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"L'albero di Natale"


funeralblues

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- Credi che mi possa bastare? -

Antonio rivolgeva lo sguardo al pavimento, seduto sul bordo del letto. La schiena leggermente inarcata mostrava un accenno di spina dorsale mentre il petto, che altre volte sembrava gridare: “canoa!”, si afflosciava sui piccoli rotoli dell’addome.

- Pensi che una camera di albergo possa rappresentare dignitosamente quello che provo per te? -

Muoveva le dita dei piedi. Li osservava fingendo di non pensare ai miei discorsi. Sapeva che nessuna parola avrebbe potuto sciogliere quello strazio. Aspettava, silenziosamente, il ritorno della quiete.

- Non riesci a capire -

Antonio si alzò. Tirò su goffamente il proprio corpo. Poi cominciò a raccogliere i vestiti. Aveva una pelle chiara che ricordava vasi fragili e preziosi. Braccia toniche, quasi completamente glabre, capelli corti, ancorati al collo contratto. Rivolgendomi le spalle si abbottonò la camicia, infilò i pantaloni, calzò gli stivali, allacciò lo spadino, mise il bancroft sotto il braccio ed afferrò una sacca mezza vuota.

Si voltò poco prima della porta. Aveva gli occhi lucidi. Odiavo vederlo soffrire. Mi osservò restando in silenzio, poi accennò un sorriso prudente che rimase a stazionare nella camera per molti minuti, anche dopo la sua partenza. Rimase questo sorriso vago che avrei voluto esprimesse il senso del nostro legame mentre invece finì per rappresentare la fatica di un abbandono.

 

 

 

- Ho apparecchiato con i piatti buoni! -

- Carini -

- Quelli del matrimonio. Te lo ricordi ancora il nostro matrimonio? -

Angela mi girava intorno. Sistemando una marea di cose sulla tavola. Andava e veniva dalla cucina come Speedy Gonzales. Afferrava una pirofila rovente dal forno e la scaricava sul piano di lavoro mentre l’acqua  scrosciava nel lavandino, schizzando un mazzolino di rose bianche che aspettavano pazientemente il loro vaso.

- Come potrei dimenticarlo! -

- Io l’ho dimenticato. Il giorno dopo. Gli sposi non ricordano mai niente del loro matrimonio. Troppo stress, troppe persone, tutti quei balletti scemi, gli scherzi degli amici, l’agitazione dei genitori, gli intoppi del rinfresco -

Sistemò i tovaglioli con cura. Poi piazzò vino e pane.

- E’ per questo che si fanno tante foto. Così te lo rivedi con calma, seduta in poltrona e cominci a vergognarti di un sacco di cose. La pettinatura troppo antica. L’abito che butta male. I genitori che sbadigliano dietro di te -

- Invece si è trattato di un bellissimo matrimonio -

- Dici? Devo confessarti una cosa: io, quel giorno, non vedevo l’ora che finisse -

- Adesso parli come lo sposo -

- Non sto scherzando. Se non fosse stato per i miei, avrei preferito un bel pranzo informale con gli amici e mi sarei accontentata del rito civile -

- E la luna di miele? -

- Avrei rinunciato volentieri anche a quella - Angela si era fermata davanti a me, il dorso di una mano sulla fronte accaldata, l’altra stretta in vita.

- Mi sposo un ufficiale della marina che sa benissimo quanto soffra il mal di mare e dove mi porta? In crociera per due settimane! Sono stata malissimo. Uno zombie. Mangiavo e vomitavo. Mangiavo e vomitavo. Smettevo di mangiare e continuavo a vomitare -

Suonò la porta. Mi voltai verso l’ingresso.

- Stai comodo: questo è Antonio -

 

 

 

Il piazzale è un quadrato perfetto. Dominato dal colore grigio, dal portico che scandisce il lungo corridoio esterno, dalle ampie finestre sprangate, dall’orologio puntuale e dal brigantino, un groviglio di cime e bozzelli che si articola verso il cielo, il simulacro di una antico veliero, fatto di alberi e pennoni, di vele piegate, di sartie, di goffe, di bitte ancorate al cemento.

La prima immagine non si discosta molto da quella di certe miniature intrappolate nella trasparenza del vetro di fragili bottiglie. Lo penseresti come un immenso soprammobile se da un angolo, all’improvviso, non fosse aggredito dal guizzo di giovani acrobati, veloci come scoiattoli, aggrappati alle sartie, di corsa verso la cima, e poi giù dall’altra parte a guadagnare la terra ferma.

