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Elezioni presidenziali negli USA del 2016


Rotwang

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alla fine sarebbe interessante se l'america scoprisse cosa è la dittatura, dopo essere passata per l'esportatrice della democrazia in paesi come nicaragua (contras sotto regan), afganistan, iraq & co.

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I sondaggi di Ramussen hanno sempre favorito i repubblicani: nel 2012 ad esempio davano la vittoria di Romney su Obama.

Se si guarda alla media di tutti i sondaggi conduce Clinton con 6-7 punti di vantaggio.

Comunque alle elezioni generali bisogna guardare stato per stato e soprattutto considerare quelli più in bilico, i sondaggi a livello nazionale servono a poco.

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Donald Trump può vincere le elezioni?

 

Sondaggi e precedenti dicono che è difficile, ma non impossibile: può farcela in due modi.

 

La vittoria delle primarie del Partito Repubblicano statunitense da parte dell’imprenditore Donald Trump è diventata sicura mercoledì 4 maggio, quando i suoi due ultimi sfidanti – Ted Cruz e John Kasich – hanno ritirato le loro candidature, avendo accumulato ormai uno svantaggio incolmabile. La convention estiva del partito a Cleveland nominerà formalmente Trump candidato alla presidenza, aprendo così la campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali dell’8 novembre del 2016. L’imprevedibile e fragorosa ascesa di Trump è stata la più grande notizia delle primarie fin qui, e apre inevitabilmente una domanda successiva: Trump può vincere le presidenziali?

 

Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto tenere presente come si elegge il presidente degli Stati Uniti. L’8 novembre del 2016, alla chiusura dei seggi, i voti non saranno contati su base nazionale ma su base statale: in Alabama, in Ohio, in Florida, in Pennsylvania, eccetera. Ognuno di questi stati assegna un certo numero di “grandi elettori”: persone che eleggeranno concretamente il presidente dopo le elezioni, riunite in un’istituzione che si chiama “collegio elettorale”. Il numero dei “grandi elettori” assegnati da ogni stato dipende dalla sua popolazione, e quindi può variare da un’elezione all’altra. Tutti i “grandi elettori” di uno stato sono vinti in blocco dal candidato che ottiene un voto in più degli altri: vincere col 51 o col 90 per cento quindi non fa differenza, la distribuzione non è proporzionale. I “grandi elettori” sono in tutto 538, quindi per diventare presidente bisogna vincerne 270. La metà più uno.

 

Questa premessa è utile per capire perché i sondaggi che misurano la popolarità dei candidati su base nazionale possono essere indicatori dell’aria che tira ma non servono a prevedere chi vincerà le elezioni: la conta dei voti su base nazionale non ha nessun peso nell’elezione del presidente degli Stati Uniti (tanto che è successo più volte che il candidato vincente avesse ricevuto su base nazionale meno voti del candidato perdente). Per lo stesso motivo – oltre che per il fatto che mancano ancora molti mesi alle elezioni – hanno poco valore anche i sondaggi che dicono oggi “Clinton batterebbe Trump” o “Kasich batterebbe Clinton” o “Sanders batterebbe Trump”. Per capire chi vincerà le elezioni bisogna tenere d’occhio la situazione politica stato per stato, fare di conto e capire chi ha le maggiori possibilità di vincere in un numero di stati tale da raggiungere la soglia dei 270 “grandi elettori”.

 

Per quanto ogni elezione sia una storia a sé, i precedenti storici aiutano a capire un po’ di cose del campo di gioco. Questa, per capirci, è la mappa elettorale delle ultime elezioni presidenziali: quelle in cui Barack Obama ottenne la rielezione battendo nettamente Mitt Romney e vincendo 332 “grandi elettori”.

 

ElectoralCollege2012.svg_.png

 

Un altro metodo utile a capire il contesto è andare a vedere quali sono gli stati che negli ultimi anni hanno votato sempre per il candidato dello stesso partito, e quali sono quelli invece che hanno cambiato orientamento più volte: gli ultimi sono i cosiddetti “stati in bilico”, o “swing states”, o “stati viola”. Sono quelli in cui i candidati concentrano più tempo e risorse, perché alla fine risultano decisivi. Qui cominciano le cattive notizie per Trump.

 

Come ha notato il Washington Post, se Hillary Clinton dovesse vincere solo nei 19 stati che alle ultime sei elezioni presidenziali hanno sempre votato per il candidato dei Democratici, anche nelle elezioni perse del 2000 e del 2004, arriverebbe a 242 delegati. Le basterebbe a quel punto vincere in Florida per arrivare a 271 e ottenere la presidenza. Questo vuol dire che nemmeno uno scenario straordinariamente favorevole ai Repubblicani – uno che li vedrebbe vincere in Ohio, Iowa, Colorado, Nevada, New Mexico, Virginia, New Hampshire: tutti stati in bilico vinti da Obama nel 2012 – darebbe a Trump la certezza della vittoria.

 

Schermata-2016-05-05-alle-10.42.14.png

 

Le ragioni di questo squilibrio – simile a uno speculare squilibrio pro-Repubblicani che si verificò negli anni Ottanta – sono quasi esclusivamente demografiche. Basta un dato, innanzitutto, per capire di cosa parliamo: alle elezioni presidenziali del 1980 Ronald Reagan ottenne una delle vittorie più larghe della storia, e lo fece ottenendo tra le altre cose il 56 per cento dei voti tra gli elettori bianchi; nel 2012 Mitt Romney ottenne il 59 per cento dei voti tra gli elettori bianchi, e questo non gli permise di evitare una netta sconfitta. Ecco il punto: negli Stati Uniti i bianchi sono sempre di meno, e i non bianchi votano sempre di più per i Democratici.

 

La crescita numerica delle persone afroamericane e di origini latinoamericane ha cambiato la mappa elettorale degli Stati Uniti negli ultimi quindici anni. Posti come il New Mexico, il Colorado e il Nevada, per esempio, hanno votato Repubblicano per decenni; sia nel 2008 che nel 2012 però sono stati vinti da Barack Obama, anche in modo abbastanza netto. Lo stesso è avvenuto in Virginia e sta accadendo in luoghi dove il dominio dei Repubblicani non è ancora crollato ma si sta logorando, come la North Carolina o l’Arizona. Tutto questo accade anche perché nello stesso lasso di tempo il Partito Repubblicano ha adottato posizioni politiche estreme che hanno allontanato da sé questi elettori: nel 2004 George W. Bush ottenne il 44 per cento dei voti degli elettori di origini latinoamericane; nel 2012 Obama vinse in quel segmento col 71 per cento. Questo spiega perché, anche al di là di Trump, oggi la mappa elettorale americana è particolarmente dura per i candidati Repubblicani.

 

Poi c’è Trump.

