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Porta Venezia: il quartiere gay di Milano


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La Repubblica

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Al bar Picchio di via Melzo la famiglia Scocimarro accoglierà l'ennesima generazione di ventenni o poco più dopo 47 anni di onorato servizio. Dalla Puglia in Porta Venezia, a Milano, una stirpe ancora sulla breccia dello spritz dopo quasi mezzo secolo suonato. Il telefono a gettoni e i mobili coperti di linoleum hanno addosso la storia del quartiere. "Porta Venezia fino alla fine degli anni '90 era da scappare, l'esplosione come zona gay è stata una botta, ha riportato gente di tutti gli orientamenti, movimento, ha cancellato ricordi che affondavano negli anni '80 quando qui ci si bucava e basta". Felice Scocimarro, figlio ed erede del patron Paolo, ha più o meno 40 anni e ammette tranquillo che se la zona prospera e si serve un drink dietro l'altro, molto si deve alla nuova fama dei dintorni che nel loro piccolo imitano Castro, famoso quartiere di San Francisco dove negli anni '70 prese vita il movimento per la difesa dei diritti LGBT.

Non è un caso che il Gay Pride si snodi tra le piccole traverse dell'imbocco di Buenos Aires, piantando qui - quando si svolge - le tende e le bandiere del Gay Village. Via Panfilo Castaldi, via Lecco, via Lazzaro Palazzi. Il fenomeno volendo prosegue, lambisce più in là anche piazzale Lavater, via Eustachi. Boutique, stilisti e soprattutto locali, alcuni apertamente battenti bandiera arcobaleno, altri più discretamente appartenenti al giro. E chissà se non sia stata proprio la crescita della zona in termini di presenze e attività a consigliare al sindaco Sala la candidatura di Milano come sede, nel 2020, della 37esima convention dall'International gay and lesbian travel association, 3mila associati, unica voce del turismo LGBT all'interno della World tourism organization. "Milano venduta come meta gay-friendly mi sembra anche normale oggi, ma fino a 20 anni fa non era immaginabile" prosegue Paolo. Ai tavolini del Picchio è seduta Giuliana, 26 anni, nata in Porta Venezia, psicologa. "Come è cominciato il fenomeno? Beh, lo sanno tutti, lì" dice indicando l'altro lato della strada. È qui che si trovano le vetrine del Lelephant, secondo molti il primo locale della zona a inaugurare, 25 anni, fa il nuovo corso. Classico bar dall'happy hour generoso, lo aprì - stando ai racconti - una coppia di omosessuali che dopo qualche anno lo cedette a Roberto Santini, attuale proprietario. Ancora in vacanza, dentro al locale c'è solo il barman Massimo Moruccia con un paio di clienti. "Non tutti lavorano nella moda come si dice, semmai è vero che a tutti piace dire di lavorare nella moda". Indossa una maglietta di Superman. "No, non sono gay ma certo che lo sapevo quando sono arrivato cinque anni fa che qui c'era una certa clientela e anzi confermo che in zona è stato certamente il primo, l'avanguardia". Adesso invece c'è concorrenza. "Tanta, agguerrita, arrivata in pochissimo tempo e temo che i residenti non siano contenti di tutto questo via vai".

Il vero sbarco della comunità LGBT si è consumato nel giro di poco meno di 10 anni, accelerando all'improvviso. "Forse un peso lo ha avuto il crollo della prima storica gay street, via Sammartini, affondata nel degrado più desolante, e banalmente si è cercato un posto migliore, meno oscuro, più alla luce del sole". Simone Mondorio, 38 anni, gay, è abbarbicato sui bastioni dal 2008, quando è spuntato il suo Tropical Island, baracchino diventato famoso per le serate a tema col nome di Chiringay. "Il fenomeno ha funzionato in maniera molto semplice, abbiamo iniziato a coinvolgere pr notturni e il passaparola si è diffuso rapido nella comunità. È impossibile quantificarne l'impatto sulla zona se non attraverso i locali, che ormai sono molti e infatti abbiamo un po' mollato sul versante delle serate a tema, non fanno più notizia. Ma il motore siamo comunque noi, i locali perché non è, per dire, che esistono negozi gay specializzati. Posso aggiungere che siamo anche un fenomeno immobiliare, in tanti ci siamo trasferiti in zona". Sono le 20 e in Panfilo Castaldi il Mono è pieno. Maurizo Uraldi, 50 anni, lo aprì in società con Davide Rossi nel 2006. "Non siamo più fidanzati, siamo un po' come Dolce e Gabbana ma meno litigiosi". Quando sono arrivati, la questione del gay friendly non li interessava. "Non ci pensavamo affatto, volevamo solo aprire un bar e dopo l'inaugurazione si parlava di noi soprattutto perché avevamo comprato gli arredi d'epoca tutti su eBay. Oggi è un'altra Milano ma credo che non servano strane elucubrazioni, molti dei nostri clienti sono gay perché noi siamo gay, molti nostri amici sono gay. È una comunità in fondo ristretta, non è sbagliata la definizione di tribù urbana e come in una tribù ci si muove insieme ".

Seguendo le tracce del Mono uno degli ultimi arrivati è, in via Lecco, il Leccomilano. "E rivendico in pieno il nome piccante" spiega Paolo Sassi, 33 anni. "Vengo da Caccamo, Sicilia, che qualcuno una volta ha definito la Svizzera dei mafiosi " dice ridendo. "Io ho aperto con l'idea di essere dichiarati, perché no? Se un eterosessuale cerca una ragazza sa che può andare in Corso Como, giusto? Sul perché la zona ci piace tanto ho però una teoria. Come Castro e soprattutto il Marais di Parigi, è fatta di vie strette, riparate, materne: ci si sente al sicuro. Abbiamo bisogno di sicurezza, tra tanto rumore, tra tanti dibattiti inutili, ci si dimentica spesso che siamo una minoranza, come gli eritrei che prima di noi, forse non per caso, avevano trovato casa qui". Poi Sassi saluta un amico, Gianni Macario, anche lui aprirà un locale gay friendly. "Si, il mercato va, aprirò a breve in via Varanini 5, si chiamerà Noloso". Un avamposto nel cuore di Nolo, possibile futuro lembo d'arcobaleno a nord di Loreto.

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