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JiaddGrow - Il sospiro del Drago (Romanzo Fantasy)


Silverselfer

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Silverselfer

Esiste già un canovaccio con questo titolo che postati tempo addietro, nella cui prefazione spiegavo i perché e per come mi apprestavo a cimentarmi con un tipo di letteratura a me alieno. 

 

L'esperimento non fu del tutto negativo, ma non avevo capito che la narrativa fantasy è molto tradizionale. Soprattutto ha bisogno di tempo per evolversi, tant'è che non ho trovato un romanzo fantasy degno di tale titolo che stia sotto le cinquecento pagine.

 

Ho notato che i romanzi migliori sono quelli che si fondano su descrizioni minuziose del mondo in cui si ambientano le storie. Ho quindi disegnato una mappa, ma a quel punto, guardandola, mi sono sorte tante domande sul come erano nate quelle città turrite, chi erano e da dove arrivavano i loro abitanti eccetera ...

 

Alla fine ho capito come Tolkien arrivò a descrivere gli alberi genealogici  delle famiglie Hobbit ... Scrivendo un romanzo fantasy s'incorre nel rischio di diventare il Deus ex machina di ogni storia ed io non devo mai arbitrariamente cambiare le regole del mio mondo. Devo sempre domandarmi quali sono le cause che hanno scatenato determinati eventi e non posso inventarmeli tanto per necessità di fabula e intreccio. Un esercizio questo che ti spinge sempre più indietro ad elaborare con sempre maggiore minuziosità i fatti, delineando una complessità simile al mondo reale.

 

Ora mi ritrovo con tanto di quel materiale, che il problema è riordinarlo in una struttura narrativa. Il pericolo è quello di scrivere, invece di un romanzo, un libro di Storia totalmente inventato. Di Storia ma anche di Sociologia perché mi sono domandato: come sarebbe un mondo fantasy in cui un cavaliere ami un altro cavaliere? Ma in realtà sono andato oltre anche a questo e se mi mettessi a spiegare i retroscena dei miei ragionamenti, ci vorrebbe una altro libro.

 

Vorrei solo spiegare che i miei giganti non sono neanche lontanamente parenti ai giganti di tradizione nordica e men che mai somigliano a dei troll. Io non m'ispiro alla tradizione delle saghe scandinave o alla storia medievale anglosassone. Qui non ci troverete l'inverno che incombe con la sua lunga notte artica o temibili invasioni che ricalcano il trauma della sconfitta contro i sassoni e, tanto meno, ci si ritrova con le tematiche legate alla fine degli antichi dei a favore prima della dominazione Romana e poi del monoteismo. 

 

Io non sono celtico, io sono mediterraneo e la mia cultura è greco-latina. Sono italiano e il mio medioevo è i miei castelli sono città dentro delle mura fortificate. I miei elfi o orchi o nani, hanno altri nomi come quelli dei fauni, delle ninfee, le muse, le parche eccetera ... il problema è che la nostra letteratura fantasy si studia al liceo classico! Francamente non me la sono sentita di misurarmi con autori che hanno sviscerato già ogni aspetto di quei personaggi epici. Sarei finito come quegli autori di musica classica moderni che si ritrovano a suonare New Age. 

 

Ho quindi deciso di spingermi oltre per recuperare un poco di oblio in cui far brillare la fiammella della mia fantasia. Scartabellando non mi è stato difficile trovare un minimo comune denominatore nel passato delle varie mitologie mediterranee: I Giganti. Esistono nell'antico Egitto, nella tradizione israelita di radice persiana, ma anche nell'era classica con i Titani. In particolar modo sono rimasto affascinato dai giganti della nostra meravigliosa Sardegna. Sono i più misteriosi e in particolar modo ho visto un documentario in cui si ricostruiva la teoria di un'Atlantide Sarda di età nuragica ... ci sarebbero persino delle tracce geologiche di un imponente tsunami simile a quello descritto nel mito di Platone.

 

Io non ero certo alla ricerca di Atlantide, mi è servito solo per associare la figura del gigante sardo ad una civiltà evoluta non propriamente umana. Sempre secondo quella teoria dell'Atlantide sarda, i superstiti di quel cataclisma sarebbero approdati sulle coste toscane e laziali, dando origine ad un'altra civiltà tanto evoluta quanto misteriosa, qual è quella etrusca che, a sua volta, plasmò la società romana e l'impero che ne venne e che ancora oggi non conosce pari. 

 

Io seguo questo evolversi per descrivere la radice del mito dei miei giganti che, ovviamente, non hanno nulla di reale, seppur intrisi della nostra storia d'Italiani. Sicuramente gioca anche molto la mia formazione culturale assai composita di mezzo sangue e, non ultimo, bisessuale irredento. Vedremo che ne verrà fuori perché se anch'io non rimetto ordine nel materiale scritto, temo che non sarò in grado di scoprilo. 

 

In un'ultima analisi prettamente letteraria, quello che mi accingo a scrivere non è propriamente "il romanzo", quanto più il prequel ... tipo quelli di Star Wars che raccontano come si giungerà alla guerra e al conflitto tra luce e tenebra. Sono conscio che a me mancano i personaggi da ricostruire, in compenso se ne incontrano tanti e alcuni sono molto affascinanti, tanto che trattarli attraverso un tempo storico mi costa moltissima pena, purtroppo però se mi soffermo su ognuno non arriverò mai al progetto appena abbozzato in quel vecchio canovaccio. Tra l'altro lo so che questo sarà un romanzo incompiuto ... non riuscirò mai a completarlo, morirò sicuramente prima ... questa consapevolezza mette addosso anche una strana ansia ... come se in qualche modo, iniziando a scrivere mi ritrovi qualcosa che avrò vicino anche in quel funesto momento ... lontanissimo momento!

 

Bando alle ciance ... inizierò editando la copertina del Libro Primo della mia saga dello JiaddGrow e ai posteri l'ardua sentenza ...

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Silverselfer

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Il Regno Antico

 

 

Libro Primo

 

 

Dalle "Geografie" di Apolitano da Palendrina

 

Codesto Regno nacque insieme a una terra che dallo cielo sulle alte vette colle punte d'avorio strapiomba nello generoso mare dolce come lo miele. Tante storie scorrono da ponente, ove l'arido deserto roccioso dello Desh scroscia punto tra li granai dell'antica Mogul, a proseguire sinuose per favellar di sé tra le verdi Aleusine collo fiume vermiglio dello sangue di Teos. Lumia Pestum zampilla dalla pietra rossa dello Desh a benedire la fertile pianura dell'antico Bush, ove oggi conosciamo la Dacia, madre della nostra civiltà cara alla cuspide di Apos, giustamente detta "Era dei Giganti"

 

 

Il primo Regno di Gelsa

 

 

Quello che va sotto il nome di Antico Regno inizia con la fondazione della città di Gelsa. Prima di allora le tribù dei giganti erano nomadi e sappiamo pochissimo sulle loro misteriose origini. Solo dopo l'edificazione del Tempio della Memoria a Gelsa, la società dei giganti seppe coagularsi intorno a un fulcro culturale comune.

 

Estratti da' "L'illuminato Cammino" del sussidiario ginnasiale del maestro Paride Esculapio da Genesta.

 

 

… in Terra Santa giunsero le tre tribù capostipiti della nostra razza - Parsi, Parridi e Zenosti. Le stirpi parridi, sedotte dal richiamo di Amir, ripresero il mare e degli Zenosti nessuno seppe più nulla quando imboccarono la via mai battuta oltre le grandi montagne dello JiaddGrow … I Suddacei fondarono la città sacra di Gelsa tra le pendici del vulcano Etios … (Essi) erano noti come "I figli del fuoco" per la loro tradizionale perizia nel forgiare i metalli nelle fucine dei vulcani.

 

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Le tre stirpi parse si stanziarono lungo la valle formata dal corso del fiume Pestum. A ovest s'insediarono gli Uttini di stirpe falesia, là dove il fiume giunge dall'altopiano del Desh e la sua acqua è ricca del fertile limo rosso tipico di quelle rocce brulle. Le spettacolari rapide del fiume s'inabissavano in una palude che i sei casati degli Uttini seppero drenare e rendere fertile, facendola diventare il granaio del futuro regno di Gelsa. 

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Fu per proteggersi dalle frequenti incursioni degli Ittaki, un popolo rapace che abitava tra i torridi calanchi del Desh, che gli Uttini chiamarono i loro fratelli Morri, i cui due casati erano tradizionalmente cavalieri di ventura. 

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I Morri e gli Uttini fondarono la città fortezza di Mogul su uno sperone di roccia di rimpetto all'altopiano del Desh, come ultimo avamposto dei giganti oltre i propri confini. La storia della città fu così importante da segnare le sorti del primo regno di Gelsa.

 

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Il terzo clan di stirpe falesia, i Gaddei, lasciò le fertili terre alle pendici delle rapide del fiume, proprio a seguito dei continui saccheggi delle orde ittake. Preferirono spostarsi a est e popolare le tranquille valli che il fiume formava attraversando i Colli Aleusini. 

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Se i casati degli Uttini erano maestri nei contadi e parimenti nelle armi lo erano i loro fratelli Morri, i Gaddei facevano della finanza il proprio mestiere. Abili commercianti, sapevano tener di conto e allestire banchi per tradurre i prodotti in conio, per poi trasferirlo in numeri da gestire in accumuli di ricchezza.

 

I Gaddei non fondavano città, preferendo per lo più abitare in quelle degli altri. Là dove non ne trovavano già edificate, costruivano rocche ove concentrare gli scambi commerciali. Questo è quello che accadde tra i Colli Aleusini, stanziandosi tra i cugini di stirpe Cablatea. 

 

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I due clan cablatei: Lammidi e Falledi erano molto diversi dai cugini di stirpe falesia, capaci di grandissimo ingegno nelle arti che dominavano.

I casati falledi erano per lo più dediti alla pastorizia e coltivavano quel poco che serviva alla propria sussistenza. 

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Le rocche in cui vivevano erano già di proprietà dei cugini Gaddei, che le usavano principalmente per il commercio del bestiame con i casati Lammidi, i quali non persero mai la vocazione al nomadismo, proprio alle più antiche tribù dei giganti. Essi erano soliti spostarsi continuamente tra i ricchi pascoli dei Colli Aleusini, salve quando si recavano nelle fiere di bestiame allestite nelle rocche dei cugini Gaddei.

 

I Lammidi erano vaccari, ma soprattutto sapevano selezionare, allevare e addestrare le migliori razze di cavalli, da cui dipendeva tutta l'arte dei cavalieri. Un loro puro sangue poteva valere una vera fortuna.

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Furono Suddacei e Tommacei, due clan di stirpe Annica, il fulcro intorno cui si formò il primo regno di Gelsa. In particolare i suddacei erano noti per saper forgiare leghe di metalli direttamente nelle caldere dei vulcani. Si narra di suddacei in grado di sfiorare la lava senza rimanerne bruciati. Una dote che nella teosofia dei giganti rasentava la santità, in quanto era nella roccia fusa che risedeva l'Inn divino di Hat, che un giorno avrebbe elevato i giganti allo stadio di titani in grado di tenere una delle cuspide infuocate del sole.

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I sei casati annici si stanziarono sul grande vulcano Etios e vi forgiarono le spade che servirono ai falesi per cacciare le popolazioni ittake entro i confini del Desh. Gli ittaki infestavano ogni palmo di terra del Bush e quella fu una lunga guerra che fruttò ai clan annici ricchezze immense.

Il primo agglomerato urbano di Gelsa era poco più di una delle tante rocche che i Gaddei usavano edificare per gestire i propri commerci. L'afflusso di ricchezza ne fece presto una città, in cui germinò la cultura.

 

L'Esoterismo ispirato dall'Inn della roccia fusa aveva sempre alimentato liturgie che la convivenza con un vulcano rendeva indispensabili. Erano i Tommacei a occuparsi del culto e furono loro a elaborare il pantheon delle divinità, concependo così una visione unica del passato comune e proiettandola verso il futuro della loro razza. 

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Fu proprio l'esigenza di sublimare l'incertezza del futuro che spinse i casati annici a spendere le loro ricchezze nella ricerca di risposte al mistero del caos cosmico.

 

Etios prende il nome dal vulcano più alto del sommo Dio Hat, il sole che attraverso il suo Inn e il suo Mag permea la vita nell'Universo. Da Etios scaturisce la cuspide sorretta dal titano Apos, ossia il raggio di sole che scalda il cuore di Teos (la Terra). La roccia fusa che sgorga da Etios proviene direttamente da una vena del cuore di Teos, ricca del più sincero Inn proprio alla divinità. Furono questi i presupposti su cui Gelsa fu edificata per divenire la città sacra a tutte le tribù dei giganti. 

 

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Gelsa sorge sul monte Ur e dalle sue mura si dominano a ovest i Colli Aleusini, ove scorre il fiume Pestum, fin a scorgere l'altopiano roccioso del Desh; mentre sulla linea dell'orizzonte di sud-est è possibile seguire il fiume fino a quando si getta nel Mare Nostrum.

Nel centro della città si erge l'imponente Tempio della Memoria, cresciuto di piano in piano per contenere le tavole di pietra fredda su cui i patriarchi dettarono agli scribi il pensiero e le gesta della gloriosa civiltà dei Giganti. La storia da allora si divise in prima della costruzione del tempio - Verbum Venti, e dopo - Verbi Lapis.

 

Estratto dalla "Tavola di Verecondia" del Patriarca Samuele

 

La regola verbum venti è figlia della parola partorita dal fiato di ognuno che la pronunciò. La sola parola mai nata sta nella legge scritta ricevuta in eredità in verbi lapis. Essa è sacra perché appartiene a tutti e sarà pronunciata senza fallo dai custodi del Tempio, luogo preposto a serbarla dal fiato di bocche profane, causa della stortura portatrice di disgrazia.

 

Ispirata dalla matriarca tommacea Sharsa, si formò una Lega Federata tra tutti i casati parsi che a seguito dei generali Morri riuscì definitivamente a cacciare gli ittaki oltre l'avamposto di Mogul.

 

Dall'enunciazione della Lega Federata della matriarca Shara

 

Non c'è oncia del grasso della Terra Santa che non sia nato per sfamare il cavaliere gigante e il suo braccio a brandire la spada forgiata nelle fucine di Etios contro il maligno ittako. E' la giustizia del nostro destino a proferire la legge cui ogni creatura deve inchinarsi. Le sette stirpi della dinastia Parsa oggi sono chiamate a gettare la pietra quadrangolare della casa di tutte le tribù. Ebbene io vi dico che è scritto nel verbo lapis inciso nella carne dei nostri figli, essi saranno le colonne su cui si ergerà il Tempio della Memoria del domani e voi ne siete chiamati a testimoniare la gloria. Essa solo vi darà l'eternità fino al giorno dell'avvento dei Titani.

 

I cavalieri di ogni clan riuniti nel salone centrale del Tempio della Memoria riconobbero il primato di Gelsa e giurarono fedeltà sulle tavole della regola a cospetto della matriarca Sharsa.

 

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Gelsa divenne dunque la capitale del primo regno dei giganti, che riunì tutte e sette le stirpi della Tribù Parsa. Seguirono mille anni di pace e prosperità. I campi gravidi del limo rosso delle acque del Pestum empivano i granai all'ombra dall'antica Mogul, mentre i colli Aleusini sempre verdi fornivano pascoli al bestiame; fu così che nella benevolenza della Terra Santa, la Tribù Parsa donò alla storia numerosi patriarchi e matriarche che ne custodirono la saggezza entro le mura del Tempio della Memoria. 

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  • 2 weeks later...
Silverselfer

Nota a margine --> Volendo creare una società scevra da ogni tipo si sessismo e slegata da preconcetti ispirati alla sessualità, ho ricostruito le origini dei miti esoterici su cui si fonda la civiltà dei giganti.

 

L'imprinting culturale di una società si crea proprio attraverso questo tipo di cultura che non s'insegna, ma si riceve per induzione attraverso la morale di cui sono intrise le favole dei bambini o le parabole teosofiche degli adulti. Non è un caso che la nostra civiltà sia mutata in quello che sappiamo, dopo l'avvento di una trinità che sentì l'esigenza di espellere la figura femminile da se stessa. 

 

Siccome questo tipo di memoria ce lo portiamo nelle cellule, neanche tutta la cultura del mondo riuscirà a cancellarla, per questo ho deciso d'introdurre nei miti dei giganti divinità sessualmente definite che amano altre divinità dello stesso sesso. Ci sono anche divinità ermafrodite perché si tratta di una sessualità come le altre. E poi ci sono, invece, entità asessuate perché non si può ricondurre sempre tutto a un maschio e una femmina. Questa parte è stata la più complicata perché la nostra lingua ha pochissimi articoli o pronomi asessuati e, non solo, ma usa il maschile per denominare gli insiemi. Allora io mi sono inventato una locuzione "ET"  da usare per pronome di entità asessuate e articolo per indicare gli insiemi che accludono maschi e femmine. Si tratta di una vera follia che non ripeterò più, ma ho pensato che era dovuta in questo caso anche per sottolineare quanto sia sessista e anche omofoba nel senso di promuovere un etero sciovinismo maschista, la lingua italiana. 

 

Io, però, non mi sono voluto fermare qui e ho voluto scardinare l'idea stessa del triangolo: padre, madre, figlio (maschio) che permea ogni idea di trinità divina. Mi sono ispirato allo gnosticismo e anche un po' all'alchimia per derivare uno spirito assoluto composto da due entità consustanziali - materia e luce. Ora non mi dilungo oltre con spiegazioni del tutto inopportune e mi prodigo nel comporre il prossimo capitolo.

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Silverselfer

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La mistica dei giganti in Verbum Venti era un coacervo di miti propri a ognuna delle tre tribù con varianti sostanziali tra i clan di appartenenza. Et Zenosti erano degli attenti osservatori del cielo e furono loro a trasmettere la scienza che derivava dagli studi astronomici alle altre tribù. I vari clan usavano scegliere un bambino o una bambina per mandarlo a istruirsi su qualcuno degli ingegni cui erano profondi conoscitori gli zenosti, come la matematica o l'ingegneria, la medicina o anche solo l'astronomia che serviva per comprendere lo scorrere del tempo per le semine e le raccolte.

Quando questi ragazzi e ragazze tornavano nei rispettivi clan, erano chiamati "Speziali" per via del mestiere di curatore che dava loro da vivere. Tuttavia, uno speziale ricopriva diversi ruoli e tra questi c'era anche quello di ufficiare il culto e istruirne i più giovani. Fu per questo che le varie divinità lentamente si uniformarono alla visione cosmogonica della teosofia zenosta. 

 

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Et zenosti non usavano mischiarsi ai loro rudi confratelli e preferivano condurre una vita monacale in angusti eremi sulle cime più alte, dove scorgere meglio il cielo e condurre indisturbati le proprie discettazioni sul mondo. Quando decisero d'imboccare un sentiero che nessun'altra tribù aveva osato intraprendere prima, spingendosi oltre l'imponente catena montuosa dello JiaddGrow, la cultura dei giganti rimase alla mercé degli speziali. Alcuni di loro trascrissero in Verbi Lapis quanto appreso da et zenosti per conservarlo e trasmetterlo alle generazioni future, altri tennero gelosamente per sé quelle briciole di sapere tramandandole in Verbum Venti, lasciando che si confondessero con la cultura sciamanica di ogni clan.

 

Dopo l'esodo zenosta seguì quello dei clan parridi in rotta con i parsi. I parridi erano marinai e la loro cultura rimase per lo più legata alla mitologia arcaica delle tribù nomadi. Lo scorno avvenne proprio per una questione attinente al culto. I parridi erano seguaci della Dea Amira che governava et Mag delle acque mentre i parsi erano vicini alla visione zenosta che prediligeva l'Inn contenuto nel sacro fuoco lavico di Teos.  Il mito delle due divinità le metteva in aspra contrapposizione e quando i tommacei si rifiutarono di accogliere nel grande Tempio della Memoria una statua della Dea Amira, riscrivendone in Verbi Lapis la storia in cui la si riduceva a un culto minore, i clan parridi si rifiutarono di aderire alla Liga Federata per combattere gli ittaki, preferendo lasciare la Terra Santa per riprendere il peregrinare tra i mari.

 

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Durante il Primo Regno di Gelsa i clan parsi riconobbero il primato del Tempio della Memoria e da allora il panteon delle varie divinità si uniformò alla visione tommacea del culto dell'unico Dio "Hat". Il sole era, infatti, indicato dagli zenosti come la sintesi mistica di Inn e Mag. Tutte le altre mitologie furono intrecciate alla genesi dell'unico Dio, mettendo fine ad ogni disputa di ordine teologico tra i clan.

 

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In principio era l'oblio da cui scaturì la scintilla che generò il grande fuoco "Hat" (Il Sole). Le miriadi di scintille di Hat (Felleidi) si disperdono continuamente nella volta celeste, incendiando altri infiniti mondi nell'oblio siderale. Le felleidi non generano nuovo fuoco, bensì accrescono lo spirito di Hat che sta nell'ardore della roccia fluida (Inn). E' l'ardore di Inn ad aver generato Hat e proseguendo da esso instillerà il suo seme lavico nelle stelle minori. 

 

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Il Dio Hat è un'entità composta di diversi livelli determinati dalle proporzioni di Inn e Mag che contengono. Il cuore e l'anima di Hat sono di pietra fusa, sede dell'Inn più fulgido dell'Universo.

 

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Le felleidi scaturendo dall'ardore dei vulcani di Hat, ne sono una diretta emanazione. Le felleidi (le comete) sono dette madri perché generano "lapis", meteore con cui distribuiscono la giustizia di Dio. Si riteneva che la scia luminosa di Mag che le contraddistingueva nella volta celeste, derivasse dal nocciolo di materia lavica pregno dell'Inn di Hat.  Avendo quindi una proporzione di Inn e Mag, esse sono entità viventi capaci di esprimere una propria volontà. Ogni felleide che solca i cieli ha quindi un nome e un carattere associato a quello di un animale. La più nota alla tradizione di tutti i clan è la scaltra Mil, rappresentata come una volpe fiammeggiante.  Nel panteon tommaceo esse sono le torce con cui Hat vigila sull'oblio siderale e spesso dipende dalla loro benevolenza il giudizio del Verecondo.

 

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Et Mag è pura luce e non ha materia. Et risiede nell'aura luminosa di Hat e genera le cuspidi che lo proiettano fin nelle zone più remote dell'Universo. Le cuspidi, a differenza delle felleidi, sono entità consustanziali di Hat e quindi non contengono una proporzione di Inn e di Mag che ne determinerebbe un'identità distinta.