 

Le posizioni politiche radicali di Donald Trump – soprattutto su temi come l’immigrazione, le armi da fuoco, le donne e la violenza – hanno amplificato questo problema, a giudicare dai sondaggi: oggi circa l’80 per cento degli elettori afroamericani o di origini latino-americane dice di avere un’opinione negativa di Trump, e lo stesso dicono il 68 per cento delle donne (anche bianche). Per questo motivo, un’elaborazione dei sondaggi attuali stato per stato realizzata dal New York Times dice che se si votasse oggi Donald Trump perderebbe, e male.

 

Schermata-2016-05-05-alle-11.15.54.png

 

Se il sostegno per Trump da qui a novembre dovesse crescere di cinque punti percentuali in ogni stato americano – impegnativo ma possibile – perderebbe comunque, anche vincendo in Ohio e Florida.

 

Schermata-2016-05-05-alle-11.17.19.png

 

Per vincere, scrive il New York Times, Donald Trump dovrebbe recuperare dieci punti percentuali in ogni stato americano.

 

Schermata-2016-05-05-alle-11.18.33.png

 

In conclusione

Questi dati non dicono che Donald Trump è sconfitto in partenza. Mancano ancora sei mesi alle elezioni presidenziali, e i sondaggi di sei mesi fa si sono rivelati in molti casi imprecisi; la campagna elettorale fra Clinton e Trump deve ancora iniziare; sia Clinton che Trump possono prendere decisioni o fare degli errori o incorrere in imprevisti che possono alterare molto le opinioni degli elettori; a un certo punto ci saranno anche tre dibattiti televisivi, con tutta l’attenzione che attraggono. E rispetto allo scenario descritto qui sopra, Trump potrebbe vincere recuperando dieci punti percentuali solo negli stati più importanti – quelli in bilico appunto – e non in tutto il paese. La facilità con cui, nonostante le previsioni avverse, Trump ha sconfitto alle primarie avversari ben più esperti e finanziati di lui dovrebbe suggerire cautela rispetto alla sua capacità di ottenere consensi e smentire i pronostici.

 

Lo studio delle mappe elettorali e dei dati suggerisce una cosa più generale: che Trump per vincere ha bisogno di recuperare consensi nelle parti dell’elettorato statunitense che oggi hanno un’opinione negativa di lui – soprattutto afroamericani e latinoamericani – oppure di portare a votare una quantità senza precedenti di elettori bianchi, pescando soprattutto tra quelli che di solito non vanno a votare, che sia grande abbastanza da sopperire al suo probabile svantaggio nei segmenti demografici più in crescita e gli permetta di vincere in stati come la Pennsylvania, l’Ohio, l’Iowa, il New Hampshire o il Wisconsin. Entrambe le cose sono difficili ma non impossibili. Nel 1980, a questo punto della campagna elettorale, il presidente uscente Jimmy Carter era dato in vantaggio su Ronald Reagan da gran parte dei sondaggi; alla fine perse di dieci punti percentuali su base nazionale.

 

http://www.ilpost.it/2016/05/05/donald-trump-vincere-elezioni/

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Perché il problema non sta nel numero di stati, ma piuttosto nella popolazione di questi.

I repubblicani hanno mediamente lo stesso numero di stati tradizionalmente sotto il loro controllo, ma questi sono mediamente meno popolosi di quelli tradizionalmente democratici.

Di senatori ce ne sono 100, 2 per stato a prescindere dalla sua popolazione: la California(39 milioni di abitanti) ha due senatori come il Sud Dakota (860 mila abitanti).

Nelle elezioni presidenziali invece il numero di grandi elettori è proporzionale alla popolazione, quindi la California ne ha molti di più rispetto al Sud Dakota.

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Perché il problema non sta nel numero di stati, ma piuttosto nella popolazione di questi.

I repubblicani hanno mediamente lo stesso numero di stati tradizionalmente sotto il loro controllo, ma questi sono mediamente meno popolosi di quelli tradizionalmente democratici.

Di senatori ce ne sono 100, 2 per stato a prescindere dalla sua popolazione: la California(39 milioni di abitanti) ha due senatori come il Sud Dakota (860 mila abitanti).

Nelle elezioni presidenziali invece il numero di grandi elettori è proporzionale alla popolazione, quindi la California ne ha molti di più rispetto al Sud Dakota.

 

La maggioranza degli stati oggi è a maggioranza repubblicana, per l'esattezza 18 sono governati dai democratici, 31 dai repubblicani e uno da un governatore indipendente (l'Alaska). Tra gli stati repubblicani ce ne sono tre molto popolosi : Texas, Florida e Michighan, tra i democratici popolosi California e New York.

 

Se il voto locale si conferma al nazionale le chance di Trump diventerebbero molto più forti.

 

320px-United_States_Governors_map.svg.pn

 

Da notare l'anomalia storica della Louisiana (feudo repubblicano da decenni) ai Democratici e del Maine (feudo democratico da altrettanto tempo) ai Repubblicani.

Edited by Fabius81
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Hinzelmann

Certo, per poter vincere senza la California e NewYork che esprimono

86 grandi elettori contro i 57 di Texas e Florida, ma anche senza Illinois

-Chicago e Michigan-Detroit i Repubblicani devono vincere almeno in Ohio

e Pennsylvania e poi in un numero cospicuo degli stati meno popolati.

 

Attualmente però Trump sarebbe dato perdente oltre che in Ohio e Pennsylvania

anche in Florida e quindi non ci sarebbe storia

 

Il discorso che il GOP per poter vincere deve ottenere il voto di una minoranza etnica

è stato risolto in maniera un po' superficiale, candidando dei Conservatori Latini, uno

Cristiano ( Ted Cruz ) ed uno moderato ( Rubio )

 

I risultati ci dicono che negli stati agrari cristiani Cruz ha abbastanza funzionato, ma

negli stati urbanizzati Rubio non ha preso un voto

 

Questo significa che il candidato latino repubblicano è stato votato dai bianchi in nome

di una ideologia religiosa disponibile a passar sopra alle origini etniche, ma non è stato

votato dai bianchi laici conservatori che gli hanno preferito Trump e non è stato votato dalla

sua gente, perchè costretto ad un programma conservatore sull'immigrazione.

 

Semplice e lineare

 

La Clinton non è latina, non è omosessuale, non è ebrea, ma dispone di una rete di associazioni

di partito che tradizionalmente curano i rapporti fra i democratici e gli interessi delle varie comunità

minoritarie, garantendo il fatto di dar rappresentanza ai loro interessi.

 

Tutto ciò il partito repubblicano non ce l'ha e il voto a Trump esprime anche una certa volontà

dell'elettorato bianco conservatore, di non volerlo avere.

