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Sulla natura umana


blunotte

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Ho controllato nell'elenco dei topic di questa sezione e mi pare che non ne sia mai stato aperto uno con questo tema.

Questa vorrebbe essere una continuazione della discussione sulla natura umana e su cosa sia l'uomo iniziata nel topic "Capirci qualcosa" aperto da nonsochisonoio: siccome il dibattito che si è aperto ha creato lunghe discussioni e in considerazione del fatto che si è usciti dall'argomento centrale, ho pensato di aprire questo topic (spero di poterlo fare ;)).

 

Parto quindi dalla richiesta fattami da Verlaine di spiegare cosa sia secondo me l'uomo.

Sinceramente non credo di poter dare una risposta, sia per mancanza di conoscenze (e di esperienza), sia perché non credo esista una risposta univoca ed esaustiva. Credo che l'uomo sia un essere incredibilmente complesso, anche in considerazione del fatto che è un essere vivente che riflette sulla propria natura e sulla realtà che lo circonda.

Vorrei quindi partire da un'aspetto particolare che hai forse un pò svalutato: quello della cultura che la persona assorbe crescendo e che, se interpreto bene le tue parole, lo allontana dalla sua natura originaria (Rousseau?) e gli impedisce di vivere in armonia con se stesso e con la realtà; e questo perché essa fa sì che egli si leghi alle cose effimere di questo mondo invece che a quelle durevoli, solide (il tuo punto di partenza è il buddismo, vero?).

Secondo me in questo percorso si richia di non tenere conto del valore che la cultura e la tradizione hanno nella formazione dell'essere umano e della sua natura, ma non sto parlando della natura originaria, incontaminata e "anarchica" a cui fai riferimento (a proprosito, mi incuriosisce questo concetto della "natura anarchica", potresti spiegarlo meglio?).

 

Per spiegarmi vorrei partire da una visione della morte e dell'individuo della religione Voodoo ad Haiti, che mi ha colpito molto: sono entrato in contatto con questi temi seguendo lezioni di danza afro-haitiana, che comprende appunto danze rituali che fanno riferimento a queste credenze.

Pare che nel passaggio dall'Africa ad Haiti assieme agli schiavi deportati, la visione della terra nelle danze rituali sia cambiata: nell'isola caraibica la terra non è più vista come madre-cerere, legata all'abbondanza dei prodotti della natura, bensì come uno "specchio a strati" nel quale l'individuo si specchia, appunto, vedendo la propria natura profonda.

Che cosa vede in questo specchio?

Vede i morti, le persone dalle quali discende, i suoi antenati: la credenza vuole che il nostro corpo sia una specie di zattera che permette alla nostra anima di "navigare" sulla terra, quando il corpo muore l'anima affonda nella terra; se la persona che muore ha lasciato un buon ricordo di sé, allora l'anima rimarrà più in superficie e potrà essere vista dai suoi discendenti, se invece avrà lasciato un brutto ricordo di sé andrà sempre più in profondità, venendo dimenticata. Quando si parla di contatto con la terra in queste danze rituali ci si riferisce proprio alla possibilità che ha l'individuo di specchiarsi nel proprio passato storico, nell'immagine dei suoi antenati: perché cosa siamo noi, in fondo, se non la nostra tradizione, il nostro passato?

 

Spero che siate riusciti a seguirmi e spero soprattutto di non avere distorto la spiegazione datami dalla mia insegnante. Credo che un confronto su questo tema potrebbe essere molto stimolante, soprattutto se contribuiscono persone che fanno riferminento a culture diverse, come è già accaduto nell'altro topic: ad esempio Liverpool ha voluto condividere la visione della realtà che gli deriva dalla sua fede, dai suoi studi e dalla sua scelta di vita (essendo un prete cattolico); Verlaine dalla fede nella pratiche spirituali buddiste (giusto?) etc.

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Che bellooooooooo questo thread...adoro parlare di queste cose..starei tutto il giorno ad occuparmi di ciò ;)

Allora, andiamo per ordine. Mi sembra che hai riassunto abbastanza bene la visione delle cose che in questo periodo mi convince maggiormente. Quando parlo di natura profonda dell'uomo 'anarchica', mi riferisco a due considerazioni soprattutto: 1) che ogni individuo è unico e irripetibile, esisterà solo una volta un essere di quel tipo, e non vale solo per gli esseri umani ma per qualsiasi essere vivente, in tutta la storia dell'eternità (tanto per salutare Borges) non esisteranno mai due esseri viventi identici, quindi va da sé che, se ognuno vivesse sé stesso in modo totale e profondo, sarebbe per forza di cose qualcosa di unico e diverso da ogni altro; 2) che l'animo umano è troppo vasto per essere coerente, uno spirito libero è libero anche di essere contraddittorio, specialmente perché quando ci ricolleghiamo con ciò che realmente siamo, siamo creativi, e la creazione di qualcosa di nuovo non può mai seguire vecchie regole preimpostate, che siano preimpostate dall'insieme di tradizioni e cultura precedente, da una società attuale, o dalla propria stessa mente e volontà.

 

Il mio punto di partenza non è il solo buddhismo ma tutta la mistica. Su questo però non posso, diciamo, fare riassunti o excursus, sarebbe troppo lungo e mi porterebbe via ore e ore. Se ti interessa riscontrare la cosa, puoi leggere vari mistici, di varie epoche, che partono da varie confessioni: che si tratti di Sufi, di buddhisti, di zen, di tantrici, anche di mistici cristiani, puoi riscontrare un sacco di analogie - non semplici analogie, proprio lo stesso messaggio - laddove le 'religioni' da cui essi partivano sono anche profondamente differenti e in conflitto, a volte. Ci sono mistici che partono e parlano da una posizione di agnosticismo addirittura, come Eckhart Tolle che non parla veramente mai di Dio o di religione, ma solo di Essere e di ego. Guarda chi vuoi, Lin Ji, Nagarjuna, Buddha, Gurdjieff, Rumi, Yogananda.. il messaggio è sempre: fai quello che ho fatto io, guarda con i tuoi occhi, vai dentro te stesso con le tue forze. Non prendere nulla che senti all'esterno per verità assoluta, non accettare i sistemi di verità che le religioni presentano già bell'e costruiti, vai in profondità, guarda tu stesso cosa c'è, fai -esperienza- della verità. Perfino Socrate in questo senso è stato visto da qualcuni come un mistico e io sono abbastanza d'accordo.

 

Però capisco che tu colga maggiormente il riferimento a Buddha. Secondo Tolle, che parla degli illuminati come dei 'fiori umani' che portano avanti di un nuovo salto l'evoluzione della consapevolezza negli esseri viventi (minerale->vegetale->animale->umano->?) Buddha è stato il primo, in senso temporale, a vedere chiaramente l'Essere in tutta la sua totalità, ad esserne totalmente consapevole, ad aver superato la barriera dell'ego, delle culture, delle tradizioni e della mente; e ad averne parlato in modo completo. Però ci furono illuminati anche prima di lui, a partire dai redattori dei tantra etc.etc.

 

Veniamo a quello che mi dici. "Si rischia di non tenere conto del valore che la cultura e la tradizione hanno nella formazione dell'essere umano e della sua natura." Se cerchiamo di nuovo di prendere come criterio ciò che è passeggero e ciò che è duraturo, qualcosa dev'esserci stato di te, della tua natura, ancora prima che questa formazione avvenisse, giusto? Quindi questa formazione dev'essere stata per forza di cose un movimento, una deviazione, una distorsione di ciò che c'era prima. Lascio per un attimo da parte il discorso se ciò sia positivo o negativo. Anzi, questo discorso non mi appartiene proprio e vorrei che non fossi frainteso: qui non si parla in termini di positivo e negativo: è inevitabile che durante la crescita dell'individuo, si debba passare dall'ego. Inevitabile: proprio perché si nasce e si cresce all'interno di una società fatta di persone non illuminate, che quindi si aggrappano ancora al proprio passato, all'ego collettivo etc.etc. Inevitabile che sorga un ego quindi. (Anzi, forse sarebbe inevitabile anche se si crescesse in una comunità illuminata, questo non lo so.. ci penserò su.)

 

Comunque sia, gioco forza quando i genitori ci danno un nome, ci ricompensano e ci puniscono, ci infondono la loro morale e parte del loro senso dell'ego, di appartenenza alla 'patria', un linguaggio etc.etc.etc., noi impariamo a creare un senso dell'io fatto di tutte queste cose. Ma queste cose non ci appartengono, sono effimere; se lo stesso individuo, appena nato in Italia (per dire), fosse portato immediatamente in un'isoletta del Pacifico e fosse allevato da una tribù di indigeni, pensi sul serio che crescerebbe con un senso di appartenere all'Italia, alla cultura e tradizione europea, al retaggio cattolico etc.etc.? Io penso piuttosto che si sentirebbe appartenente a quella cultura e quella tradizione. Magari la differenza del colore della pelle porterebbe qualche domanda, ma di sicuro l'ego sarebbe indigeno, non italiano, e così la morale, i costumi, le tradizioni.. magari imparerebbe i loro riti sessuali, il cannibalismo, si appenderebbe per i capezzoli per dimostrare la sua virtù virile.. Questo secondo me è abbastanza sufficiente come prova deduttiva, per capire che tutto l'insieme di cultura, tradizione, retaggio etc. è una sovrastruttura, qualcosa che non appartiene alla propria natura profonda su cui ogni sovrastruttura si innesta.

 

Sul -valore- di questa sovrastruttura non mi pronuncio e non è questo il centro del discorso comunque. Può essere anche importante, anche bello: in ogni caso ogni cosa che ci accade fa parte del nostro percorso, è imprescindibile, tutto è utile e anzi fondamentale per portarci dove dobbiamo arrivare. Per cui non è un discorso di valore e disvalore, di negativo o positivo: il misticismo è sempre al di là della dualità e degli opposti. Il discorso è che quella non è la natura profonda dell'individuo, non è il cielo terso; sono le nuvole che occupano per un po' quel cielo e poi se ne vanno. O magari restano, ma mutano in continuazione la propria forma, proprio come le nuvole nel cielo. Se osservi le nuvole quando c'è vento, vedi che cambiano continuamente forma. Così i nostri pensieri, le nostre morali, i nostri sensi di appartenenza, il nostro ego: si cambia in continuazione: uno,nessuno e centomila. E qualcosa del genere non può essere una natura profonda: può solo stare in superficie.

 

Quando l'idea che abbiamo di noi - ciò con cui ci siamo identificati, ciò cui ci siamo aggrappati - finisce per non coincidere più con la nostra natura profonda unica, irripetibile e 'anarchica' (mai un sistema di tradizioni, culture, retaggi del passato, massificazione etc. può 'combaciare' con un individuo, con un essere vivente, che è unico, irripetibile, vastissimo, mai esistito e mai esisterà COSI' - e quindi nessun retaggio può stargli perfettamente addosso), allora si prova dolore, si comincia a sentire la costrizione della gabbia. Ma molto spesso non abbiamo abbastanza coraggio e consapevolezza per capire che quella gabbia non siamo noi ma è qualcosa di effimero che è venuto dall'esterno, e per liberarcene; troviamo più comodo continuare ad aggrapparci e dimenticare, mandare nell'inconscio, inghiottire il boccone e continuare sul binario che sappiamo a memoria. É un continuo indossare la maschera dell'ego e rinnegare sé stessi, la propria natura profonda. Questo genera nevrosi, psicosi collettive, la depressione male del secolo scorso, suicidi immotivati, sete di potere, media sessuomani, l'uomo del 2000 che è alienato e disorientato, che ha perso sé stesso, insoddisfazione perenne etc.etc.