La cuspide è la fiamma nella sua parte più alta e non potrebbe sussistere senza l'ardore di un falò lavico. Questo falò è generato da un titano nel cui cuore pulsa un Inn incontaminato. Egli è in grado di alzare e dirigere una picca luminosa capace di fendere l'oblio più recondito. 

 

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Il glost è il flusso procreativo di Hat. Esso è la scintilla attraverso cui il Dio incendia nuovi mondi ed è contenuto nelle cuspidi.

In Mag la fiamma ardente dell'Inn è visibile negli arcobaleni. Essendo il glost sostanzialmente composto di Mag purissimo, i colori del suo Inn si manifestano nelle aurore boreali.

Fin quando Teos non sarà in grado di generare cuspidi proprie, dipenderà dall'amore di Hat che lo continua a fecondare attraverso il proprio prolifico glost.

 

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I titani sono coloro che, sostenendo le cuspidi di Hat, v'imprimono la propria volontà al pari delle felleidi con i lapis fiammeggianti. Il seme del titano si asperge unitamente al glost e dalle sue spore che sono nati i giganti che, parimenti a Teos, si evolveranno fino a sorreggerne le future cuspidi. La capacità si resistere al calore ustionante è per questo ritenuta un segno della propria natura semidivina.

 

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Fine Prima Parte

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Silverselfer

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La bella roccia di Teos animò l'ardore di Hat che lo trafisse con il flusso di Peresside, che è il dardo del suo più fido titano - Apos. Da quel momento Teos è destinato a diventare una stella e tutti gli elementi vitali che lo compongono sono consustanziali a esso. 

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La scintilla generata dal cuore crepitante di Hat fluidificò la pietra che si animò iniziando a ribollire nelle viscere laviche di Teos, diventandone il sangue rosso.

Teos è ancora giovane e il fuoco dei suoi vulcani non arde abbastanza da generare cuspidi ed espellere felleidi, solo allora il suo Inn sarà in grado d'irradiare la luce feconda del glost.

Prima di allora Inn e Mag emanati da Teos saranno spuri e senza il continuo apporto del glost di Hat, si spegnerebbero lentamente.

 

Nell'era di mezzo i fiumi di roccia fluida dei vulcani non riescono a mantenere vivo l'ardore di Inn troppo allungo. Mag sgorga tra i sassi sotto forma di acqua aspettando il fuoco capace di farla evaporare in luce pura. In questa età intermedia il fuoco e l'acqua di Teos generano forme di vita che hanno bisogno del calore e la luce di Peresside per riuscire a sopravvivere. Di conseguenza i giganti si appellano alla benevolenza di Apos che governa la cuspide di Hat, determinando l'alternanza della stagione calda e fredda.

 

Della Genesi e Natura Gigante

 

I giganti si considerano parte di Teos che Inn e Mag stanno trasformando in una stella. Nel falò che pian piano s'infervora, il seme del titano Apos germina facendo evolvere i giganti in veri e propri Titani.

 

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L'anima dei giganti segue le sorti dell'acqua che scaturisce dalla roccia fredda di Teos. L'ardore tiepido del loro cuore non riesce a trasformarla in pura luce, quindi essa torna alla terra come fa la pioggia ricongiungendosi a Teos per ricominciare da capo il tentativo di saettare nella scintilla che saprà incendiarla.

Quando Teos inizierà a brillare, solo quei giganti che avranno nelle vene un sangue altrettanto caldo potranno sopravvivere a tanto fulgore. I titani destinati a sostenere le picche delle cuspidi di Teos sono i giganti maschi, mentre le femmine allagheranno il proprio cratere di essenza lavica per diventare felleidi e vegliare sull'universo.

 

Quando Teos diventerà una stella, ogni suo elemento vitale non conoscerà più il gelo della pietra fredda. I giganti vivono in un'età di mezzo, nella cui caldera l'esistenza fluisce in una metempsicosi del Mag e metemsomatosi dell'Inn. Le forme animali e vegetali ne costituiscono il continuo ribollire di vita, in cui la proporzione di roccia e acqua determina l'identità dell'essere. Alla fine di ogni ciclo vitale Inn e Mag tornano a Teos per formare altra vita, conservando di volta in volta un nocciolo di consustanzialità più puro, rilasciando l'imperfezione che andrà a coagularsi in forme animali inferiori.

 

L'ordine minore dei monaci Teoiti.

 

Negli equinozi si ordinano i monaci minori del culto di Teos, i quali presidiano i precetti della fede tra la gente. 

 

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La figura del monaco teoita sostituì nel tempo quella dello speziale formato presso gli zenosti. Ne prese il titolo e ricoprì gli stessi ruoli nell'ambito dei clan.

Il nuovo speziale riceve il mandato per via diretta dal custode del Tempio della Memoria, dove il ragazzo o la ragazza si sarà formato. Il vincolo di fedeltà all'ordine monacale ne fa una sorta di prefetti presso i clan sparsi negli angoli più remoti del Bush.

 

Et speziali in genere appartengono ai casati tommacei e a richiederne la presenza nel proprio clan sono i patriarchi o le matriarche delle stesse tribù. In quelle più piccole e sperdute, et speziali oltre a dedicarsi alla cura dei malanni derivanti da un Inn nefasto, si occupano anche del calendario attraverso lo studio astronomico, con il quale si scandiscono i tempi di semina e di raccolta delle messi. Seguono le puerpere dal concepimento alla nascita del bambino, cui poi insegneranno i dettami delle tavole della memoria. Loro si occupano delle piccole opere d'ingegneria come costruire gli argini per contenere la furia della lamia o insegnano come erigere mura di protezione per una rocca.

 

La loro presenza nei casati nobiliari gioca un ruolo diverso. A differenza che nei clan rurali, dove spesso se ne richiede una presenza in numero più consistente, nei palazzi dei possidenti se ne assegna solitamente uno. Qui si occupa essenzialmente della riscossione delle ricche decime dovute al Tempio della Memoria, curando i rapporti politici e spesso perorando le istanze del casato ospite presso i custodi del tempio.

I casati più ricchi patrocinano sovente dei monacati all'interno delle mura della propria città, sovvenzionandone gli studi ed erigendo templi. Alcuni monacati raggiunsero un particolare pregio, come quello di Genesta, ottenendo dal Tempio della Memoria il permesso di ordinare monaci non appartenenti al ceppo tommaceo. 

 

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La gilda degli speziali acquisì nel tempo sempre più influenza nella politica delle città. Et potevano essere femmine o maschi ed era concesso che avessero figli, i quali però non prendevano il sigillo del casato di appartenenza, ma solo un generico cognome derivato spesso dalla città in cui erano nati. Una condizione assai disgraziata che ne precludeva ogni futuro al di fuori del monastero, tanto che uno speziale raramente aveva prole.

 

La teosofia dell'Inn e del Mag

 

Attraverso il culto di Hat si adora l'entità bipolare che permea l'universo. Et è sia Inn e sia Mag, due essenze distinte ma consustanziali nella fiamma generatrice di vita. La tradizione vuole che et spirito assoluto dell'universo non sia rappresentato in immagini ed evocato attraverso le parole, per questo motivo si usa Hat, la sua più potente e diretta emanazione, come misura per tutte le forme di vita materiali. 

 

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L'Inn dimora nella roccia fusa che rappresenta il seme fecondo del divino, originato dal cuore ardente di Hat esso è espulso attraverso i suoi vulcani. L'esoterismo cosmogonico zenosta riconduce ogni creatura a sangue caldo al movimento del flusso dell'Inn che la permea. Il sangue rosso che scorre nelle vene corrisponde alla roccia fusa nelle arterie del pianeta, il cui movimento è determinato dall'ardore del cuore, dove dimora l'Inn.

 

Il monacato superiore dell'Inn

 

Durante i solstizi si ordinano i monaci dell'ordine superiore dell'Inn. Si tratta di un ordine di rito iniziatico riservato alla stirpe Annica per volere degli zenosti. I quali se ne servivano come manodopera specializzata nelle molteplici arti in cui si cimentavano. Dopo l'esodo zenosta, i monaci dell'Inn rimasero ad abitare i luoghi che erano stati dei loro padroni, avanzando la pretesa di un discutibile lascito spirituale.

Gli zenosti usavano evirare i loro servi per impedirne il proliferare nelle proprie dimore. Un'usanza che rimane nel rito d'iniziazione all'ordine sia per maschietti e sia per le femminucce.

 

La Regola dell'Inn

 

Si ritiene che l'ordine abbia la scienza di leggere nel sangue dei neonati il futuro del proprio Inn. Questa virtù determina la "Regola dell'Inn" che è sopra di ogni legge mondana. Un monaco potrebbe perpetrare ogni sorta di crimine fino all'omicidio, senza che nessuno possa opporvisi perché la sua mano è dominata dall'indiscutibile regola dell'Inn.

 

Questa peculiarità li rende ospiti assai poco graditi entro le mura delle città e scoraggia chiunque nell'incrociarne anche solo il cammino. Si tratta di personaggi inquietanti che usano tingersi la pelle di nero per poi decorarla con l'oro che pretendono in riscatto di anatemi capaci di trasformare persino il sangue in piombo. 

 

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L'efferatezza del loro giudizio tocca l'apice nel decretare la vita o la morte dei nascituri. Potendo leggerne il futuro attraverso una sola stilla di sangue, un destino infausto conduce allo sgozzamento del neonato. In genere il loro intervento è richiesto solo alla presenza di un bambino deforme perché si ritiene che sia un Inn nefasto a impedire al seme del titano di evolversi in modo corretto. In tal caso il verdetto è quasi sempre lo stesso e il monaco berrà il sangue dall'Inn imperfetto.

La regola dell'Inn è diventata nel tempo una forma di selezione del sangue ritenuto puro a difesa della differenza tra stirpi.

 

Fine Seconda Parte

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Silverselfer

I vari culti dedicati al Mag


Et Mag è diverso ma consustanziale di Inn. Inn è la brace che consuma, Mag è la luce che genera. Inn dimora nella materia mentre Mag sta nell'etereo.
Mag scaturisce dalle cuspidi di Hat, soffiando la vita in ogni seme. L'essenza lavica di Inn scorre nelle vene degli animali mentre la scintilla di Mag crepita nella linfa delle piante. L'ardore dell'Inn produce il fiato fumoso che strangola nella durezza della sua regola, mentre nell'afflato del Mag dimora la gioia del mondo.
Ogni sospiro di Mag ha un nome diverso e nel momento che il cuore del falò si spegne, esso evapora ricongiungendosi alla memoria del mondo, per tornare a essere ricordato nell'aurea era dei titani.
L'acqua è considerata la forma spuria della luce emanata da Teos. Essa zampilla dalla roccia e scorre come lava fredda evaporando quando incontra il calore dell'Inn, ancora incapace di sublimarla in pura luce. Et Mag di Teos è chiamato Lamia, Amira e Huria.

Lamia

Lamia è il latte della terra che sgorga dalla roccia fredda. Quando la fecondità di Lamia incontra il calore di Peresside, germoglia nel mondo vegetale. Nella vita animale convive sia l'ardore di Inn, che brucia generando il falò del cuore caldo, sia la luce di Mag che ne ispira i pensieri e muove i bisogni immateriali.
La presenza d'intransigenti custodi della regola dell'Inn monoteista impedì che nel culto lavico s'insinuassero le antiche divinità tribali. Al contrario, l'inconsistenza di Mag si plasmò sulla foggia di ogni divinità antecedente, andando a formare lo svariato panteon delle lamie.



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La Lamia delle sorgive calde è forse il culto più diffuso. Nelle città i suoi templi sono le terme e chi vi lavora si chiama "vestale". Il vapore della Lamia è ritenuto un potente afrodisiaco e la sensualità che ispira è il divino afflato che rimesta Inn e Mag nella congiunzione carnale. Ci si consacra alla Lamia delle sorgive per libera scelta e si può lasciare i suoi templi in qualsiasi momento. La vocazione della vestale, maschio o femmina che sia, sta nel servire il prossimo in ogni suo bisogno.



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Et Lamie delle sorgive fredde sono creature tanto seducenti, quanto capricciose. Popolano i torrenti e le leggende narrano che sia possibile scorgerle nel riflesso dei tranquilli invasi lacustri. In tal caso bisogna stare attenti a non rimanerne affascinati perché altrimenti trascineranno il malcapitato nella loro seducente alcova subacquea. Et Lamie non uccidono, ma chi torna indietro morirà di malinconia al ricordo delle tante gioie godute in quei ninfei.



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Et Lamie dei boschi sovraintendono il mondo selvatico e sono culti spesso tacciati di eresia perché raccolgono le tradizioni sciamaniche nelle cui regole si forgiava l'antica società nomade dei giganti. I loro templi sono in ogni grotta o albero cavo e il loro culto è rimasto fuori le mura delle città degli stanziali. Et sciamani scelgono da soli l'adepto da erudire e si sono sempre rifiutati di dettare i propri segreti a uno scriba. Nonostante l'impegno profuso dalla gilda degli speziali per denigrarne i riti, la società dei giganti è sempre rimasta legata alle sue origini e il culto di et Lamie dei boschi rimane vivo nelle tradizioni.



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Amira

Il culto di Amis, cioè la lumia delle acque salmastre, fu il tentativo da parte dei custodi della memoria di parafrasare la teosofia della Dea degli abissi oceanici "Amira", antagonista di Teos. Tutti i clan parridi considerarono una bestemmia voler confondere la loro divinità tra i vari culti minori delle lamie.



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Huria

Huria è rappresentata nella forma di un'ermafrodita alata. Essa rappresenta et Mag di Teos più vicino alla condizione di luce. Le nubi sono la sua dimora e nelle saette risiede la scintilla dell'Inn che un giorno sarà in grado di sublimare la lamia in luce.
Huria delle piogge è un culto molto caro ai contadini mentre l'Huria della saetta è invocata dai cavalieri prima della battaglia.



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Fine Terza Parte

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Silverselfer

L'Antagonismo tra Teos e Amira secondo la tradizione Parride.

 

Al principio dei tempi Teos era solo un pezzo di carbone freddo che vagava nell'oblio siderale. Fu la più ardita tra le felleidi di Hat, Zena, che lo illuminò mostrandolo alla benevolenza del verecondo Hat.

 

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Il supremo Dio se ne innamorò subitaneamente e il desiderio di carezzarne le grazie crebbe al punto da generare un ardimento che esplose nella più potente delle eruzioni di glost mai avute da Hat.

 

Il colpo di lombi del divino Hat scosse al punto Teos che da allora continua a vorticare su se stesso. Peresside, la cuspide di Apos, lo infilzò fin nelle viscere, incendiandone il cuore. Mille vulcani iniziarono a eruttare l'abbondate ardore di Hat, illuminando l'oblio in cui versava l'antico mondo. Fu allora che Apos, fiammeggiando in un lampo di saetta, soffiò il suo profumato Mag tra le labbra del giovane Teos, dando inizio alla stirpe primigenia dei giganti.

 

Il popolo dei giganti regnava in pace nell'antico regno in armonia con le creature che lo servivano come i futuri titani che sarebbero diventati. Apos era il loro Dio padre, il quale soleva poggiare il poderoso piede tra i propri figli.  L'adolescente Teos invidiava i futuri titani perché lui non aveva un padre e iniziò a piangere copiosamente. Un'onda di diluvio ricoprì il giardino dell'armonia con le acque salmastre che arsero le piante e assetarono gli animali. I vulcani non riuscivano a generare abbastanza pietra da arginare la risacca divoratrice delle lamie salmastre, tanto che la civiltà dei giganti languiva allo stremo.

 

Apos, impietosito dalle preghiere dei propri figli, intercesse presso Hat per indurlo a riportare alla ragione il suo bizzoso amante. Il roboante alterco tra i due rintonò nell'universo che si divise tra la ragione delle cuspidi a difesa dei giganti e quella delle Felleidi che sostenevano l'indulgenza di Hat per il suo giovane amante.

Zena fermò la sua corsa per consolare il pianto dirotto di Teos, ma l'ingrato rimase sordo alle preghiere della sua madrina. Reso folle di gelosia era deciso ad avvelenare la vita con il sale delle sue lacrime. Fu allora che Zena volle impartirgli una dura lezione, concependo una Dea capace di equivalere il suo Inn nefasto. Quando la felleide incontrò lo sguardo della sua meravigliosa creatura, se ne innamorò subitaneamente e stette per precipitare in una vertigine d'estasi tra le sue grazie. Fu Hat a frenare la caduta di Zena che avrebbe così sommerso ogni palmo di terra.    

 

Teos chiese a Hat di punire Zena, accusandola di favorire la propria amante Amira nell'intento di sostituire la vita a sangue caldo della roccia fusa con quella a sangue freddo degli abissi marini. Il Verecondo si lasciò  nuovamente traviare dall'amore per Teos e lo frappose tra Peresside e Zena. E' da allora che l'Inn della felleide continua ad affievolirsi, costretta dall'amore per Amira a rimanere nel cono d'ombra di Teos. Zena può incontrare la sua amante solo nell'oblio della notte, quando il poco Inn che le rimane la fa rilucere debolmente.

 

Il rancore tra Teos e Zena non si è mai placato, alternandosi nel tentativo di oscurarsi a vicenda nelle eclissi di sole e di luna. La Dea Amira con il suo mondo subacqueo rivaleggia con la vita terrestre ispirata da Teos e con l'aiuto di Zena tenta di avanzare durante le maree.

 

Tutte le felleidi sono solidali con la consorella e quindi sono foriere di sventura per gli esseri a sangue caldo. I monaci astronomi ne studiano i movimenti per mettersi al riparo dalla loro funesta influenza.

 

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Al contrario, il culto sciamanico raccoglie le pietre fredde cadute dal cielo per predire il futuro. Questa pratica è ritenuta blasfema dai seguaci di Teos perché considerata asservita al culto esoterico delle lamis salmastre che tramano di risalire i fiumi per avvelenare il mondo.  

 

Fine Capitolo

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Silverselfer

PS: Accidenti!  Riguardando le varie parti degli appunti, assemblate una in coda all'altra nel capitolo ... mi fa un po' impressione che sia uscito tutto dalla  mia testa ... che sia diventato pazzo e ancora non me non me ne sono accorto?

 

Comunque --> Vorrei sottolineare di nuovo che non si tratta del romanzo, ma della costruzione del mondo in cui lo andrò ad ambientare ... detto così aggravo la mia condizione di folle ... lo so ... diciamo che si tratta di una lettura per veri appassionati del genere? ... non so neanche questo ... sarà che mi sono letto tutti i manuali di D&D? ... lo spero ... In ogni modo, spero che anche solo piluccando i grafici e relative didascalie si possa cogliere l'intento di quanto mi sforzo di "edificare" ... Ecco, diciamo che si tratta di un intento folle per lettori con un alto tasso di nerdaggine nelle vene ... XD.

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  • 4 weeks later...
Silverselfer

nota a margine ---> Memore dell'ultimo post che somiglia ad una tesina, mi sono detto che non potevo proseguire nello stesso modo. Non volendo più ricorrere ad una prosa scientifica, mi sono detto che potevo affidare il compito delle descrizioni a delle piccole prefazioni di qualche racconto, in cui si tratteggia in maniera pratica il quadro sociale dove si va ad ambientare la storia.

 

Ci vuole sicuramente più tempo, però mi da la possibilità d'iniziare a raccontare storie e quindi a scrivere il romanzo. Questi racconti faranno parte di un filone che va sotto il titolo di "Et Gianis Civiltae" (Non si tratta di latino ma di fanta-latino). Ne scriverò un paio per ogni frazione storica che andrò a descrivere ... un paio o anche di più. 

 

Riguardo al racconto che segue ---> Avevo in mente una sorta di Hunger Games, cioè volevo raccontare la storia di alcuni giovani che per diverse vicissitudini arrivavano ad una fiera degli Arditi, cioè quando dory e virago si sfidavano per conquistare la loro prima cavalcatura di cavaliere. Ora ho rimandato il progetto perché una sera di qualche giorno fa, tornando a casa da un viaggio, mi sono ritrovato a litigare aspramente con quel fascistello burino di mio nipote ventenne (cui tengo come se fosse un figlio)..

 

Qui a Roma stiamo vivendo un momento storico molto particolare e cosa non gli ho dovuto sentir dire sui nomadi, ma anche su la coppia procreativa e il valore delle presunte tradizioni italiane. Ho sbroccato di brutto e quando mi sono rimesso a scrivere, è venuto fuori questo racconto.

 

L'ho scritto quasi di getto però, grazie al lavoro fatto precedentemente, tutto è rimasto ben incardinato nella struttura della società dei giganti. Anzi, mi sono stupito come, per esempio, descrivendo la genealogia dei nomi, gli ingranaggi assemblati in quei grafici si siano messi a girare all'unisono ... e sono soddisfazioni! 

 

Nella prefazione del racconto descrivo il contesto in cui si svolgono i fatti e cioè il momento in cui la società nomade dei giganti sta abbandonando i propri costumi nomadi. SI tratta di una storia d'amore per certi versi "classica" tra una principessa e un bovaro, tuttavia non lo è proprio perché si svolge in una società diversa da quella nostra. I due temi affrontati sono appunto il conflitto tra società nomade e quella stanziale fondata sulla coppia monogama a scopo procreativo. Basta, mi stoppo qui e lascio il compito di raccontare la vicenda al testo che segue ... un'ultima robina ---> si tratta di una vera e propria storia, a parte la prefazione, poi si prosegue con la narrativa pura ... ci tengo a sottolinearlo perché Et Gianis Civiltae si propone di essere soprattutto una raccolta di racconti. Punto e taccio ...

 

NB: non ho avuto il tempo di trovare delle immagini .. ok, stavolta taccio sul serio. 

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Silverselfer

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Un Amore Ribelle

 

Prefazione


 

Questa è una piccola e insignificante storia d'amore accaduta tra la principessa Luisa dei Pallacordi Lammidi e il bovaro Serse figlio del patriarca dandalo Laerte.
Gli accadimenti si succedono quando la società dei giganti stanziali stava per spazzare definitivamente via le sue tradizioni nomadi. La vicenda tra Luisa e Serse s'intreccia su due telai costruiti per tessere società radicalmente diverse tra loro. Il patriarcato promosso dai custodi della memoria del Tempio di Gelsa, invitava alla continenza sensuale dei selvaggi costumi sciamanici attraverso la nuova dottrina in Verbo Lapis del Deorum Ignis, cui s'ispirava il matrimonio monogamo.

