni di B e di C possa essere diversa;  ma l’enigma non è stato proposto secondo le regole dell’aritmetica universale, ma secondo le regole della lingua Italiana, le quali possono bensì dar luogo ad ambiguità d’interpretazione, ma non perciò possono essere eluse:

se moltiplichi due numeri negativi , necessariamente risulta un numero positivo;  ma se intrecci due mendacii, non necessariamente conosci una verità !.

 

 

Il tempo delle asserzioni.

 

Già notai, nel commento inscritto “L’errore di Edipo”, che le asserzioni di A e di B, perché riferite ad asserzioni future di B e di C, erano piuttosto ambigue.

 

Sarebbe, dunque, meglio chiarire che A asserisce “B mente sempre” e che B asserisce “C mentre sempre”, affinché non sorga il dubbio che A e B asseriscano essere mendaci quelle asserzioni che non conoscano ancora.

 

Non di meno, è pur  vero che, nella lingua nostra, l’uso del tempo indicativo presente può significare un’azione perpetuamente costante, considerata dunque non solo nel presente, ma anche nel passato e nel futuro, quasi fosse, per così dire, fuori del tempo;  dunque l’asserzione :

“Tizio mente” , 

potrebbe pur riferirsi, non solo a quanto Tizio abbia già proferito, se pur abbia proferito alcunché, ma anche a quanto egli proferirà poi, intendendosi cioè che, essendo egli un mentitore, ancorché non si sappia che mai dirà, necessariamente tutto ciò, che dirà, sarà mendacio.

 

Per altro, pur concedendo che solo C, avendo avuta notizia delle asserzioni di A e di B, asserisca il vero con cognizione di causa, non perciò tuttavia la contraddizione dell’enigma proposto è tolta.

 

In vero, se C asserisce che A e B mentano, perciò che egli l’asserisce dopo che costoro abbiano proferite le loro asserzioni, C sa bene che cosa essi, A e B, abbiano asserito e, singolarmente, sa che cosa abbia asserito A, che cioè B menta, e che cosa abbia asserito B, che cioè C stesso menta.

 

Dunque, se C asserisce che A e B mentano, asserisce con cognizione di causa, avendo avuta notizia delle asserzioni dei due, A e B.

 

Ma, se C asserisce il vero con cognizione di causa, A e B mentono parimenti perciò, che la sentenza proposta così asserisce:

“C dice che A e B mentono”.

 

Da ciò necessariamente segue che, in una, B e asserisce il vero e mente:

B asserisce il vero in virtù del mendacio di A, asserito da C, cui abbiamo concesso essere veridico; 

ma B mente anche, perché C asserisce che non solo A, ma anche B menta e l’asserisce, per nostra concessione, veridicamente.

 

Dunque la contraddizione permane perciò, che dall’asserzione di C discende, necessariamente e con cognizione di causa dello stesso C, che B è, in una, e veridico e mendace.

 

Anakreon.

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