 

L'ego ci obbliga sempre a sentire che non andiamo bene come siamo qui e ora. Dobbiamo essere altrove, dobbiamo avere qualcosa che ci manca, sesso, soldi, potere, qualcuno che ci lecchi le ferite o ci soddisfi i nostri bisogni egoici, un abbigliamento all'ultima moda, o whatever. L'ego ci sposta sempre nel futuro o nel passato: un giorno starò meglio di ora, tanto tempo fa stavo meglio di ora. Il nostro essere reale, concreto, vivo, pulsante, si trova qui e ora e vuole gustare al massimo l'immensa intensità della danza del mondo qui e ora. Ma, oscurato totalmente dalle nuvole cupe della mente e dell'ego, ci sembra scomparso; "io" è il nome, la cultura, la tradizione, ciò che sarò fra 10 anni, ciò che ero quando stavo bene, una religione, un sistema di teorie, un mucchio di parole... un mucchio di immaginazioni, di nuvole, di cose che non esistono, che non sono qui e ora....

 

Ribadisco un'ultima volta che non do un valore negativo all'ego: dovevamo passarci, doveva esserci; ma non è la nostra natura reale, è una maschera, un'immaginazione, un riflesso evanescente. Può essere stata, ed essere ancora, utile, e magari per un po' ci è pure piaciuta, ma presto o tardi ci farà anche male. E quando ci farà troppo male, lì comincia il percorso per tornare ad essere pienamente consapevoli dell'Essere che siamo qui e ora. Tanto più vasto, misterioso, gioioso e libero della solita serie di parole: io, nome, cognome, genitori, 'patria', religione, professione, etc.etc.etc....

 

"perché cosa siamo noi, in fondo, se non la nostra tradizione, il nostro passato?"

Il passato non esiste. Puoi toccarlo, vederlo? É nella tua mente, in quella collettiva: alla stessa maniera in cui c'è un'immaginazione o un sogno. La tradizione è una serie di regole, costumi, conoscenze parziali, con cui momentaneamente ti identifichi; ma non è dipeso da te, non è veramente 'tua'; se il tuo corpo fosse stato spostato dopo la nascita, magari in Canada, ora la 'tua' tradizione sarebbe quella canadese... ma questo è veramente 'nostro'????? O piuttosto ci arriva dall'esterno, e noi ci aggrappiamo ad esso con tutte le forze? Ma prima o poi scopriamo che non è affatto nostro e non coincide con ciò che siamo.

Cosa siamo, allora? Questo lo deve scoprire ognuno da sé. L'essere è un'esperienza, non una parola, una cultura, una filosofia, una tradizione o una teoria.... può solo essere esperito, perché è qui e ora.

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Quando parlo di natura profonda dell'uomo 'anarchica', mi riferisco a due considerazioni soprattutto: 1) che ogni individuo è unico e irripetibile, esisterà solo una volta un essere di quel tipo, e non vale solo per gli esseri umani ma per qualsiasi essere vivente, in tutta la storia dell'eternità (tanto per salutare Borges) non esisteranno mai due esseri viventi identici, quindi va da sé che, se ognuno vivesse sé stesso in modo totale e profondo, sarebbe per forza di cose qualcosa di unico e diverso da ogni altro; 2) che l'animo umano è troppo vasto per essere coerente, uno spirito libero è libero anche di essere contraddittorio, specialmente perché quando ci ricolleghiamo con ciò che realmente siamo, siamo creativi, e la creazione di qualcosa di nuovo non può mai seguire vecchie regole preimpostate, che siano preimpostate dall'insieme di tradizioni e cultura precedente, da una società attuale, o dalla propria stessa mente e volontà.

 

Vorrei rifletter su questo concetto di creatività e di originalità: forse si potrebbe dire che in effetti non esiste vera e propria originalità, in quanto la creazione risulta essere, a ben vedere, una rielaborazione di “prodotti umani” del passato e della tradizione (mi riferisco esplicitamente al piano artistico, ma lo stesso discorso si potrebbe fare anche a livello intellettuale, filosofico etc.); non credi?

 

Riguardo alle analogie riscontrabili nelle opere di mistica di autori appartenenti a culture profondamente diverse, avrei una domanda: se ogni individuo è dotato di una natura autonoma e anarchica che, se seguita e realizzata, porta a una creatività distaccata dalla tradizione (perché libera da codici preimpostati), come spieghi queste analogie? Non è probabile che ci siano dei percorsi comuni, obbligati, dei fili che attraversano i secoli con continuità nonostante le differenze? Non è più possibile, come nella battuta finale de Il cielo sopra Berlino, che siamo “Tutti nella stessa barca”? O meglio, che alla fine questa originalità del singolo sia inevitabilmente limitata da una serie infinita di caratteristiche che unisce tutta l’umanità?

 

Il tuo ragionamento sulla sovrastruttura è chiaro e non fa una piega: c’è sempre e comunque, in qualsiasi luogo si cresca, una sovrastruttura, qualsiasi sia la nostra esperienza di vita; ma è davvero questa la causa della sofferenza umana? Il fatto di non appartenere veramente alla realtà nella quale si cresce (nella quale ci “identifichiamo”, come dici tu), perché si impara a vivere secondo sovrastrutture che non hai scelto e che non appartengono alla tua natura (con tutto quello che esse comportano: visione della realtà, di se stessi, della vita etc.)?

Potrei anche essere d’accordo se non trovassi questo ragionamento limitante nel valutare quelle che definisci sovrastrutture: sono davvero preimpostate, sterili e completamente separate ed estranee alla nostra originale natura umana? E’ come se dicessi: l’uomo nasce e per tutta la vita si carica le spalle di un peso inutile, che gli impedisce di vivere appieno secondo la propria natura, il portarlo non ha alcun senso: l’unica soluzione è liberarsene in tronco. Dici di non voler fare un discorso di valore, che tutto è utile in questo percorso di riscoperta della natura (e certo se il percorso fosse facile e senza ostacoli, che conquista sarebbe?), ma inevitabilmente lo fai, condannando le sovrastrutture a meri ostacoli da superare.

D'altronde è anche vero che la causa principale delle nostre sofferenze in quanto uomini deriva dal fatto che ci attacchiamo a cose mutevoli ed effimere: oggetti, idee, ideali, affetti, desideri, passioni: tutto quanto forma la nostra vita; non è un caso, credo, il fatto che le più grandi religioni promettono dopo la morte un mondo che è l’esatto opposto di questa realtà: eterno, immutabile, unico e dove si possa finalmente trovare la pace.

 

Ho due obiezioni:

- la prima è che per molte culture la realtà è immutabile pur nella sua transitorietà: questa convinzione si basa sul carattere ciclico, quindi immutabile, dei processi naturali: all’eterno ritorno del tutto;

- in più, se si è coerenti con l’idea che hai espresso della sovrastruttura, come si può essere sicuri che questa idea di natura originaria non sia pure frutto di una sovrastruttura? Solo perché alcune persone, in epoche diverse e appartenenti a culture diverse dicono di essere andati al di là di essa e di aver raggiunto l’essenza, la loro vera natura?

 

Se osservi le nuvole quando c'è vento, vedi che cambiano continuamente forma. Così i nostri pensieri, le nostre morali, i nostri sensi di appartenenza, il nostro ego: si cambia in continuazione: uno,nessuno e centomila. E qualcosa del genere non può essere una natura profonda: può solo stare in superficie.

 

In fondo il tuo ragionamento ricorda da vicino quello di Cartesio nel suo Discorso sul metodo: in questo mondo tutto è imperfetto, mutevole ed effimero, eppure io ho nella mente un’idea di “perfezione”, che dunque deve esistere da qualche parte!

 

mai un sistema di tradizioni, culture, retaggi del passato, massificazione etc. può 'combaciare' con un individuo, con un essere vivente, che è unico, irripetibile, vastissimo, mai esistito e mai esisterà COSI' - e quindi nessun retaggio può stargli perfettamente addosso

 

Condivido questa affermazione e il sistema di bisogni di cui l’ego sarebbe responsabile, la tua visione può essere vera: siamo spinti a voler riempire il vuoto (lo scarto che esiste tra questa realtà e quella che la nostra natura creerebbe se fosse libera da paure e costrizioni di potersi realizzare*) con cose effimere che non potranno mai soddisfarci e quindi alimenteranno altro bisogno e così via in un infinito circolo vizioso.

Questa immagine della vita, questo continuo sbattersi e lottare senza senso non può non ricordare l’immagine dell’uomo dipinta da Leopardi nella lirica Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

 

“Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.”

 

E dietro tutto questo la richiesta costante, ossessiva di senso:

 

“Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?”

 

In definitiva, forse hai ragione. Forse questa è la causa della sofferenza di ogni uomo. Eppure mentre scrivo questo sento di appartenere più che mai a questo mondo, a questa realtà, nonostante io senta nei suoi confronti una profonda “disarmonia”, come direbbe Montale: non posso fare a meno di aggrapparmi ad essa, di sentirla mia.

Forse, banalmente, ho paura, perché chi lascia la vecchia strada per la nuova sa cosa lascia ma non sa cosa trova; o forse perché non riesco a pensare di dover rinunciare a tutto quello che ho considerato fondamentale nella vita e che sento mi appartiene: la memoria di mio nonno, l’affetto dei miei genitori, l’amore per una persona... Tu ci riesci?

Davvero vuoi distaccarti da tutto questo?

 

*Non potrebbe ricordare l'Übermensch di Nietzsche? Non sono un profondo conoscitore di N. avendolo studiato solo per qualche esame (quindi non vorrei fare degli sfondoni  :salut:), ma questo concetto non si potrebbe collegare alla necessità di dover andare oltre le sovrastrutture di cui parli; anche in considerazione del diverso modo in cui molti studiosi vorrebbero oggi tradurre questo termine: non più Superuomo, ma Oltreuomo.

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Se posso intromettermi nel dibattito, che pure mi pare un dialogo, ma tutto sommato mi interessa non poco, vorrei apportare il mio personalissimo contributo; prima, pero`, se posso permettermi, vorrei muovere un obiezione a Verlaine, facendogli notare che cita una serie interminabile di autori nel suo richiamarsi ad una "natura anarchica", ad uno spogliamento dalle cosiddette sovrastrutture per tornare al se` originario (ma dunque semplicemente Fruhmensch, un uomo primo, e non quindi Urmensch, uomo originario, Ubermensch che ha ritrovato la sua natura attraverso l'esperienza nella storia - idea per altro sfacciatamente hegeliana di Nietzsche, nonostante la sua pur comprensibile avversita` per l'autore della Wissenschaftslehre). Ecco, mi pare che questo combattere a colpi di citazione sia un po` fuori luogo se si sostiene l'originalita` e l'indipendenza dall'"effimera realta`".

