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L’omicidio di Marielle Franco risveglia la società brasiliana


Rotwang

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Camilla Desideri

Era donna, di sinistra, femminista, nera, lesbica, sociologa, consigliera comunale a Rio de Janeiro e attivista per i diritti umani. Marielle Franco aveva 38 anni e la notte tra il 14 e il 15 marzo è stata uccisa mentre rientrava nella sua casa nel Complexo do Maré, un agglomerato di favelas a Rio de Janeiro dove vivono almeno 130mila persone.

Dopo una riunione di lavoro per discutere della violenza contro le donne nere, Franco, un’assistente e Anderson Pedro Gomes, che occasionalmente lavorava per lei come autista, stavano rientrando in macchina verso la favela. Non lontano dal centro, un’auto si è affiancata alla loro e ha sparato almeno tredici colpi: quattro hanno colpito l’attivista alla testa, tre hanno raggiunto Gomes. Solo l’assistente è uscita illesa dall’attacco.

Il Brasile è tra i paesi più violenti del mondo e Rio de Janeiro non è certo un’eccezione. Di solito un singolo omicidio non fa notizia ma l’uccisione di Marielle Franco è un fatto grave che per molte ragioni ha avuto una risonanza forte non solo nel paese, ma anche all’estero. Centinaia di migliaia di brasiliani sono scesi in piazza in molte città brasiliane il giorno successivo al suo omicidio, Amnesty international ha chiesto al governo un’inchiesta adeguata, parlando di “un omicidio mirato” che ha messo in evidenza i pericoli a cui vanno incontro i difensori dei diritti umani in Brasile.

Come scrive il Guardian, la condanna espressa dalla comunità internazionale conta. Perché, se da un lato offre supporto morale a chi protesta e si batte per i diritti delle comunità più marginalizzate, dall’altro fa capire ai politici che il Brasile sarà giudicato da come gestirà l’inchiesta sulla morte di Franco e da quanto presterà ascolto ai suoi avvertimenti.

Da anni Marielle Franco denunciava le violenze e gli abusi commessi dalla polizia nelle favelas di Rio. Pochi giorni prima di essere uccisa aveva puntato il dito pubblicamente contro l’intervento del 41° battaglione della polizia militare, senz’altro il più violento della città, nella favela di Acari. Il 13 marzo, riferendosi a Matheus Melo, un giovane assistente di un parroco di una chiesa evangelica ucciso dalla polizia militare nel quartiere di Manguinhos, aveva scritto in un tweet: “Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?”.

Pochi dubitano del fatto che quello di Franco sia stato un omicidio politico: “Un’esecuzione che non ha precedenti nella storia recente del Brasile”, ha scritto la Folha de S.Paulo. Un omicidio che segna un prima e un dopo per la democrazia brasiliana, tra l’altro in un anno di elezioni presidenziali e con un presidente, Michel Temer, che gode di una bassissima popolarità e un candidato estremista e reazionario, Jair Bolsonaro, secondo nei sondaggi delle intenzioni di voto dei brasiliani. Perfino O Globo, quotidiano brasiliano di orientamento conservatore, ha espresso una posizione di ferma condanna verso l’omicidio, “un attacco alle istituzioni e alla democrazia inammissibile in uno stato di diritto”, un’uccisione che oltrepassa i confini dello stato di Rio de Janeiro e assume una dimensione nazionale.

L’omicidio dimostra che militarizzare uno Stato e mandare l’esercito nelle strade per affrontare il problema della violenza, come è stato fatto a Rio, non è una strategia che funziona. Potrebbe, per iperbole, perfino avere un effetto positivo e risvegliare dall’apatia una società che si stava abituando a considerare normale una violenza così diffusa e capillare. “Che la vita di Marielle Franco possa servire da esempio a nuove forme di resistenza”, ha scritto il giornalista Leonardo Sakamoto, “e ricordarci che, senza l’indignazione, non siamo diversi dalle bestie”.

Edited by Rotwang
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