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Comprare etico


Rotwang

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Le aziende di abbigliamento, sia della cosiddetta “fast-fashion” che di abiti più costosi, sono spesso criticate per le condizioni di lavoro di alcune fabbriche in cui producono i capi. Molte appaltano parte della produzione ad altre società che fabbricano tessuti o indumenti in paesi dove la manodopera costa pochissimo e le condizioni di sicurezza dei lavoratori non vengono rispettate. Di questo problema si parlò a lungo dopo il crollo, nell’aprile 2013, del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh: un palazzo di nove piani con moltissimi laboratori di manifattura tessile, in cui morirono 1.129 persone. La rivista Refinery29 ha pubblicato un articolo della giornalista Alden Wicker, che cerca di capire quanto costerebbe un paio di jeans realizzato senza sfruttare o mettere in pericolo chi lo fa.

Quanto costa produrre un paio di jeans

Wicker scrive che il tessuto per produrre un paio di jeans in Bangladesh costa 4 dollari, cioè poco più di 3,5 euro. Il salario minimo per i lavoratori del settore tessile in Bangladesh è 68 dollari (61 euro) al mese e secondo la ricostruzione di Wicker, produrre un paio di jeans in Bangladesh costerebbe 4,45 dollari (circa 4 euro). A questo costo andrebbero aggiunti quelli delle zip, dei lavaggi, delle rifiniture, delle misure di sicurezza nelle fabbriche, e poi i costi di spedizione, di magazzino, le tasse e le spese per il marketing. Per questa ragione, secondo Wicker, il fatto che vengano venduti jeans a 5 dollari o poco più indica probabilmente che i lavoratori che li hanno prodotti siano stati sfruttati.

Amie Gaines, stilista di Level 99 Jeans, un’azienda americana che produce jeans, ha detto a Wicker che i jeans che costano meno di 20 dollari (cioè 18 euro) non sono stati realizzati in modo etico, a meno che il negozio non li venda in perdita.

I rischi per la salute dei lavoratori

Oltre allo sfruttamento dei lavoratori, ci sono altri modi scorretti con cui un’azienda può risparmiare sul costo dei jeans: riguardano soprattutto le tecniche di produzione. Per esempio, il 90 per cento di quelli prodotti in Cina viene colorato di blu con una tintura sintetica ricavata da catrame e agenti tossici. Greenpeace ha scoperto che nei corsi d’acqua vicini alle fabbriche di tessuto denim di Xintang (ribattezzata “la capitale mondiale dei jeans”) si trovano cinque diversi metalli pesanti, il cadmio, il cromo, il mercurio, il piombo e il rame, che sono pericolosi per la salute delle persone. Secondo una ricerca dell’Università del Vermont sui jeans di Levi’s, la tintura più economica per i jeans contiene lo zolfo ed è dannosa sia per i lavoratori che per l’ambiente.

Oltre alle tinture, anche i processi grazie ai quali alcuni modelli di jeans assumono un aspetto logoro e “vissuto” possono essere dannosi per la salute di chi se ne occupa: inalando le particelle di sabbia che servono per ottenere l’effetto da jeans invecchiati, i lavoratori possono ammalarsi di silicosi. Per questo la maggior parte delle aziende non fa uso del processo di sabbiatura dei jeans, ma ancora a marzo del 2015 Al Jazeera scriveva che il metodo era ancora utilizzato in stabilimenti che producevano jeans per American Eagle e Hollister (che però hanno smentito).

Le aziende che si impegnano a produrre jeans in modo etico

Alcune aziende si impegnano a mantenere standard di correttezza ed eticità su come producono i jeans. Project Just, un sito che ha lo scopo di informare le persone su come vengono prodotti i capi di abbigliamento, ha preso in considerazione 69 aziende che fabbricano jeans e ne ha analizzato il processo di produzione. In particolare ha cercato di capire quali sono le aziende che non usano prodotti tossici, che garantiscono condizioni di lavoro sicure ai dipendenti o a quelli degli stabilimenti con cui lavorano, che si impegnano a consumare meno acqua (per ragioni ambientali) e pagano equamente i lavoratori. Solo 4 aziende hanno passato il test di Project Just: tre sono specializzate in jeans, l’americana Kings Of Indigo, l’olandese Mud Jeans e la svedese Nudie Jeans, mentre la quarta è Patagonia, l’azienda statunitense di abbigliamento sportivo.

Levi’s si è guadagnata una menzione speciale per l’impegno di abbandonare del tutto l’impiego di sostanze chimiche dannose per la salute entro il 2020 e per avere già eliminato molti prodotti tossici. I jeans di Levi’s, così come quelli delle altre tre aziende ritenute eticamente responsabili da Project Just, costano tutti dai 100 dollari (circa 90 euro) in su. Tra le aziende che non hanno passato il test ci sono Zara, H&M e Primark, ma anche altre non di “fast-fashion” come Lee, Wrangler, American Eagle Outfitters e J Brand Jeans.