Luisa apparteneva alla stirpe Cablatea del clan dei Lammidi. La matriarca che impose il nome al padre di sua madre, condusse il clan dei Pallacordi in Terra Santa. Secondo la tradizione, quest'onore le dava il diritto di discendenza e i figli avrebbero ricevuto il sigillo del suo clan.
Per i maschi il diritto di lasciare il proprio nome in eredità ai figli spettava solo a chi si distingueva in atti eroici degni di essere raccontati. In questo modo si erano formate le discendenze all'interno dei grandi clan che, spostandosi continuamente, avevano un'economia basata sulla vita in comune, in cui l'unica ricchezza accumulabile stava nel valore dimostrato con le proprie gesta.

I casati Cablatei erano gli unici rimasti fedeli alle antiche tradizioni e i loro costumi avevano risentito poco dei cambiamenti sociali dovuti alla vita stanziale in Terra Santa. Falledi e Lammidi non edificarono mai città, dove trasferirsi stabilmente. Fu a seguito delle incursioni delle orde ittake nelle terre occupate dalla stirpe Falesia, che i Gaddei migrarono tra i Colli Aleusini abitati dai nomadi Cablatei, trasformando in vere e proprie città quelle rocche che prima gli servivano per i commerci con i locali. Solo i Falledi che erano dediti alla pastorizia o alla piccola agricoltura, formarono delle civitas nei contadi intorno alle città e assorbirono maggiormente la nuova cultura degli stanziali Gaddei.

La cultura arcaica dei nomadi entrava spesso in conflitto con quella stanziale promossa dal Primo Regno di Gelsa. Alcuni clan Lammidi, come gli orgogliosi Dandali, si rifiutarono di abbandonare i propri antichi costumi e non accettarono le regole imposte dallo stile di vita degli stanziali.
Una fondamentale differenza stava nell'ordinamento sociale nomade basato sul matriarcato, ispirato ai precetti sciamanici che riconoscevano nei maschi e nelle femmine due razze diverse, regolate dalle proporzioni variabili nell'equilibrio tra Inn e Mag. Secondo questo principio, in seno ai clan esistevano i dimidium. Essi, pur avendo una forma esteriore maschile o femminile, avevano in sé una proporzione di Inn e Mag che conferiva comportamenti diversi dalla consuetudine.

Secondo la più antica tradizione sciamanica, i maschi dei giganti discendevano dal titano Apos ed erano destinati a sorreggere le future cuspidi di Teos, mentre le femmine erano figlie della felleide Zena e il loro destino divino le avrebbe fatte diventare comete. Questa differente genesi aveva regolato nel tempo i rapporti tra maschi e femmine come se appartenenti a due razze diverse di pari dignità al cospetto degli Dei.
Al contrario, il Verbo Lapis faceva discendere tutti dal patriarca Apos, eguali dinanzi allo sguardo benevolo dell'unico Dio Hat, riunendo così il mondo maschile e femminile, che nella società nomade viveva secondo costumi diversi in tende separate, nell'unico stile di vita ispirato dalla coppia procreativa.

La sessualità tra i giganti nomadi non era direttamente connessa alla procreazione. Essi credevano di essere ancora sterili come dei fanciulli, che dovevano raggiungere la maturità della condizione divina per poter generare attraverso la propria osmosi: maschi da maschi e femmine da femmine. Esattamente come Apos e Zena generavano i propri figli e figlie.
La loro condizione spuria era determinata dall'Inn e dal Mag imperfetto prodotto da Teos. Questa instabilità nelle proporzioni generava l'ardimento dell'Inn che desiderava congiungersi carnalmente con del Mag affine. La passione poteva dunque scaturire anche tra due maschi o due femmine a prescindere lo scopo procreativo.

Nella cultura sciamanica il seme della vita era una questione attinente ai flussi della "lumia" femminile. Si riteneva che la lumia contenesse Inn raffreddato dalla sproporzione di Mag contenuto nel cratere delle femmine. Le leggende dei nomadi raccontavano spesso di abbondanti flussi di lumia che, trasformando il sangue delle femmine in acqua, le tramutava in piante. Tant'è che le lamie dei boschi erano considerate delle femmine divenute spiriti silvani.
La cura agli eccessivi flussi della lumia consisteva in un apporto di Mag pregno dell'ardimento d'Inn, prodotto dal flusso eruttivo di "mitis" maschile. Parimenti alla lumia, il mitis maschile era considerato invece una perdita di Mag, anche se al contrario dell'Inn lavico esausto delle femmine, il loro Mag era pregno di ardimento e capace di trasferire Inn vitale che, cadendo nel cratere di una femmina, sede di un lago di lamia prolifica, poteva combinarsi in un equilibrio stabile dalla cui materia si formava un seme.

Poiché la fecondazione accadeva ugualmente tra perfetti estranei, per i nomadi il concepimento dei figli era attribuito a un casuale equilibrio tra Inn e Mag, in cui non influiva la particolare relazione stretta in precedenza tra un maschio e una femmina, come insegnava la dottrina del Deorum Ignis. La quale attribuiva un valore etico alla prole nata all'interno di una coppia.
La sessualità tra i nomadi, non determinando legami stabili come in Verbo Lapis, influiva poco sul potere decisionale, il quale si basava sull'affetto figliale e il rispetto morale verso l'educazione materna, dunque era il matriarcato a suggerire l'autorità sotto il cui comando si regolava la vita di clan.

Fermandosi in uno stesso luogo, il matriarcato scomparve a favore di un più virgulto patriarcato capace di difendere la proprietà delle terre occupate. Il valore dei cavalieri in battaglia procurò onori e quindi nuove discendenze sempre più circoscritte, coincidenti con il diritto sulle proprietà conquistate dal capostipite. La concentrazione del potere si concretò in dimore turrite a difesa di ricchezze in grado di alimentare piccole economie di asservimento, dal cui tessuto si formarono le società cittadine.

Dall'esigenza di nuove regole uguali per tutti che fu eretto il Tempio della Memoria di Gelsa, dove fu riscritta in Verbo Lapis la genesi monoteista di un'unica razza, affinché essa producesse un'etica trascendentale inopinabile e non come succedeva in Verbum Venti, quando i miti generavano sensibilità morali diverse che finivano per collidere con quelle dei vicini. Fu così che si consumò il primo scisma teologico con la Tribù Parride, che non volle rinunciare alla propria tradizione e alla Dea che la riuniva in un unico sguardo etico. I clan Cablatei, sempre in conflitto tra loro, erano seguaci delle molteplici lamie sciamaniche e non furono altrettanto compatti nel discutere l'autorità di Gelsa.

Il primo effetto del cambiamento nella società patriarcale fu proprio la riforma del diritto di discendenza, attraverso l'istituzione del matrimonio ispirato alla dottrina del "Deorum Ignis". Il costume matriarcale nomade impediva un coagulo della ricchezza perché la libertà sessuale delle madri le induceva a partorire figli con svariati maschi. Così che ogni sostanza accumulata da un singolo non poteva sopravvivergli, finendo per tornare in seno a un matriarcato che lo gestiva per il bene indistinto di tutti i figli.
Fu proprio l'esigenza di non disperdere le proprie ricchezze in assi ereditari confusi, che i custodi del tempio sentirono l'esigenza di conferire un valore morale alla continenza sessuale delle femmine, conferendovi il diritto divino a suggello di quei contratti con cui i monaci teoiti regolavano la paternità di un erede.

La società del Primo Regno di Gelsa si fondò sul nuovo vincolo di coppia procreativa basata sulla fedeltà coniugale, da cui scaturì un corpo giuridico che usava la passione di un sentimento per fissare lo statuto del nuovo diritto di clan famigliare. Il nuovo soggetto legale stabilizzava il patrimonio in classi sociali capaci di mantenersi distinte, tutelando il diritto di proprietà anche post mortem. La legge individuò nel "Deorum Ignis" il sublime che trascendeva la pulsione sessuale in un sentimento eterno e quindi divino, capace di unire la coppia procreativa in maniera indissolubile, nel cui recinto etico era riconosciuta la genitura costituzionale dell'asse ereditario.




L'incontro tra la principessa Luisa e il bovaro Serse

 

 

I Lammidi si spostavano a seguito delle loro imponenti mandrie di vacche per i pascoli dei verdi Colli Aleusini. Erano noti per essere gli unici a saper allevare e poi domare i destrieri più furenti e i ricchi nobili del regno usavano recarsi personalmente alle fiere dove li portavano. La più importante di queste aveva luogo in autunno nella città di Genesta.

Genesta era la più bella e antica città fondata dai Vulli Gaddei intorno a una rocca su una larga ansa del fiume Pestum. Il porto fluviale ne fece presto una testa di ponte dei traffici commerciali e da tutti i Colli Aleusini le merci confluivano nei suoi mercati. Era anche la sede di un importante monacato teoita, il cui Tempio rivaleggiava in imponenza con quello della Memoria di Gelsa.

I Gaddei avevano tessuto le loro relazioni politiche con tutti i clan Cablatei, tuttavia la nota fierezza dell'Inn dei Lammidi gli aveva procurato parecchi inconvenienti. In particolare, durante una solita disputa tra clan, i Quatari Gaddei persero numerosi denari in capi di bestiame. Fu allora che i Gaddei si riunirono per escogitare clausole contrattuali capaci di farsi rispettare anche da quelle teste calde dei Lammidi. Da allora ogni matriarcato dava in pegno della parola “data”, uno dei figli primogeniti. Se non avessero onorato il contratto, il ragazzo o la ragazza sarebbe rimasto nella città dov'era tenuto in ostaggio.

Per lo più questo deterrente funzionava, ma capitava anche che un'intemperanza durante qualche zuffa o magari proprio a causa dello stesso orgoglio di non piegarsi a un ricatto, finisse che quelle ragazze e ragazzi restassero in casa dei Gaddei per sempre. Questo fu quanto accadde proprio a Luisa che fu data in pegno al pagamento di trecento capi di bestiame, quando aveva solo nove lune e da allora erano ormai trascorsi sedici soli. Il suo fu un esilio dorato perché il proprio clan non si dimenticò mai di lei e i Buccardi Vulli seppero rifarsi del contratto perso, facendo leva sul noto cuore caldo dei loro intemperanti cugini.

Quell'anno alla fiera d'autunno di Genesta erano accorsi i nobili di tutto il regno perché vi avrebbero partecipato i clan Dandali, sui quali aleggiava un'aura quasi mitologica.
I Dandali erano dei fieri bovari che trascorrevano la vita a cavallo. Nessuno era mai stato capace di trattenerli in una città o costringerli a ubbidire a una legge che non fosse quella del proprio clan. Se ne stavano per fatti loro e, anche se non erano ostili, non accettarono mai il governo di Gelsa. Erano sicuramente individui con cui era difficile trattare, tuttavia era risaputo che la parola “data” di un dandalo era meglio di qualsiasi contratto e in tutto questo, si soleva anche dire che acquistare un destriero dandalo, equivaleva ad avere accanto una di quelle furie di cavalieri indomabili.



- Luisa! Vi parlo del moro che mi ha rapito il cuore e non mi ascoltate?

Il palazzetto dei marchesi Buccardi dava proprio sulla via principale di Genesta e sotto le sue finestre sfilavano ogni giorno i cavalieri accampati fuori le mura che entravano in città per la fiera. Luisa era in trepidante attesa per l'arrivo di sua sorella Adria, che avrebbe dovuto portare sessanta capi di bestiame al marchese.



- Che avrete mai da affacciarvi a quella finestra, mentre vi racconto cose importantissime!

Vito, unico erede del marchesato, era un dimidium che, contro ogni ragione di famiglia, aveva scelto di diventare vestale presso le terme cittadine. Luisa era come una sorella per lui e quel giorno si era recato a farle visita per aggiornarla sulle sue ultime prodezze amorose.



- Perdonatemi Vito, ma sto aspettando Adria che doveva giungere ormai da due giorni.

- Non datevi pena per quella vostra sorella, puzza talmente di vacca che nessuno oserebbe avvicinarla.

 

Luisa era una ragazzina molto graziosa dai capelli rossi come una brace e gli occhi verdi talmente grandi che parevano smeraldi incastonati in quel suo faccino appuntito. Nelle tradizioni del suo clan aveva ormai raggiunto l'età per scegliersi i propri amanti, ma in città era ancora una fanciulla incorrotta, alle cui grazie ambivano già diversi giovinetti che la volevano impalmare.



- Ditemi piuttosto se avete deciso di accettare la corte di quel cicisbeo di mio cugino.

- Oh, fatemi il favore! E' insopportabile …

La scarsa propensione di Vito a lasciare un erede al proprio casato, aveva spinto i marchesi a ingegnarsi con Luisa per formarne uno nuovo in grado di conservarne le sostanze con il nome del nipote Alambardo.



- Badate bene alle vostre lumie che un giorno di questi vi tramuteranno in uno di quei gerani che tenete alla finestra.

- State piuttosto accorto alla misura colma del vostro cratere, o un mattino di questi quel mitis moresco che sorbite, vi farà risvegliare con un paio di corna da vacca.

- Uh! Una giovenca da monta … almeno potrei finalmente partorire il degno nipote di mia madre.

La marchesa era una madonna molto austera che usava vestirsi di nero e portare sul capo un velo di pizzo per coprire dei capelli canuti anzitempo. La sorgiva del suo ventre si era estinta assai precocemente, tanto da darle giusto il tempo di partorire tre figli, la cui sorte non era stata benevola e le era rimasto solo Vito da poter accudire come il più prezioso dei propri beni.



- Vito! Siete scabroso.

- Oh, madre mia! Se non volete che la mia bocca offenda le vostre venerande orecchie, curatevi di farvi annunciare prima d'incontrarmi.

- Dovrei essere anche orba, ma vi pare il modo acconcio di mostrarvi a vostra madre? Questa casa non è un ninfeo …

- Non mi pare di avervi chiesto udienza …

Il cruccio della marchesa non era provocato tanto dalle vesti succinte di Vito, quanto nella vana speranza che la promiscuità del figlio fosse capace di procurare qualche accidentale infusione del suo mitis in un cratere femminile.



- Che vi costa almeno provarci?

- Adesso basta! Luisa, scappiamo lontano da questa megera, presto!

Fu così che quel giorno Vito rapì Luisa da uno dei suoi monotoni pomeriggi. Le prese una mano e se la tirò dietro fin giù in strada. Appena superarono la soglia del portone signorile, la luce di un tiepido sole d'autunno li investì con la bolgia di una folla in fermento.



- Si può sapere dove mi state portando?

- Fidatevi e non ve ne pentirete …

Risalirono su per la via facendosi largo tra i banchi dei mercanti di spezie e saltimbanchi giocolieri con pericolosi mangiafuoco che sputavano in aria le loro fiamme. Giunsero nella piazza circolare dinanzi alle terme di Lumidilla, un grande spazio che si apriva d'improvviso dopo aver percorso le anguste vie del centro.



- E' lui … quello là sul destriero pezzato … lo vedete?

- Quello?

- Ma no! Vi pare che mi sprecherei per uno così? L'altro … è il moro alla sua destra.

In piazza c'erano i Nicumeni mori che si esibivano in un rodeo per mostrare la prestanza dei propri destrieri, anche se la maggior parte della gente era là per guardare lo spettacolo delle prodezze di quei cavalieri dal fascino esotico.



- Abdel … sono qui … è lui, lo hai visto? Mi ha alzato la mano … Abdel, ti amo!

Luisa arrossiva tanto il suo accompagnatore si stava sbracciando mentre si prodigava in dichiarazioni d'amore sperticate per il suo cavaliere; quando vide quell'imponente moro strattonare la briglia del suo stallone che s'impennò proprio davanti a lei, oscurando il sole. Senza che se ne avvedesse come, il braccio tornito del moro trasse a sé Vito in un solo gesto, portandoselo via. Cos'era successo? Si domandò spaventata la giovane. Lei seppure fosse una Lammide, era cresciuta come una cittadina, dove se ne raccontavano tante sugli usi di quei selvaggi, i quali pareva avessero l'abitudine di rapire proprio in quel modo gli amanti ed era per questo che nei giorni della fiera non era prudente avventurarsi da soli in strada.



- Sì … portami via … sarò tuo per sempre …

La ragazzina aveva il cuore in tumulto, ma non sapeva che fare perché Vito non pareva certo triste di quanto gli stava accadendo. Stordita dallo sgomento, stava cercando di trarsi via dalla ressa, quando un ladruncolo le sfilò svelto come uno scoiattolo, il nastro di seta che teneva tra i capelli.



- Ahi!

Le fece male e cadde in terra. Non avrebbe voluto piangere per essere forte come sua sorella Adria e tutte le altre donne della sua stirpe, ma forse proprio per questo che le lacrime scendevano ancora più copiosamente. Si tirò in un angolo della strada e nascose la propria desolazione tra le mani.



- Che mi prendesse un colpo, ho forse bevuto troppa birra?

Sentì dire Luisa che allargò appena le dita delle mani per scorgervi due paia di stivali di pelle di cotenna nera intrecciati con spaghi di cuoio. Li riconobbe subito perché erano le calzature tipiche dei bovari dandali … che spavento! Titubante, alzò il volto risalendo su per quelle gambe inguainate nella pelle nera di vacca, fin quando una mano villosa strizzò il cavallo dei pantaloni, un gesto che la fece arrossire, costringendola di nuovo a nascondere lo sguardo tra gli stivali.



- Poi saremmo noi i selvaggi, quando i cittadini usano mettere le loro dame a chiedere l'elemosina agli angoli delle strade?

Ora Luisa rimpiangeva quando i passanti la ignoravano calpestandole il lembo della sottoveste.



- Cosa vi è accaduto … damigella?

Le chiese il più giovane tra i due, chinandosi sulle ginocchia e parlandole sfacciatamente senza essere stati presentati. Luisa tremava come una foglia e il cuore le batteva così forte da farle gonfiare il petto dallo sgomento.



- Ma voi tremate!

Il giovane dandalo aveva dei modi cortesi che rassicurarono Luisa. Trovò dunque il coraggio di scoprire il volto di quel ragazzo. Aveva una zazzera corta e nera come la barba incolta che gli sporcava le guance e negli occhi due carboncini così limpidi, da parer scintillare da un momento all'altro. Inspiegabilmente la ragazzina dovette trattenere un sorriso che la costrinse ad abbassare di nuovo lo sguardo.



- Il mio nome è Serse dei Dandali Lammidi e voi a quale nobile casato di questa bella città appartenete?

Luisa non sapeva cosa fare quando quell'ardito ragazzo declamò il proprio clan. Era buona creanza che una damigella di città non permettesse a chiunque di presentarsi per strada pretendendo di conoscere il suo nome. Tuttavia, il selvaggio le parlava con una tale delicatezza, che nella sua voce pareva sentire la frescura di quelle lande nordiche da cui proveniva.



- Luisa …

 

Il suono del suo nome la fece avvampare subito per il pudore di aver concesso a quello sconosciuto l'intimità di poterlo pronunciare. Ora non avrebbe più trovato il coraggio di guardarlo negli occhi e tratteneva lo sguardo sulle sue labbra, ma anche quelle erano così conturbanti mentre si piegavano nello scandire dei sortilegi capaci di metterle in subbuglio il cuore.

 

- Luisa!

 

Adria! Era Adria che la chiamava dopo averla riconosciuta da lontano. In un paio di balzi l'amata sorella si fece largo tra la folla e con un gesto deciso scansò Serse, alzando Luisa di peso e con lo spavento negli occhi le chiese se quel caprone l'aveva importunata, pronta a regolare i conti sul fil di spada.



- E' stato un ladruncolo … mi ha spinto in terra …

 

Si sbrigò a chiarire alla sorella che aveva già posto la mano sull'elsa. Adria era stata al palazzo, dove trovò la marchesa ancora sconvolta dalla visita del figlio, e la mise in allarme nel non garantire sul luogo dove quel debosciato potesse averla condotta.
Luisa si rincantucciò nell'abbraccio della sorella, tenendosi stretta ai suoi poderosi fianchi guarniti dall'armatura di cuoio. Accanto ad Adria si sentiva al sicuro e non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo, anche se per la prima volta non le bastava più. Una parte di sé si ribellava e voleva tornare indietro in quell'angolino di strada.



- Parlatemi, vi prego … così mi farete preoccupare! Vi comprerò mille nastri più belli di quello …

 

Rimasta da sola con Adria, la sorella si avvide subito del turbamento che la continuava ad angustiare.



- In questa casa non vi tributano il giusto rispetto? Non avete di che pronunciare una parola e vi ricondurrò all'accampamento.

 

Accampamento! Luisa guardò quel donnone della sorella stretta della sua armatura, con i capelli gialli come la paglia che parevano tagliati con un coltello, la pelle del volto arsa dalla polvere e i denti ingialliti dal tabacco da pipa. Le carezzò delicatamente la guancia con la manina d'avorio e sentì le labbra ruvide della sorella baciarla inumidendola con due lacrime.



- Siete il bene più prezioso che ho e non vivo che per questi pochi momenti in cui posso incontrarvi.

 

Adria era la sola persona della sua famiglia che Luisa aveva mai incontrato.



- Dite solo una parola e vi condurrò con me … dovessi sfidare un'intera guarnigione o battermi con un'orda d'ittaki … una sola … parola …

 

Una sola parola per andare dove? Aveva ragione la marchesa a dirle che non avrebbe più potuto vivere in quel modo selvaggio e, forse, avrebbe fatto meglio ad accettare la corte di Alambardo per maritarsi in Verbo Lapis, secondo i costumi cittadini.



- Guardatemi Adria … amata sorella mia … ma mi vedete? Credete seriamente che potrei cavalcare per interi giorni o sfidare le intemperie in una tenda d'accampamento? Sono debole come un fuscello e piango per uno stupido nastro di seta rubato …

 

Adria avrebbe voluto rassicurarla perché l'avrebbe protetta lei da qualsiasi avversità, tuttavia si rendeva conto che la dolce sorellina oramai apparteneva a quel mondo di raffinatezze troppo distanti dalla rude vita di un pallacorde. D'altro canto, non si sarebbe mai perdonato il gesto di toglierle dalla pelle quel delizioso aroma di gelsomino.



- Forse … forse pensate di prender marito?

 

Le disse Adria pronunciando quelle parole a denti stretti.



- Se è questo che desiderate …

 

Luisa la cinse in un abbraccio sconsolato perché quel destino non le dava alcuna gioia … poi il ricordo dell'incontro appena avuto con quel ragazzo …



- Voi conoscete il giovane bovaro che mi ha soccorso giù in piazza?

Adria scattò in piedi, quasi si fosse punta le terga con uno spillone per capelli. Marciò fino in fondo alla stanza e poi si voltò con in volto uno sguardo sgomento.



- Perché lo volete sapere?