Ma passando al vivo dell'argomento, vorrei provare a esprimere un'alternativa alla contrapposizione tra inutilita` della storia per l'uomo e per la vita e dipendenza totale dalla tradizione. Non voglio certo trovare una soluzione che sia media aritmetica tra i due opposti (per quanto cio` potrebbe avere il valore matematicamente piu` attendibile, ma non e` certo di matematica che stiamo parlando), bensi` vorrei porre l'accento sul fatto che anche le manifestazioni fenomeniche della realta` piu` "superficiale" scaturiscono dallo stesso Urgrund, dal fondo abissale di cui parlava Schelling, fonte prima dell'Essere.

Sebbene infatti la ragione e l'umana morale prendano il sopravvento e incanalino, "sublimino" i piu` primordiali movimenti dell'anima (concedetemi di usare questo termine senza dover dire se credo o no nell'esistenza dell'anima o dimostrare la sua (non) esistenza), accettando l'esistenza di una dimensione originaria dell'essere umano da cui scaturisca la sua originale creativita` non e` possibile negare che tutte le manifestazioni della mente umana che si sono palesate nella storia siano un'espressione di questa "originale creativita`". Vorrebbe dire infatti contraddire la tesi secondo cui ci sarebbe un "fondo primigenio" del nostro essere da cui attingere, e negare lo stesso valore ontologico delle azioni compiute in passato. Se dunque una fonte prima di "natura anarchica" esiste, e` pure da essa che attingono tutti coloro che si rifanno alla tradizione, cogliendo tra i discorsi gia` detti sottili richiami, intricate connessioni, cose forse che non volevano essere dette ma che pure possono essere. L'ermeneutica, strumento piu` prezioso per indagare l'impervia foresta della "natura anarchica", non puo` operare senza un oggetto, e la trascendenza dalla separazione del mondo fenomenico non potrebbe dunque essere compiuta se non tramite l'esperienza attraverso di esso.

L'irripetibilita` dei moti dell'Essere e` illusoria e al contempo perennemente vera: se e` vero che ogni istante non puo` ripetersi mai uguale ad un altro, per lo stratificarsi dei vissuti, l'accumularsi inesorabile delle tre dimensioni del tempo, e` pure vero che essi s'innestano sull'inevitabile tracciato dell'Erlebnisstromung, del flusso vitale (o Elan vital di Bergsoniana memoria), che nella sua natura cairologica di tempo eternamente rigenerante e` l'immutabilita` concretizzata nell'ininterrotto divenire.

Uscendo da questa giungla di periodare difficile mi spiego meglio: la ricerca del "nuovo", dell'idea originale proveniente dalla radice prima della natura umana, e` una ricerca senza senso, perche` ogni creazione della nostra mente attinge dal fondo originario della coscienza intesa come basilare flusso temporale, e quindi dal fondo comune della nostra mente le idee vengono plasmate e incasellate dall'intelletto superiore (in questo senso forse,"sovrastrutturale"), ma pur sempre originate dallo stesso calderone ribollente. E cosi` allo stesso tempo anche l'originalita` nasce dal rinascere in un nuovo istante dell'istante originario; come scrive il professor Paolo Salandini dell'universita` S. Raffaele di Milano - allievo di Penzo e attualmente tra coloro che forse di piu` hanno esplorato il pensiero di Nietzsche - il tempo rinasce in ogni istante come nuova generazione dell'istante orignario, cosicche` ogni Nun e` il Nun, in ogni momento si rigenera l'Urzeit originario, dal cessare di ogni istante nasce il successivo ("non sono uno dopo l'altro, ma uno dentro l'altro") in un processo di rilevare rivelando che e` ben chiaro da chi sia ispirato. E dunque in questo senso il tempo non puo` non ripetersi, e percio` tutte le manifestazioni dell'animo umano, per quanto originali, saranno comunque ripetizione delle precedenti, sempre attingendo dall'Unica fonte, modificando, elaborando, ma senza mai nulla creare di nuovo.

Si potrebbe dire anzi paradossalmente che l'umanita` non ha mai creato nulla di nuovo: e forse e` davvero cosi`, mentre la vera grandezza e` sempre stata nel rielaborare, indirizzare e guidare con maestria i sussulti dell'Essere primordiale (o forse "brut et sauvage") che si agita al di sotto delle cose.

 

Mi scuso se sono stato un po` criptico, ma non ho purtroppo molto tempo per poter mettere giu` le cose in modo piu` chiaro; mi scuso inoltre per l'ortografia: purtroppo ho una tastiera britannica e non ci sono gli accenti. Ho volutamente abbondato nelle citazioni, per mostrare che per quanto il nostro intento possa essere emanciparci da una presunta tradizione sovrastrutturale rispetto a cio` che e` piu` "vero", non possiamo esimerci dal rifarci a essa: pure i futuristi, che volevano "bruciare i musei", gia` la ricordavano quella tradizione, e ancora senza volerlo si rifacevano alla sapienza antica, non fosse solo per il dover entrarvi per bruciarli, quei muffiti musei.

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Ciò che dici è estremamente interessante Wotan, soprattutto per la ricchezza di argomenti e di citazioni, che andrò quanto prima ad approfondire per colmare la mia ignoranza :poeta:.

Purtroppo non sono un esperto di testi filosofici e quindi ti chiederei, quando avessi più tempo, se puoi spiegare meglio alcuni passaggi un pò oscuri, quelli dove, per esempio, ti accontenti di lasciare una citazione o un termine in tedesco senza spiegarne il significato.

Mi fa piacere sentire parlare di dialogo: sento sempre persone che esprimono opinioni, magari senza nemmeno avere una reale consocenza dei fatti, e che si chiudono nelle proprie convinzioni senza cercare di ascoltare quello che l'altro abbia da dire: "Per me è così, poi tu puoi pensarla come ti pare". Mi sembra che sia sintomo soprattutto di indifferenza verso l'altro, ma questo è un altro, troppo ampio, discorso.

 

Intanto vorrei proporre uno spunto per la "discussione": nelle riflessioni sulla natura umana finora fatte emerge la convinzione che esista una natura originaria, un'Essere primordiale, un'Unica fonte. Non sarebbe più semplice concludere, in base all'esperienza comune, che si basa sui sensi, che alla fine non esista nient'altro che il fenomeno, sempre che esista: cosa della quale non possiamo essere sicuri, ma di sicuro si può dire che il modo in cui percepiamo la realtà accomuna tutti gli uomini, perché gli strumenti (i sensi) sono gli stessi per tutti, o quasi.

Ma per tornare al problema: e se al di là di questo "apparire" non ci fosse alcuna "sostanza" o "cosa in sè": ammettiamo che la realtà sia fondamentalmente mutevole, molteplice ed effimera: la precarietà che ne deriva ci porta a cercare un senso che trascenda questo mondo, cercando quindi ciò che è assoluto, eterno ed immutabile. Forse non esiste niente oltre i fenomeni e le apparenze, forse non c'è nessun senso e noi siamo stati generati per caso dalla polvere alla polvere ritorneremo ("infin ch'arriva / colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto / abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblia").

E' una provocazione, ovviamente, ma sarei curioso di conoscere le vostre impressioni.

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Visto che ora ho tempo, mi metto con calma a spiegare i passaggi "buttati li", ovvero le robe in tedesco senza ben spiegare.

Allora. Intanto tiro fuori un po` di glossario: la particella "Ur-" sta a significare "origine", percio` l'Urgrund e` il "fondo originario" di cui parla la filosofia teutonica dal romanticismo in poi (per lo meno in maniera articolata e compiuta). Dunque quando parlo dell'Urgrund di Schelling, mi riferisco al "fondo primario dell'Essere" che il filosofo di Leonberg cerco` negli ultimi anni della sua vita (presuntuosamente criticato in quanto il suo personale concetto di infinito era "la notte in cui tutte le vacche sono nere"), attraverso il significato metaforico dei miti, la creazione artistica, e tutte le forme dell'espressione spirituale umana. Poi il giochetto di parole sul "-mensch" e` un po` una vaccata da filologo :) comunque ci tenevo a farlo, perche` Verlaine sembra volersi riferire piu` a un "Fruhmensch", ovvero un "uomo del prima" (fruh significa presto, prima), che non ha avuto esperienza della storia, e percio` in realta` impossibilitato a fare una scelta : l'uomo primitivo che riceve il dono del fuoco, della techne`, non puo` scegliere di rifiutarlo, poiche` ancora deve esperirne la natura. Mentre l'Ubermensch Nietzscheano e` l'Urmensch, l'"uomo originario", qualcosa che rispecchia l'Urzeit di cui parlera` riguardo all'eterno ritorno (in realta` la mia interpretazione si rifa` a fonti un po` posteriori, ma senza dubbio autorevoli): e` si lo spogliarsi della "sovrastruttura" della storia, ma con la consapevolezza della sua importanza, con la volonta` retroattiva di sperimentare tale sistema di realta`. Il Superuomo e` l'uomo del superamento, appunto, e in questo senso Nietzsche e` terribilmente vicino a Hegel. Analoga e` l'interpretazione dell'Urzeit, tempo originario, sebbene si sposti su un piano molto piu` "alto", piu` teoretico. L'autore della Wissenschaftslehre, "dottrina della scienza", ho avuto un lapsus: e` Fichte. Intendevo ovviamente Wissenschat der Logik, "scienza della logica" il cui autore e` ovviamente Hegel, di cui stavo parlando. L'Erlebnisstromung e` il "flusso di esperienze", o meglio di vissuti, andando a cercare il pelo nell'uovo, che pero` e` piu` una catena, volendosi rifare appunto al pensiero di Bergson, secondo cui il flusso vitale implica e contiene uno stratificarsi di vissuti della mente e del corpo. Infine sempre nella fretta ho commesso l'errore di scrivere il tautologico "ogni Nun e` il Nun": mi riferivo invece a "ogni jetzt e` il nun", cioe` ogni momento e` IL momento: pensando cioe` a una prospettiva non cronologica, di tempo lineare e misurato, bensi cairologica, di tempo destinale ed eterno.