Il sole tramontava dietro la sua armatura, allungandone l’ombra a dismisura. Affogava dolcemente nel mare, arrossando nuvole e imbrunendo i volti inermi di giovani dalle narici protese a rincorrere la brezza della sera. Affogava insieme alla loro malinconia. All’immagine di una donna lontana. Di giochi abbandonati. Di una madre che prepara la cena.

Per questo me ne innamorai. Mi innamorai di un momento unico nell’arco della giornata, durante il quale non esistevano più gradi, né mansioni, né responsabilità e tutto diventava leggero, più umano, primordiale.

Vidi lo sguardo di Antonio prima di tutto il resto. Prima del corpo allenato. Degli spessi occhiali da vista. Delle brutte mani. Dei biondi capelli cortissimi.

I suoi occhi azzurri  fremevano inquieti, identificando l’animo di un lottatore.

 

 

 

- Buongiorno -

La baciò lievemente sulle labbra, si tolse il soprabito e lo ripose nell’armadio vicino all’ingresso insieme alla ventiquattrore, poi si avvicinò alla tavola.

- Che profumino! Perché quando siamo da soli mi devo accontentare del tonno in scatola? -

- Del tonno in scatola! - gli fece il verso Angela - Non farmi passare per quella che non sono -

Antonio strizzò l’occhio venendomi incontro. Mi abbracciò in silenzio. Poi si allontanò di qualche passo, squadrandomi a braccia conserte.

- Come te la passi, vecchio? -

- Non mi posso lamentare  -

- Hai messo su qualche chilo -

- Colpa del lavoro sedentario -

-Ti trovo bene, comunque -

- Grazie -

A pranzo parlammo di  ricordi annacquati come fanno tutti gi amici di un tempo, quando si perdono per anni e poi si ritrovano improvvisamente invecchiati. E’ difficile mescolare quella porzione di esistenza che non li accomuna ed anzi li separa. Si finisce per spolverare le solite scenette inflazionate, che hanno riempito i mille racconti della loro vita mostrandone la parte più paradossale e quindi convincente.

- E’ tutto buonissimo - Angela scosse la mano come a sminuire il suo lavoro.

- Niente di speciale. Due cosine semplici -

Si alzò per sparecchiare e nascondere quel minimo imbarazzo che le aveva imporporato le guance.

 

 

 

  Natale era vicino. Faceva freddo. Quell’anno era nevicato. Una mattina i nostri letti, sul lato delle finestre che di notte dovevano restare spalancate, avevano accolto un sottile strato di brina. Si avvicinavano le feste ed il ritorno a casa per un periodo che appariva troppo breve.

La sera, sul pennone del trinchetto, io ed Antonio incarnavamo il giallo ed il verde di un improbabile albero natalizio. Una tradizione dell’accademia: gli allievi della prima classe, arrampicati sul brigantino, avrebbero fatto oscillare nel vuoto piccole luci colorate, in sequenza, secondo un ordine prestabilito.

Doveva essere il vescovo del paese di vattelappesca a godere di questa rappresentazione estemporanea. Lo attendevo trepidante, in equilibrio precario sul marciapiede del pennone più alto, sferzato da un vento gelido. Invece il piazzale, invaso dalle canzoni di un vecchio disco conservato diligentemente per queste occasioni, era completamente deserto. Nessuna traccia del vescovo che sembrava preferire di gran lunga la calda accoglienza del rinfresco, allestito nel salone degli ufficiali, alle nostra esibizione inconsueta.

Lo dovettero pregare alcuni tenenti, consapevoli che non avremmo potuto resistere a lungo in quella posizione. Così Sua Eminenza scese lentamente la scalinata e varcò una delle uscite sul portico meridionale. Venne alzato il volume degli altoparlanti che riproducevano una versione metallica di “Astro del ciel”, per ravvivarci dal torpore e cominciò lo spettacolo.

Antonio mi era accanto. A pochi metri. Si girò verso di me con la luce in mano e disse qualcosa che faticai a comprendere. Un invito a passare con lui la libera uscita del giorno dopo. Feci sì con la testa mentre dal basso il buon vescovo infreddolito, alzando le braccia al cielo, cingeva le mani come in segno di ringraziamento, poi le separava accennando un fugace saluto e si ritirava frettolosamente, seguito da un nutrito drappello.