 

Per quel dandalo avrebbe imparato a cavalcare e certo non la spaventavano più le notti trascorse nell'alcova della sua tenda?



- E' stato molto cortese … non credevo esistessero bovari così a modo …

- E un dandalo stupratore di vacche … forse è lui stesso figlio della più intronata delle giovenche dandale …

 

La interruppe Adria ringhiando le sue accuse per quel manigoldo che aveva osato posarle gli occhi addosso.



- Che ho detto per farvi adirare tanto? Serse …

- State zitta! Non sopporto che le vostre labbra si sporchino pronunciando il suo nome.

- Io giuro che non vi capisco!

- Ha ragione la marchesa … la vostra lumia vi indurrà a qualche follia, facendovi finire ingravidata da qualche squinternato … mi assumo la responsabilità di lasciarle l'intero ricavato della vendita delle vacche per organizzare il fidanzamento con suo nipote, così da potervi permettere di generare una schiappa nobile del nostro clan in questa città di damerini … è una buona cosa e nostra madre capirà.

 

Era dunque questo il motivo per cui Adria le aveva chiesto di seguirla? Doveva scegliere se sposarsi o tornare tra la sua gente? Luisa si sentì avvampare dal dispetto di essere stata tradita dalla sola persona di cui si fidava cecamente.



- Non vi permetterò di decidere del mio destino.

 

Le disse perentoria.



- Staremo a vedere.

 

Le rispose con altrettanta stizza Adria, uscendo poi dalla stanza sbattendo la porta.




Una fuga d'Amore

 

 

Oramai i giorni della fiera d'autunno volgevano al termine e il timore di non rivedere Serse angustiava al punto la tenera fanciulla da costringerla a letto. Adria, pazza di gelosia, le impediva d'incontrare degli estranei. L'amore della persona più cara che avesse mai avuto, si rivelò una prigione da cui sentiva sempre più vivo il bisogno di fuggire.
A nulla valsero le molte suppliche che scrisse all'indirizzo delle terme di Lumidilla, per cercare il conforto della sola persona in grado di tenere a freno l'intraprendenza della marchesa, oramai impegnata nel fidanzarla col nipote.



- Colombella mia, forse mi accusate di disporre il meglio per il vostro matrimonio?

 

Nonostante il suo rifiuto, la marchesa aveva accettato l'anello che Alambardo le mandò in pegno della loro futura unione. Era un gioiello bellissimo che sapeva ben abbagliare la ragione di qualsiasi madamigella. Luisa lo rivoltava tra le mani senza avere il coraggio d'infilarlo al dito. Eppure qual era la ragione per cui non l'avrebbe dovuto gradire? L'incontro fugace con quel bovaro non significava nulla. Serse era un dandalo … sua sorella non mentiva sui costumi di quei selvaggi e il giorno che lo aveva conosciuto in piazza, aveva rischiato seriamente di essere rapita. Allora perché non lo aveva fatto? Non la trovava abbastanza graziosa? Che impudente a non averla rapita! Era assai probabile che quello zotico avesse avuto di meglio da fare al ninfeo e mentre lei stava languendo negli spasimi, lui si dava al sollazzo tra le braccia di qualche vestale.



- Restituite l'anello e qualsiasi altro dono di Alambardo.

 

Nel momento in cui pensava a Serse in quei termini, un tal fervore le montava su per le viscere che non avrebbe titubato un solo attimo a trafiggergli il petto con uno stiletto! Stupido caprone dandalo, si diceva tra sé, prima di ritrovare il coraggio di sputare fiele su ogni fortuna che la marchesa le prospettava.



- Vi giuro sulla mia lamia protettrice che non ho ricevuto neanche una delle vostre missive.

 

Quando ormai Luisa aveva abbandonato ogni speranza per quel suo dissennato invaghimento, giunse a farle visita il marchesino Vito.



- Non dovreste riporre troppa fiducia nella servitù falleda al soldo di mia madre.

 

Vito aveva udito il gran baccano che stava suscitando in città il suo amore per un bovaro dandalo e voleva assicurarsi che non stesse seriamente sul letto di morte, come volevano certe dicerie ebbre di romanticismo.



- Ditemi piuttosto se è bello come si racconta.

 

Nessuno aveva visto Serse che il padre teneva in disparte per proteggerlo dall'ira di Adria.



- Veramente non sapete cos'è arrivata a fare quell'ubriacona di vostra sorella!

 

Lo stesso giorno in cui Luisa le parlò per la prima volta di Serse, Adria era andata dritta al bivacco dandalo per sfidarlo a duello. L'accolse il padre Laerte che le diete sfoggio di tutta la proverbiale goliardia di cavaliere dandalo.



- Fratelli miei, quanti di voi oggi non si chiamerebbe Serse pur d'incrociare il proprio dardo con una così audace dama?

 

Laerte prese per il naso Adria spacciando per suo figlio dieci dei suoi più forti bovari e tutti insieme la scalciarono mandandola a ramengo.



- Povera sorella mia!

 

Esclamò Luisa, sentendosi responsabile di tutto quel trambusto.



- Non prendetevi troppa pena per quella macina di zenzero, la sera venne al ninfeo e consumò di carezze ben dieci fanciulle.

 

Vito continuò a raccontarle che all'alba del mattino seguente, completamente spossata da una notte di bagordi, Adria raccolse in adunata il drappello dei suoi cavalieri Pallacordi e si recò di nuovo al bivacco di Laerte.



- Pretendo che mi mostriate il volto di quel codardo!

 

Alzando la spada al cielo, Adria chiamò a testimone Hat della volontà di rendergli la vita in cambio di quella di Serse. Al che Laerte, stanco dei suoi muggiti, montò a cavallo del suo bel frisone e fronteggiò da solo i Pallacordi.



- E quale sarebbe la ragione che vi obbliga a sottrarmi l'affetto del mio più giovane figlio?

 

Adria accusò Serse di aver attentato alla serenità dell'amata sorella e si appellò al presunto onore che tanto i dandali vantavano per guardare in faccia lo svergognato. Laerte chiamò dunque Serse che si avvicinò sulle sue gambe. Se ne stette ritto dinanzi ai cavalieri col suo incarnato esile e i lineamenti del volto assai meno ruvidi di quelli del padre, che era un maschio tanto agile quanto robusto dalla zazzera rossiccia e occhi beffardi che parevano irridere la morte stessa.
Dopo che Laerte declamò il nome del figlio e i titoli del proprio casato, Adria non si face scrupoli degli appena diciassette soli del rivale e gli si avvicinò con la spada sguainata, raccontando di quando, ancora una giovane virago, all'età di Serse aveva già compiuto la sua prima carica.



- Avete ragione, quest'imbecille non sa tenere bene la spada in mano …

 

Intervenne Laerte frapponendosi con il suo destriero tra Adria e Serse.



- Tuttavia è il miglior bovaro che questi colli abbiano mai avuto e se volete sfidarlo, vi conviene togliervi l'armatura e iniziare a correre come la vecchia vacca quale siete.

 

Adria trattenne in un gesto la reazione dei propri cavalieri e si tenne l'insulto per lavarsene da sola l'onta. I due cavalieri frapposero tra loro la distanza di un assalto per poi lanciarsi all'attacco. Adria impugnò alta la spada mentre Laerte tenne inguainata la sua, schivando quella della sua avversaria con un'acrobazia. Le risa di scherno applaudirono la spavalderia di Laerte, mentre l'orgoglio faceva perdere il senno alla rivale che si gettò in un secondo assalto a testa bassa. Un gesto avventato perché l'avversario l'aveva indotta a fare proprio quello che voleva.
Schivando anche il secondo assalto, il dandalo poi la inseguì e balzò sul cavallo dell'avversaria. Il destriero di Adria inchiodò la corsa, tradendo gli speroni che continuavano a infilzargli i fianchi. A nulla valse la resistenza della cavaliera che in pochi gesti si vide denudare degli armenti meglio che da un ladro saltimbanco di fiera.



- Avete intenzione di cominciare a correre o non ne avete avuto ancora abbastanza?

 

Si sentì dire Adria, tra le risa di scherno dei suoi stessi cavalieri, quando si ritrovò disarcionata con i seni nudi. L'orgoglio le avvelenava il sangue e avrebbe certo preferito l'onore di essere stata appena trafitta da una spada, piuttosto di perdere il rispetto dei propri uomini. Laerte però non voleva trascinare il suo clan in una dissennata faida e preferì umiliare ancora la principessa Pallacorde. Si denudò anch'egli il petto e la raggiunse nel fango per affrontarla a mani nude. Adria riuscì ad assestargli un paio di cazzotti sul grugno che gli fecero sanguinare il naso, ma servirono a Laerte per prendere le misure dei suoi colpi, dopo di che Adria si ritrovò a menar pugni alle mosche e bastò un gran calcio sui suoi poderosi fianchi, per mandarla a far compagnia al suo tanto declamato onore con la faccia su una merda di vacca.



- … e ora portate il vostro brutto grugno lontano dalla mia vista.

 

Laerte le ghignò sul muso di non farsi più vedere perché prima che la punta della sua spada avesse potuto anche solo sfiorare suo figlio, avrebbe rivoltato le budella a ogni Pallacorde di tutti i Colli Aleusini.



- Come v'invidio Luisa! Sarete ricordata nelle ballate come la magnifica principessa per cui il suo cavaliere dandalo sfidò coraggiosamente l'infausta sorte del loro amore …

 

Luisa non ci trovava nulla di romantico nell'onta che aveva inflitto ad Adria costringendola a difendere il suo onore con quei selvaggi. Ora temeva che la sorella finisse per compiere un'altro dei suoi azzardi, finendo per trascinare i Pallacordi in qualche truculenta faida tra clan.



- Se non v'importa nulla del dandalo, allora maritatevi con quel cicisbeo di Alambardo …

 

Le disse Vito, quando si stancò delle sue titubanze.



- Avvizzirete tra queste mura come mia madre e avrete per certo la sventura di partorire un figlio debosciato come il sottoscritto … ma …

 

Vito le suggerì una seconda opportunità, scellerata come lo erano tutte le sue proposte, ma cui il cuore di Luisa si aggrappò contro ogni assennatezza.



- Chi non può mutar gli eventi tirando di scherma, ci può sempre provare agitando la piuma d'oca.

 

Seduto allo scrittorio, il suo impavido confidente si preparò a vergare una lettera da far recapitare al bivacco dandalo. Nella missiva chiedeva da parte del padre dei servigi per una futura vendita di capi di bestiame, per il cui contratto avrebbe dovuto recarsi a palazzo per conferire con la signoria sua.



- Tremo al solo pensiero di quando si presenterà al portone … cosa gli diremo?

- Sorellina mia smettetela di tremare a ogni piè sospinto o i vostri graziosi petali cadranno come foglie ingiallite a primavera.

 

Vito era assai meno sciocco di quanto paresse e nella trama del suo folle piano seppe intrecciare la convenienza di tutti. Convinse per primo il padre che era nell'interesse del proprio casato risolvere la questione prima di farla degenerare in una truculenta faida tra clan. Il marchese convenne con lui che comprare qualche vacca dal dandalo, poteva convincerlo a tornarsene il più presto possibile in qualcuna di quelle loro remote e gelide lande del nord. Vito fece poi credere alla madre che Luisa, pur di sottrarre la sorella alla lama di quel tagliagole, era disposta a farsi impalmare da Alambardo. Affinché il piano si compisse, mancava solo un'ultima lettera da scrivere e spettava a Luisa farlo.



- Dovrete scrivere parole appassionate con cui lo pregherete di partecipare all'incontro … se non lo farà, colombella mia, avrete ragione voi e il vostro è stato solo un tragico abbaglio.

 

Il nesso del marchesino corse più volte avanti e indietro fuori le mura, dove le leggi cittadine confinavano i bivacchi dei selvaggi lammidi. Il sospettoso Laerte acconsentì all'incontro solo dopo che il figlio gli lesse l'accorata missiva di Luisa. Per quanto si rendesse conto del pericolo cui stava esponendo il proprio stesso clan, si arrese un'ennesima volta allo sguardo innamorato di quel suo ragazzo, capace di sciogliergli il cuore ogni volta che acconsentiva a un suo capriccio.



- Padre, vi sarò eternamente grato per quello che fate per me …

 

Il pomeriggio dell'incontro, Luisa era dal mattino che si preparava indossando tutti i suoi abiti dalle stoffe pregiate e mentre Serse già cavalcava alla destra del padre, lei s'infuriava con Vito perché pretendeva d'intrecciarle i capelli con un bizzarro grappolo di glicine. Gli aveva appena schiaffeggiato il dorso della mano, quando la serva corse via dalla finestra sulla strada per annunciare l'arrivo del drappello dandalo.



- Per tutte le Lamie dei boschi! Spero solo di non sdilinquire dinanzi a quei maschioni …

 

Commentò Vito, incapace di distinguere Serse tra i quattro vigorosi cavalieri che lo accompagnavano. Basta con le amenità! Disse a Luisa, ora dovevano calcolare i tempi per recarsi nel salone delle feste solo dopo le introduzioni ufficiali tra le due delegazioni a convegno. La marchesa aveva invitato all'incontro anche Alambardo, uno stratagemma escogitato per costringere Luisa a porgergli la mano al momento delle presentazioni come sua fidanzata.



- Padre … non sono più certo di quanto vi dissi l'altro giorno …

 

Il portone del palazzetto si aprì scorrendo agile sui gangheri lubrificati per l'occasione con grasso di porco, schiudendo innanzi allo sguardo il luminoso vestibolo. L'eco degli zoccoli dei cavalli rimbombò nelle volte a botte del colonnato, fino a quando gli imponenti destrieri giunsero sul bordo della bella fontana, dove potettero cacciare il muso negli zampilli d'acqua limpida e fresca.



- A volte mi chiedo se quella gran vacca di tua madre non si sia fatta montare da un branco di pavidi conigli, solo per farmi dispetto nel darmi per figlio un tale gracile leprotto.

 

A spaventare Serse non furono i centurioni assoldati dal marchese per incutere il dovuto rispetto per le sue sostanze. Bensì, fu quell'atrio dai colonnati perfettamente simmetrici che disponendosi su due piani, pareva fargli un sortilegio in un capogiro. Lui che fino a quel giorno aveva vissuto nelle tende degli accampamenti, con i piedi sempre sporchi di merda di vacca, si sentiva come disceso in qualche meraviglioso ninfeo subacqueo, dove camminava su passi fluttuanti sopra quei marmi talmente lucidi da sembrare trasparenti.



- Padre … non credevo potessero esistere luoghi come questo!

 

Serse si perdeva con lo sguardo tra i ghirigori dei soffitti altissimi e non poteva far a meno di stupire ogni volta che svoltava da un corridoio di specchi, in un salone con arazzi che ritraevano scene di una vita che a lui pareva di un altro mondo.



- Togliti dalla faccia quello sguardo da bifolco, questi damerini di città fanno sfoggio della loro ricchezza solo per metterci in soggezione …

Lo rintuzzò Laerte, anche se quel rimprovero pareva rivolgerlo più a se stesso.



- Lo dico anche voi … bovari … siamo dandali e non ci costruiamo dimore come queste solo perché preferiamo vivere come ci hanno insegnato i nostri avi … e, in fondo, si tratta solo di non dar fiato alla pancia a scandalizzare questi signori profumati di lavanda.

 

Un sorriso di scherno si dipinse sul volto degli orgogliosi bovari, quando entrarono nel grande salone delle feste, dove ad attenderli c'erano i marchesi, assisi dietro uno scranno su cui troneggiavano due candelieri accesi e una cornucopia da cui traboccavano leccornie di ogni sorta.



- Sono felice di accogliervi nella mia umile dimora …

 

La marchesa, come da etichetta, si alzò in piedi e con un ampio gesto accolse gli ospiti dando loro il benvenuto nella sua casa.



- Vi prego accomodatemi mentre vi presento il padre dei miei figli.

 

Laerte addentò voracemente una mela per dimostrare agli astanti la propria spavalderia, mentre la marchesa continuava nelle formalità di rito.



- … codesto assiso alla sinistra è il mio nipote Alambardo dei Gaddei Attachi, quarto figlio della mia cara sorella marchesa del casato Vullo di Rocca Asturia …

 

Quando finalmente le varie genealogie dei presenti furono declamate e la parola spettava a Laerte per presentarsi in maniera degna, questo spinse indietro la seggiola ma, invece di alzarsi, allargò le gambe e strizzandosi il cavallo dei pantaloni, domandò …



- Mia illustre signora, vi dimenticate di presentare la femmina che qualche giorno addietro giunse al mio bivacco per insultare la stirpe cui sono fiero d'appartenere … o devo pensare che si nasconda dietro uno di questi vostri costosi arazzi, con la mano a brandire l'elsa per prendersi con l'inganno quanto non riuscì a ottenere con l'onore?

 

Il marchese, che era più avvezzo a interloquire con quei selvaggi, prese la parola e lo fece intonando una grassa risata, come se l'avvertimento del dandalo fosse stato inspirato da uno dei loro motti celebri per l'irriverente goliardia.



- Caro mio, non stiamo certo qui a dipanar questioni di femmine, bensì a disquisire affari da cui trarre entrambi profitto.

 

La conversazione fu abilmente ricondotta nell'alveo di un affare vantaggioso, nel cui contratto si vergava tra un rigo e l'altro la rinuncia di Laerte a difendere l'onore del figlio per l'affronto ricevuto da Adria. Erano giunti sul punto di graffiare la carta con l'inchiostro di un pennino d'oro, quando una porticina sulla destra della tavolata cigolò aprendosi.



- Oh, figlio e voi colombella mia … oramai non credevamo ci avreste onorato della vostra presenza.

 

Disse la marchesa, balzando dalla sedia e correndole incontro con lo spavento in volto.



- Madre, non avremmo mai mancato il privilegio di essere presentati ai vostri ospiti.

 

Luisa camminava trattenendo il fiato e se non avesse avuto il braccio di Vito cui sorreggersi, sarebbe svenuta in una vertigine d'imbarazzo.



- … e questa graziosa madamigella è Luisa dei Pallacordi Lammidi, discendente diretta della veneranda madre capostipite del suo glorioso clan.

 

Laerte si alzò e come nel costume nella cultura lammide, che tributava il massimo rispetto a una futura matriarca, si piegò sul ginocchio sinistro, porgendo il suo saluto baciando un lembo del broccato rosso di cui era fatta la veste di Luisa.



- Vi chiedo perdono per non avervi tributato il giusto ossequio la prima volta che ho avuto l'onore d'incontrare una così importante discendenza.

 

Luisa si sentì rinfrancata nel trovare in quell'uomo l'assennato rispetto delle tradizioni.



- … mio figlio Serse …

 

Suo figlio Serse si alzò come aveva fatto prima il padre e compiendo gli stessi gesti si avvicinò al lembo della veste di Luisa. Ebbe uno stordimento quando ne risalì le sinuose pieghe intorno a quel corpicino fremente. Era dunque vero? Il suo Inn si rivoltava nel desiderio di unirsi a quell'universo di tenero Mag. Lo sguardo della principessa si posò lieve sui suoi occhi con ali di farfalla e non ci sarebbe stata più nessun'altra gioia al mondo che avrebbe eguagliato quello stato di grazia.



- Perdonate mio figlio, è solo un bovaro poco avvezzo all'etichetta …

 

Si sbrigò a sottolineare Laerte, quando Serse non seppe pronunciare neanche un complimento per quella meravigliosa creatura.



- Luisa!

 

Esclamò, invece, la marchesa, quando la vide protendere la manina verso il giovane dandalo. Se questo l'avesse raccolta, Luisa avrebbe abbandonato il braccio di Vito e si sarebbe fatta condurre al tavolo da lui. Era un dichiarato assenso a farsi corteggiare! Serse accolse nel suo palmo le dita affusolate di Luisa e le strinse con la premura con cui una volta tenne un passero cui le ali tremavano dallo spavento. Senza capire come tutto quello fosse potuto accadere, si ritrovò al fianco di una principessa, dinanzi al padre che doveva benedire la sua scelta.



- Serse …

 

Laerte non seppe proferire più del nome di quel figlio che in cuor suo era stato sempre il preferito. Alla marchesa venne meno il senno e richiamò alla ragione il cavaliere dandalo …



- Sapete cosa andrete incontro se li benedirete … Luisa è promessa in sposa a mio nipote Alambardo!

 

Una faida tra clan era quanto di meno ci si potesse augurare e certo quella raffinata principessa Pallacorde cresciuta nella bambagia, pareva un lussuoso paravento da cavalcatura cavalleresca messo in groppa a un ruvido e selvaggio frisone dandalo.



- Serse …

 

Laerte pronunciò di nuovo il nome del figlio, ma stavolta in tono sconsolato perché non poteva concedergli quel dono, della cui rinuncia sapeva che gli avrebbe lacerato il cuore.



- Padre …

 

La mano di Serse si strinse su quella di Luisa che d'istinto gli si aggrappò al tronco per non naufragare nel dolore di un diniego.



- Mi chiedevo se fossero reali le dicerie che vedono nei dandali dei rapitori di fanciulle …

 

Esordì Vito quando ormai la speranza si scioglieva in lacrime della sua protetta.



- … un cuore ubriaco d'amore sa ben riconoscere il senno nella propria follia.

 

Serse trattenne un sospiro per sentire meglio il cuore di Luisa che gli batteva sul petto e poi decise per una rincorsa al fine di raggiungere e saltare l'ostacolo che gli sbarrava la via della felicità. Il marchese urlò l'ordine di sprangare ogni porta del palazzo e i centurioni posero la mano sull'elsa, ma nessuno osò contraddire le lame dandale che prima di ogni altra, sguainarono la propria affilata volontà.



- Ai cavalli!

 

Risuonò perentorio l'ordine furente di Laerte che si lanciò nella corsa, coprendo la fuga del figlio. I centurioni del Marchese, impacciati nelle loro armature d'argento, non potettero stare dietro a quegli agili bovari che balzarono direttamente nel vestibolo del palazzo, gettandosi oltre le balaustre del primo piano.



- Madamigella, mi auguro che sappiate a cosa andate incontro …

 

Chiese Laerte a Luisa quando la prese sotto le braccia per sollevarla sulla cavalcatura del figlio. La ragazzina sapeva ben poco di quanto le stava accadendo, seppure mai nella sua giovane vita si fosse sentita altrettanto certa di star facendo la cosa giusta. Si strinse al giovane dandalo e chiuse gli occhi affidandosi al proprio amore. Il galoppo degli zoccoli dei frisoni sul selciato delle vie di Genesta risuonava all'unisono con il cuore in tumulto di Serse. Quella vigorosa e travolgente corsa sembrava proteggerli da ogni incertezza, mentre con il volto Luisa cercava di scavarsi una tana nel petto del suo impavido cavaliere.