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La maggioranza degli stati oggi è a maggioranza repubblicana, per l'esattezza 18 sono governati dai democratici, 31 dai repubblicani e uno da un governatore indipendente (l'Alaska). Tra gli stati repubblicani ce ne sono tre molto popolosi : Texas, Florida e Michighan, tra i democratici popolosi California e New York.

 

Se il voto locale si conferma al nazionale le chance di Trump diventerebbero molto più forti.

 

320px-United_States_Governors_map.svg.pn

 

Da notare l'anomalia storica della Louisiana (feudo repubblicano da decenni) ai Democratici e del Maine (feudo democratico da altrettanto tempo) ai Repubblicani.

Il fatto che alle elezioni di metà mandato possano prendere il controllo del Senato coloro che non ce l'avevano prima è del tutto normale e fa parte della fisiologica alternanza dei partiti come accade in qualsiasi stato democratico.

Tra l'altro era (ed è) il secondo mandato di Obama, quindi era (ed è) meno popolare rispetto al primo mandato e alle corrispettive elezioni di metà mandato delle camere.

Ovvio dunque che abbiano trionfato i repubblicani, era del tutto fisiologico.

Poi comunque mischi le elezioni dei governi locali con quelle del senato: per quelle del senato possono essere eletti anche un senatore democratico e uno repubblicano invece che due dem e due rep.

E il fatto che adesso 31 stati siano governati da repubblicani non vuol dire che quelli siano tradizionalmente repubblicani, allo stesso modo per cui in Italia dove 15 regioni sono governate dal PD e 3 da FI o Lega (Valle d'Aosta e Trentino sono governati da partiti regionali) non è indicativo del fatto che 15 regioni siano di sinistra e che la destra non se la fili nessuno, ma semplicemente significa che in questa tornata l'alternanza elettorale e la crisi della destra hanno favorito il centro-sinistra.

Poi certamente si possono individuare regioni tradizionalmente di sinistra (Emilia Romagna, Toscana, etc.) e altre di destra (Veneto, Lombardia), ma la stragrande maggioranza cambia colore politico nel tempo.

 

Questa mappa indica come hanno votato dal 1992 al 2012 negli USA i vari stati alle presidenziali.

Presidential-voting.png

Il Michigan ha sempre votato democratico, mentre la Florida tre volte dem e tre volte rep, ma, appunto come diceva l'articolo che ho riportato sopra, dal 2004 ha sempre votato dem per via soprattutto delle variazioni demografiche e dell'incremento di non bianchi.

Questo è un fenomeno che sta aumentando in tutti gli stati e che sarà sempre più sfavorevole ai repubblicani che dovrebbero quindi fare una riflessione interna.

Questo cercava di dire l'articolo: i repubblicani partono sfavoriti perché allontanano i non bianchi in aumento che già di loro tendono a votare dem.

Edited by Uncanny
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E' possibile che gli usa cambino le regole per eleggere il presidente ?

 

Un presidente di un partito che ha senato o camera in maggioranza dell'altro partito avra' difficolta' a portare avanti il suo programma politico con conseguente paralisi del paese.

Edited by marco7
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Hinzelmann

Dubito, perchè è dal 1787 che hanno questa Costituzione

e poichè li ha portati a dominare il mondo, direi che funzioni

abbastanza bene

 

L'incubo della paralisi istituzionale è solo uno spauracchio evocato

in Italia da politici, incapaci ed inconcludenti.

 

Ovviamente un discorso è se su due mandati presidenziali hai contro

le due camere per due anni, come nel caso di Obama o Reagan o Bush

altro discorso è se hai contro entrambe le camere per 6 anni su 8, come

è capitato a Bill Clinton

 

Mi si potrebbe obiettare che la Presidenza Clinton ha potuto governare

in coabitazione un paese che era in pace in un periodo economico favorevole

ma la replica sarebbe che per questo esistono le elezioni di mid-term, cioè la

possibilità degli elettori di rafforzare la Presidenza in caso di bisogno.

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L'incubo della paralisi istituzionale è solo uno spauracchio evocato

in Italia da politici, incapaci ed inconcludenti.

 

Uno spauracchio molto concreato e realizzatosi in settant'anni di democrazia repubblicana. Siamo anche il paese dei radical shit che si lamentano di tutto, hanno la verità in tasca e poi votano No a riforme di snellimento del sistema. Comunque neanche il bipolarismo fintissimo all'americana non è un monolito immutabile.

Edited by Rotwang
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Io non so come facciano gli americani a ritenere decente i passaggi di presidenza tra cognugi o tra padri e figli.

 

Per me sono una cosa indecente e ricorda solo paesi come l'argentina o dittature.

 

http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2016/05/16/hillary-clinton-se-eletta-incarico-bill_11c341df-4820-4908-98cc-4e2adf87bd7e.html

 

Se un presidente ha mandato massimo di otto anni lo fai rientrare dalla finestra in altro modo ? Mah.

 

Gia' bil clinton affido' dirante la sua presidenza la riforma sanitaria alla moglie e alla fine non fu accettata.

Edited by marco7
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Corriere della Sera

 

Pare proprio che sarà Donald Trump il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali americane: un disastro per il «suo» partito, caduto nel caos, e un disastro per gli Stati Uniti e il resto del mondo, nel caso (per fortuna improbabile) vincesse. Ma che cosa si propone di fare il candidato Trump per l’economia americana? Promette tre cose, principalmente. La prima: rinegoziare tutti i trattati internazionali di commercio, minacciando l’introduzione di tariffe proibitive contro chi non sia d’accordo con lui; aprire una guerra commerciale con la Cina ritenuta una delle cause principali delle difficoltà dell’economia Usa; un atteggiamento più aggressivo anche verso l’Europa. L’evidenza storica che il ritorno al protezionismo, che seguì il crollo finanziario del 1929, generò la Grande Depressione pare non gli interessi minimamente: il dubbio non lo sfiora neppure. Le politiche commerciali di Trump ridurrebbero la crescita non solo in America ma in tutto il mondo.

 

La seconda cosa: il suo piano fiscale sembra voler riscrivere le leggi dell’aritmetica. Trump dichiara di voler ridurre enormemente il grosso debito pubblico americano, addirittura - promise - portandolo a zero in otto anni. Ecco come: tagliando di molto le imposte, senza nel frattempo intervenire sulla spesa assistenziale. E come riuscirebbe Trump a realizzare questo miracolo? Con un aumento vertiginoso della crescita (a tassi che nessun serio economista prevede possibili anche con tagli di imposte) e con più efficienza nella gestione della spesa, ovvero pagando meno per lavori pubblici e beni pubblici. Ovviamente tutto ciò senza limitare i progetti per le infrastrutture, anzi addirittura aumentandoli. La verità è che il debito pubblico americano non scenderà senza una profonda riforma delle pensioni e dell’assistenza sanitaria completamente gratuita per gli anziani, ma di questo nei suoi discorsi non c’è traccia. In pratica Trump dice agli americani di non fidarsi né dell’aritmetica né delle leggi dell’economia: perché lui le riscriverà entrambe.