Secondo Project Just, oltre all’aspetto della sicurezza dei lavoratori, queste cinque aziende si impegnano anche a ridurre l’impatto ambientale della loro produzione industriale. Levi’s per esempio ha una linea di jeans, la collezione “Water>Less”, per cui si ottiene l’effetto “vissuto” con un litro e mezzo di acqua invece che 42 litri, come avviene di solito. Kings Of Indigo e Mud Jeans riciclano inoltre vecchie paia di jeans.

 

Comprate abbigliamento prodotto eticamente? O solo a volte perché è costoso e difficile da reperire quotidianamente? Che ne pensate?

Edited by Rotwang
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Penso che i vestiti andrebbero portati innanzitutto finche' si rompono e non cambiarli spesso perche' la moda cambia o perche' si fanno acquisti compulsivi inutili.

questo per me e' il primo livello di consumo etico, il secondo e' cercare di comprare prodotti prodotti nel rispetto dell'ambiente e dei lavoratori che li producono.

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Perdendo molto tempo collo shopping online un po' c'ho provato ad indagare sulla filiera tessile prima di fare acquisti in fatto di indumenti...è un po' un casino, e qualche volta la roba fabbricata dai bimbetti del Bangladesh ti sta molto meglio oltre che costar poco. Comunque, tendenzialmente, meno spendi più stai incentivando un sistema produttivo fortemente squilibrato se non paraschiavista.

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davydenkovic90

Lo diceva anche franca sozzani, buon'anima, che se compriamo una camicia a 3 euro, sicuramente qualcuno in bangladesh è stato sfruttato.

Tuttavia dubito che sia etico spenderne 600 per una camicia di d&g, fatta comunque in bangladesh.

Io non ho gusto, perciò tendo a spendere meno possibile in abbigliamento.

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Personalmente evito come la peste vestiti prodotti in modo etico. Per risolvere il problema della difficoltà a reperire informazioni in merito rapisco regolarmente bambini piemontesi e li rinchiudo in cantina, dove lavorano giorno e notte per produrre gli splendidi abiti che indosso.

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  • 2 weeks later...

Cerco prodotti dove sia indicato chiaramente il rispetto della dignità umana e ambientale. Se non risco, cerco prodotti fatti in EU, dove almeno gli standard non posso scendere oltre una certa soglia.

Al momento è molto difficile trovare abiti etici, è necessaria una richiesta più forte del mercato, nonché un'etichettatura per legge più accurata, che obbligi il distributore a scrivere la fabbrica di produzione.

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Io dopo aver parlato con un sidnacalista cinese della Foxconn mi sono convinto che non ci sia quasi mai un modo etico di affrontare gli acquisti.

Un bambino del Bangladesh che non lavora in fabbrica non è un bambino che andrà a scuola, ma un bambino che morirà di fame.

Per cambiare le cose servono boicottaggi mirati - come nel caso della Nike e della Del Monte - in cui informiamo con una mail le multinazionali

che le boicotteremo fino a che non aumentaranno i salari; se il profitto perso dal boicottaggio supererà quello perso dagli aumenti salariali, lo faranno.

 

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ci sono dei label fairtrade come max havelaar (svizzero) che pagano i prodotti ai produttori di più delle multinazionali e dei commercianti usuali. non usano bambini ma magari i loro genitori guadagnano a sufficienza per mantenere pure i figli.

https://www.fairtrade.net/

https://it.wikipedia.org/wiki/Commercio_equo_e_solidale

il prodotto fairtrade da noi magari costa il 10% in più di un prodotto simile, permette a chi lo produce di vivere meglio rispetto agli standard del suo paese e spesso è qualitativamente migliore.

in svizzera le due maggiori catene di supermercati offrono prodotti fairtrade e per questo è semplice comprarli senza dover ricorrere a negozi specializzati e l'offerta di questi prodotti si sta espandendo perchè molte persone li comprano.

in altri paesi come in italia sarebbe necessario che pure li i supermercati offrano pure prodotti fairtrade così che non rimangano prodotti di nicchia in negozi bio o negozi di aiuto al terzo mondo. le associazioni consumatori italiane dovrebbero far pressione sulle grandi catene di distribuzione italiane affinchè introducano o amplino questi prodotti. se li si trova al supermercato la gente li compra.

 

da wiki (link sopra):

Italia: I prodotti del commercio equo, specialmente quelli alimentari, si trovano in molte catene della grande distribuzione come Coop Italia, Crai, Auchan, Lidl, Esselunga, Conad.

Edited by marco7
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