- Prendete solo l'indispensabile … e tornatevene nelle lande del nord.

 

Giunti al bivacco, Laerte galoppò tra le tende squarciandole in punta di spada. Non c'era tempo di raccogliere nulla e dovevano frapporre più strada possibile con gli inseguitori, che in quel momento stavano sicuramente organizzando una spedizione per raggiungerli. Ordinò ai bovari di far ritorno nei rispettivi clan e metterli in guardia dalle rappresaglie Pallacordi, mentre lui e Serse galopparono alla volta del Pascolo Sempre Verde per ricevere la benedizione della veneranda madre di tutti loro.



La Tenerezza del Deorum Ignis

 

 

La fuga di Luisa gettò lo scompiglio nelle stanze del palazzetto Buccardi. La marchesa era svenuta tra le braccia del nipote Alambardo che da parte sua ancora non realizzava le ragioni di tanto trambusto.



- Scellerato! Non sapete cosa avete scatenato …

 

Il marchese inveiva contro quel figlio debosciato e si rimproverava di non averne intuito il folle piano.



- … che nessuno si lasci sfuggire una parola sulla verità.

 

Il marchese si preoccupava dell'ira di Adria quando avrebbe appreso del rapimento. Certo non si sarebbe fatta scrupoli a passarli tutti sul fil di spada, avesse saputo di quel contratto che a sua insaputa stavano stringendo con i dandali.



- Diremo che si sono introdotti furtivamente e a nulla è valsa la nostra strema resistenza …

 

Dopo aver istruito i servi falledi sul da farsi e pagato a peso d'oro il silenzio dei centurioni morri, si appiccò il fuoco a una balla di fieno umido nella stanza di Luisa, affinché risuonasse l'allarme dell'incendio dalle campane municipali. Sarebbe stato il fumo con tutto lo scompiglio che ne sarebbe venuto a richiamare l'attenzione dall'accampamento Pallacorde.



- Luisa! Che ne è della mia amata sorella?

 

L'incendio si propagò accidentalmente nel sottotetto, consumando le travi di legno fino a farle cedere sotto il peso delle tegole e le scintille volarono alte contro un cielo che si preparava all'imbrunire. Seppure paresse una vera sciagura, le fiamme non lambirono i piani nobili del palazzetto e soprattutto mettevano al riparo i suoi abitanti dalla vendetta dei Pallacordi.



- Chi è stato a compiere questo scempio?

 

Nessuno riuscì a trattenere Adria che si gettò tra le fiamme nel tentativo di trarre in salvo l'amata sorella. I marchesi sperarono vanamente che vi rimanesse arsa viva perché, quando ritornò, volle ascoltare più volte la storia di quanto accaduto. Adria rifiutò spavalda il drappello di centurioni che le autorità cittadine le mettevano a disposizione per l'inseguimento. Presto fatto, la valchiria pallacorde montò in groppa al suo destriero e ordinò ai suoi di mettersi sulle tracce dei rapitori.



- Questo è un affronto che sarà lavato col sangue.

 

Quando la coltre di Zena avvolse il giorno, Laerte dette ordine di smontare le cavalcature per lasciar rifocillare i cavalli stremati dalla corsa. Avevano percorso troppe poche miglia per sentirsi al sicuro e non potettero accendere un fuoco per scaldarsi dai rigori della notte autunnale.



- Riprenderemo il cammino prima dell'alba …

 

Si strinsero l'uno contro l'altro com'erano avvezzi fare i bovari quando non avevano una tenda dove ripararsi. Serse aveva avvolto la sua amata nella coperta del sottosella e la stringeva a sé per proteggerla dallo spavento che la faceva tremare ben più dei rigori della notte.



- Padre, ora che succederà?

 

Laerte aveva acceso la pipa e solo dopo aver meditato tra i fumi conciliatori delle foglie di tek, si era accostato a Serse. Luisa pareva finalmente aver ceduto alla stanchezza e riposava col capo sul petto del suo promesso sposo.



- Sfiderai a duello quella pazza di tua cognata che certo userà le tue budella per impiccarti.

 

I due ragazzetti rincantucciati uno sull'altro parevano dei passerotti senza nido, vulnerabili a tutte le avversità del mondo.



- Potrei imparare meglio a tirare di scherma …

- Hai abbastanza fratelli capaci di farlo meglio di te.

- Ma io …

- Avresti dovuto consultarmi prima di compiere un gesto così dissennato.

- Non so cosa mi abbia preso …

- Conosco bene la follia che un tenero Mag arriva a ispirare …

- Potrete mai perdonarmi?

- Quel giorno che ti ho portato in città, avrei dovuto condurti dritto al ninfeo.

- Vi prego, non trattatemi da ragazzino solo perché non so impugnare un'elsa.

- Almeno se fossi un dimidium, avresti imparato a tenere in mano il dardo di un toro …

 

Laerte trattenne una delle sue chiassose risate e grattò la testa a quel suo cucciolo ribelle. Avrebbe voluto dirgli che si sarebbe fatto ben volentieri cavare le budella, prima di permettere a chicchessia di torcergli un solo capello.



- Ha ragione tua madre … non è salutare che un maschio sia ancora vergine alla tua età.

- Mia madre è più prolifica di una giovenca.

- E' per questo che il senno non le manca.

- Dunque credete seriamente che un maschio possa divenire femmina?

- Non è salutare trattenere il mitis.

- Vi prego! Ancora con queste dicerie da sciamani …

- Non sono dicerie e porta rispetto per i nostri sciamani.

- E' finito il tempo degli sciamani, il futuro è nel sapere del Verbo Lapis …

 

Tra tutte le sciagure che gli potevano capitare, quella di trovarsi un figlio teoita era sicuramente la più disonorevole.



- Noi dandali apparteniamo alle lamie e non c'inginocchieremo mai davanti al Dio dei tommacei.

- Voi non capite …

- E cosa c'è da capire? Te l'ha imposto il tuo maestro speziale di rapire questa madamigella?

- Che significa?

- Vuol dire che lo impalerei a quell'infingardo sobillatore di giovani.

- Nessuno mi ha ordinato di fare nulla.

- Invece sì! E' quello che cerchi di nascondere nel cavallo dei pantaloni ad averti ispirato. E' il dardo che t'infiamma le viscere come a qualsiasi maschio … specie se dandalo, ragazzo mio.

- Padre, questa fanciulla sarà la sola femmina con cui dividerò la mia tenda … L'ho sentito! L'ho sentito il Deorum Ignis scendere sul mio capo e infondermi il coraggio … Il nostro destino è scritto in Verbo Lapis ed io le sarò fedele per tutta la vita.

- Ah, che mi tocca sentire!

- Vi prego … lo so che potete capirmi, voi non siete come mia madre che …

- Che ti ha ripudiato dal clan per queste stramberie da speziale.

- Voi mi avete accolto nella vostra tenda …

- Forse ho sbagliato.

- Se pensate questo, lasciatemi al mio destino di ramingo.

- Tu e la tua colombella resterete nel clan com'è stato per me e quelli prima di me.

 

Prima che le cuspidi di Hat ingravidassero di un nuovo giorno l'aurora, i dandali erano già a cavallo dei loro frisoni, lanciati al galoppo verso le montagne più a nord dei Colli Aleusini. Il paesaggio lentamente si spogliava delle frescure dei boschi per divenire una steppa brulla spazzata dai venti freddi che giungevano dallo JiaddGrow. Luisa era stremata dalla fatica e si sentiva svenire quando chiese a Serse di poter riposare presso un torrente che stavano guadando.



- Non siamo al sicuro, anche se stiamo nelle nostre terre.

 

Luisa aveva le mani intirizzite dal freddo e avrebbe scambiato volentieri il suo bellissimo abito per un cappotto di pelle di vacca.



- Il nostro accampamento è nella landa bassa, perché continuiamo ad andare a nord?

- Ti porto dalla veneranda madre.

- Perché?

- Hai bisogno della sua benedizione.

- Altrimenti?

- Altrimenti farai come ti ordina tuo padre o ti frusterò fin quando ti saranno passate le caldane.

- Credevo …

- Che cosa credevi? Quella che hai rapito è una principessa Pallacorde che discende direttamente dalla capostipite del suo casato. Ci saranno almeno i cavalieri di una decina di clan che in questo momento si saranno messi agli ordini di sua sorella per venirsela a riprendere.

- Lei mi ha scelto e vuole restare con me!

- Per tutte le cuspidi dei titani, Serse! Lo vuoi capire che quella ragazza non partorirà semplicemente i tuoi figli? Lei con te genererebbe una nuova stirpe di Pallacordi Dandali.

- Preferirei morire piuttosto di rinunciare a lei.

- Se la veneranda madre benedirà il nuovo clan, allora tutti i dandali sguaineranno la spada in sua difesa.

 

I cavalli si rimisero in marcia per gli irti sentieri che continuavano ad arrampicarsi su per la grande montagna della Sempre Visa, che celava il pianoro del Pascolo Sempre Verde, dove l'accampamento della veneranda madre stazionava. Sui due ragazzi gravava il giudizio della politica, mentre loro avrebbero voluto pronunciare la promessa di fedeltà attraverso cui il Deorum Ignis li avrebbe uniti per sempre, proteggendo la tenerezza del loro amore contro ogni avversità.



Un Verdetto Saggio

 

 

Il Pascolo Sempre Verde si stendeva intorno a una sorgente termale, che formava una corona di laghetti sul pianoro artificiale creatosi in un'antica cava di travertino. La Lamia di quelle sorgive era tanto salutare quanto puzzolente e ingialliva addosso alle rocce bianche come fosse catarro.
Nessuno ricordava più da quanto tempo la veneranda madre vi avesse piantato la sua tenda. Del resto non c'era dandalo più anziano di lei, che aveva veduto gli Zenosti iniziare a tagliare il travertino della montagna Sempre Visa. Le leggende sciamane raccontavano che, grazie a quelle acque, Jeredra non era più di carne e ossa, essendosi tramutata nel tempo in una vereconda Lamia arborea delle sorgive.



- La vecchia Jeredra saprà cos'è meglio fare …

 

Percorrendo il sentiero in una gola rocciosa dalle pareti altissime, si valicava la Sempre Visa evitando i suoi ghiacci perenni. Dopo un giorno di cammino, la vista si apriva sullo spettacolare paesaggio di una valle in quota sagomatasi con gli innaturali tagli verticali nella roccia bianca di travertino, compiuti centinaia di anni addietro dalle macchine degli Zenosti. I vapori delle sorgive termali formavano una bruma opalescente che avvolgeva il popoloso accampamento stanziale, costruitesi nel tempo attorno alla grande tenda circolare di Jeredra.



- Se la veneranda madre vi benedirà, tu e la tua colombella sarete i primi di una nuova stirpe.

 

Appena giunti all'accampamento, ci si accorgeva che non era dell'erba a colorare il Pascolo Sempre Verde, bensì una sorta di muffa che fioriva su uno strato di torba resa fangosa dalla neve, la quale si scioglieva prima di toccare il suolo, formando una pioggerellina appiccicosa come del sudore.



- Padre, questo luogo è spettrale!

 

Smontarono da cavallo perché non era possibile muoversi nei sentieri tortuosi che si snodavano attorno alle tende piantate alla rinfusa. Le quali, non smontandosi da parecchi decenni, si erano tramutate in complesse baracche, su cui i detriti del tempo continuavano ad ammassarsi con cianfrusaglie varie.



- Padre, cos'è questo puzzo irrespirabile?

 

I vapori sulfurei termali esaltavano l'afrore del liquame fangoso delle strade, che si rimestava a ogni passo ed esalava il suo alito nefasto come se aspirato da un mantice direttamente su da una cloaca.



- Padre, come fanno tante persone a scegliere di vivere qui?

 

Vecchi, malati, storpi o chiunque altro sentisse il proprio Inn raffreddarsi, giungeva al Pascolo Sempre Verde da ogni parte del Bush, con la speranza di trarre rimedio per la propria salute da quelle salvifiche acque termali che avevano reso Jeredra immortale.



- Padre, vi prego …

 

Laerte era stato portato in quel luogo quando era ancora bambino e ne aveva serbato un ricordo spaventoso, come a volte lo è la magia nelle fiabe. Gli era stato raccontato che tutti i Dandali discendevano da Jeredra e, gli orfani come lui, potevano consultarla al pari di una madre affettuosa. Fu durante la fiera degli Arditi, dove i giovani dory e le giovani virago si sfidano per conquistare la loro prima cavalcatura, che incontrò una sciamana divinatrice capace di predire il futuro interrogando un dito ramificato che si era staccato direttamente da una mano di Jeredra. A quel tempo era poco più di un ragazzo e si mise in fila, con il soldo stretto nel pugno da far cadere nella ciotola della sciamana, per interrogare il dito appartenuto alla madre di tutti loro. "Un soldo … una domanda" Lo avvertì minacciosa la vegliarda quando entrò nella sua tenda, mostrandogli quello che pareva proprio un dito con le nocche grosse e le falangi scheletrite. Il giovane Laerte strinse il pugno destro sul cuore e celò lo sguardo nel palmo della mano sinistra, nel modo in cui la nonna gli aveva insegnato a chiedere ogni sera, prima di coricarsi, la protezione della veneranda madre.



- Padre … voi non mi ascoltate!

 

"Un soldo … una domanda" Laerte aveva preferito gettare il suo soldo per la birra nella ciotola della sciamana, perché aveva nel cuore un dubbio che gli opprimeva l'animo da quando versò il suo primo mitis e fu mandato nella tenda dei maschi. Fu allora che la nonna gli indicò un valoroso cavaliere asserendo che fosse suo padre. Un ragazzo senza madre non aveva titoli per imporre a un maschio di assegnargli il proprio nome e quel cavaliere lo aveva irriso davanti a tutti, quando gli chiese d'istruirlo, se non come un figlio, almeno di prenderlo a suo servizio per addestrarlo da dory.
"Un soldo … una domanda" Quella di Laerte era per il vero la supplica di un figlio alla propria madre. L'indomani avrebbe lottato per la sua prima cavalcatura di cavaliere e chiese a Jeredra di negargli quello per cui si era preparato da dory, se la nonna avesse avuto solo pietà di lui quando gli raccontò di essere figlio di un cavaliere piuttosto di quel beone che dicevano tutti. La sciamana leccò il rametto e, rivoltando all'indietro gli occhi, fece ciondolare la testa un paio di volte prima di dargli una risposta. "Sarai cavaliere" disse "Incontrerai Jeredra" aggiunse prima che Laerte uscisse dalla sua tenda "Le renderai ciò che è suo" continuò porgendogli la sua preziosa reliquia "Custodiscila come lei custodirà te" lo redarguì mentre gli legava al collo il cordoncino di cuoio su cui era stato annodato il rametto "Ora Jeredra ti deve un favore per tutte le pene che sosterrai" concluse la sciamana, ghignando un sorriso beffardo.



- Padre, anche Luisa si chiede dove ci state conducendo.

 

Il mattino dopo Laerte affrontò spavaldo ogni prova e conquistò la cavalcatura più importante. Da cavaliere non era mai stato sfiorato da una lama mentre la sua sfrontata goliardia aveva disarcionato chiunque gli si parasse dinanzi. Le femmine gareggiavano tra loro per accoglierlo tra le proprie cosce e gli dettero parecchi figli, cui ebbe l'onore di imporre il suo nome e diventarne il patriarca. Tuttavia, fu solo quando vide per la prima volta Serse che si sentì padre. Quel ragazzetto bagnato e male in arnese lo seguì per giorni senza trovare il coraggio di entrare nella sua tenda. La madre lo aveva bandito perché nella disputa tra lo speziale del suo accampamento e uno sciamano, questo aveva indicato nel pupillo dell'avversario, un portatore del malocchio.



- Padre, ho veduto un accampamento degli speziali … sono certo che …

 

Aveva accolto Serse nella propria tenda e gli aveva assegnato il giaciglio accanto al suo. Cercò d'istruirlo da dory come aveva fatto con i fratelli, ma era troppo grande e con la testa ubriaca dei nuovi insegnamenti del Verbo Lapis. Nonostante tutto, gli si riempiva il petto d'orgoglio ogni volta che lo vedeva cavalcare appresso alle vacche e diceva che era il miglior bovaro di tutti i dandali … anche se non era vero. Durante le lunghe chiacchierate accanto al fuoco della sera, si era abituato ad ascoltare dalla bocca del figlio la tenerezza di parole che non aveva mai trovato l'audacia di pronunciare. La dottrina del Deorum Ignis usava l'affettuosità tra le persone per regolare il nuovo mondo: l'amore esclusivo della madre dei propri figli, l'affetto di un padre capace di difendere la sua famiglia, tutto questo dentro una sola tenda chiusa con il sigillo di una promessa in grado di mettere al riparo dalle intemperanze del cuore.



- Padre, vi ostinate a non capire!

 

Laerte sentiva che era giunto il momento di compiere la profezia della sciamana incontrata il giorno prima del suo cavalierato. Lei gli aveva ceduto quella reliquia che l'aveva resa celebre, perché a sua volta l'aveva ricevuta con il dovere di consegnarla a un futuro cavaliere in grado di restituirla a Jeredra. Ora doveva compiere il proprio destino e chiederne la giusta ricompensa, ossia la benedizione per la nuova stirpe che suo figlio avrebbe iniziato insieme alla principessa Pallacorde.



- Serse, so quello che faccio …

 

Disse spazientito dall'insistenza del figlio per andare a chiedere udienza presso l'accampamento dei monaci teoiti.



- Ci andremo dopo dai tuoi monaci.

 

Laerte stava cercando la tenda della matrona Tedra che era una sua prozia e sedeva nel cerchio magico nella tenda della veneranda madre. Solo per sua intercessione avrebbe potuto sperare in un incontro con Jeredra. Dopo aver domandato a dritta e a manca riuscirono a trovare la sua tenda. Appena chiese udienza, le nipoti di Tedra lo fecero accomodare e gli servirono decotti di erbe aromatiche mentre, assiso su cuscini imbottiti di lana caprina, aspettò parecchio tempo prima che giungesse la matrona.



- Laerte! Che onore ricevere il più coraggioso dei nostri cavalieri e il più prolifico dei nostri patriarchi.

 

Tedra, come tutte le matrone del suo rango, si trascinava dietro una considerevole età. Arrivò sostenuta dalle nipoti che la fecero accomodare su una seggiola alta. Quando Laerte si apprestò a porle i suoi omaggi, questa lo interruppe col suo modo di parlare svelto e che sul finire delle frasi, appiccicava nervosamente le parole in una sorta di rimbrotto incomprensibile.



- In piccionaia sono arrivate molte notizie e oramaiaspettavamosolochearrivaste … io dico.

 

Erano giunti al Pascolo Sempre Verde parecchi piccioni viaggiatori allarmati dai fatti accaduti alla fiera d'autunno di Genesta. Soprattutto dal Tempio della Memoria si scongiurava l'inizio di una feroce faida tra Dandali e Pallacordi. La grossa testa della matrona dagli occhi bovini si volse al suo fianco per chiedere dove fosse stata portata la principessa Pallacorde, prima che Laerte potesse anche solo accennare a lei.



- Hai rischiato d'incendiare l'intera città percolpadiquelmeticciochechiamifiglio … ecco.

 

Di quale incendio stava parlando? Laerte perse le staffe sentendosi accusare di fatti che non aveva causato. Raccontò la sua verità e di come la cavaliera pallacorde aveva preteso la testa di Serse per un accaduto irrisorio.



- Non si mischia il sangue e se quellagiovencanonsifacevamontaredaunospezialetunontirovinavi … vedi?

 

Conferire con una matrona era sempre complicato. Nei loro discorsi si mischiavano continuamente le memorie di un albero genealogico dalle radici lontane e che generavano inutili fruscii tra i suoi rami.



- I tommacei sono ovunque e s'infilanoanchetralecoscedelleragazzine … avevaragionelosciamano … e no! Dormi con una serpe nella tenda, ilmalocchiotihafatto … capito? Ilbastardellotommaceotihaubriacatodiciarlecomeglihainsegnatoilsuoveropadre … caccialo!

 

Laerte si spazientì presto di tutto quel parlare e pretese di vedere Jeredra per restituirle la reliquia.



- A Jeredra non si spezzano le dita e neanche le ricrescono sonofantasiedisciamanifarabutti …

 

Il cavaliere dandalo fece annusare il suo fiato puzzolente alla matrona che si ostinava a sbarrargli la strada.



- Tu sei pazzo …ilmalocchiotihafatto … telo dico io! I tommacei non vogliono nuove stirpi Lammide … quellicivedonocomefumonegliocchianoidandali … che il fuoco li consumi!

 

Tedra perse le staffe peggio del suo interlocutore e con il volto rosso e sputando per aria le parole iniziò a vaneggiare uno sproloquio.



- Spose ancora vergini … ah ah! Dove andremo a finire? Io non lo so … ci vogliono disperdere, ecco! Pallacordi, puah! Quelli si mischiano il sangue, capito? La puledra vive nella stessa tenta del Vullo che la monta … AH! I Gaddei sono asini che cagano monete d'oro … e no! Lascia a noi la Pallacorde e ripudia quella serpe tommacea senotipiantanounpalosuperilculo … capito?

 

In fine Laerte riuscì a strappare un appello alla veneranda madre, ma gli costò l'antipatia della prozia che voleva sciogliere subito il fidanzamento tra Serse e Luisa. Tornando alla tenda dove avevano trovato ospitalità, si perse e vagò per qualche tempo tra i sentieri fangosi. Quella bruma puzzolente lo frastornava di pensieri foschi. Rigirava in mano il dito di Jeredra domandandosi se non fosse semplicemente un rametto. Sarebbe stato proprio uno sciocco ad aver prestato fede alla divinazione di una furfante. Non c'era dunque nessuna profezia da compiersi e forse anche Serse lo aveva ingannato. Del resto sarebbe stato l'unico figlio cui non aveva lasciato in eredità la sua zazzera rossiccia. Dubbi ne aveva sempre avuti su tutto, ma credere era come la spuma di una buona birra che ubriaca di parole.



- … ma i monaci potrebbero unirci in Verbo Lapis.

 

Quando finalmente trovò la tenda e raccontò l'incontro con la matrona, le lacrime di Luisa accecarono di rabbia Serse che si convinse ancora di più della necessità d'andare presso gli speziali per chiedere di essere sposati secondo il rito del Deorum Ignis.



- Tu sei un lammide e rispondi alle leggi del tuo clan.