Scendemmo esausti e ci avviammo ordinatamente in camerata. Una doccia bollente. Qualche imprecazione. Il piacere di un letto mai così morbido come in quella sera. Eppure non riuscii a chiudere occhio.

 

 

 

- I piatti toccano a me - disse Antonio alzandosi da tavola.

Angela lo seguì con lo sguardo, sorpresa dalla gentilezza inconsueta: si era accorta di una lieve malinconia che ne velava l’espressione e ne pareva turbata.

Dal salotto udimmo distintamente lo scroscio dell’acqua sulle stoviglie.

- Quanto ti trattieni ancora? -

- Un paio di giorni –

- Puoi restare da noi, se ti va – la mano sinistra di Angela giocava con le briciole del pane.

- Ti ringrazio davvero ma temo di avervi disturbato anche troppo -

- Invece mi renderesti felice. Se Antonio non fosse di servizio avremmo trascorso il Natale a Foggia dai miei. Qui non conosco nessuno, escludendo il gruppetto delle mogli e delle fidanzate dei suoi colleghi –

- Non ti trovi bene? –

- E’ difficile spiegarlo. Sono conoscenze imposte dalle circostanze. Rapporti convenzionali. Puoi scambiare due chiacchiere ma non è possibile oltrepassare la superficie delle cose. L’intimità viene considerata inopportuna –

- Se per questo non conosci neanche me –

- E’ diverso –

- Lo credi davvero? –

Mi rivolse un sorriso sincero.

Contemporaneamente, dalla stanza accanto, cessò il rumore dell’acqua e sopraggiunse un improvviso silenzio.

Dovevo andarmene al più presto. Salutare. Aprire la porta e correre giù per le scale. Abbandonarmi al freddo della strada. Prendere per la stazione. Acquistare un giornale qualunque.

Per quale motivo avevo accettato l’invito di Angela? Perché non avevo trovato una scusa plausibile? Dopo dieci anni non sarebbe sembrato sconveniente. Avremmo proseguito a sentirci  durante le feste o per qualche occasione importante. Avremmo continuato a scambiarci le solite informazioni che utilizziamo per srotolare l’esistenza, puntando sui pochi momenti di vera esaltazione e tacendo le infinite frustrazioni.

Tutto sarebbe rimasto come prima.

Quando vidi gli occhi umidi di Angela mascherati di serenità ne fui atterrito.

Mi chiese - Sei ancora innamorato di lui? –

 

 

 

- Ancora con questa assurdità! -

Si era allontanato da me. Lo faceva quando gli proponevo un’ ipotetica evoluzione per il nostro rapporto.

- Possiamo trovare una soluzione. Prendiamo una casa insieme. Ci troviamo una fidanzata  -

- Non essere sciocco -  si avvicinò è mi diede un bacio, poi si alzò dal letto e si diresse verso il bagno. Ascoltai il rumore dell’acqua sul suo corpo – Sai benissimo che questa storia dovrà finire. Lo dico per il tuo bene -

Avevamo chiesto la solita camera. Il portiere non si sorprese. Erano molti i cadetti dell’accademia che sceglievano di passare in albergo la libera uscita. Lo facevano per studiare con più tranquillità, in vista degli esami di fine semestre.

- Abbiamo fatto una scelta che dobbiamo portare fino in fondo. Stiamo già correndo troppi rischi  -

Uscì dalla doccia e riapparve dopo pochi istanti con un asciugamano stretto in vita. Si sdraiò nuovamente. Era ancora bagnato. Accavallò le gambe ed incrociò le braccia.

- Senti. Io ti voglio un gran bene. Lo dico davvero. Potessero crepare i miei. Ti trovo una bella persona e ci divertiamo -

Si voltò verso di me. Attese che i nostri sguardi si incrociassero.

- Ma non possiamo raccontarci delle storie. Forse non sarà oggi. Una cosa è certa: prima o poi dovremo darci un taglio -

Continuammo a guardarci in silenzio. I suoi occhi erano fermi, inattaccabili. Non come i miei che tremavano di impotenza.

Cercò la tregua con un sorriso. Mi spettinò i capelli con una mano. Non cedetti alle sue lusinghe. Mi strinse un braccio con tutta la forza ma si trovò un muro davanti. Come un felino ruotò sopra di me, divaricando le gambe e mi afferrò saldamente i polsi. Cercai di svincolarmi senza troppo convinzione. Dal suo viso  mi caddero sul naso alcune gocce d’acqua. Mi voltai verso il cuscino per asciugarlo. Quando mi rigirai verso di lui, la sua bocca fu sulla mia.