 

Rispondendo alla provocazione, trovo che effettivamente sia legittimo occuparsi della realta` fenomenica tralasciando eventuali "cose in se`" che stiano alla base di tutto (studiando Fisica all'universita`, non posso certo permettermi di rifiutare del tutto questa visione! :sisi: ) e tuttavia un approccio veramente consapevole a mio avviso e` di prendere atto dell'inconosciubilita` della vera natura delle cose: ci puo` essere un "oltre", come puo` non esserci, ma a dire le verita` potrebbe benissimo non esserci nemmeno un "qui". E` "facile" a questo punto scegliere un nichilismo totale, schopenhaueriano, che ritiene sia il nulla la vera radice della realta`, con una tesi quasi contradditoria (ma profonda e dal mio punto di vista condivisibile), che pero` ha molto in comune con le idee di Verlaine, nella ricerca dell'annullamento del se`, e cosi via. Tuttavia si compie l'errore di rimanere ancorati ad un "logico" in qualche modo inferiore alla "Logica" (riprendo traducendo pari pari "das logische" e "die Logik" che secondo Hegel costituivano l'intelletto separatore e la logica analogica unificante, che permette di cogliere il magmatico migma della realta`) (che bella allitterazione :poeta:). Comprendendo che il prncipio di non contraddizione e` un'imposizione arbitraria della logica classica, si puo` scegliere invece un approccio di Aufhebung di questa visione: sarebbe a dire, considerando la realta` in modo "quantistico": non un'ipotesi (puo` essere... ma anche no), bensi` un effettivo dualismo della natura delle cose, coprendo cosi` il mondo di un velo misterioso e onnipotente, ogni cui manifestazione e` insieme mero fenomeno, accadimento dello spirito, e al contempo puro nulla (senza tuttavia che questo sia un acritico "mischiare insieme" alla Schelling - spirito materializzato/materia spiritualizzata).

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Miei carissimi e stimatissimi interlocutori :salut:

Sono tremendamente felice che questo 'dialogo' stia avendo luogo. Mi fa sentire all'interno di un simposio di antica natura, in cui si disquisisce amabilmente su questioni 'ultime' tra una citazione e un bicchiere di corposo vino rosso. Gioia!!

 

I vostri spunti sono dotti, interessantissimi e stimolanti. Mi accingo a rispondere con gioia, e tra i due approcci possibili - rispondere all'insieme delle vostre scritture, riprendendo il discorso dall'alto, oppure rispondere a punti ben precisi, che più mi sembrano interessanti e significativi per lo snodo della questione - scelgo il secondo. Riporto le citazioni dai vostri post e rispondo di volta in volta cercando di essere più breve della scorsa volta (scrivere tanto è un'auto-contraddizione: debbo cercare di andare oltre il verbale! ma è chiaramente troppo presto e sono ancora troppo amante della filosofia ^^). Chiedo già scusa per le mie insufficienze espressive, sicuramente ci sono stati fraintendimenti e ce ne saranno ancora.

 

Blunotte - Riguardo alle analogie riscontrabili nelle opere di mistica di autori appartenenti a culture profondamente diverse, avrei una domanda: se ogni individuo è dotato di una natura autonoma e anarchica che, se seguita e realizzata, porta a una creatività distaccata dalla tradizione (perché libera da codici preimpostati), come spieghi queste analogie?

In realtà, l'analogia riguarda unicamente la presenza, il qui e ora, la natura originaria che sta al di là dell'identità e della quale è necessario tornare ad essere consapevoli. Per il resto, tutte le personalità che ho potuto conoscere un po' da vicino leggendo le loro storie e discorsi e scritti laddove c'erano, non sono mai state una uguale all'altra. E non hanno mai detto allo stesso modo tutto il 'contorno' di quel nucleo sempre identico. Questo in parte è dovuto al loro retaggio, al tipo di cultura e popolo cui parlavano, ma anche alla loro specificità e unicità. Ci sono stati migliaia di approcci diversi a quell'unica analogia di fondo, e tutti hanno ribadito che chiunque arrivi a quella consapevolezza, lo fa attraversando un percorso nuovo e unico nella storia. Ci sono stati mistici che si sono sposati e hanno vissuto una normale vita di famiglia, mistici casti e isolati in eremitaggi, mistici enormemente grassi che non mangiavano mai, mistici che non parlavano, mistici che parlavano tantissimo e se la godevano da matti, mistici che sembravano pazzi, mistici che sembravano scienziati, mistici che sembravano persone normali, mistici che operavano miracoli... è un mondo talmente vario e caotico da sembrare contraddittorio. Quando qualcuno arriva a quella consapevolezza, la natura umana profonda emerge in modo spontaneo e la spontaneità porta alla creazione di un approccio nuovo alla realtà: non esistono due sguardi uguali. Ovvio però che quello che si guarda è sempre lo stesso: la differenza sta nello sguardo. Ma per essere realmente diverso e nuovo, lo sguardo dev'essere pulito dalla polvere dei secoli, altrimenti è solo la riproposizione di una somma di vecchi sguardi. Quando Buddha ebbe il suo Risveglio, disse qualcosa di profondamente nuovo: nel suo passato non ci fu mai nulla di simile. Questo vale per tutti i mistici: due simili non ce ne sono; le loro vite o i loro modi possono avere delle somiglianze, ma sono periferiche: le differenze le affogano. La differenza con i filosofi è che il filosofo si innesta sempre in un dibattito preesistente e in qualche modo lo rielabora nella teoria; il mistico invece ti dice di lasciar perdere ogni dibattito e la mente, ma ti dà invece un approccio sostanzialmente nuovo e adatto al suo tempo e ai suoi interlocutori, per giungere all'unico Centro di cui predica e di cui hanno predicato tutti i mistici precedenti (quel Centro non ha nessuna rielaborazione: solo l'approccio pratico che tu che ascolti puoi seguire per riconoscerlo).

 

Blunotte - E’ come se dicessi: l’uomo nasce e per tutta la vita si carica le spalle di un peso inutile, che gli impedisce di vivere appieno secondo la propria natura, il portarlo non ha alcun senso: l’unica soluzione è liberarsene in tronco. Dici di non voler fare un discorso di valore, che tutto è utile in questo percorso di riscoperta della natura (e certo se il percorso fosse facile e senza ostacoli, che conquista sarebbe?), ma inevitabilmente lo fai, condannando le sovrastrutture a meri ostacoli da superare.

É proprio così: la mente e l'identità sono un peso terribile, che gli impedisce non solo di vivere appieno ma gli portano tutto il dolore di cui lui a volte accusa il cosmo, Dio o la natura matrigna. Dolore individuale e intimo, e collettivo e reale. Ma non 'inutile': perché è proprio a causa di questo peso, quando diventa troppo oberante, che può cominciare il viaggio di 'ritorno a casa'. Era un fraintendimento che volevo evitare: non condanno le sovrastrutture, sono utili, ma utili perché creano danni, e perciò debbono essere trascese. É un discorso evolutivo, se vuoi (questa metafora è quella che ho già citato di Tolle). Una specie prova grandi difficoltà, e attraverso quelle difficoltà approda a un nuovo slancio nella sua evoluzione: quelle difficoltà erano belle, o giustificabili, o da desiderare? ti ci saresti mai aggrappato, attaccato? no; ciononostante, erano utili in quanto dannose: perché hanno permesso un nuovo percorso di crescita.

 

Blunotte - Ho due obiezioni:

- la prima è che per molte culture la realtà è immutabile pur nella sua transitorietà: questa convinzione si basa sul carattere ciclico, quindi immutabile, dei processi naturali: all’eterno ritorno del tutto;

- in più, se si è coerenti con l’idea che hai espresso della sovrastruttura, come si può essere sicuri che questa idea di natura originaria non sia pure frutto di una sovrastruttura? Solo perché alcune persone, in epoche diverse e appartenenti a culture diverse dicono di essere andati al di là di essa e di aver raggiunto l’essenza, la loro vera natura?

La prima obiezione si risolve dicendo che per molte culture la Realtà è, appunto, immutabile, e si distingue dal transitorio che non è realtà o perlomeno ne è solo una manifestazione relativa, superficiale e, appunto, transitoria. Di per sé non c'è nulla di male, anzi; il problema è la confusione che si crea nella coscienza, e che porta a chiamare e considerare realtà la manifestazione relativa, superficiale e transitoria, e a dimenticarsi della Realtà immutabile e assoluta. Se c'è consapevolezza della seconda, godersi la prima non è nulla di male! Ma lo si fa, appunto, da un punto di vista consapevole, che qualcuno chiamerebbe: Risvegliato. E da quel punto di vista, la confusione di ciò che è transitorio per qualcosa di reale, non può più portare dolore.

La seconda obiezione non si risolve: l'ho già detto, non possiamo (né io né loro né chiunque altro) portare alcuna prova. Forse è tutta una bolla di sapone, ma io trovo stimolante la ricerca e convincente il fatto che nel tempo e nei millenni tutti abbiano espresso il loro profondo incontro con la Realtà. Quindi accolgo il loro consiglio di provarci, di provare a riconoscere la Realtà dentro (o dietro, o a lato) di io, di me. Il sospetto che tu esprimi può dissuadere dal cominciare questo tentativo, lo so. Ma se non ti ci porta la curiosità, prima o poi ti ci porterà il dolore ^^ (Anch'io sono principalmente spinto da un vissuto doloroso..)

 

Blunotte - Forse, banalmente, ho paura, perché chi lascia la vecchia strada per la nuova sa cosa lascia ma non sa cosa trova; o forse perché non riesco a pensare di dover rinunciare a tutto quello che ho considerato fondamentale nella vita e che sento mi appartiene: la memoria di mio nonno, l’affetto dei miei genitori, l’amore per una persona... Tu ci riesci?

Davvero vuoi distaccarti da tutto questo?

Sì. Lo voglio fortissimamente. (Per ora non ci riesco, ma chissà.) Perché so che, con parole di Battiato, 'tutto questo' è 'solo l'ombra della luce'. O per meglio dire: non lo so, ma lo sento; o mi hanno convinto di questo, tutti i mistici di cui sopra. Ti ripeto: nulla ti impedisce, una volta che raggiungi la consapevolezza, di goderti il mondo illusorio e fenomenico. Ma lo fai con distacco, partendo dal Centro immutabile di serenità e di creatività eterna. La paura... è ovvio che ci sia. L'ego ha paura del suo annientamento. Ma alla paura si risponde con il coraggio. Riprendo le parole di un mio maestro: "Non è l'infinito a resisterci, siamo noi che gli facciamo resistenza!" Oppure riprendo l'analogia di Osho: è estate, c'è un caldo bollente, sto sudando, sotto di me l'oceano chiama con il suo sciabordio invitante, potrei tuffarmi e godere della frescura. Ma non lo faccio. Rimango fermo sul trampolino. Oppure quella di Buddha: sono in una casa che sta bruciando, ma rimango dentro. Se fossi consapevole di questo incendio, correrei fuori urlando.... Abbiamo paura, paura di rinunciare al nostro piccolo io perché quello che c'è fuori è troppo grande, troppo vasto e misterioso. Ma prima o poi il dolore esistenziale della finitezza e il richiamo della nostra vera natura diventano troppo forti da spingerci verso la nostra origine. Perché accontentarsi di una goccia quando possiamo avere (essere) l'oceano?..

 

Wotan: vorrei porre l'accento sul fatto che anche le manifestazioni fenomeniche della realta` piu` "superficiale" scaturiscono dallo stesso Urgrund, dal fondo abissale di cui parlava Schelling, fonte prima dell'Essere.