- E' finito il tempo delle distinzioni tra clan. Discendiamo tutti da Apos, eguali dinanzi allo sguardo amorevole di Hat.

- Questo lo raccontano i tommacei per disperderci.

- E' la rivelazione del Verbo Lapis.

- Lo professano gli speziali perché sono tutti tommacei.

- Vi sbagliate.

- Io non ho mai sentito parlare uno speziale che non avesse in bocca la convenienza del suo clan.

- Vi sbagliate perché il monaco del mio accampamento era gaddeo e m'istruiva per propormi al monacato di Genesta.

- Uno speziale dandalo … ah ah … il teoita sapeva raccontare storie divertenti per essere un gaddeo.

- Non ridete di me … è la verità.

- Davvero! Sarebbe la prima volta che te la sentirei pronunciare.

- Padre …

- Ho abbastanza figli da farmi chiamare padre senza alcun inganno.

- Perché mi parlate così?

- Perché ci tieni tanto ad andare nella tenda degli speziali? Quale verità hai da andargli a dire per farti ascoltare?

- Non vi capisco.

- Ah, no? Cosa ha da chiedere un dandalo a chi lo vessa come un selvaggio e non gli permette di dormire dentro le mura delle sue linde città?

- Vi sbagliate.

- Per loro noi siamo figli di giovenche senza padre che rapiscono fanciulle, ubriaconi che tracannano le fandonie dei loro sciamani farabutti.

- Vi sbagliate.

- Invece no … è proprio così. Siamo dei selvaggi figli di giovenche senza padre che rapiscono fanciulle, ubriaconi che tracannano fandonie dei loro sciamani farabutti. Altrimenti perché tu e la tua colombella vi affannereste tanto per non averne l'aspetto? Vi lucidate la pelle, esibite modi cortesi e mi trattate come una belva da imbonire.

- I tempi sono cambiati …

- Sono cambiati in peggio con gli speziali tommacei che vi castrano ficcandovi in testa certe stramberie.

- Il Deorum Ignis discende su tutti noi affratellandoci … se non esistessero più Dandali e Pallacordi, Luisa ed io saremmo liberi di amarci per tutta la vita.

- Parli da monaco e menti come un dandalo e voi, principessa, avrete pure dei modi raffinati ma date via la vostra preziosa castità al primo sbandato conosciuto in fiera. Sareste più onesti ad ammettere che vi fa schifo vivere nel fango misto a piscio, alla mercé dei venti freddi dello JiaddGrow.

- Non credete che sia giusto ambire a una vita migliore?

- Non mi piacciono le menzogne vestite di fronzoli, le galanterie che celano il disprezzo, i profumi di una vita migliore cui a me è dato solo deliziare annusandola.

- Padre …

- Ti ho già detto che ho abbastanza figli per non essere ingannato sentendomi chiamare padre.

- Credetemi, non avrei voluto ingannarvi. Siete la persona più generosa e nobile e …

- Uno stupido boccalone … ecco cosa sono … e ora sparisci dalla mia vista.

 

Serse e Luisa si rincantucciarono sotto la pelle di vacca del loro giaciglio, mentre Laerte iniziò a tracannare birra accanto al fuoco. Stupido, si ripeteva ... ma come aveva potuto essere così imbecille! Avrebbe dovuto badare alla sua pellaccia e scannare subito quel figlio di una vacca che si era fatta montare da uno speziale tommaceo. Ripensò a se stesso e a quando si presentò davanti al cavaliere che la nonna gli aveva indicato come suo padre, la vergogna avvampò ancora il suo viso spigoloso e illanguidì una ferita mai rimarginata. Si rigirò in mano il presunto dito di Jeredra che per tanto tempo gli aveva dato la certezza di non essere il figlio di un ramingo, poi lo gettò nel fuoco con gesto di stizza. Erano tutti figli di Apos, eguali davanti allo sguardo benevolo di Hat. Ma sì! Quei piccioncini forse avevano proprio ragione a crederlo. Laerte si batté il petto ed emise un sonoro rutto, poi si strizzò il cavallo dei pantaloni e si avvide di quanto Mag stesse ispirando quel tale accumulo di languore. Dette due soldi alla padrona della tenda per scaricarle in corpo un po' del mitis che gli stava togliendo il senno. Infilzò la grassa giovenca e poi anche la figlia, fino a quando non gli venne meno ogni forza nei lombi e cadde in un sonno profondo tra le carni tiepide delle due femmine.



- Di quale figlio parlate?

 

Quando si risvegliò il sole era già alto e nell'accampamento c'era una gran agitazione. La femmina giovane giaceva ancora nuda al suo fianco e il calore del suo corpo gli aveva donato un risveglio dal fulgido fervore.



- Scappa fin che sei in tempo!

 

Gli disse la padrona della tenda. Serse e Luisa si erano recati presso i monaci teoiti per chiedere asilo, avvedendosi poi da quanto Laerte li aveva messi in guardia. Lo sguardo benevolo di Hat non riempiva le tasche d'oro come sapevano fare i Gaddei ed essere eguali figli di Apos non leniva gli interessi connessi a una nobile discendenza.

 

-  Sereseee!

 

A Laerte venne meno il senno e impugnando la spada, senza neanche tirar su le braghe, si precipitò fuori dalla tenda, pronto a difendere chi non aveva esitato a tirarlo nei guai per salvare il proprio amore.



- Giustovoi! Sappiate che vostro figlio ha gettato l'onta del disonore su tutta la tua stirpe.

 

Fu sorpreso dalle guardie e quando era pronto a incrociare la spada, sopraggiunse Tedra portata in spalla con una portantina.



- Sarà Jeredra in persona a lavarci di dosso l'infamiadelverdettotommaceo.

 

Luisa era già in viaggio per Genesta, scortata da un drappello di cavalieri Morri mentre Serse era stato trovato colpevole di ogni accusa, compreso l'incendio al palazzetto del marchese. La sentenza non risparmiava i costumi incivili dei dandali, chiedendo alla veneranda madre di porvi rimedio.



- Che sia messo alla berlina dinanziallagentechehainsozzato.

 

Laerte fu preso a sassate dalla folla e quando un selcio lo colpì in fronte, cadde nel fango e lì buscò tanti di quei calci da ridurlo all'impotenza. Gettato in groppa a un asino con mani e piedi legati, fu portato in processione tra le vie dell'accampamento per prendersi gli sputi della gente. Uno dei suoi aguzzini gli tirò su il capo per i capelli e rise di gusto al pensiero di fargli vedere il corpo ancora agonizzante di Serse, infilzato su un palo davanti alla tenda circolare di Jeredra.



- Spero che spetti a me l'onore di piantarti su per il pertugio il palo dell'infamia.

 

Ignudo e mezzo morto per le botte ricevute, Laerte fu gettato al centro del cerchio magico presso la tenda di Jeredra. Tutto intorno aveva le matrone che lo guardavano disgustate, quando le ancelle condussero nella tenda la veneranda madre assisa su una sedia a portantina.



- Bisogna riparare il danno prima che la colpa ricada su ognuno di noi.

 

Sentì dire da una delle voci che gli giungevano tutt'intorno.



- Siano banditi i seguaci del Deorum Ignis.

 

Laerte si grattava il volto sul tappeto della tenda nel vano tentativo di pulirselo dal fango misto a sangue e sputo che gli impediva di guardare in faccia le sue accusatrici.



- Stavano per attentare alla vita della veneranda!

 

In quel postribolo di giovenche dal ventre gonfio di lumia rappresa, dopo un travaglio di veementi grida, fu partorito il verdetto che parlava di una giustizia la cui regola stava nell'interesse di tutti. Laerte era riuscito finalmente a tenersi in piedi sulle ginocchia, ma fece appena in tempo a distinguere Jeredra mentre acconsentiva alla sua condanna, quando una gran bastonata sulla nuca gli tolse la coscienza.

A risvegliarlo furono le sue stesse urla, mentre il martello menava sul palo dalla punta che si scavava il passo tra le viscere. Un colpo dietro l'altro senza che quello strazio potesse almeno alleviare la consapevolezza di quale miserando epilogo stesse avendo la propria vita. Quando la punta del palo sbucò tra due costole, fu issato accanto a Serse. Il corpo di Laerte accasciato in una posizione buffa, attese la morte per dissanguamento, tra il ludibrio dei bambini che gli lanciavano sassi e i corvi che si preparavano a pasteggiare con le sue viscere.

Il saggio verdetto aveva riportato l'ordine nelle regole della comune convenienza, salvando il seme probo dalla gramigna che ne insidiava il buon raccolto. La dolce e tenera Luisa convolò in fastose nozze con il nobile Alambardo. Quel giorno tutta Genesta volle essere testimone con i propri occhi del trionfo del Deorum Ignis sulla violenza di certi costumi perniciosi, capaci d'indurre due popoli sull'orlo di una faida sanguinaria.
Il mal d'amore della principessa Pallacorde si alleviò col tempo, trovando conforto in una nobile discendenza che la ricordò per sempre nella sua mirabile bellezza. Al contrario, la memoria dell'impavido Laerte cadde insieme al palo su cui era stato issato, gettando nel disonore tutta la sua prole. Lo continuarono a ricordare solo i saltimbanchi che nelle fiere sbertucciavano il cavaliere tanto forte quanto idiota da finire sul palo dell'infamia per il raggiro di un malevolo ramingo spiantato. 

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  • 3 weeks later...
Silverselfer

 

Nota a margine - Da ora le note le scrivo nello spoiler perché non mi va di disturbare la lettura, specie quando il pezzo da editare è sequenziale al precedente. Tuttavia volevo solo scrivere che lo Geda Sororum somiglia all'ordine Bene Gesserit del romanzo Dune di Frank Herbert. Ero poco più di un ragazzino quando le vidi per la prima volta rappresentate nel film per il cinema e ne rimasi fatalmente ammaliato. Tra l'altro anche George Lucas s'ispirò a loro per i suoi monaci Jedi. Riguardo nomi e titoli, io sono negato e mi sono accorto solo dopo dell'assonanza che c'è tra Jedi e Geda; visto che non mi sarebbe venuto in mente niente di meglio, lo considero una citazione.

Riguardo le vereconde Geda, lo so che non si potrebbe fare, ma io le voglio esattamente come quelle del film di David Lynch

 

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Il primo dei due racconti l'ho scritto di getto, guardando questo volto e quindi lei è Ipse. Probabile che ne farò un personaggio che comparirà anche in altri racconti.

 

Riguardo alla struttura letteraria, questi sono due racconti brevi, come in realtà sarebbe dovuto anche essere il primo. Purtroppo si tratta di un genere a me piuttosto ostico, è una taglia che mi sta stretta. Però mi piace la rapidità, il flash di vita che il racconto breve coglie. Il primo è veramente uno shottino. Il secondo forse è della taglia giusta. 

 

Per ora non posterò immagini, anche se ne ho selezionata una per ogni racconto ... però non so ... sicuramente non sono necessarie per dei racconti brevi, quindi le metto da parte per il futuro.

 

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Silverselfer

Geda Sororum

 

 

Prefazione

 

 

 

 

Il Cerchio Magico

 

 

Nella tradizione nomade la cura di un bambino riguardava esclusivamente le femmine. La puerpera era seguita dalle madri più anziane e nel caso di problematiche fuori dall'ordinario, ci si rivolgeva alla scienza sciamanica. L'infante rimaneva nella tenda della genitrice fino allo svezzamento. Superato questo breve periodo, la gigante tornava ad assolvere la sua mansione nell'ambito del clan e suo figlio era accolto nella tenda della veneranda madre.

 

La tenda della veneranda madre aveva una pianta circolare ed era la più grande dell'accampamento. Sulle prime era la femmina più anziana che non potendo più assolvere le proprie mansioni, si dedicava alla cura dei nipoti. Una considerevole quantità di parti avuti procurava un numero maggiore di discendenti da accudire, per il cui mantenimento si riceveva un contributo che conferiva all'anziana un potere all'interno del clan. L'affrancamento dai lavori più faticosi, allungava la vita delle anziane che arrivavano a superare l'arco di diverse generazioni.

 

La matriarca più vecchia diveniva quindi la veneranda madre, nella cui tenda continuava ad accogliere le nipoti anziane con la rispettiva discendenza da accudire.

La veneranda sedeva al centro della tenda a pianta circolare e tutte intorno c'erano le figlie e poi le nipoti, chiamate "matrone". Le quali si disponevano in maniera concentrica in relazione all'età e alla genitura avuta.

Col tempo, il cerchio magico intorno alla veneranda madre divenne il nocciolo di un potere decisionale capace di mantenere nella propria gravità un numero sempre maggiore di discendenze, dando forma alla società del clan.

 

Fondamentale per il mantenimento del potere era il controllo della genealogia del cerchio magico. Più breve era la discendenza da una veneranda madre e maggiore era la purezza del proprio sangue. Le nipoti di primo grado erano chiamate principesse perché da loro si generavano nuove linee di discendenza. Ogni stirpe ebbe alla sua origine una veneranda madre e i successivi clan, originarono dal ceppo di alcune principesse migrate in altre stirpi.

 

 

 

L'ordine del Geda Sororum

 

 

La stirpe Falesa era stata originata dalla Veneranda madre Persefone che era stata la più longeva delle matriarche Parse. La quale ebbe tra i suoi amanti diversi Zenosti, dai cui parti generò i tre clan falesi: Morri, Gaddei e Uttini.

Il matriarcato falesio era stato organizzato direttamente dagli zenosti per formare dei clan capaci di specializzarsi in particolari scienze. Gli Uttini erano ingegneri, agronomi, abili artigiani e furono loro a bonificare la grande palude ai piedi del Desh costellandola di mulini a vento. I Gaddei sapevano tener di conto e con i loro banchi riuscivano a tradurre i beni materiali in ricchezza capace di scambiarsi in moneta. Infine c'erano i Morri, una dinastia di cavalieri che ricevette per i propri due clan una forma di specifico matriarcato.

 

L'ordine cavalleresco rispondeva all'etica della vittoria e al rispetto delle regole che la rendevano possibile. Il matriarcato morro aveva il compito di educare a questi insegnamenti, individuando i talenti che li sapessero esprimere al meglio. Un ruolo troppo distante dalle prerogative naturali di un cerchio magico. Gli Zenosti formarono dunque l'ordine del Geda composto di femmine sterili, cui affidare l'esclusivo compito di severe educatrici mistiche, capaci d'infondere gli effetti della loro scienza preservandone i segreti.  Quando la società dei falesi iniziò a prosperare sulla pianura ai piedi del Desh e attirò le voraci orde ittake, l'aspro confronto con quelle belve provocò il repentino diffondersi del matriarcato morro. 

 

La periodica discesa delle orde ittake dal Desh causava ogni volta migliaia di morti. Fu per accudire agli orfani dei matriarcati sventrati dalle incursioni, che le Geda fondarono il collegio di Mogul. Allo stesso scopo l'ordine del Geda divenne Sororum, dandosi la struttura di un cerchio magico, in cui le vereconde Geda sostituivano le venerande, con le genitrici che erano riunite in un'obbediente sorellanza: "Sororum".

 

Il Geda Sororum promuoveva l'educazione del matriarcato Morro e nel lungo periodo del terrore ittako ispirò il patriarcato all'interno delle rocche militari di tutto il Bush. In questo periodo storico era Mogul la capitale morale dell'Antico Regno. L'austera città fortezza che mostrava il petto alla ferocia ittaka, ospitava sia il direttorio Morro per il governo delle milizie, sia la Vereconda Badessa, che preservava le discendenze attraverso la sorellanza.

 

Fu così che a Gelsa, quando si riscrisse in Verbo Lapis la memoria collettiva dei giganti, si tenne conto dello schema sociale morro che si era diffuso in tutte le rocche militari, cercando però di contrastare il sistema educativo della sorellanza Geda, in cui i bambini erano rigidamente instradati sui sentieri: Dory, Virago, Artifex, Virgo e tutti insieme formavano un potere che rispondeva alla Vereconda Badessa di Mogul.

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Silverselfer

L'Asprezza degli Aghi Foglia

 

 

 

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Quanta luce in un sol giorno! La vereconda Ipse non ne aveva vista tanta in tutta la sua lunghissima vita. Tirò dietro di sé le sottovesti nere in un gesto che tradiva il disappunto, mentre compiva pochi passi sul piccolo loggiato prospiciente la città.

Colori, ma quanti colori possiede la vita! Fiammelle variopinte parevano agitarsi su delle piante con le foglie aperte, larghe, fatte per accogliere il fecondo abbraccio di Hat. Ogni sfumatura di luce su quel loggiato sfolgorava nel baluginio di ricordi ispirati dal mare di Tasside.

 

-        Vereconda Ipse … Tasside è onorata di ospitarvi …

 

Era giunta tardi in città. La stilettata di quella notizia le aveva trafitto il cuore. Avrebbe ben voluto abbandonare le dispute teologiche che funestavano in quei giorni i palazzi di Gelsa, per recarsi il più presto possibile al capezzale della sua protetta ma … era giunta troppo tardi. I riti funebri si erano tenuti il giorno innanzi e in città ancora risuonavano i mille tributi letti dalle mille persone che l'avevano amata e la ricordavano nelle sue mirabili gesta. Mille meno uno che in quel momento si rivoltava nello stomaco dell'austera figura della vereconda.

 

-        Madre, mi ascoltate?

 

Ipse giunse sul grembo le mani, unendo la punta dei pollici e degli indici, in un gesto che spazzolò via dalla sua testa glabra, quei vezzi da femmina che non potevano appartenerle. Quando porse il volto all'insigne patriarca Parride, la maschera scavata nella sua carne mostrava il lobo frontale incoronato dal velo nero della verecondia.

 

-        Questo è suo figlio …

 

Quando Ipse vide il turchese negli occhi di quell'infante, le parve di rincontrare lo sguardo della sua sventurata madre. Le braccia avrebbero voluto cedere all'emozione e aprirsi per accoglierlo sul seno … ma nulla trapelò dalla nobile postura del suo ruolo.

Il ricordo della fanciulla che spensierata correva tra i biancospini del chiostro di Hat a Mogul, la trasse via nel passato quando rispondeva ignara del funesto destino che andava raccontando. Il mare è un universo di tenero Mag, le sussurrava quando le chiedeva di descriverglielo. Il suo tiepido alito concilia con le asprezze del mondo e colora la pelle dell'ambra calda della vita, le diceva. Le parlava dei fiori che sbocciavano in quelle lande baciate dal sole, descrivendo le foglie che non avevano bisogno di accartocciarsi in pungenti aculei come sui biancospini e le rose dei giardini di Mogul. "Sarò felice in quel luogo?" le domandava lei, allora Ipse pudicamente schiudeva il suo cuore, trovando nel suo ventre prosciugato la bugia che allatta una speranza - Andrà tutto bene, tesoro mio -. Sedute in quell'angolo del chiostro, le descriveva il baluginio della passione che ammalia e la fecondità che sboccia nei colori infiniti della luce, tali e quali alle fiammelle di quel mirabile giardino appena veduto sul loggato della sua camera.  

 

-        Dovete proprio condurlo a Mogul?

 

Le chiese il maschio in lussuosi armenti che aveva avuto l'onore di poter pasteggiare con il virtuoso Mag della sua bambina. Si sorprese a rivolgergli il più tenero degli sguardi che il suo misero destino aveva potuto concederle.

I Parridi si accingevano a lasciare la città che avevano fondato per riprendere il mare abbordo dei loro navigli, in dissenso con la nuova teologia del Verbo Lapis del Tempio della Memoria di Gelsa. L'infante sarebbe cresciuto in seno alla regola Geda.

 

-        Mi costa molto separarmi da lui …

 

Poteva comprendere quel maschio … il Geda gli donò il bocciolo più sanguigno del roseto di Mogul, una concubina il cui Mag stava ancora commuovendo l'intera città. Ipse era chiamata alla mietitura del grano dopo la semina, per preservare quanto avrebbe reso a Tasside il sangue Parride che il dispotismo tommaceo stava cacciando dalla Terra Santa. Si fece porgere l'infante e quando lo ebbe tra le braccia, si sentì infervorare l'animo dalla nuova missione che il fato le stava affidando.

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Silverselfer

Un Luminoso Mattino

 

 

 

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Argo ancora non sopraggiungeva, che fosse stato sorpreso dalla vereconda guardiana?

 

-        Pavido come sei, saresti capace di trarre piacere da una tale sciagura.

 

Nel Collegio della Sorellanza Geda di Mogul, le camerate dei bambini erano divise tra il roseto dell'ala est, riservato alle femminucce e la camerata ovest dei biancospini, in cui dormivano i maschietti. Qui vi rimanevano fino al giorno del giudizio Geda, quando ognuno di loro sarebbe stato instradato sui quattro sentieri indicati dagli insegnamenti mistici.

 

-        Io non ce la faccio più ad aspettare, rechiamoci da soli all'appuntamento.

-        E se poi non li trovassimo? E se ci avessero ingannato? Se questa fosse una burla per prendersi gioco di noi?

-        Vedrai cosa ne penseranno Argo e Rabi, quando gli dirò cosa pensi del valore di una loro promessa.

-        Sempre che la promessa vera non se la siano fatta tra loro per prenderci per il naso.

-        Mi credi così sprovveduto? Ho preteso una promessa solenne da dory.

-        E come avrebbero potuto pronunciarla, se non sono ancora dei dory?

-        Se non taci, ti fulmino con una saetta da Huria.

-        E tu ancora non sei stato ammesso tra le virgo.

-        Al contrario, io sono certo che tu sarai un banalissimo, pavido, gaddeo artifex.

-        Sei solo un impudente, vi farò vedere di cosa è capace un gaddeo.

 

Felice di aver spronato il poco coraggio di Billo, Niham si trasse via dalle coperte e corse di soppiatto a recuperare un fagottino preparato nel proprio baule. Sollecitò ancora il suo paffuto compagno di ventura, quando questo doveva ancora tirarsi su le brache. Senza alcun indugio, Niham fuggì rasente i muri della camerata, fino a conquistare l'uscio, da dove si scorse per assicurarsi che la loro vereconda guardiana non fosse di ronda. Dato il segnale del via libera a Billo, non lo attese più di tanto, correndo su per le scale che conducevano al loggiato sul chiostro. Qui si sporse dalla balaustra per sincerarsi che là, in alto, ci fossero Argo e Rabi ad attenderli. Ebbe un tonfo al cuore quanto le parve di riconoscere due sagome sul margine dell'ultimo anello dei colonnati sovrapposti della chiostra. Certo che dovevano essere loro! Rimproverò Billo che sopraggiunse con l'affanno e non gli dette neanche il tempo di rifiatare, pronto a riprendere la corsa.