 

 

 

- Pronto. Sono Angela -

Avevo riflettuto qualche istante sull’opportunità di rispondere alla chiamata o di lasciare che il telefono suonasse a vuoto. Ero per strada. Sul lungomare. Sufficientemente sereno per decidere di sistemare un altro tassello della storia.

- Devi scusarmi per ieri. Mi ero preparata un discorso preciso. Avrei voluto affrontarlo prima che Antonio arrivasse e non accennarne appena. Poi ho avuto modo di percepire la tua sorpresa e la conseguente sensazione di disagio. So che ci sei rimasto male -

Avevo superato la banchina dove solevano attraccare le imbarcazioni dirette a Portofino e verso le Cinque Terre. Non era la stagione. Il mare mi parve più pulito del solito. La barriera dei frangiflutti ne accoglieva la voce lamentevole.

- Non volevo ferirti ma avevo bisogno di aiuto -

Raccontò che Antonio frequentava sporadicamente un locale gay nella periferia di Firenze. Aveva trovato alcuni contatti, sparsi nella cronologia del computer. Inizialmente lui aveva negato, dandole della visionaria: come lo avrebbe potuto pensare a letto con un uomo? Poi aveva finito per ammettere, pressato dalle sue stesse incoerenze, vergognandosi per il modo grossolano con il quale si era costruito coperture inconsistenti.

Le aveva giurato che non era omosessuale. Che non si doveva preoccupare.

- Ha parlato di voi. Ha detto di quanto gli sia pesata la tua assenza. Che spesso avrebbe voluto cercarti ma che non era riuscito a trovarne il coraggio -

Mi fermai davanti al castello, sulla lingua di spiaggia invasa dalle barche. Due piccioni lasciavano le loro impronte minute. Osservai la sporcizia della battigia.

- Ho pensato che forse era possibile colmare questo bisogno. Visto che ti ritiene responsabile delle sue inclinazioni ed è convinto che la tua presenza lo aiuterebbe -

Attraversai la strada ed imbucai la via che conduce al mercato. Camminavo lentamente, fermandomi di tanto in tanto davanti alle vetrine. Acquistai un trancio di focaccia. Una coppia di tazze inglesi da collezione. L’edizione economica di un romanzo noioso.

 

 

 

- Mi verrai a trovare? -

La nostre divise passavano inosservate lungo la strada gremita. Qualche ora prima tutto era cominciato come un gioco.

- Non sarà facile. Napoli è distante. I miei avranno già programmato ogni cosa -

- Capisco -

- Comunque saranno appena una decina di giorni. Vedrai che passeranno in un istante -

- Fino a questa mattina, lo avrei creduto possibile -

Antonio si girò verso di me mostrando un’espressione sorpresa.

- Vieni, voglio farti un regalo -

Entrammo di volata nel primo negozio.   

Mi avvicinai all’albero di Natale che occupava lo spazio davanti alla vetrina. Lo osservai. L’immagine deformata del mio volto si specchiava sulla sfericità di una pallina rossa. Niente a che vedere con quello di casa mia. L’albero del negozio era troppo perfetto. Le palline rosse di varie grandezze si abbinavano a fiocchi e nastri dorati, riempiendo uniformemente lo spazio. Le luci intermittenti erano esclusivamente bianche.  Sul vertice si ergeva una grande stella cometa. Ripensai alle palline di vetro della mia infanzia. Alla loro fragilità. Ogni anno ne cadeva qualcuna. Ogni anno se ne compravano di nuove. Così il mio albero assomigliava ad una di quelle coperte patchwork. Sarebbe anche potuto sembrare sgraziato ma io conoscevo la storia di ogni decoro, avevo lungamente osservato ogni particolare, ritrovandovi il senso della vita.

Guardai l’albero rosso e oro di quel negozio, pensando che la mia esistenza non gli sarebbe mai assomigliata. Anch’io con il passare del tempo avrei perso qualche pezzo, seminandone ovunque i  frammenti. Mi sarei ricomposto di particolari stridenti che solo in pochi avrebbe saputo leggere. In parte ne ebbi paura.

- Non c’è anima, nella perfezione -   

Antonio si avvicinò puntando lo sguardo nella mia stessa direzione. La sua mano sfiorò la mia.

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