 

La terza e ultima promessa: il blocco quasi totale dell’immigrazione, grazie alla costruzione di muri e al divieto di ingresso negli Stati Uniti per i musulmani. Annuncia anche restrizioni sui visti per immigrati ad alto livello di istruzione. La rozzezza delle sue posizioni su questo tema delicato è straordinaria. Gli Stati Uniti sono diventati quello che sono grazie ai flussi migratori da ogni parte del mondo. La domanda a questo punto è: come può un candidato simile trovare tanti elettori favorevoli ai suoi programmi? Gli americani si preoccupano (forse fin troppo) per la riduzione permanente della crescita e per la stagnazione dei redditi medi. Per questo sono ansiosi di credere nei miracoli alla Trump — e dare la colpa alla Cina è un utile diversivo. Temono un debito pubblico fuori controllo ed è un’illusione potente sentirsi dire che lo si può far arretrare senza tagliare. Sono stufi degli eccessi del politicamente corretto nel dibattito pubblico e in questo senso le gaffes di Trump danno sollievo. A torto o a ragione molti criticano Obama per aver animato una politica estera indecisa e debole. E infine: Trump rappresenta l’anti politica e una insofferenza per i politici tradizionali si va diffondendo sia in Europa sia Oltreoceano.

 

Sono motivi sufficientemente validi per votare Trump? A parere di molti non vincerà le elezioni di novembre. Certo che se il partito democratico avesse scelto un candidato più popolare, più sincero e dunque affidabile di Hillary Clinton saremmo più tranquilli.

Edited by Rotwang
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La Stampa


 


Mentre Hillary Clinton fa i conti con l’emailgate e il Dipartimento di Statoil Daily Telegraph accusa Donald Trump di aver sottratto al fisco Usa 50 milioni di dollari attraverso un investimento «mascherato» da prestito. Il giornale, da tre mesi alle calcagna del miliardario newyorkese, fa riferimento a un documento che Trump ha firmato nel 2007 che, secondo il Telegraph, avrebbe permesso al tycoon di aggirare vaste passività fiscali.  


 


L’atto è emerso nel corso di un’azione legale lanciata dagli ex dipendenti di Bayrock Group, società immobiliare partner di Trump, che ha compiuto con la islandese FL Group l’accordo finito sotto accusa. Il tycoon ha posto la sua firma sulle due «versioni» del contratto, come investimento e come prestito, nonostante i dubbi su irregolarità segnalati dai consulenti legali. A New York la vendita di una partecipazione in una partnership obbliga i soggetti al pagamento di oltre il 40% in tasse del guadagno ricavato dalla vendita. Tuttavia, se l’investimento viene classificato come un prestito, non è necessario versare alcuna imposta. 


 


Secondo alcuni esperti sentiti dal Telegraph è improbabile che l’Irs, il temibile fisco americano, possa alla fine provare la responsabilità di Trump dato che l’operazione è avvenuta fra le due società coinvolte nell’affare. Lo stesso legale di uno degli ex dipendenti ha dichiarato: «Non posso ancora dire se Trump abbia una responsabilità legale. Ma come cittadino americano sono preoccupato dall’idea di essere governato da un presidente che può essere stato così negligente o forse aver volontariamente ignorato». 


Edited by Rotwang
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Attualmente spero che sanders diventi presidente (cosa improbabile alla fine) non perche' condivido le sue posizioni ma perche' e' il meno peggio ancora in gara.

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  • 2 weeks later...
 

Internazionale

 

Il 7 giugno l’ex segretaria di stato Hillary Clinton ha vinto le primarie del Partito democratico per la corsa alla Casa Bianca negli stati del New Jersey, South Dakota, California e New Mexico, mentre il suo avversario Bernie Sanders ha conquistato North Dakota e Montana.

 

Clinton ha ringraziato i suoi sostenitori per averla aiutata a raggiungere un risultato storico: diventare la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Sanders non ha ammesso la sconfitta e ha detto che continuerà la campagna fino alla convention democratica di Filadelfia. I mezzi d’informazione statunitensi avevano dato per certa la vittoria di Clinton già il 6 giugno, dopo che l’Associated Press aveva aggiornato il suo conteggio dei superdelegati, i dirigenti del partito che partecipano di diritto all’elezione del candidato. La notizia era stata duramente criticata da Sanders, che aveva accusato la stampa di dare per finita una corsa ancora aperta.

 

Clinton aveva accolto con freddezza l’annuncio dell’Associated Press, per paura che la notizia portasse molti suoi elettori a non recarsi alle urne il 7 giugno. Tre cose da tenere a mente dell’ultima fase della campagna elettorale.

 

Hillary Clinton è la prima donna a vincere le primarie di un grande partito statunitense. A questo punto è possibile affermare che il primo traguardo di Clinton è stato raggiunto: l’ex segretaria di stato sarà la prima donna candidata per la presidenza in un paese in cui le donne rappresentano più della metà degli elettori. A cento anni da quando Jeannette Rankin è stata la prima donna eletta nel Montana e a 96 anni da quando è stato concesso il diritto di voto a tutte le donne, Clinton potrebbe coronare il percorso verso la piena uguaglianza delle donne negli Stati Uniti. Il sito Politico commenta: “Con tutti i suoi difetti, Clinton non si è mai piegata, nonostante le avversità personali e politiche. Con la sua grinta ha finalmente conquistato un posto nel pantheon politico degli Stati Uniti, e non importa che succederà a novembre”.

Bernie Sanders non si ritira dalla competizione. La scelta dello sfidante di Clinton di restare in corsa fino alla convention che si terrà a fine luglio a Filadelfia ha provocato malcontento nelle file dei democratici, che si aspettavano un suo passo indietro visto che ormai non ha più nessuna possibilità di ottenere la nomination. Una rinuncia di Sanders, infatti, potrebbe rafforzare politicamente la candidatura dell’ex segretaria di stato, che così si concentrerebbe sulla sfida contro il candidato repubblicano Donald Trump. Ma Sanders ha annunciato che vuole arrivare fino in fondo e che cercherà di usare la sua influenza nel partito per chiedere una modifica del sistema di voto delle primarie.

 

Sanders critica soprattutto il ruolo dei superdelegati, i dirigenti del partito che non sono eletti nelle primarie ma che svolgono un ruolo importante nella scelta del candidato. Secondo il senatore del Vermont, il peso di questi funzionari è la dimostrazione che il procedimento è antidemocratico. Inoltre, le trattative tra la squadra di Sanders e quella di Clinton sono in una fase di stallo. Secondo Politico, Sanders sarebbe disposto a uscire di scena se Clinton accettasse di abbracciare alcune delle sue proposte politiche, come una regolamentazione più ferrea dei mercati finanziari e misure sociali più ambiziose per combattere le disuguaglianze.