 

-        Sarai contento adesso! E non dire che non ti avevo messo in guardia.

-        Arriveranno … lo so.

 

Giunti davanti all'ultimo arco dell'ultimo cerchio dei colonnati sovrapposti della profonda chiostra del collegio, Nahim non trovò traccia di quanto troppo frettolosamente aveva scambiato per i due amici. Era mai possibile che degli abili dory come loro, fossero stati così incauti da farsi sorprendere dalla vereconda guardiana? Niham non voleva credere a Billo e Argo avrebbe mantenuto la promessa di compiere quella prodezza insieme, prima del sopraggiungere dell'indomani, quando ognuno di loro avrebbe ricevuto il sigillo del proprio destino e lui sarebbe entrato nel chiostro claustrale delle virgo.

 

-        Penso che i tuoi calzari con le stringhe dorate siano ottimi per la cerimonia di domani, ma pessimi per andare a passeggio sui cornicioni.

-        Sono fatti miei.

-        E no! Se per caso scivolassi, potresti trascinare nel vuoto anche me.

-        Se … se … se … e se ti spingessi di sotto subito? Almeno la smetteresti di angustiarmi con i tuoi se.

 

Niham oramai temeva stesse sciamando la possibilità di conservare quell'ultimo ricordo con Argo. Continuava a rivoltare nervosamente il suo fagottino tra le mani, sistemando e risistemando i cordoncini dorati con cui lo aveva legato. Il ragazzino oramai tratteneva a stento le lacrime perché aveva trascorso notti insonni per progettare l'incontro e fargli quel dono che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

 

-        Si può sapere perché non ci avete aspettato?

-        Per passare dalla vostra camerata, per poco non ci sorprendeva la vereconda.

 

No! Billo si sbagliava e certo che sì! Argo e Rabi sarebbero diventati dei valorosi, impavidi e temerari e bellissimi dory. Nahim gli gettò le braccia al collo e si scusò mille volte. Era stato uno sciocco a dar credito alle ansie di Billo. L'importante è che ora stessero tutti lì, pronti a farlo.

 

-        Rabi, credo tu mi debba delle scuse … sono venuto anch'io.

-        Billo, mi rimangerò quello che ho detto, solo dopo averti visto camminare su quel cornicione senza precipitare schiantandoti come un sacco di letame.

 

Argo saltò oltre la balaustra e iniziò a scivolare contro il muro. Nahim ebbe certo un capogiro appena oltrepassato il parapetto. Gli parve come se quelle file di colonne spiegate a spirale verso il basso, lo ammaliassero traendolo in un irresistibile gorgo. Orbene, però, nulla avrebbe potuto spaventarlo più del fallimento nel proprio intento vittorioso.

 

-        Non guardare di sotto … il cornicione è più largo del lembo di terra che solitamente calpesti per camminare.

 

Disse Argo porgendogli la mano. La penombra oscurava i lineamenti del suo bel volto, ma non poteva spegnere il calore che c'era nella sua voce. Nahim rifiutò la sua mano per dimostrargli quanto coraggio sapeva ispirare un cuore conquistato.

 

-        Mammoletta di un gaddeo, muoviti! O ti legherò senza brache davanti alle stanze della Badessa.

-        Non ce la faccio!

-        Guardami, distogli la vista dall'oblio.

-        I miei piedi non mi obbediscono.

-        Sono gli occhi che devono voltarsi, guardami.

-        Oh, Radi aiutami, ti prego … tendimi una mano … ti renderò mille favori in cambio della salvezza … aiutami!

-        Sarà una spada a togliermi la vita e non la rischierò certo per la codardia di uno stupido grassone.

-        Radi!

-        Ora che mi stai guardando, smetti di piagnucolare e inizia a far scivolare i tuoi passi che quando saremo dall'altra parte, mi rimangerò ogni infamia pronunciata.

 

Le altissime mura che cingevano Mogul sovrastavano tutti gli edifici al suo interno, avvolgendoli in una penombra che solo per poche ore schiariva al mezzodì. Raggiungendo il tetto del collegio, i ragazzini desideravano scorgere l'orizzonte che celava nella sua vastità, l'incertezza del destino che stava per separarli.

 

-        Che importanza ha? Lo vedi anche tu il Desh, non ti basta?

-        Dove vuoi che ti conduca il destino, se non hai il coraggio di gettare lo sguardo oltre il recinto delle tue certezze? Fossi in te, inizierei a piangere per un futuro parco di guardare un tale disgraziato orizzonte.

 

Disse Nahim, sconsolato mentre stringeva ancora in mano il suo prezioso fagottino. Eppure erano giunti così vicini al ciglio della cinta muraria! L'orizzonte dei loro destini era proprio là, solo qualche spanna più in alto. Si guardò attorno e senza pensarci più di tanto, indicò ad Argo la grande guglia che si stagliava alta nel cielo da sopra il vicino tetto della torre campanaria.

 

-        Ti è dato di volta il cervello!

 

Esclamò Argo, capendo dallo sguardo cosa gli stesse per proporre Nahim. Non potevano fermarsi ora … a pochi metri dalla vittoria! Come poteva non capire? Era forse diventato improvvisamente ancora più pavido di Billo?

 

-        Argo! Perché rischiare Tanto?

 

Radi non poteva capire perché Argo decise di seguire Nahim. Scivolarono rasenti i coppi del tetto della torre. Appena superarono il ciglio delle mura esterne, si levò una forte brezza che faceva sventolare le casacche bianche dei due ragazzini.

 

-        Dobbiamo raggiungere la base della guglia.

 

Sì, altrimenti perché essersi trascinato dietro quel fagotto, se non avesse potuto posare i piedi stabilmente su una base per poterlo utilizzare? Argo non capiva e si chiedeva perché continuare, quando ormai quel brutto orizzonte brullo si era già svelato ai loro occhi.

 

-        Si tratta solo di salire ancora un po' …

 

Solo un ultimo sforzo che finalmente ripagò il tanto coraggio dei due ragazzini. Nahim posò per primo il piede sulla piccola base di travertino. Argo lo raggiunse subito dopo e si strinsero entrambi alla guglia, tenendosi in piedi con un braccio in vita l'uno all'altro.

 

-        Non scenderò senza di te!

 

Non c'erano più mura solide su cui fissare uno sguardo stabile e l'orizzonte appariva come un oblio ben più profondo di quello che avevano sotto di loro. Argo temeva di aver intuito lo scopo che muoveva tanto coraggio nel suo carissimo amico e non gli avrebbe permesso di compiere una tale scelleratezza.

 

-        Non essere sciocco e tienimi per i fianchi che sta giungendo l'aurora.

 

Nahim lasciò la presa sulla guglia, confidando cecamente nell'abbraccio di Argo. Si tolse il fagottino che portava a tracolla e ne sciolse i lacci. Il panno fu subito rapito dal vento perdendosi nel vuoto, mentre tra le mani di Nahim rimase il piccolo archetto triangolare dorato con cui le Hurie scagliano le loro saette.

 

-        La farò brillare per te.

 

La leggenda raccontava dell'amore di un Huria per un coraggioso cavaliere, quando questo si preparava a un assalto senza speranza di vittoria. Allora egli invocò la sua protettrice che, in un gesto di sfida contro il destino, scagliò la sua freccia addosso all'aurora del nuovo giorno. L'oro del piccolo dardo scintillò talmente da saettare in mille fulmini e tutti insieme fecero da corona al successo del cavaliere.

 

-        Per il successo di Argo!

 

L'archetto a triangolo scoccò la freccia dorata che si stagliò talmente rapida contro il cielo, da scomparire immediatamente nell'aurora del nuovo giorno. Sembrava non aver sortito alcun effetto, quando improvvisamente un luccichio si vide segnare la linea dell'orizzonte.

 

-        Ha brillato! L'hai veduta anche tu … sono stato capace di farla brillare per te!

 

Niham sarebbe stato educato tra le virgo come concubina, era il destino riservato agli ermafroditi Geda. La loro lamia protettrice era Huria delle nuvole, testimone dell'ardore più luminoso del Mag che crepitava nel cuore degli ermafroditi. Nel cui coraggio tuonava il galoppo dei cavalieri in battaglia.

 

-        L'ho vista anch'io … sembrava una piccola saetta!

-        Certo che lo era … l'ho accesa io per te.

-        Grazie Nahim.

 

L'alba del mattino li stava per separare per sempre ma, ogni volta che i due giganti fossero tornati a carezzarne la memoria, quella saetta ne avrebbe riacceso il ricordo nei loro cuori.

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  • 3 weeks later...
Silverselfer

 

Eccomi di nuovo qui a postare un'altra porzione di Et Gianis Civiltae ... la penultima di questo capitolo dedicato al Regno Antico. Purtroppo mi sono accorto che i due racconti sono poco attinenti ai tre paragrafi della prefazione. Il fatto è che quelli li avevo scritti qui a casa con i relativi appunti, mentre i racconti mi sono trovato a comporli in situazioni di fortuna ... tipo nelle lunghe attese in qualche sala d'aspetto internazionale, col risultato che c'è finito dentro quello che avevo davanti agli occhi ... purtroppo non riesco a tenere fuori il mondo da quello che scrivo ... così quando mi sono ritrovato a leggere il tutto ... avrei dovuto ricostruire i nessi logici, ma proprio non mi va di rimetterci mano.

 

Vale dunque la regola che i racconti si possono leggere indipendentemente dalle prefazioni, che sono riservate ai veri amanti del genere fantasy, riguardando la costruzione del mondo in cui si ambientano i racconti.

 

Purtroppo niente immagini neanche stavolta ... 

 

 

 

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Silverselfer

Primo Regno di Gelsa

 

 

Il Cavaliere Patriarca

 

 

Prefazione

 

 

La Difesa del Diritto di Proprietà

 

Quando la tenda circolare di una veneranda madre fu piantata per l'ultima volta nello stesso luogo, si trovò a governare il problema della conquista e la difesa del proprio spazio vitale nei confronti degli altri clan. A tale scopo fu data grande importanza al cavalierato.

La difesa del diritto su delle terre richiedeva una strategia militare fatta di fortificazioni per mantenere lo status quo. Nacque così, intorno alla tenda circolare della veneranda, la fortificazione militare che ne custodiva l'autorità sulle terre conquistate.

 

La gestione della fortificazione era data in governo a un grande cavaliere, che poteva essere sia maschio sia femmina, ma le seconde assai spesso trascorrevano a cavallo il tempo migliore della propria fecondità, rimanendo senza discendenza. Al contrario, un maschio diveniva padre attraverso la benedizione di una veneranda madre che imponeva il suo nome al figlio. Si trattava di un'onorificenza priva di potere politico perché un cavaliere non avrebbe mai potuto far parte del cerchio magico intorno ad una veneranda. Tuttavia, quando un cavaliere si trovava ad avere il governo di una fortificazione, lo gestiva con la propria genitura che gli tributava gli onori del patriarca, determinando l'autorità di una nuova figura politica in seno al clan.

 

La Rivoluzione del Cavaliere Patriarca

 

Quando il clan abbandonò il nomadismo, il cerchio magico dipese per la propria autorità dal cavalierato. Il cavalierato dei nomadi condivideva i precetti Geda del dory e della virago. Un clan investiva nei propri cavalieri mettendo in palio un certo numero di cavalcature durante le fiere degli arditi. I ragazzi e le ragazze erano iniziati alle arti marziali quando erano ancora dei fanciulli, scelti dai cavalieri come propri palafrenieri.

I palafrenieri, dopo aver conquistato la cavalcatura, rimanevano a servizio del proprio maestro d'armi, formando dei drappelli che rispondevano unicamente al suo comando.  

 

Il diritto di proprietà necessario alla società stanziale passava per il numero di cavalieri che riusciva a ordinare, ma gli stessi non si potevano poi continuare a finanziare in tempo di pace, così i drappelli in armi finivano per mettere la propria arte guerresca al soldo di chiunque se la potesse permettere. L'economia di guerra generava feroci faide negli stessi clan di appartenenza che si protraevano spesso fino allo sventramento del cerchio magico contendente, da cui veniva un'instabilità territoriale cronica.  

Il cavaliere era divenuto un mestierante e farlo scendere da cavallo comportava trovargli un ruolo di prestigio nella società.

 

Fu l'innato istinto commerciale dei falesi Gaddei a introdursi in ogni contesa, traendo benefici non solo dal commercio degli armenti, ma anche sostenendo quei clan che potevano permettersi di finanziare i periodi di pace.

Le fortificazioni poste a difesa della tenda circolare delle venerande erano poco più di palizzate poco efficaci contro le scorribande dei cavalieri mercenari. I pragmatici falesi proteggevano gli investimenti fatti quando tutelavano i propri debitori; a tale scopo commissionarono agli ingegneri Uttini delle rocche inespugnabili, che iniziarono a vendere proponendosi come fideiussori del debito contratto.

 

La rocca falesa era un castello posto in una posizione strategica, avulsa al cerchio magico del clan che difendeva. Essa era governata da un cavalierato sempre meno dipendente dall'investitura delle venerande.

Il Geda iniziò a diffondersi nelle rocche perché il matriarcato morro riconosceva l'autorità del cavaliere maschio. Esso imbrigliava il potere patriarcale attraverso il sigillo imposto alle sue discendenze.

Mentre le Geda inculcavano le cataratte etiche di una società cavalleresca attraverso l'educazione dei fanciulli ai principi del proprio ordine, il debito finanziario su cui poggiava il potere del cavaliere patriarca, accendeva uno scambio di comuni convenienze tra i banchi Gaddei di ogni rocca.

 

La Rocca del patriarca stabilizzò il diritto di proprietà sulle terre conquistate e scalzò l'economia di guerra, imbrigliando il cavalierato nell'ordine gerarchico conferito dagli insegnamenti Geda. Il Cavalierato morro dava struttura a una nuova società in grado di sostenere periodi di pace relativamente lunghi. Tuttavia, l'incremento demografico che ne venne imponeva nuove esigenze sociali cui nessun cerchio magico poteva assolvere. Poiché il collettivismo genealogico matriarcale era stato superato e l'ordinamento oligarchico Geda non riusciva a penetrare negli strati sociali inferiori, si diffuse il proselitismo dei monaci teoiti che rendeva tutti uguali nella regola morale ispirata dal Verbo Lapis.

 

Dory, Virago, Artifex e Virgo

 

 

La ricerca del talento era un elemento essenziale dell'insegnamento Geda. Questo fioriva ovunque senza rispettare l'ordine delle classi sociali divise per censo che il diritto ereditario ispirato dal Deorum Ignis andava formando. Divenne quindi la sola possibilità di riscatto per chi aveva la sfortuna di esser nato povero.

Le fiere degli arditi erano uno spettacolo per cui nelle città si spendevano molti denari. La gente vi accorreva partecipando al sogno di quei ragazzi, nelle cui storie s'identificavano lo sfortunato destino dei molti.

 

Durante le fiere degli arditi erano acclamati i dory e le virago perché si sfidavano direttamente nel talento che sapevano meglio esprimere con un'arma. La forza fisica dava forma a corpi capaci di ammaliare gli occhi degli spettatori. L'audacia della volontà coinvolgeva in un tifo per i contendenti in grado di muovere ingenti capitali in scommesse per la vittoria per il proprio pupillo. Tutto insieme creava ogni volta la trepidante attesa degli inizi di una fiera.

 

Era, invece, più discreto il destino degli artifex. Ogni casato s'ingegnava per avere in famiglia qualche apparentamento con la potente sorellanza di Mogul. Gli antichi insegnamenti oltre che a dare una preparazione attenta alle arti pratiche, fornivano la struttura etica dei professionisti che riunendosi in corporazioni distinte, preservavano la qualità del proprio sapere da quanti lo esercitavano seguendo altre vie di conoscenza.

 

Le Geda prestavano particolare attenzione alle Virgo. Nella tradizione Morra erano le ragazze destinate alla discendenza e per questo motivo si preservava la verginità del loro cratere. Un principio pratico scevro da ogni intento morale come succedeva per il Deorum Ignis, tuttavia combaciò per molti aspetti con i nuovi insegnamenti del Verbo Lapis.

Le ragazzine virgo vivevano in un chiostro denominato "dell'Hat", perché solo il supremo Dio poteva sfiorarle con il calore delle sue luminose carezze.

 

La mitezza del Mag donava la grazia e la luce che ammalia, capaci di accendere gli ardori più virgulti dell'Inn, per questo era ritenuta un potere da ben ponderare. Le femmine più fornite di Mag erano cresciute come dei tesori con cui gestire l'araldica patriarcale.

La purezza di una virgo era originariamente spesa per la memoria del sangue e solo dopo l'avvento del Deorum Ignis divenne appannaggio delle linee dinastiche individuali. A questo scopo le virgo che si sposavano in Verbo Lapis perdevano il loro tradizionale diritto ad avere diversi amanti.

 

Le concubine conducevano una vita claustrale nel chiostro dell'Hat insieme alle virgo. Anticamente non vi era alcuna differenza tra i due destini, dopo la coppia procreativa formata dal Verbo Lapis, una virgo data a un cavaliere già sposato prese il nome di concubina. Il concubinato era deprecato dai precetti teoiti che vertevano sulla continenza sessuale all'interno di una coppia. Era, però, la catena del potere occulto formato da virgo e concubine che a Gelsa si tentava di spezzare.

 

La virgo rimaneva un membro della sorellanza Geda anche dopo il matrimonio in Verbo Lapis e rispondeva alle direttive della Vereconda Badessa di Mogul.  La sorellanza era una sorta di tenda circolare grande quanto il regno. La badessa Geda sedeva al centro del cerchio, circondata delle vereconde sorelle iniziate ai segreti mistici dell'ordine Zenosta. Tutte intorno c'erano le Virgo mogli o concubine, attraverso le quali si conservava la memoria del sangue degli antichi clan. Un intento in diretto contrasto con lo scopo teoita di formare un popolo sottomesso alla regola unica ispirata dal Tempio della Memoria di Gelsa.

 

Virgo, Artifex, dory e virago erano liberi di esprimere i loro talenti nella società del Primo Regno di Gelsa, ma al momento opportuno avrebbero obbedito all'autorità della Vereconda Madre Badessa perché, come recitava il credo Geda, facevano parte di un clan privo di nome, abitanti di un accampamento senza terra, le cui tende rimanevano piantate intorno a quella circolare degli insegnamenti Geda.

 

 

 

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Minne Voleva Danzare

 

 

 

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"Ma cos'è?" Si domandavano gli abitanti delle civitas che attraversava. "Non invidio certo quel povero bue che deve trascinarla" Notava sempre qualche maligno vedendo l'indolenza dei passi di Sohnderkuhmonde, l'enorme animale cui era stato attaccato il suo calesse. "Povera la seggiola dove poserà le terga" Sghignazzava qualcun altro mentre le ruote di legno incidevano la terra. Due solchi che ai passeri in volo parevano come una di quelle bave di lumaca, a tracciar la tanta strada già percorsa da Minnegard.

 

-        Minne cara, sei certa di volerlo fare?

 

I genitori di Minne erano dei falledi e abitavano un contado all'ombra di una remota bicocca gaddea. La madre allevava tacchini tra le cipolle che coltivava per portare al mercato, mentre il padre era stato il palafreniere di un grande cavaliere e seppur non ebbe mai il coraggio necessario di scendere in lizza in una fiera degli arditi, aveva nell'arte delle armi grande dimestichezza.  Senza interrogarsi su cosa stesse significando un matrimonio nella comunità in cui erano nati, Gundobald e Bertfriede trassero tanto gusto dalla compagnia reciproca, da scegliersi un angolino del contado dove piantare cipolle e andare a caccia per rimanervi insieme tutta la vita.

 

-        Per le mille cuspidi dei titani! E in quale arte vorreste iscrivervi? Badate perché alla fiera di Loudesìa non v'è ancora la disciplina della forchetta.

 

Quando Minne nacque, Gundobald si recò al banco gaddeo della bicocca per impegnare ogni sua proprietà, al fine di comprare Monde, una vacca da poter mungere. Da allora la sua famiglia gli sembrò un piccolo clan baciato dalla benevolenza di Hat. Bertfriede allevò da sola la sua bambina e insieme al compagno le trasmisero il loro modo d'intendere la vita. Minne era vivace come uno scoiattolo e imparò sia a pelare le cipolle, sia a cogliere una mela con la frombola a più di cento passi.

 

-        M'iscrivo alla frombola e al martello …

 

Fu così che il padre iniziò a istruirla in quelle arti in cui avrebbe ben potuto primeggiare con successo, ma che non rimpiangeva mai quando le usava per abbattere un cinghiale, affinché Bertfriede glielo arrostisse per mangiarselo in compagnia di una buona birra.

 

-        Di grazia come condurrà l'assalto? Perché certo qui non abbiamo cavalcature per siffatta stazza.

 

Minne cresceva sana con l'affetto dei suoi genitori, ma cresceva troppo. Fin quando si specchiò solo nello sguardo di chi l'amava non se ne avvide; fu il primo giorno che si recò al villaggio a rivelarle quale effetto sortisse il suo aspetto.

 

-        Sono fatti miei.

 

Le due grosse trecce con cui la madre le domava la criniera rossa, le erano sempre parse assai graziose; invece, agli altri ragazzini davano solo modo di chiamarla pel di carota.

Eppure aveva tentato di esser gentile con loro, però ogni volta che dava fiato alle parole, la sua vocina da criceto sembrava canzonarla ancor prima che iniziassero a farlo le altre bambine.

 

"Mit den Füben trap trap trap … Mit den Händen klapp klapp klapp … einmal hin, einmal her … ringsherum, das ist nicht schwer".

 

Pulzer, il figlio della mugnaia, usava lanciarle un lazzo da bestiame facendole il verso del porco, una volta che si ribellò, quello le corse intorno legandola come un cotechino. Ridevano tutti del suo goffo pianto perché sembrava quello di una scrofa alla mattanza.

 

"Mit den Köpfchen nick nick nick … Mit den Fingern tick tick tick … einmal hin, einmal her … ringhsherum, das ist nicht schewer".

 

Nessuno la voleva vicino quando si recava alla lettura delle tavole della memoria dallo Speziale, perché doveva accostare due sgabelli per riuscire a sedersi. Gundelia, la perfida nipote del borgomastro, la scacciava inorridendo per il puzzo di cipolla che diceva di sentirle addosso. Serviva a poco strofinarsi la pelle col sapone di lardo, perché l'odore che sentiva quell'antipatica lo emanava il mestiere con cui la madre si era affrancata dalle tradizioni del clan. Tuttavia, Minne non si tolse mai il coltellino per pelar le cipolle che la madre le aveva messo al collo fin da bambina, perché non voleva darla vinta a Gundelia, che continuò a lanciarle contro i sassi per scacciarla.