É vero, questo lo dicono anche i mistici. É proprio così, probabilmente. Ma non stiamo discutendo di questo, o meglio, la questione non è da dove vengano le manifestazioni fenomeniche, bensì la confusione che si crea nella coscienza: nel normale stato non risvegliato, la mente ci porta a confondere le cose e a credere che tali manifestazioni siano reali di per sé, abbiano una qualche concretezza, ci lasciamo abbagliare dalla loro apparenza 'vera'. E dimentichiamo dell'Urgrund, dimentichiamo questo processo, questa loro reale provenienza, la loro reale natura. Lo sforzo verso la consapevolezza si attua per tornare a essere vivamente coscienti del fatto che le manifestazioni fenomeniche, illusorie, effimere e relative, provengono da un Centro immutabile che l'unico davvero reale. L'essenziale è non attaccarsi alle prime, non identificarsi con le prime: perché SIAMO il secondo. Sarebbe come se andassimo al cinema a vedere un horror e, per una sorta di malattia mentale che ci porta a identificarci con i personaggi dello schermo, sentissimo sul serio su di noi il dolore che sente la vittima di turno quando l'ascia la squarta trucidamente. Perché? Meglio ricordarsi, tornare ad essere coscienti che siamo degli spettatori in sala e quello è solo un film. Bello, magari fatto benissimo, ma pur sempre un film; e che a noi piace e ce lo stiamo godendo da spettatori, non lo stiamo subendo sulla nostra pelle.

 

Wotan - Uscendo da questa giungla di periodare difficile mi spiego meglio: la ricerca del "nuovo", dell'idea originale proveniente dalla radice prima della natura umana, e` una ricerca senza senso, perche` ogni creazione della nostra mente attinge dal fondo originario della coscienza intesa come basilare flusso temporale, e quindi dal fondo comune della nostra mente le idee vengono plasmate e incasellate dall'intelletto superiore (in questo senso forse,"sovrastrutturale"), ma pur sempre originate dallo stesso calderone ribollente.

Non si cerca a tutti i costi e con affanno il 'nuovo': quello viene spontaneamente da sé; si cerca di tornare ad essere consapevoli della nostra reale natura. Il punto è che, se ci lasciamo addosso la polvere dei secoli dell'ego, potremo solo parlare per ripetizioni, quindi ciò che il fondo originario ha già creato secoli fa attraverso le menti di qualcun altro, rimane tal quale e noi non facciamo altro che riproporlo. In questo momento, qui e ora, il fondo originario vorrebbe creare qualcosa di nuovo attraverso di noi, e la polvere dei secoli dell'ego glielo impedisce, fa da barriera, da filtro. Così torniamo su rielaborazioni di ripetizioni e manchiamo la spontaneità creatrice - comunque proveniente dal fondo originario - che vorrebbe esprimersi, che l'Universo vorrebbe esprimere attraverso il nostro essere unico e irripetibile.

 

Blunotte - forse non c'è nessun senso e noi siamo stati generati per caso dalla polvere alla polvere ritorneremo ("infin ch'arriva / colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto / abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblia").

E' una provocazione, ovviamente, ma sarei curioso di conoscere le vostre impressioni.

Forse è così ^^ Ma il punto non è la ricerca di un senso... l'esistenza potrebbe essere anche insensata. C'è un mistico che dice: se la creazione, l'Universo, avesse un senso, prima o poi lo raggiungerebbe e tutto finirebbe, si spegnerebbe: sarebbe una morte. Invece tutto continua, nulla si crea e nulla si distrugge. Quindi, è più probabile che l'esistenza non abbia alcun senso da raggiungere; che sia pura festa, pura celebrazione, pura vitalità, pura espressione mai identica a sé stessa che si attua e che se la gode in questa danza. Perché no? É la mente che vuole sempre degli obiettivi, dei luoghi dove arrivare, dei 'sensi', delle ragioni buone per fare questo o quello...

 

Wotan - Verlaine sembra volersi riferire piu` a un "Fruhmensch", ovvero un "uomo del prima" (fruh significa presto, prima), che non ha avuto esperienza della storia, e percio` in realta` impossibilitato a fare una scelta

Qui siamo dentro il linguaggio della filosofia, e tale linguaggio è mentale e quindi temporale. Io non sono interessato né al prima né al dopo, ma al qui e ora. E per quanto mi riguarda, l'unico uomo che non può realmente scegliere è l'uomo condizionato dalla sua identità, dalla sua mente, dal suo io e dai suoi retaggi. Crederà di scegliere, ma in realtà è l'ego collettivo e individuale che sceglie per lui; filtrando il suo comportamento spontaneo attraverso memoria collettiva, morali, stratificazioni egoiche, bisogni, desideri, paure, speranze, aspettative, un senso di 'propria identità' con cui DOVER essere coerente, etc.etc.etc. In questo modo, chi veramente sceglie????????? Chi? O_o Per scegliere bisogna essere liberi, e per essere liberi bisogna lasciar andare tutte queste catene.

 

Wotan - Comprendendo che il prncipio di non contraddizione e` un'imposizione arbitraria della logica classica, si puo` scegliere invece un approccio di Aufhebung di questa visione: sarebbe a dire, considerando la realta` in modo "quantistico"

Anche qui siamo nell'ambito del linguaggio filosofico e della sua 'ricerca' di qualcosa che probabilmente non troverà mai. All'approccio mistico non interessa considerare la realtà in un modo o in un altro né cercare nella mente il modo giusto di considerarla, all'approccio mistico interessa -viverla-, senza considerarla, anzi, emancipandola proprio dalle 'considerazioni' che la nostra mente fa partire in automatico.

 

A presto e grazie ancora a entrambi per questo splendido 'dialogo'!

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E per quanto mi riguarda, l'unico uomo che non può realmente scegliere è l'uomo condizionato dalla sua identità, dalla sua mente, dal suo io e dai suoi retaggi. Crederà di scegliere, ma in realtà è l'ego collettivo e individuale che sceglie per lui; filtrando il suo comportamento spontaneo attraverso memoria collettiva, morali, stratificazioni egoiche, bisogni, desideri, paure, speranze, aspettative, un senso di 'propria identità' con cui DOVER essere coerente, etc.etc.etc. In questo modo, chi veramente sceglie????????? Chi? O_o Per scegliere bisogna essere liberi, e per essere liberi bisogna lasciar andare tutte queste catene.

Il mio punto di riferimento dal punto di vista etico è sempre stato Kant, il quale, se ben ricordo, non credeva in questa definizione di libertà intesa come liberarsi da catene: credo perché comprendesse che in questo mondo non esiste questo tipo di libertà, i vincoli sono in ogni parte della vita umana, l'unico modo per essere concretamente liberi è scegliere consapevolmente i propri vincoli (spero di non sbagliarmi interpretando il pensiero di Kant). Ma, certo, il tuo ragionamento è coerente: non ragioni più, o non vuoi ragionare, secondo le categorie di questa realtà, vuoi liberarti proprio nel senso di superare dei vincoli che sempre ci autoimponiamo.

Una cosa però mi disturba: dal punto di vista morale, cioé in una prospettiva personale, può essere lecito volersi liberare da vincoli che ci portano solo sofferenza, ma da un punto di vista etico, intendendo con questo una prospettiva morale estesa alla collettività, potrebbe essere discutibile: mi sembra, ma certamente mi sbaglio a causa la mia ignoranza, un percorso esclusivamente personale ed egoistico, in un certo senso: in questo liberarsi dalle catene e ascoltare solo la propria natura originaria e crativa non si guarda in faccia a nessuno. Certo, tu puoi dirmi che ogni uomo ha l'occasione di liberarsi, ma se ognuno segue solo la propria natura che è diversa e autonoma da quella degli altri, non c'è il rischio che si entri in coflitto gli uni con gli altri? E la vita associata la buttiamo nel secchio, perché limitante della libertà individuale e della creatività, soluzione comoda e parassitaria che fa parte della nostra sovrastruttura?

Chiariamoci: l'idea mi piace da far girare la testa: un uomo finalmente in armonia con se stesso, senza sofferenze perché non si lega più a cose effimere, ma segue la propria natura; non ha più un peso sulle spalle che lo vincola e gli impone una postura, una strada da percorrere: ora egli può accedere all'infinito, avere consapevolezza del tutto e avere tutte le possibilità a portata di mano... come potrei non trovarla una prospettiva irresistibile: mi ricorda i futuristi che, influenzati dal superuomo nitzschieano, volevano sovvertire ogni regola preimposta, smettere di seguire la ragione e gettarsi nel mare di stelle finalmente liberi da ogni vincolo con la tradizione, la morale, il passato e tutte le sovrastrutture che ci impediscono di far spaziare la nostra forza, ci rendono dei parassiti deboli, malati.

Ma tutto questo è, appunto, estremamente discutibile dal punto di vista etico.

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A me Kant è sempre stato "qua" (--> faccio il gesto di battermi il petto con la mano chiusa). Ho letto le tre Critiche, e all in all mi sono sembrate un gran bel mucchio di parole (chiedo scusa al tuo punto di riferimento morale, ma ovviamente il mio spirito nel dire ciò non è di mancanza di rispetto ma di 'stoccata filosofica' :asd: ). La mia prof, una che ebbi un anno solo alle superiori ma che era molto in gamba, disse una volta con un pizzico di sarcasmo: "questa era gente che pensava tanto".. e in effetti Kant quanto a pensiero era veramente bravo a rimuginare ma quanto a vita e a qui e ora.. ;)

 

Stai parlando con uno che è sempre stato avverso alla morale, alle morali, non tanto per una questione di individualismo a tutti i costi, quanto perché le ho sempre trovate relative e mentali, lontane dall'assoluto, dalla verità che ho sempre cercato. Le morali cambiano a seconda del luogo e del tempo e mi stupisce come Kant non abbia capito le profonde conseguenze di ciò che lui stesso scoprì: la legge morale era, appunto, solo dentro di lui....

 

Io la morale non la reggo ma come ti ho detto non per una questione di nichilismo o di individualismo estremo quanto perché la trovo contraria all'etica. All'etica secondo me, ovviamente. Per come la vedo io, detto molto in soldoni, nessuno sceglie il male per sé. Se lo fa, lo fa per una mancanza di consapevolezza di ciò che è il male e il bene per sé. Se tutti fossimo consapevoli, tutti sceglieremmo il proprio bene che però non è mai il bene a scapito degli altri ma è il massimo bene per tutti. Se faccio del male a qualcun altro credendo di trarne un vantaggio, in realtà sto solo facendo un'azione inconsapevole che finirà a mio discapito (tutto ciò che si fa dall'inconsapevolezza finisce male) in un modo o in un altro, foss'anche solo perché sono stato schiavo di un desiderio e ho dovuto schiacciare un altro per realizzarlo. La propria libertà massima, quando è consapevole, coincide con la libertà comune. In una comunità illuminata, tutti sanno intimamente (per consapevolezza e spontaneamente, non per ragionamento) che il proprio bene coincide con il bene collettivo. Anzi non c'è bisogno che lo 'sappiano': agiscono spontaneamente in modo etico (etico in questo senso).