Quanti repubblicani abbandoneranno Donald Trump? Il fatto che Clinton sia ancora impegnata nella competizione all’interno dello schieramento democratico rappresenta un vantaggio per Trump, che secondo alcuni sondaggi è in crescita. Tuttavia, i conflitti tra il candidato e l’establishment del partito repubblicano sono tutt’altro che sedati. Trump ha scatenato una polemica quando ha insinuato che il giudice Gonzalo Curiel – che si sta occupando di una causa civile in cui è coinvolta la Trump university – non è imparziale perché ha origini messicane.

 

Il presidente repubblicano della camera, Paul Ryan, ha definito “razziste” le parole di Trump, ma ha confermato l’appoggio al candidato. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha definito le parole di Trump “non americane”, facendo capire che ritirerà il suo appoggio alla candidatura del miliardario. C’è da capire quanti repubblicani abbandoneranno Trump quando Clinton sarà ufficialmente la candidata democratica alle presidenziali.

Edited by Rotwang
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Rai News

 

Bernie Sanders ha definitivamente archiviato la stagione della campagna elettorale per la sua nomination e ha annunciato che collaborerà con Hillary Clinton perché "il principale obiettivo politico dei prossimi cinque mesi è essere certi che Donald Trump sia sconfitto, sconfitto duramente".

 

Lo ha dichiarato il senatore del Vermont in un discorso trasmesso via Internet.

 

"Personalmente intendo lanciare il mio ruolo in questo processo in breve tempo", ha aggiunto Sanders ringraziando i suoi sostenitori e sottolineando che "le giornate elettorali vanno e vengono ma le rivoluzioni politiche e sociali che cercano di trasformare la nostra società non finiscono mai. Abbiamo dato il via a un lungo e arduo processo di trasformazione dell'America, una lotta che continuerà domani, la prossima settimana e il prossimo anno e ancora in futuro".

 

 

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  • 2 weeks later...

Forse c'entra poco, ma ha comunque forse un peso sui candidati presidenziali.

 

La Stampa

La Corte Suprema degli Stati Uniti prende posizione a favore dell’aborto, in linea con la sentenza con cui l’aveva legalizzato nel 1973, nonostante la situazione di divisione creata dalla morte del giudice Scalia. Lo fa bocciando con 5 voti contro 3 la legge approvata dal Texas, e in forme più o meno simili da una decina di altri stati, che avrebbe limitato la possibilità delle donne di interrompere la gravidanza.


Il testo in teoria si presentava come un elemento di garanzia per le pazienti, perché obbligava le cliniche dove vengono effettuati gli aborti ad avere gli stessi standard sanitari dei grandi ospedali. Secondo gli oppositori, però, in realtà l’obiettivo era imporre pratiche non necessarie, che molte strutture più piccole non avrebbero potuto rispettare. Questo avrebbe costretto parecchie cliniche a chiudere, limitando le possibilità delle donne del Texas di interrompere le gravidanze.

La Corte Suprema ha condiviso l’argomento degli oppositori della legge, sostenendo che creava un vincolo non necessario alle strutture sanitarie, che sarebbe risultato in una diminuzione del diritto di abortire. Ai quattro giudici liberal, Ginsburg, Sotomayor, Kagan e Breyer, si è aggiunto il conservatore Kennedy, che ha determinato così la maggioranza. 

Dopo la morte di Antonin Scalia, nella Corte sono rimasti solo 8 magistrati. Ciò limita molto la sua operatività perché ogni volta che si realizza un pareggio, 4 contro 4, la legge in discussione viene bloccata. Questo, ad esempio, è successo ai provvedimenti presi dal presidente Obama per proteggere diverse migliaia di immigrati dalla deportazione. Il capo della Casa Bianca ha proposto un successore di Scalia, il giudice Merrick Garland, ma la maggioranza repubblicana al Congresso non vuole discutere la sua conferma. 

Nel caso dell’aborto, però, si è ricostituita una maggioranza, perché il giudice considerato più centrista, Kennedy appunto, si è unito ai liberal. L’aborto era stato legalizzato negli Usa dalla sentenza della Corte Suprema Roe vs Wade, approvata nel 1973.

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MicroMega

 

Fulvio Scaglione

 

Disonesta e opportunista. Spietata e guerrafondaia. Con legami oscuri con l’Arabia Saudita. Un libro della giornalista americana Diana Johnstone [filo-russa che ha negato il genocidio dei bosniaci musulmani degli anni '90] offre un "documentato" controcanto alla narrazione prevalente sulla donna che potrebbe diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. In questa intervista l’autrice ci spiega perché la Clinton non è un “male minore” rispetto a Trump.

 

Quando ha cominciato a interessarsi a Hillary Clinton? E quale ritiene sia l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica? 

“A dire il vero, non ho mai trovato Hillary Clinton interessante. E’ sempre stata troppo ambiziosa, disonesta, opportunista e limitata nella sua visione del mondo per essere interessante. Ma la sua reazione all’assassinio di Mohammar Gheddafi (“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, seguito da una gran risata) ha rivelato una rara bassezza morale e una totale assenza di compassione e decenza. Con in più la volgarità di alludere a una citazione pretenziosa, senza dubbio preparata in anticipo dai suoi consiglieri per rafforzare la sua immagine di campionessa del “regime change”. E’ proprio questo l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica: l’assenza di qualunque rispetto o sentimento umano nei confronti di coloro che lei considera suoi nemici. Quelli che non le piacciono meritano semplicemente di essere eliminati. La donna che sostiene serenamente che Vladimir Putin “non ha l’anima” non può certo portare la pace nel mondo”. 

 

Molti sembrano pensare che, se Hillary arriverà alla Casa Bianca, sarà suo marito Bill, in realtà, a guidare l’amministrazione. Lei che cosa ne pensa? 

“A dispetto del loro insolito matrimonio, i Cinton hanno sempre fatto lavoro di squadra. Se lei sarà eletta, lui avrà il suo ufficio alla Casa Bianca, proprio come l’aveva lei quando era First Lady. Tra loro ci sarà una consultazione costante. Difficile però dire se sarà poi lui a guidare l’amministrazione, anche perché lei è più tenace e testarda di lui. Fu lei a spingere Bill a bombardare la Serbia. Hillary è molto impopolare e con ogni probabilità cercherà di usare Bill per le pubbliche relazioni. Il maggiore ostacolo a un “terzo mandato” di Bill è la salute: nel 2004 ha avuto un’operazione al cuore per un quadruplo by-pass, seguita da un’operazione al polmone. A 70 anni è molto meno dinamico di Bernie Sanders che di anni ne ha 74. Bill non è più in grado di assumersi responsabilità così pesanti”. 

 

Hillary Clinton e l’Arabia Saudita, una pagina molto oscura della sua carriera politica. Perché negli Usa è così difficile dire la verità sui sauditi? 
“All’epoca della crisi in Bosnia, quando l’Unione Europea avrebbe potuto trovare una soluzione di compromesso, l’amministrazione Clinton trovò conveniente schierarsi con i musulmani. In parte, questa alleanza è la continuazione della politica di Brzezynski, cominciata in Afghanistan e basata sull’idea di sfruttare gli estremisti islamici per attaccare il “ventre molle” della Russia. Aiutare i musulmani contro i serbi cristiano-ortodossi fu visto anche come un modo per compensare il tradizionale appoggio a Israele. Ma soprattutto l’alleanza con l’Arabia Saudita è considerata essenziale sia per regolare il prezzo del petrolio (strumento ora usato per indebolire la Russia) sia per finanziare il complesso militar-industriale con le gigantesche spese saudite per comprare armi americane. Hillary Clinton, con gli intensi rapporti che ha con Huma Abedin (per lunghi anni assistente personale della Clinton e figlia di dirigenti della Lega islamica mondiale) e con il denaro saudita, ha sposato questa alleanza con raro entusiasmo. Negli ultimi tempi, però, l’alleanza con l’Arabia Saudita sta subendo molti attacchi politici negli Usa, sia perché cresce il sospetto che i sauditi fossero implicati negli attentati dell’11 settembre, sia per lo sdegno causato dalle atrocità dell’Isis, che attirano anche l’attenzione sulla promozione del fanatismo islamista che l’Arabia Saudita persegue in ogni parte del mondo. Queste critiche potrebbero produrre qualche risultato politico se dovesse vincere Trump. Se vincerà Hillary, invece, non cambierà nulla”. 

 

Hillary Clinton, Samantha Power, Susan Rice, Madeleine Albright… Lei è molto critica nei confronti delle donne che hanno un ruolo importante nella politica americana. Proprio mentre si esalta come una conquista il fatto che una donna possa diventare Presidente… 

“Negli Usa la vita politica non tende a tirar fuori il meglio delle donne. Ne conosco molte che ammiro per la loro opposizione alla politica bellicista degli Usa. Ma difficilmente diventano note al grosso pubblico, ancor meno riescono a ottenere incarichi importanti. Rispetto moltissimo Cynthia McKinney, che ha perso il seggio al Congresso proprio per le sue critiche alla politica Usa in Medio Oriente. Applaudo l’azione di Tulsi Gabbard, anche lei membro del Congresso, che ha fatto il servizio militare in un’unità medica durante la guerra in Iraq e ha rotto con i Clinton proprio per la sua opposizione alle guerre basate sul regime change. In breve, ammiro molto più le donne che affrontano le sconfitte di quelle che sono circondate dall’aureola del successo”. 

Ma le donne americane, alla fine, voteranno per Hillary? 
“È una questione generazionale. Le donne anziane sono le sue più entusiaste sostenitrici, e spesso l’unica ragione che riescono ad addurre è proprio che è una donna. La maggioranza delle donne giovani alle primarie ha votato per Bernie Sanders. Anzi: le donne giovani erano la prima linea della campagna di Bernie. Certo, i commenti di Trump sulle donne sembrano rivelare l’intenzione di scatenare una guerra tra i sessi. Sta facendo di tutto per esser sicuro che il voto delle donne vada a Hillary”. 

Molti, anche in Italia, pensano che in ogni modo Hillary sarà un “male minore” rispetto a Trump. 
“Questa campagna presidenziale potrebbe rivelarsi un caso unico nel mettere una contro l’altra le due persone più detestate del Paese. Per molti votanti sarà difficile scegliere il “male minore”. Agli europei piace di più Hillary perché i media si sono dati molto da fare nel dipingerla come il candidato ragionevole e civilizzato in opposizione al pazzo scatenato Trump. Lui, in ogni caso, dice di voler trovare un accordo con la Russia, il che segna un punto a suo favore. Gli europei non dovrebbero preoccuparsi di chi vincerà le elezioni ma piuttosto di che cosa significhi per il mondo la leadership degli Usa. Questo è il vero tema del mio libro. Gli europei devono smettere di raccontarsi favole sull’America e riconoscere il pericolo che rappresenta per l’Europa”. 

Lei davvero pensa che Hillary Clinton potrebbe scatenare una terza guerra mondiale? 
“È inimmaginabile che qualcuno, persino Hillary Clinton, possa volontariamente scatenare una terza guerra mondiale. Eppure il New York Times ci ha raccontato che 51 funzionari del Dipartimento di Stato hanno firmato un memorandum interno criticando il presidente Obama per non aver lanciato attacchi militari contro Bashar al-Assad in Siria, anche al rischio di aumentare le tensioni con la Russia. Gli interventisti liberal e i neocon che si sono impadroniti della politica estera americana non avrebbero problemi a spingere Hillary Clinton verso una maggiore aggressività. Anzi, è proprio ciò che lei vuole. Gli Stati Uniti stanno forzando la Nato a mettere pressione militare sulla Russia e nello stesso tempo rischiano il conflitto con la Russia in Medio Oriente. Stanno creando una situazione paragonabile a quella che portò alla Prima Guerra Mondiale: basta un singolo incidente per far saltare tutto. Hillary Clinton è particolarmente pericolosa perché non dubita mai del fatto che gli Stati Uniti prevarranno se solo mostrano abbastanza “determinazione”. E che cosa hanno fatto gli alleati europei per impedire il disastro? Finora nulla”. 

Edited by Rotwang
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Hinzelmann

E' vero che i Russi sperano in una vittoria di Trump

 

Anche se nessuno sa di preciso cosa aspettarsi da Trump

in politica estera e gli accenti elettorali anti islamici non è detto

si traducano in un cambio effettivo di politica, i Russi sanno

benissimo ciò che li attende con Hillary Clinton: il peggio, essendo

la Clinton il "falco" dell'amministrazione Obama

 

Ovviamente i Russi tendono a mettere insieme la politica "aggressiva"

degli USA nei Balcani degli anni '90 ( di Bill Clinton ) con quella di Hillary

in Medio Oriente ( Siria e Libia ) durante il suo mandato agli esteri, durante

la presidenza Obama e ne tirano fuori un giudizio che dal negativo, vira al

"pessimo"

 

Non è che si fidino delle aperture di Trump, è che odiano i Clinton

 

Dal nostro punto di vista la questione Yugoslava fu un po' diversa, da come

i Russi la interpretano a posteriori, tuttavia è indiscutibile che la Clinton è stata

la longa manus del Pentagono alla Casa Bianca e che il Pentagono da 16 anni

minimo, tende a sbagliare quasi ogni scelta di politica estera.