Ogni morale a cui bisogna accordarsi, a cui bisogna pensare e che bisogna scoprire, è una deviazione e una mortificazione del sé, ma del sé profondo, quello che è deviato e mortificato già dall'ego (alla fine la morale è una delle tante costruzioni dell'ego); il sé profondo saprebbe benissimo come agire in modo etico, cioè traendo il massimo beneficio per tutti e per sé dalle azioni e dagli eventi, se solo fossimo consapevoli e vivessimo nel qui e ora. Ciò che vogliamo veramente, nel profondo, è il nostro bene ma il nostro bene vero, quello che deriva (anche) dal bene comune.

 

Quindi mi permetto di rispondere al tuo Kant con Osho: "Just look into your own nature and whatsoever is joyous, go with it." (Semplicemente guarda nella tua propria natura e qualsiasi cosa trovi di gioioso, seguilo.) Oppure: "That which makes you happier is good. That which makes you blissful is the only moral. That which makes you miserable is the only sin." (Ciò che ti rende più felice è bene. Ciò che ti rende estatico è la sola morale. Ciò che ti rende miserabile è il solo peccato.) Va da sé che difficilmente qualcuno sarà realmente felice e estatico dopo aver ucciso qualcuno o dopo essersi lasciato andare alla lussuria o cose del genere, questo per me è ovvio... ma serve un minimo di consapevolezza per accedere praticamente a questo tipo di etica.

 

Quindi: bando ai vincoli: i soli vincoli che abbiamo sono quelli posti dal nostro ego. L'universo, la natura non ci mettono vincoli. Siamo noi stessi che ce li scegliamo e ponendoceli, ci facciamo del male e facendoci del male facciamo inevitabilmente del male agli altri. L'unico modo di uscire da questa spirale di ego-ismo, e di fare veramente qualcosa di non personale e non ego-istico, è liberarsi dai falsi vincoli e accedere alla nostra vera natura spontanea, smettere di fare resistenza all'infinito e far germogliare i nostri semi profondi che sono fatti di cose buone per il collettivo e per il Tutto.. Se la nostra natura profonda, unica e irripetibile, c'è, è perché si esprima, lo dobbiamo a ciò che c'è al nostro esterno, agli altri, al mondo che ci ospita e ci nutre e ci dà aria e cibo e acqua e vita etc.etc. Siamo un seme che insemina l'Universo, ma il seme per tirar fuori il meraviglioso germoglio deve aprirsi con dolore e rompere il suo duro vincolo, il suo limite, il suo rigido involucro di ego e scoprirsi all'infinito.

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Stai parlando con uno che è sempre stato avverso alla morale, alle morali, non tanto per una questione di individualismo a tutti i costi, quanto perché le ho sempre trovate relative e mentali, lontane dall'assoluto, dalla verità che ho sempre cercato. Le morali cambiano a seconda del luogo e del tempo e mi stupisce come Kant non abbia capito le profonde conseguenze di ciò che lui stesso scoprì: la legge morale era, appunto, solo dentro di lui....

 

Attento: per quello che ho studiato quando Kant afferma che la legge morale è dentro ognuno di noi, non intendeva in senso individualistico, tutt'altro: la legge morale, la moralità, si fonda sulla ragione, che è uno strumento che tutti gli uomini posseggono e che, secondo lui, a patto di ascoltarne "la voce" indica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; una prospettiva comune, quindi. Kant indica l'origine della legge morale dentro di noi perché vuole rendere l'uomo autonomo e indipendente, vuole che prenda in mano le redini della propria vita, sia intellettualmente che eticamente: l'origine della morale non è più esterna all'uomo (Dio), ma è dentro di lui, dentro tutti gli uomini. E questo, a mio parare, è uno dei regali che grandi che un filosofo potesse fare all'umanità, ma anche uno dei più gravosi, perché lo carica di più responsabilità.

 

A me Kant è sempre stato "qua" (--> faccio il gesto di battermi il petto con la mano chiusa). Ho letto le tre Critiche, e all in all mi sono sembrate un gran bel mucchio di parole (chiedo scusa al tuo punto di riferimento morale, ma ovviamente il mio spirito nel dire ciò non è di mancanza di rispetto ma di 'stoccata filosofica' :asd: ). La mia prof, una che ebbi un anno solo alle superiori ma che era molto in gamba, disse una volta con un pizzico di sarcasmo: "questa era gente che pensava tanto".. e in effetti Kant quanto a pensiero era veramente bravo a rimuginare ma quanto a vita e a qui e ora.. ;)

 

Sì, spesso si fa del'ironia sull'eccessivo rigore del "vecchio Kant", come lo chiamava Nietsche, e sulla sua incapacità di godersi la vita per questo suo continuo, eccessivo, pensare e riflettere. Ma è un'ironia ingiustificata, perché Kant è stato uno dei filosofi con più palle che io abbia studiato e la coerenza nel pensiero e nella vita ne sono la prova: era convinto che le "inclinazioni naturali" ci portino a fare scelte egoistiche, fatte solo nel nostro interesse, per questo lui cercò sempre la moderazione e l'allontanamento dai bisogni, fino, per esempio, a praticare la castità volontaria a vita.

 

Certo, nella tua visione ogni morale ha un valore relativo perché vale solo all'interno della sovrastruttura in cui è nata: ma il tentativo di trovare una legge universale (nella morale e nel sapere), che unisca tutti gli uomini a partire da determinate condizioni comuni a tutti e tutta la riflessione che c'è dietro, in tutta la sua ampiezza, non può essere liquidata con due colpi sul petto a mano chiusa: non è una "stoccata filosofica" più di quanto lo sia uno sbadiglio annoiato.

 

La propria libertà massima, quando è consapevole, coincide con la libertà comune. In una comunità illuminata, tutti sanno intimamente (per consapevolezza e spontaneamente, non per ragionamento) che il proprio bene coincide con il bene collettivo. Anzi non c'è bisogno che lo 'sappiano': agiscono spontaneamente in modo etico (etico in questo senso).

 

E' bellissimo, ma mi sembra che questa prospettiva abbia tutti i limiti dell'utopia. Ti prego di scusarmi se manco di rispetto alla profondità del tuo pensiero, ma mi sembra troppo facile ipotizzare uno stato di illuminazione che ci porti spontaneamente a far coincidere il nostro bene con quello collettivo; e continua a sembrarmi troppo facile risolvere le sofferenze della vita buttando tutta la realtà nel secchio e affidandosi a un mondo nuovo, che arriverà naturalmente nel momento in cui ci saremo liberati dei vincoli del vecchio, e in cui tutti saranno felici e in armonia.

Certo l'utopia da la speranza di poter cambiare le cose ed è quindi fondamentale come idea regolativa: serve per andare avanti, giorno dopo giorno, ed affrotare difficoltà che altrimenti sembrerebbero insormontabili. Ma tu Verlaine certo non condividi questa visione delle cose, forse non la condivido nemmeno io fino in fondo, ma mi sembra più vicino alle mie possbilità cercare di migliorare la realtà che abbiamo, con umiltà e accettando i nostri limiti e i nostri vincoli.

 

Non voglio assolutamente sminuire con questo la "fede" che hai in un progetto così ambizioso e a lungo termine, ma dove si trova la forza di avere fede, dopo che ogni giorno ti scontri con le difficoltà e le sofferenze della vita? Come si fa a non farsi prendere dallo sconforto e dalla tentazione di farsi piccoli piccoli, ritagliarsi uno spazio in cui essere il più possibile al riparo dalla vita?

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Eccomi!! :cry: (Non ci sono le tue citazioni, ma ti rispondo passo passo.)

 

Sì sì, lo so, te l’ho detto, ho letto le tre Critiche. Infatti io stavo facendo del sarcasmo (però volendo intendere qualcosa di serio): lui ha scoperto ciò che ha scoperto sintetizzandolo in quella grande frase, che però può essere intesa anche in quell’altro modo che ho usato io, e che secondo me è quello vero.. perciò dicevo che Kant non si è reso conto di ciò che aveva scoperto.. :ok:

 

Accipicchia..ci ha fatto questo bel regalo? Poteva pure tenerselo… e ora? lo ricicliamo :bah: scherzo.. sicuramente le sue intuizioni sono state fondamentali, ma per un motivo diverso, secondo me: perché ci portano a vedere, a capire nel dettaglio come ciò che vediamo, ciò che viviamo, a partire dalle percezioni semplici (tempo, spazio) fino alla morale, non esista che ‘dentro’ di noi appunto, quindi nella mente, e non ‘fuori’, nella Realtà, che è ben diversa, e di cui non siamo affatto consapevoli… siamo nel ‘sonno’ della mente, come dice Buddha, e la Realtà è distante dalla nostra percezione, offuscata da tutto ciò che Kant ha trovato ‘dentro’ di noi (e solo lì)…

 

Aveva capito che le inclinazioni naturali ci portano a fare scelte che servono il nostro interesse… non aveva capito che il nostro interesse, quello vero, che sta dietro l’ego, è l’unico che può servire l’interesse comune. Se è vero che la (vera) legge morale è dentro di noi (usando un senso diverso, stavolta, da come ho inteso prima..parlando qui dell’ –etica- di cui parlavo nell’altro post)… se è vero che la legge morale è bene in profondità dentro di noi, allora se la liberiamo dalle finte morali generate dall’ego, e riusciamo ad essere veramente e –consapevolmente- spontanei (che è una qualità di naturalezza diversa da quella degli inconsapevoli, che al più possono diventare come animali), allora tutto andrà per il meglio per tutti, dato che seguiremo la ‘morale’ che è dentro di noi. Ma se è dentro di noi, per seguirla, non c’è bisogno di imporsi nulla.. al contrario c’è da liberarsi di tutte le imposizioni, di tutte le linee di pensiero, di tutti i retaggi culturali, di tutti i vecchiumi.. per far sì che possa splendere in tutta la sua purezza attraverso il nostro agito.

 

La legge universale di cui parli .. sono disposto ad accettarne teoricamente la possibilità, ma non c’è molto da parlarne, perché se davvero c’è una legge universale che tutto governa, non potremo mai realmente esserne esclusi. Tutto è già, da sempre, in accordo con essa. Compreso il nostro percorso, compreso il nostro sonno attuale e la nostra consapevolezza futura, compreso il nostro ego e le nostre morali effimere e circoscritte a un’epoca e un luogo. Inutile teorizzare in merito quindi: è già in atto, in pratica qui e ora e lo sarà anche se non vorremo: vediamo piuttosto come fare per incontrarla, per esserne consapevoli, per vivere in accordo con essa consapevolmente anziché inconsapevolmente.

 

È un’utopia finché la maggior parte delle persone la vedranno tale… questo vale per qualsiasi utopia. Se una cosa è utopistica o realizzabile, dipende dalla volontà delle persone. Per il mio modo di essere, utopistico è un mondo come è quello che vediamo adesso, attanagliato nel dolore, nel capitalismo selvaggio, nel materialismo e nella nevrosi: se fosse per me, sarebbe un’utopia. Inconcepibile. Invece è reale, è il mondo in cui viviamo.. evidentemente la –volontà- dei più è orientata in questo modo..