 

Questo -teoricamente- dovrebbe preoccupare pure noi

 

E' vero anche che chiunque vinca le presidenziali americane, sarà

la vittoria del candidato meno odiato

 

La candidatura della Clinton è debole, tra un po' dopo aver fatto vincere

il primo candidato afroamericano, riusciva nella missione impossibile di far

prevalere addirittura un "socialdemocratico" e se ci riusciva sarebbe stata una

debacle senza precedenti nella storia elettorale delle primarie americane.

 

Ora va però allo scontro contro un altro candidato che suscita reazioni simili

pur se per ragioni diverse, si misurano due cinismi di pasta diversa: l'affarista

senza scrupoli di New York e la politicante disposta a tutto pur di vincere.

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  • 2 weeks later...
VICE News

 

Quando risponde alla videochiamata dal suo appartamento newyorkese, Leonardo Zangani sembra avere avere allestito una scenografia.

 

Alle sue spalle, in un angolo della stanza, un monitor da 40 pollici trasmette Fox News—in primo piano il volto di Donald Trump durante un comizio, mentre annuncia la short list dei suoi possibili vice in caso di vittoria alle elezioni presidenziali del prossimo autunno.

 

Zangani è un imprenditore italiano residente a New York da circa tre decenni: pochi mesi fa, l'uomo ha deciso di fondare di Italians For Trump President, un sito "d'informazione e discussione" sulle politiche di Trump con l'obiettivo, come spiega lui stesso a VICE News Italia, di "sensibilizzare gli italiani, ai quali la stampa italiana continua a dare cattiva informazione" e a "manipolare le notizie."

 

Il sito - il cui layout andrebbe un po' rivisto, diciamo - offre una serie di approfondimenti e link sui temi centrali della campagna elettorale di Trump: il muro tra America e Messico, l'immigrazione, la riforma della salute, i trattati commerciali con la Cina e via dicendo. Per chi volesse "unirsi" all'iniziativa, c'è la possibilità di iscriversi a una mailing list. "Chi viene sul mio sito non è per forza di destra," spiega Zangani. "È un mix, proprio come gli elettori di Trump."

 

Ma Italians for Trump President non è l'unica iniziativa italiana 'dal basso' a sostegno di Donald Trump.

 

Dal nome simile, Italians4Trump è una costituenda associazione presieduta da Gianmario Ferramonti—che la sua pagina Wikipedia definisce "politico italiano e talent-scout tecnologico" e che le ultime notizie danno come Segretario nazionale del Partito delle Aziende.

 

Italians4Trump vanta, stando almeno alle dichiarazioni dello stesso Ferramonti in questo breve video di presentazione dell'iniziativa, "tantissimi aderenti" e "una presenza su tutto il territorio nazionale."

 

L'associazione, a detta del suo iniziatore, avrebbe obiettivi ambiziosi: portare Trump a Roma "ai primi di settembre," in seguito a una possibile visita - di cui non si ha però ancora traccia, almeno a livello ufficiale - dello stesso Trump al Parlamento Europeo.

 

Ci sono poi iniziative meno strutturate, che prendono vita attraverso piccole community Facebook come Italians for Trumps, Italians for president Trump, Italiani per Donald Trump, Italiani per Trump presidente, Italy for Donald Trump, Italy for Donald Trump 2016.

 

Un microcosmo di pagine e gruppi - la maggior parte dei quali non particolarmente attivi - che racchiude in totale poche centinaia di iscritti, e i cui post, più che strettamente elettorali, sono di tenore più casereccio.

 

A sentire Zangani, gli italiani dovrebbero guardare a Trump come a un modello politico."Donald Trump rappresenta la rivolta del cittadino contro un sistema che non sta funzionando. È una nuova presa della Bastiglia non violenta da parte del cittadino, che si è stancato della partitocrazia," dice a VICE News.

 

"I politici, incluso Matteo Renzi," prosegue Zangani, "sono distaccati dalla realtà, vivono in una bolla artificiale. Trump no. Trump parla alla gente. Trump è stato eletto dal popolo, contro la volontà del partito. Prende i voti delle tute blu, non quelli delle élite."

 

Chi sono i Trumpisti italiani

 

Zangani e Ferramenti non sono certo gli unici italiani a stravedere per Trump; il candidato repubblicano in pectore alle presidenziali americane di Novembre attrae diverse simpatie nella scena politica italiana, quasi esclusivamente a destra.

 

Estimatore di Trump della prima ora è ad esempio Antonio Razzi, Senatore di Forza Italia, che a maggio diceva: "Io sostengo Trump: lo considero il Berlusconi americano" e poche settimane fa invitava il magnate in Abruzzo insieme al leader nord coreano Kim Jong-un con l'intento, "davanti a degli arrosticini," di far siglare loro "una pace duratura."

 

Tra i primissimi tesserati del - fortunatamente inesistente - Partito Trumpista Italiano c'è anche Daniela Santanché, che a Tommaso Labate del Corriere della Serarispondeva: "Dice che il centrodestra italiano è prudente su Trump, che non lo vorrebbe alla Casa Bianca? Problemi loro, non miei. Io tifo per Donald."

 

Santanché, oggi eletta alla Camera con Forza Italia, racconta anche di una sua presunta "amicizia" con Trump, risalente ai primi anni Novanta. A riprova, una fotografia che li ritrae insieme, pubblicata dal quotidiano milanese.

 

"L' America e il mondo hanno bisogno di Trump. Questo è il momento dell' identità, dei confini, dell'esclusione, mica dell'inclusione da panico... Io guardo all' amico Donald, al sindaco di Londra Boris Johnson, al premier olandese. A gente che ha una strategia, non a piccoli politicanti che moriranno di tattica," spiegava Santanché qualche tempo fa, quando ancora Johnson sembrava un candidato plausibile per guidare un nuovo corso conservatore nel Regno Unito.

 

Il più famoso tra i sostenitori del miliardario newyorkese è però sicuramente il leader leghista Matteo Salvini che, esprimendosi in diretta a Corriere Live sulle prossime elezioni americane, diceva: "Rigore, politiche di sicurezza e strategie di rilancio economico mi fanno dire Trump."

 

In generale, com'è ovvio, gli endorsement italiani per Trump arrivano da destra—anche quella più estrema. Tra i fan c'è infatti il vicesegretario per le Isole di Fascismo e Libertà, Andrea Chessa: "Se proprio devo simpatizzare per qualcuno, allora mi auguro che vinca Donald Trump. Il personaggio ha portato, a suo modo, una ventata di politicamente scorretto e di 'ignoranza' nel panorama politico americano. E non è poco," scriveva in un intervento sul sito dell'associazione politica.

 

Edoardo Anghinelli, segretario dell'Osservatorio Nazionale Per La Sicurezza dei Cittadini Italiani, a marzo paventava addirittura la creazione di un movimento Trumpista italiano: "Una figura carismatica come Trump potrebbe ispirare un movimento politico in Italia, magari riunendo le moltitudini di liste civiche di centrodestra," e annunciava la partenza di una serie di "aperitivi" con "i sostenitori italiani ed italo americani di Trump."

 

Italy odi et amo

 

Ma qual è il rapporto di Trump con l'Italia? Le relazioni tra l'affarista newyorchese e il nostro paese sono ondivaghe: a volte dice di adorarci, a volte sembra detestarci—per Trump città e paesi sono rilevanti soprattutto in quanto idee di business, o come pretesti per battaglie dialettiche quasi sempre sopra le righe.

 

Come avvenne nel 2011, quando via Twitter auspicò, in caso di mancata liberazione di Amanda Knox, la giovane accusata di avere preso parte all'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che "tutti boicottassero l'Italia." La Corte di Cassazione scagionò Knox, e alla fine gli auspici di Trump restarono tali (ma lo sarebbero rimasti comunque).

 

Qualche mese fa, rispondendo a una domanda di Mario Blatero de Il Sole-24 Ore sulla sua percezione di Berlusconi, le sue parole furono molto più dolci: "Mi piace. Mi piace. È una brava persona. Mi piace anche l'Italia. Auguro il meglio a tutti gli italiani," diceva il candidato repubblicano alla Casa Bianca.

 

Un'affettuosa pacca sulla spalla che Berlusconi non sembra tuttavia intenzionato a ricambiare: l'ex primo ministro ha più volte schivato gli innumerevoli paragoni proposti tra lui e il candidato repubblicano pubblicati dalla stampa internazionale: "Trump mi sembra più un incrocio tra Salvini e Grillo," ha detto a Radio Radio, rifiutando esplicitamente la comparazione col magnate newyorkese.

 

E cosa pensa Trump di Matteo Renzi? Lo scorso 25 giugno, dal resort scozzese di Balmeide che ha costruito per onorare il ricordo della madre scatenando proteste tra i residenti locali, Trump non ha usato mezze parole contro il premier italiano, che ha appoggiato pubblicamente Hillary Clinton.

 

"Non lo conosco neppure, non mi importa. È irrilevante," ha detto Trump ai giornalisti presenti. "L'unica cosa importante è avere l'appoggio del popolo americano."

 

Salvini chi?

 

Trump non conoscerà Renzi di persona, ma ha senz'altro incontrato un'altra figura di spicco della politica italiana: Matteo Salvini. Il quale, come dicevamo prima, è il più celebre dei 'Trumpisti' italiani.

 

L'incontro è avvenuto lo scorso 25 aprile vicino a Filadelfia, come testimoniato da questa fotografia pubblicata su Twitter dallo stesso Salvini:

Un saluto dagli Stati Uniti, amici! Go, Donald, GO!#trump2016#MakeAmericaGreatAgain @realDonaldTrump

 

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, nel corso del breve incontro informale Trump avrebbe addirittura rilasciato un endorsement pubblico di Salvini: "Matteo, I wish you become the next Italian premier soon," sarebbero state le parole di Trump.

 

Ma l'incostanza emotiva di Trump si manifesta anche in questa occasione: passa poco più di un mese e Trump, in un'intervista a The Hollywood Reporter, nega l'avvenimento.

 

"Non volevo incontrarlo," spiega al giornalista Michael Wolff, che poi riassume così la chiacchierata con il magnate: "In sintesi, [Trump] non vede somiglianze particolari - o al meno non è interessato ad esse - tra i movimenti [xenofobi europei] e il nazionalismo anti-immigranti che sta promuovendo in questo paese."

 

Salvini reagisce dicendo che le dichiarazioni di Trump lo fanno "molto ridere,"spiegando a Repubblica di essere in possesso di "dozzine di mail" di preparazione all'incontro avvenuto in Pennsylvania, e di "non essere salito sull'aereo con cappellino e bandierina."

 

Quelle email, tuttavia, non vengono mai rese pubbliche per ragioni di privacy e confidenzialità, se non a spezzoni, e nemmeno un documento ufficiale appartenente alla lobby politica italo-americana che avrebbe fatto da tramite tra la Lega Nord e Donald Trump contribuisce a fare chiarezza sulla vicenda dell'incontro—che, a conti fatti, sembra essere stato più simile a un 'meet and greet' tra una rockstar e un fan, che a un reale summit politico.

 

A discapito delle incomprensioni e delle diatribe dialettiche, comunque, Salvini è stato uno dei primissimi estimatori italiani del Trump 'politico', e ancora adesso ammette di "tifare per lui."

 

Nonostante ripetute richieste di commento sulla vicenda inoltrate da VICE News, Salvini non ha voluto rispondere alle nostre domande.

"Non c'è un Trump italiano, oggi," spiega comunque Zangani, che anche da New York osserva la politica italiana con costanza. "Come idea Salvini andrebbe anche bene, ma ha bisogno di un po' di clean-up [ride]."

 

La cosa più simile a Trump che l'Italia abbia mai visto, dice Zangani, "è il Berlusconi del '94. Un uomo che si è fatto da solo e che ha avuto alti e bassi, come succede a tutti."

 

Intanto, dal giugno 2015, quando annunciò la sua candidatura tra l'ironia generale, Trump ha fatto molta strada. Dopo avere sconfitto uno a uno tutti i rivali per la corsa alla candidatura repubblicana, si attende solo la convention per avere l'ufficialità della sua nomina.

A novembre, Trump se la vedrà con Hillary Clinton, che proprio ieri ha incassato il supporto del rivale Bernie Sanders.

 

Ad aprile, un sondaggio di Swg ha trovato che il 53 per cento degli italiani temerebbe un'eventuale elezione di Trump, bollando le sue idee come "estreme" e ritenendo "pericoloso" averlo come presidente.

 

Il fondatore di Italians for Trump President, tuttavia, sembra meno pessimista: "Non vedo una deriva autoritaria di Trump. Trump è un democratico."

 

Parole che sembrano riecheggiare quelle di Flavio Briatore, che qualcuno aveva persino definito il Trump italiano—e non solo per avere condotto la versione italiana di The Apprentice, il reality show sugli affari che in America ha visto la partecipazione di Trump per 11 stagioni.

 

"Donald non è un fascista," aveva detto Briatore. "Anzi, è una delle persone più democratiche che io conosca. Ha un dono. Sa che cosa vuol sentirsi dire la gente in un determinato momento. E lo dice. È un incrocio perfetto tra Silvio Berlusconi e Beppe Grillo."

Edited by Rotwang
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