 

E guarda che ti sbagli se pensi che il mio modo di vedere sia orientato verso ‘cambiare il mondo’. Anzi, non capisco come posso averti dato quest’impressione O_o Non sono io quello che parla di andare dentro sé stessi, di sperimentare su di sé, guardare con i propri occhi, partire dall’essere consapevoli? L’unico cambiamento che è chiesto ad ognuno di noi, è la propria consapevolezza, nient’altro. Se ciascuno di noi viaggiasse con impegno e costanza verso la consapevolezza della propria natura profonda, in capo a qualche anno o al max decennio la maggior parte della popolazione mondiale sarebbe illuminata o giù di lì… e il mondo cambierebbe rotta… l’utopia comincerebbe a diventare realtà. L’unico impegno che è richiesto è quello su sé stessi. Sforzarsi di conoscere chi si è, di incontrare la propria reale natura. Tutto qui. Il resto viene da sé. Non si può mostrare la consapevolezza agli altri, né far sì che la sperimentano… la ‘guarigione’ del mondo è la guarigione dell’individuo dal proprio ego. (Anche perché condividiamo tutti una stessa natura, una stessa energia vitale… in profondità, tutti siamo uno.)

 

Le molle che possono spingerti alla ricerca di te stesso sono tre: 1) la curiosità intellettiva o, per così dire, metafisica; 2) il dolore; 3) la compassione. Per Buddha o Gesù si trattò della terza (che probabilmente è la più rara); per noi comuni mortali in genere la ricerca comincia quando siamo talmente disorientati di fronte al mistero, da volerne capire a tutti i costi le verità profonde, ma non solo capirle intellettualmente creando un sistema teorico, bensì capirle profondamente, incontrarle su di sé; oppure quando il dolore per un motivo o per un altro, il dolore causato dall’ego, diventa così forte da diventare insopportabile. Allora comincia il cammino di ‘ritorno a casa’.

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Aveva capito che le inclinazioni naturali ci portano a fare scelte che servono il nostro interesse… non aveva capito che il nostro interesse, quello vero, che sta dietro l’ego, è l’unico che può servire l’interesse comune.

Forse lo aveva capito :bah:, ma credo dipenda da quello che ognuno idetifica con la parola ego... ho l'impressione che parliamo linguaggi diversi e il più grande contributo al dialogo sarebbe accordarsi sui termini, ma non ti chiedo ulteriori spiegazioni: da quello che hai scritto credo di aver capito cosa intendi per ego e cosa per natura profonda, almeno nei limiti del possibile, non essendo questi concetti immediati e univoci.

 

Vorrei invece riportare due passagi da un libro che sto leggendo e in cui ho trovato, come una folgorazione, delle parti che sembrano rimandare direttamente a questa discussione; il romanzo è L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery. Spero che non sia vietato inserire queste citazioni (al limite le toglierò), perché mi sembrano molto utili alla discussione:

 

"L'eternità ci sfugge.

Nei giorni in cui tutte le credenze romantiche, politiche, intellettuali, metafisiche e morali che anni d'istruzione ed educazione hanno tentato di imprimere in noi crollano sull'altare della nostra natura profonda, la società, territorio attraversato da grandi onde gerarchiche, affonda nel nulla del senso. Fuori i poveri e i ricchi, i pensatori, i ricercatori, i potenti, gli schiavi, i buoni e i cattivi, i creativi e i coscienziosi, i sindacalisti e gli individualisti, i progressisti e i conservatori; non sono che ominidi primitivi i cui sorrisi e le cui smorfie, le andature e le acconciature, il linguaggio e i codici, inscritti nella mappa genetica del primate medio, significano solo questo: mantenere la posizione o morire."

 

La riflessione per essere compresa appieno necessiterebbe della lettura dell'intero romanzo (che consiglio a tutti gli appassionati di filosofia), ma credo si chiarisca meglio con la seconda citazione, tratta dal capitolo successivo; la riflessione nasce dalla visione di un film di Ozu, Le sorelle Munekata, e da alcuni passaggi nei quali i personaggi sono in contemplazione di alcuni elementi, naturali e non: passaggi che sembrano apparentemente di importanza secondaria, ma che risaltano in tutta la loro centralità quando il personaggio della figlia Setsuko fornisce "la chiave del film":

 

"La vera novità è ciò che non invecchia nonostante lo scorrere del tempo.

 

La camelia sul muschio del tempio, il violetto dei monti di Kyoto, una tazza di porcellana blu, questo dischiudersi della bellezza pura nel cuore delle passioni effimere non è ciò a cui aspiriamo tutti? E che noi, Civiltà occidentali, non sappiamo raggiungere?

la contemplazione dell'eternità nel movimento stesso della vita."

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Visto che ho un po` di tempo, vorrei chiarire alcune cose che Verlaine sembra avere frainteso dai miei discorsi. Innanzitutto per quanto riguarda l'argomento di cui stiamo parlando. Hai detto che "Non e` di questo che stiamo parlando", riferendoti alla comune provenienza da un ipotetico Urgrund originario delle manifestazioni superiori (o superficiali, come le si vuole considerare). Ebbene, io ritengo che invece cio` non sia a sproposito: poiche` se e` l'Essere nascosto all'interno delle cose che consente loro di esplicarsi, se e` da questa Realta` che scaturisce ogni cosa, allora e` a mio parere incorretto asserire che la Dinglichkeit dell'esperienza (la "cosalita`") sia un velo oscurante il vero nucleo del mondo. Non puo` infatti esistere un "di piu`", se tutto e` in fondo manifestazione dello stesso Essere: coprire dell'oro con dell'altro oro non significa certo nasconderlo - anzi, tutt'altro. Le concrezioni di pensieri attorno ai medesimi artefatti della mente dell'umanita` non sono, a mio avviso, indice di un'inaridimento della stessa, o di un suo presunto sopore, bensi esse stesse testimonianza di creazione, non meri simulacri di un'opera origniale, bensi nuove creazioni, figlie della loro ispirazione, e in quanto tali, non identiche, ma diverse, sebbene di comune nascita. Ma come gia` detto, se la comune nascita e` a tutti i fenomeni dello spirito, allora non solo le opere dell'uomo che paiono "condizionate" da altre sono di per se` opere originali: ma anche le presunte opere originali sono di per se` stesse dipendenti dalle precedenti allo stesso modo che se ne fossero direttamente discese, avendo con esse comune origine.

Per vederla in modo un po` piu` semplicistico: gli accadimenti, i vissuti, i ricordi e le sensazioni che abbiamo esperito nel mondo fenomenico (nel senso piu` ampio in cui esso puo` essere inteso, non dunque solo come ϕαινόμηνα visibili, ma in generale come accadimenti percettibili) attorno alle quali si stratificano le nostre coscienze attuali sono come delle sorgenti, dei punti di contatto con l'Assoluto - e chiedo perdono se mi fermo qui con la semplificazione, ma rischia di apparire troppo new age per i miei gusti.

Dunque la rielaborazione e ripetizione e` di fatto una creazione originale della nostra potenza creatrice, o "genio" che dir si voglia, e non gia` un soffermarsi accidioso al riparo dal turbine della Vita. E percio` ho assimilato la ricerca del nuovo a tutti i costi con la liberazione dall'"ego" come tu lo chiami, ovvero cio` che in ultima analisi e` la nostra identita` esperienziale, poiche` non c'e` differenza tra questa liberazione e quella ricerca, essendo entrambe epifenomeni della medesima attitudine a considerare superfluo cio` che proviene dall'esperienza (sia essa passata o futura). Attitudine che considero incoerente con il postulato che alla base del Cosmo sussista un principio vitale che attraverso di noi si vuole esplicare.

Cio` che, eventualmente, discrimina tra gli accadimenti che sono ancorati al fardello della limitatezza del nostro universo esperienziale e quelli invece del Cosmo visto come όλον, come unita` organica cioe` che attraverso di noi si esprime, potenza creatrice, e` l'attitudine: l'attitudine con cui si approccia ogni contenuto intenzionale della coscienza, se come usuale oggetto definito, o come spirito dell'Assoluto. Ma tale attitudine non puo` prescindere dall'esperienza, poiche` e` attraverso il percorso della strada che la strada si genera, e attraverso l'uscita dai suoi borsi che si puo` comprendere e verificare la stessa (dove verificare non e` inteso come controllare e correggere bensi come "rendere vero").

Dunque anche quello che tu pretendi essere un superamento e` in realta` una soluzione ad un problema complesso che non cerca di trascenderlo, ma di ignorarlo. Mi riferisco in particolare a cio` che ho definito "Fruhmensch", ovvero l'uomo che non ha esperienza del mondo, e quindi, a tuo avviso, e` libero. Ritengo che cio` non sia assolutamente detto: se e` pur vero infatti che l'uomo che non ha esperienza delle costruzioni considerate superficiali che si stratificherebbero ad "appesantire" la coscienza e` forse in questo senso piu` vicino all'essere originario, e` anche piu` che ragionevole considerare che questo stesso uomo sia teso come tutti gli uomini lo sono alla ricerca della stabilita` nell'autoreferenzialita` antidialettica della "civilta`". Tutte le scelte dell'uomo storico sono condizionate dalla sua dimensione diacronica, a tuo parere: cio` e` vero in parte. Se e` vero che la realta` condiziona le nostre scelte, e` anche vero che non e` la dimensione diacronica in cui noi le realizziamo, bensi quella cairologica, che non e` semplicemente quella del "Qui e Ora" come sembri volerlo intendere singolarmente, ma dell'intero tempo considerato come unita` autosuperante e autoinglobante.

Ma del tempo - nonostante uno dei perni fondamentali della questione sia questo - non parlero` ora (mi riservo di farlo un'altra volta).

Ed e` questa scelta, non storica ma destinale, che considera la propria esperienza non solo computazionalmente, ma anche ontologicamente e indipendentemente (perdonatemi questi avverbi, non l'ho fatto apposta: intendevo non solo come valutazione delle proprie esperienze, ma anche come unita` dell'essere e identita` propria, pur trascendendola in quanto spirito dell'Assoluto), che puo` portare alla liberazione: cosi l'Ubermensch diventa Urmensch, e non gia` Fruhmensch, in una dimensione che, contrariamente a quanto affermi, non solo non e` temporale - ma cairologica! - ma anzi trascende il concetto stesso di "Qui e Ora".

 

Vorrei spendere poi qualche parola riguardo all'etica, come tu la consideri. La tua concezione unitaria, che ha una parvenza illuminista ma effettivamente e` di matrice mistica, secondo cui la liberta` massima coincide con la liberta` comune, prende le sue parti comunque da assunti morali considerati assiomatici, vale a dire: il Bene, il Male. E` evidente che tu consideri queste entita` come distinte e ben definite, forse considerando, ma evidentemente non comprendendo intimamente, la natura degli opposti - e non dico solo in senso hegeliano, che e` pure uno dei piu` elevati per considerare la dicotomia intellettuale, ma anche "banalmente" in senso taoista (o, spostandosi di poco, pitagorista). Non sto parlando del "buono" o "cattivo" in senso morale, ma proprio dei principi etici, ai quali in realta` si riferiva Kant, parlando di legge morale, restando molto vicino al tuo pensiero, per quanto tu non lo voglia ammettere: non e` certo del costume che Kant si preoccupava, ma proprio dell'intimo sentire di cui parli. "Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dell'uomo": queste erano le cose che meravigliavano Kant del mondo, a testimoniare che egli considerava non gia` la sovrastruttura civile della morale intesa in questo senso, bensi la morale che ha come oggetto l'etica (essendo di fatto non cosi distanti le due discipline della mente come sembreresti voler far intendere).

Ma e` proprio qui l'inghippo. Perche` se siamo tutti d'accordo (Kant come noi qui a discutere) che la morale sovrastrutturale sia un impedimento al realizzarsi dell'uomo etico, e` pure evidente che si trascura quanto invece l'etica stessa sia sovrastrutturale. Per l'educazione al sentire che riceviamo, che e` di per se stessa culturale, noi abbiamo un comportamento etico, ma innaturale. L'uomo originario conosce la necessita` cairologica dell'agire, non l'accordarsi etico tra le coscienze, che e` un contenuto coscienziale che Nietzsche avrebbe considerato "Apollineo": non certo contrario alla natura umana! Ma giammai centro dell'agire dell'Assoluto che e` in noi, la cui forma e` anche bestiale, deforme, orrenda. La valutazione morale, cosi come quella etica (e pure conseguentemente quella estetica), e` anch'essa un'imposizione dell'intelletto separatore, che ignora l'intima comunanza delle cose, volendo distinguere cio` che neppure all'apparenza e` definitivamente separato. L'agire "naturale" dell'uomo e` bestiale. Ed e` questo che e` necessario, e` questo che accondiscende al fluire del Cosmo, ed e` si` uno spogliamento, ma uno spogliamento consapevole del vestiario di cui si libera, rendendolo cosi audacia e liberazione.

 

Anche la σκέψις che tu cerchi di operare dentro di te` e` in realta` un costruire, un esperire interno, non dunque un semplice liberarsi, ma un superamento implosivo, che apre abissi all'interno di altri abissi. Ma l'equilibrio non sta in fondo agli abissi, ma nel mezzo dell'infinita` di tutti questi, al centro delle correnti dell'infinito. Vorrei infatti concludere facendoti un appunto: se e` vero che tu vuoi esperire il Qui e l'Ora, e` pur vero che nell'esprimere questo necessariamente ti richiami all'esperienza; e l'esperienza di quanto sia odioso il fardello della samsara terrena non puo` pervenire se non calandosi in esso. Insomma, cio` che sembra e` che tu abbia di fatto un sistema sovrimposto al mondo: la natura creatrice - l'ego. Non vi e` dato della Verita` di tale sistema, eppure tu l'assumi arbitrariamente a metro di tutte le cose: ma cosi facendo tu stesso contraddici, ripetendolo e perpetuandolo all'infinito, impedendo allo stesso di concretizzarsi in te. Quello di cui io parlavo (una realta` "quantistica") non era un semplice modo di vedere il mondo - mi sono espresso male, forse, ma credevo trasparisse dai concetti stessi che trattavo il mio vero intento - bensi un'attitudine che trascendesse una Weltanschauung, se non proprio il trascendere stesso questa stessa, che per necessita` di cose diventa Weltbild. Non quindi una ricerca di qualcosa, ma la comprensione dell'onnipotenza della ricerca, e la sua prosecuzione senza un fine arbitrario, ma fine alla sua trascesa, che sia essa stessa funzionale a superiori sfere esistenziali, in una connessione incongrua ma continua tra tutti gli Esistenziali. Non e` del mondo che si deve spogliare l'io; non e` distante l'Assoluto, e ne` lo rifiutiamo, ne esso rifiuta noi: esso e`, e tutti noi lo vediamo: non e` la vista che ci manca, non la consapevolezza; solo un nome da attribuirgli - ma esso non ha nome, e non e` dato potersi anche solo domandare se esso esista o non esista - ben lungi questo dal significare che con certezza esso esiste/ non esiste.

Solo dopo essere stato partecipe di tutte le manifestazioni del mondo le potrai trascendere: e cio` non significa la somma delle parti, giacche` non e` solo questo il mondo - - e` organico. E ancora non le avrai comprese, e ancora non le avrai superate. E` impossibile raggiungere l'illuminazione terrena: l'Illuminazione, il superamento, e` non gia` il raggiungimento, ma la cecita`, la coscienza, la contraddizione, il superamento, e la comprensione della transitorieta` del superamento stesso. Anche il navigante e` navigante solo fintanto che e` in mare. Prima di partire era un cittadino, una volta arrivato era un cittadino che aveva viaggiato per mare. Ma solo nell'incertezza nebulosa dei flutti, egli era un navigante, non alla ricerca! - bada - ma nel mezzo del Qui, dell'Ora. E anche la filosofia non e` che un naviglio perso tra i mutevoli monti e le liquide valli del mare, perennemente alla ricerca, giammai realmente se stessa quando e` giunta in porto: giacche` costa` ella si secca, ed altro non e` che povero legno morto.

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Provo una grande ammirazione leggendo quello che scrivi, Wotan; credo sia la stessa ammirazione che prova il rozzo contadino nell'udire le conversazioni dei colti possidenti per cui lavora, o dell’allievo che ascolta le discussioni dei maestri su problemi filosofici. Allora il contadino e l’allievo misurano la propria ignoranza e i limiti della loro mente e se sono saggi e virtuosi li accetteranno con umiltà.

Dietro le vostre posizioni ci sono fondate e ricche tradizioni filosofiche, con il loro pensiero e la loro visione del mondo, con il loro concetti per spiegare e riassumere concetti più vasti: un po’ come le sezioni di una biblioteca che aprono a innumerevoli scaffali di volumi: Fruhmensch, Urmensch, Uebermensch, semplici parole che aprono finestre su immensi paesaggi della filosofia e del sapere.

Bellissima l’immagine della nave per simboleggiare la filosofia: un interminabile navigazione, una continua ricerca che quando si ferma, diventa materiale sterile: “povero legno morto”.

 

Spesso, sbrigativamente, chi non capisce ciò di cui si parla conclude che tanto sono concetti e discussioni “inutili”, lontane dall’uomo e dai suoi reali bisogni (ma in verità, spesso, sono solo lontane dalla comprensione di chi afferma questo).

Non so quanto la categoria dell’utilità possa essere applicata a questi discorsi: forse è un puro e semplice errore, perché se si va alla ricerca di ciò che è veramente utile e necessario probabilmente arriveremo alla triade mangiare-bere-riprodursi.

Tuttavia avverto che questo è anche falso: non sono sicuro che la riflessione filosofica non debba avere un fine, un’utilità: che senso ha infatti un discorso o una discussione che gira su se stessa, parla di se stessa e crea continui circoli viziosi? Non è forse vero che il fine della filosofia è l’uomo? E quando la filosofia non è più in grado di parlare all’uomo, quando è lontana da quelli che sono i suoi bisogni primari, le sue pulsioni (forse si potrebbe dire, banalmente, che tutte le attività umane sono generate e quindi funzionali a quella prima pulsione di autoconservazione che caratterizza ogni essere vivente), allora è davvero filosofia?

Ho sempre ammirato Hegel e la sua immensa opera razionale: che genio! Che figura brillante! Il modo in cui spiega e sviluppa quell’assunto fondamentale della sua filosofia: “Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale” mi ha sempre mandato in brodo di giuggiole… non è certo questo il caso estremo di una filosofia lontana dall’uomo e dai suoi problemi e necessità. Ma anche in questo caso mi sorge un dubbio della stessa natura: perché se è vero che queste riflessioni non sono lontane dall’uomo, potrebbero tuttavia essere lontane dagli uomini (particolari).

Una persona che non ha studiato o che non ha mai aperto un libro di filosofia e che spende le sue giornate, per esempio, tra un lavoro manuale che la occupa per otto ore al giorno e le necessità della sua famiglia; una persona le cui esigenze quotidiane non comprendono, o comprendono in minima parte, la riflessione sui grandi problemi dell’umanità, cosa può capire di concetti come l’Assoluto o l’Urmensch… o meglio: cosa gliene può importare?

La maggior parte delle persone non può permettersi di coltivare la pratica del dubbio o di una ricerca della verità e di risposte, intese come un percorso infinito; e questo perché ha bisogno di certezze: non è il dubbio che ci da la forza di alzarci ogni mattina e di affrontare il mondo.

Faccio un esempio: la Fenomenologia. A cosa serve al muratore la consapevolezza che tutto quanto esiste potrebbe essere una creazione della sua mente? I sensi saranno pure inattendibili, ma domattina, il male alle ossa e i muscoli indolenziti si faranno sentire come ogni mattina, proiezione della mente o meno.

E così tutto quell’insieme di sofferenze che rendono la vita dura, per tutti, e spesso insostenibile: a questo servono le certezze, a rendere sostenibile l’esistenza; forse non a renderla migliore, ma almeno a darle un senso. E in fondo è quello che tutti fanno: si può non parlare di visione del mondo, ma di “intenzione”, ma tutte le volte che diamo un risposta stiamo rispondendo a quell’impulso originario di autoconservazione che ci accomuna tutti.

 

Non so se sono stato chiaro nella mia esposizione, temo ci siano molte banalità: spero comunque che ciò che ho scritto possa essere utile alla discussione.

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Passo per un saluto veloce a entrambi, appena finisce questo periodo di vacanza-assenza dal PC leggo tutto il dibattito che ho mancato e rispondo!

Intanto vi lascio 'al volo' un passo di Krishnamurti che può sembrare una specie di spam invece parla di questo argomento. A presto!!! ^^

(Beninteso che nel 'voi' di Krishnamurti ci sono pure io :sbav: )

 

« La verità è una terra senza sentiero.

L' uomo non può arrivare ad essa con alcuna organizzazione, con alcuna dottrina religiosa, con alcun dogma, preghiera o rituale, non con alcuna conoscenza filosofica o tecnica psicologica. Deve trovarlo tramite lo specchio del rapporto, con la comprensione del contenuto della sua propria mente, con l'osservazione e non con l'analisi intellettuale o le dissezioni introspettive.

Non vi è percorso alla verità, essa deve venire a voi.

La verità può venire a voi soltanto quando le vostre menti e i vostri cuori sono semplici, liberi e vi è amore; non se il vostro cuore è occupato dalle cose della mente.

Quando c'è amore nel vostro cuore, non parlate dell'organizzazione per la fratellanza, non parlate della credenza, non parlate della divisione o delle potenze che creano la divisione, non dovete cercare la riconciliazione.

Allora siete semplicemente un essere umano senza un'etichetta, senza un paese.

Ciò significa che dovete mettervi a nudo di ogni cosa e permettere che la verità possa manifestarsi; e può venire soltanto quando la mente è vuota, quando la mente cessa di creare.

Allora verrà senza il vostro invito.

Allora verrà rapidamente come il vento.

Viene inaspettatamente, non quando state aspettando, desiderando.

E' accecante come la luce solare, pura come la notte; ma per riceverla, il cuore deve essere pieno e la mente vuota.

Voi, ora, avete la mente piena e il vostro cuore vuoto. »

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