 

"Schwester, komm tanz  mit mir … beide Hände reich ich dir … einmal hin, einmal her … ringsherum, das ist nicht schewer".

 

Minne voleva danzare cantando la filastrocca con gli altri, ma era troppo grassa e le ragazzine la spingevano fuori dal cerchio. Solo al ritorno nel regno felice di Gundobald e Bertfriede, poteva canticchiare con la sua voce goffa, piroettando leggiadra come una lamia dei boschi, balzando di petalo in petalo a trovar ristoro cullandosi sul fil di seta del ragno.

 

-        Fate pure come vi pare, sarete per certo lo zimbello della fiera.

 

Tanto le mancava l'affetto di quelli che la canzonavano, maggiore era l'appetito con cui si nutriva dell'amore dei suoi genitori. Intanto cresceva e cresceva ancora fino a diventare una montagna che poteva oscurare persino il sole. Minne iniziò a sentirsi intrappolata nell'amore di Gundobald e Bertfriede. La solitudine calò sul suo bel faccione un velo di malinconico rancore per l'egoismo di chi aveva deciso di nutrirla solo con la ricchezza del proprio affetto.

 

-        Voglio andare a conquistare il mio destino …

 

Disse ai genitori la mattina in cui partì per la fiera degli arditi che si sarebbe tenuta a Loudesìa. Gundobald che non era mai stato bravo con le parole, espresse la sua soddisfazione andandole a legare il bue al calesse. Bertfriede le baciò l'enorme mano sostenendola a fatica con entrambi le sue e le chiese se era disposta ad affrontare le asprezze che certo il mondo le avrebbe riservato.

 

-        Il mio nome è Minnegard, figlia di Bertfriede e del palafreniere Gundobald dei Gollodi Falledi.

 

Fu così che Minne si mise in viaggio per Loudesìa. Non si curò dell'ilarità che destava attraversando i villaggi e non le importava dello sguardo incredulo che aveva suscitato allo scrivano che la iscrisse alle gare. La solitudine di tanti anni l'aveva resa sorda al sarcasmo che provocava nelle persone. In lei c'era solo desiderio di riscatto e la mattina della fiera aveva tutto quanto per ottenerlo: l'enorme giubba di cuoio conciato dal padre, l'elmo di legno con le borchie su cui si potevano contare le martellate menate dalla madre e l'indifferenza con cui aveva corazzato il proprio cuore per sopravvivere allo scherno del mondo.

 

-        Ecco la grassona!

 

La piazza del palio di Loudesìa traboccava di gente eccitata dalla parata dei contendenti. I dory e le virago davano sfoggio della propria baldanza, ognuno a cavallo di un poderoso destriero messo a loro disposizione dal clan di appartenenza. Non era certo un onore per Minne toglier loro l'attenzione del pubblico con il suo calesse dalle enormi ruote di legno, trainato da un bue tanto grosso quanto sgraziato.

 

-        All'assaaalto!

 

Non sarebbe mai più tornata indietro, quando pungolò le terga di Sohnderkuhmonde, che iniziò a correre sbuffando contro il cavaliere con la lancia tesa contro il suo calesse. Minne alzò lo scudo e manco sentì il cozzo che spezzò la lancia disarcionando il cavaliere.

 

-        Scendi da quella barrozza, stupido botolo di lardo.

 

La provocò il dory perché Minne gli impediva con il suo carro di riacciuffare il proprio destriero.

 

-        Codarda … affrontalo ad armi pari se ne hai il coraggio.

 

Sentì urlare da una virago a bordo dell'agone, prima che le lanciasse un sasso con il suo fustibalus che le colpì l'elmo. Tutti sembravano essere contro di lei, eppure quel dory era andato giù da cavallo come un citrullo.  

 

-        So io come trattare quella bifolca.

 

Disse un altro in armenti d'argento tra le risa generali, quando balzò oltre la palizzata dell'agone e cavalcò in aiuto del suo compagno in difficoltà. Invece di tenere alta una spada, roteava un lazzo da bovaro che lanciò con destrezza a centrarle il capo. Non era lecito quanto stava accadendo, ma nessuno sembrava disposto a rinunciare a quello spettacolo così divertente.

 

-        Urla come una scrofa alla mattanza …

 

Minne urlava nel vano tentativo di districarsi dal lazzo che il cavaliere andava stringendole addosso, continuando a cavalcarle intorno in un girotondo di scherni. Era dunque questo il suo destino? Si alzò ritta sul calesse e strattonò il lazzo con una mano. Il cavaliere in armenti d'argento per poco non andava a far compagnia al compare. Di stizza quello prese a tirare con tutta la possanza del suo destriero. Minne non gli era da meno, però la sua mano sanguinava e cedette prima di un passo, poi di un altro e un altro ancora. Dopo un abile gesto, tagliò il lazzo con il coltellino per pelar le cipolle che Bertfriede le aveva appeso al collo da bambina.

 

"Con i piedi trap trap trap … con le mani klapp klapp klapp … un po' di qua e un po' di là … fare un giro a piroettar, non è difficile da provar".

 

Il cavaliere andò a terra insieme al cavallo, mentre Minne si srotolava la fune di dosso.

 

-        Pagherai a caro prezzo quest'affronto.

 

"Con le teste nick nick nick … con le dita tick tick tick …"

 

Minnie, scesa dal carro, alzò lo scudo sopra di sé per proteggersi dai colpi di mazza ferrata. Era assai abile con lo scudo e nel secondo assalto lo spinse contro il cavallo dell'avversario per bloccare la sua corsa, tanto da darle la possibilità di far roteare il martello a menarlo dritto sull'elmo argentato del cavaliere. La testa di quello fece uno strano cozzo mentre si stritolava schizzando via tra le lamine di metallo come una cocuzza matura.

 

-        Parsifal, no!

 

Piangevano quanti avevano avuto a cuore quell'impavido dory. Il suo destriero se ne andò in parata intorno all'agone, a dar spettacolo del macabro orpello. Minne avrebbe creduto di aver concluso l'assalto, quando l'altro dory, riconquistata la cavalcatura, gli si lanciò contro, deciso a vendicare la miseranda fine dell'amico. Lei tenne alto lo scudo e senza sforzo alcuno parò ogni fendente, libera di rotear ancora il martello per schiantarlo sulla groppa del cavallo, che stramazzò a terra subitaneamente, bloccando il dory sotto di sé.

 

-        Ti prego risparmiami …

 

Il malcapitato non fece in tempo a pronunciare una supplica, che il martello stava cadendo di nuovo, crepando il petto del ragazzo tale e quale a un grosso tafano sotto lo schianto dello schiacciamosche.

 

-        Georg, amore mio!

 

Una piccola palla chiodata per poco non rendeva orba Minne, andando conficcandosi nell'elmo di legno, proprio sopra il sopracciglio che prese a sanguinare. La virago che le scagliava dal bordo dell'agone era assai capace con il fustibalus e di quelle sfere sapeva lanciarne a raffica, senza mai sbagliare un tiro. Lo scudo di Minne non la proteggeva da tanta buona mira e in breve si sarebbe ritrovata lacerata da quei proiettili. Tornò al carro e prese la sua frombola, caricandovi una grossa ghianda di piombo nella saccoccia, che per il vero poteva essere ben scambiata per quella di un trabucco.  Roteò le due funi della frombola facendole fischiare sopra la testa, al punto che pareva udir un coro di lamie di qualche magico bosco.  

 

"Sorella, balla con me … prendi le mie mani … un po' di qua e po’ di là … poi in un giro a piroettar, non è poi difficile da far".

 

Tutta la folla assiepata da quel lato della piazza prese a correre come un gregge dinanzi a un lupo. Ovunque sarebbe caduta quella ghianda di piombo, certo avrebbe ammazzato qualcuno! Quelli non potevano certo sapere che Minne fin da bambina sapeva cogliere una mela a più di cento passi, neanche la virago che vide la ghianda di piombo infiammarsi mentre le tranciava di netto il braccio con cui teneva il fustibalus.

 

La folla assiepata sulle transenne della piazza del palio di Loudesìa era sconvolta da quanto aveva assistito e non rideva più. Minne non era stata capace di conquistare il loro consenso come nei suoi propositi avrebbe desiderato. Qualunque cosa avrebbe fatto, ai loro occhi sarebbe rimasta una grassona senza virtù e allora abbassò sconsolata lo sguardo, traendo un particolare gusto dallo sgomento di chi ora la considerava un mostro.

 

Nessun altro ebbe l'ardire di sfidarla ancora e fu la prima volta che a una cerimonia delle cavalcature si benedisse un bue per fare una cavaliera. La forza con cui aveva saputo conquistarsi il rispetto non alleviò la solitudine del suo animo, procurandole lo scherno di quanti iniziarono a canzonare le gesta della bifolca grassa.

Minnegard la sanguinaria non imparò mai a danzare, ma divenne ugualmente una leggenda e nessuno si augurava di veder sorgere le corna di Sohnderkuhmonde dal ciglio di un campo di battaglia.

 

 

 

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Un Esperimento Riuscito

 

 

 

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"Le mie vesti nere sventolano come una macabra bandiera su queste steppe spazzate dal vento gelido dello JiaddGrow".

 

I Dàmari erano una schiappa periferica del clan degli Uttini Falesi e discendevano da un incrocio di sangue con i Lammidi Squittéri dell'estremo oriente. Il loro casato non ricevette la benedizione della veneranda uttina poiché il cavaliere squittéro aveva rapito la principessa durante una faida tra clan. Il feroce condottiero Xiang Liang rimase catturato dallo sguardo della prigioniera e contro la volontà del proprio clan, fuggì con lei tirandosi dietro l'ostracismo anche della sua veneranda. I due amanti vissero da raminghi come lo furono i loro discendenti, il cui nome "dàmaro" significa "esilio".

 

"Quale arcano mi trovo a indagare su per questa steppa che si agita con onde di mareggiata e noi a cercar una rotta tra i suoi flutti?".

 

In Terra Santa i Dàmari, non potendo vantare alcun diritto per rimanerci, avevano occupato il remoto e inospitale altopiano sui Monti Apalagi per concessione degli Squìtteri, governanti la città di Palendrìna. L'altopiano si stendeva da nord, prospiciente lo JiaddGrow, fino a sud, gettandosi su per alte scogliere direttamente nel Mare Nostrum. Il piccolo clan dàmaro viveva spostandosi continuamente per le steppe d'alta quota, allevando cervicapra a cavallo di una particolare razza di Poni adatti alla loro modesta corporatura.

 

"Avrei dovuto acquistare una portantina più adatta alla statura di Li Mei e ai portatori dàmari; alti non più di cinque piedi, seppure ne abbia posto un paio per ogni braccio, la fanno beccheggiare come un piccolo naviglio".

 

Quando i rigori dell'inverno ghiacciavano il nord, allora i Dàmari scendevano verso il mare facendo tappa in degli accampamenti semipermanenti. Essi erano fatti di capanne dai muri di pietra a secco, con un tetto di paglia che andava ricostruito ogni volta.  La loro era una civiltà modesta avulsa ai giochi di potere che animavano gli interessi tra Gelsa e Mogul.

 

"Strana gente questi dàmari, per quanto scruti la loro mente, c'è una speranza che ignoro ad animarli nello spirito … spero non si tratti della ricompensa promessa loro per abbandonarci in questa landa desolata".

 

Il sangue dàmaro era "corrotto" e qualsiasi altro clan dei giganti si sarebbe disperso se si fosse mischiato al loro. Il gracile incarnato li rendeva vulnerabili nel confronto diretto; tuttavia, possedevano una particolare follia che li rendeva capaci di ogni sorta di sacrificio ed era quello il segreto su cui indagavano le Geda, coltivando senza successo il seme dàmaro tra i giardini all'interno delle alte mura di Mogul.

 

"Tengo d'occhio da due soli le vette dello JiaddGrow per sincerarmi che le guide non ci stiano conducendo in tondo, facendoci consumare dal vento gelido".

 

La piccola carovana della vereconda Ade giunse nel villaggio Tamur all'imbrunire del sesto giorno di marcia da Palendrìna. Il piccolo agglomerato di capanne circolari appariva come un sassolino nella vastità della steppa apalagia. Ade non attese il mattino seguente per recarsi nella dimora della veneranda madre, dove fu accolta con molta diffidenza intorno al falò. Ella pretendeva l'infusione del miglior mitis dàmaro per il cratere fecondo di Li Mei, dovendo rinverdire i giardini di Mogul.

 

"Ho scoperto il capo per mostrare loro la corona della verecondia e questo non ha sortito nessun effetto. Essi non conoscono il potere Geda. Essi non comprendono l'importanza della mia richiesta".

 

Ade aveva consegnato alla veneranda il contratto scritto dinanzi al monaco teoita di Palendrìna; uno scambio pattuito per dieci soldi e un fido per la cavalcatura in paramenti pregiati dell'infingardo squìttero padrone delle steppe in cui vivevano i dàmari.

 

"E' in ognuno di loro quella stessa imperscrutabile speranza di gioia avvertita con le guide".

 

Il contratto stipulato con il patriarca squìttero corse di mano in mano sul cerchio formato attorno al falò, generando un alterco così furente tra i maschi e le femmine, da impedire alla vereconda di seguirne gli sviluppi.

 

"Sarà mai possibile imbrigliare in una regola il loro sconclusionato individualismo?"

 

Intorno al falò ognuno cercava di prevalere sulla ragione dell'altro, dimostrando con la passione il bisogno che l'ottemperanza di quel contratto avrebbe leso. La vereconda Ade ancora non sapeva quanto fosse difficile ridurre all'ubbidienza quel popolo.

 

"Sono dominati dall'imperscrutabile speranza, una promessa di felicità che li rende avari al punto di non volerla dividere con nessuno".

 

I semi dàmari trapiantati a Mogul non si barbicavano, appassendo nel tempo come dei fiori recisi. La stessa Li Mei aveva immalinconito lo sguardo, quando Ade le portò la lieta novella della missione affidatole e poteva quindi abbandonare il chiostro dell'Hat. Nessuna gloria poteva valere la speranza che le Geda estirpavano dal loro animo per ridurli all'ubbidienza.

 

"Il tumulto nel loro animo è provocato dal timore di perdere qualcosa che non c'è … si scannerebbero pur di continuare a credere nel sogno … e dunque questa la fonte del loro coraggio?"

 

Ade decise d'interrompere quel furente alterco facendo un cenno a Li Mei perché iniziasse il ballo delle lingue di drago. Ella ubbidì tenendo lo sguardo basso e raggiunse il centro del cerchio, dove scalciò un tizzone del falò con il piedino nudo. Tra le scintille dorate dell'impavido gesto, iniziò quella danza squìttera antichissima che apparteneva anche alla tradizione dàmara. Due lunghi nastri di seta si snodarono leggiadri nell'aria a disegnare sinuose figure come dragoni volanti. Avvolta e sedotta dalle scie luminose gialle e rosse dei nastri, la danzatrice cadde sconfitta tra l'ammirazione degli astanti.

 

"Si lasciano ammaliare dalla bellezza con la stessa passione con cui imbrutiscono per riuscire a sottrarla allo sguardo di chi gli siede accanto".

 

-        … era scritto nelle stelle che c'incontrassimo e da questo momento ci apparterremo per sempre.

 

Disse Dewei a Li Mei quando nottetempo scavalcò il muro della sua capanna. Ade giaceva dormiente, seppure le sue orecchie udissero celate nelle lunghe ombre proiettate dalla luce argentea della luna.

 

-        Chi siete? Mi spaventate!

 

Rispose Li Mei destata nel sonno, quando si vide il giovane dàmaro che continuava ad umettare le labbra, rese arse dalle ardite parole che andava pronunciando.

 

-        E' il fuoco di Xiang Liang che mi rende così sfrontato.

-        Non vi capisco …

-        Voi siete ciò che io ho perso … i nostri cuori appartenevano a una sola anima.

-        Non vi capisco …

-        Voi siete la mia speranza, la sola che può salvarmi dalla solitudine …

-        Non vi capisco …

-        Siete stata cresciuta senza amore, ma in voi deve esserci ancora la memoria di quanto vi sto raccontando …

-        Sono stata condotta in questa landa remota per adempiere a un dovere …

-        Lasciate all'immorale vereconda i suoi abietti propostiti … vi sto parlando della comune speranza celata nel recondito … la nostra felicità!

-        Non vi capisco …

-        Allora ditemi che sbaglio e non sentite nel vostro cuore lo scalpitio del desiderio.

-        Sono disorientata …

-        Il nostro patriarca Xiang Liang rinnegò il suo nome e abbandonò il clan, sacrificò ogni bene pur di salvare il proprio amore perché non c'è oblio più profondo di una vita senza speranza di felicità.

-        Non vi capisco … forse il vostro Inn è offuscato dalla vicinanza del Mag nel mio ventre?

-        Il vostro cuore è stato traviato dagli insegnamenti scellerati che vi hanno condotto qui a prostituirvi.

-        Sono disorientata … non vi capisco!

-        Voi ed io siamo nati per stare insieme e nessun dovere potrà costringerci ad appartenere ad altri … Li Mei voi siete la mia speranza di felicità!

-        Il Geda insegna che la speranza rende cagionevole il coraggio …

-        Il coraggio è mosso dalla speranza di felicità.

-        Non vi capisco … spiegatemi meglio … non mi abbandonate nel trambusto in cui mi avete gettato.

-        Se non comprendete il bisogno di esser felici, come posso spiegarvi quello che ho da darvi? Non s'insegna ciò che non si può imparare … c'è solo d'intendere quanto già sapete.

 

"E' dunque il gesto sconsiderato del patriarca Xiang Liang che sopravvive nella speranza di gioia del loro esasperato individualismo".

 

Ade s'incamminava sulla via del ritorno con il palato reso amaro dal gusto della sconfitta. I Dàmari si rifiutarono di ottemperare al contratto firmato dal loro padrone, perché essi riponevano nel gesto dell'infusione di mitis il valore cardine della speranza di felicità.

 

"E' nefasto il seme nato da una speranza che trae coraggio dalla soddisfazione di se stessa".
 

La piccola carovana di sherpa dàmari a seguito della portantina beccheggiante si allontanava sulla linea d'orizzonte, circoscritta in lontananza dalle alte vette dello JiaddGrow. La figura altera e scura della vereconda, avvolta nel suo mantello a cappuccio, faceva da polena a quel naviglio tra i flutti gelidi della steppa.

 

-        E' possibile che siate così arida! Non comprendete che non resterebbe nulla di me, quando mi avrete portato via l'unica speranza di felicità che può tenermi in vita?

 

Disse Dewei ad Ade, quando questa si frappose tra il suo Poni e la portantina.

 

" Ancora la speranza … miraggio degli ebbri … merce di chi non ha moneta da scambiare".

 

-        Mettete alla prova il coraggio del mio amore … conducetemi con voi … non ci sarebbe pena più grande della separazione da Li Mei.

 

" La volontà del desiderio impone la prova del sacrificio, al fine di concretare il miraggio con cui allatta il senno della speranza ".

 

Ade fulminò il Poni del ragazzo che stramazzò a terra esanime e offuscò la mente degli sherpa che rimasero immobili come statue di sale.

 

" Cercherò nel ragazzo il veleno che uccide i miei germogli dàmari".

 

Ade ammaliò lo sguardo di Dewei irretendolo nella sua corona della verecondia, poi incrociò le dita e iniziò a recitare le cantilene Geda usate per aprire i chiavistelli della mente.  La coscienza del ragazzo si sciolse nella coltre scura del mantello della vereconda. Ade entrava nei suoi pensieri dopo di che soffiava alito salmastro sui miraggi proiettati dall'ingannevole ricchezza dei luoghi che andava svelando. Dove poteva incidere un innesto capace di salvare da quell'insana speranza di felicità?

 

-        Vereconda Ade! Ho io la risposta … risparmiate Dewei o il mio cuore morirà con lui.

 

"La speranza priva del suo naturale desiderio di felicità diventa il veleno che appassisce i miei germogli in boccio".

 

-        Esistono il cielo e la terra, il sole e la luna, ma c'è anche la speranza nell'alba di un nuovo giorno di felicità ed io non potrei sorgere dall'oblio della notte in cui mi trovo, senza il sogno di Dewei.

 

"Ecco dunque finalmente giungere l'agognato successo … ha preso coscienza della propria volontà di onnubilare la ragione, al fine di salvare il suo sogno di felicità … Li Mei è l'innesto che andavo creando".

 

La vereconda Ade si compiacque della propria scienza perché aveva saputo imbrigliare la grande energia contenuta nella speranza di felicità dàmara. Certo ancora non poteva sapere gli sconvolgimenti che quei piccoli e buffi giganti dal sangue bastardo, avrebbero saputo creare con il loro folle desiderio di credere nella felicità.

 

 

 

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  • 1 month later...
Silverselfer

 



Ultima nota a margine:

Eccoci quindi giunti alla fine del primo libro o della "season one", Con quest'ultimo contributo stiamo circa a cento cartelle ... più o meno un libercolo di 200 pag, mi sembra la mole giusta. Spero di essere riuscito a non appesantirlo troppo con i tecnicismi necessari alla descrizione del mondo. Spero di aver dato anche qualche spunto di riflessione con la realtà del nostro di mondo, ma soprattutto di aver dato spessore "emozioni" attraverso i racconti di vita.

Riguardo a quest'ultimo contributo ... allora ... ci sono molte prefazioni che avrebbero richiesto almeno la suddivisione in altri due contributi distinti tra loro con dei racconti ad hoc. Di fatto è quello che volevo fare, però al solito mi è sfuggito tutto di mano.

C'è da dire che per vicende che non sto a raccontare, mi sono ritrovato in un confino forzato in un lontano eremo montano ... non avevo un cazzo da fare e avendo trovato un link neozelandese con tutti i film degli ultimi dieci anni che non ho visto, me li sono sciroppati tutti uno dietro l'altro, da Avatar a l'ultimo Mad Max. Guardarli tutti insieme mi ha fatto capire com'è cambiata la narrazione nell'ultimo decennio ... la trama si è progressivamente assottigliata diventando del tutto funzionale all'azione ... un po' come capita nei videogiochi o nei film porno dove la storia apre il preambolo e chiude con l'epilogo un corpo narrativo del tutto concentrato sull'azione che sta nel mezzo. Il sentimento è totalmente affidato al dramma epico che si risolve con primi piani di volti tumefatti o lunghe carrellate su paesaggi che volgono all'infinito. I dialoghi sono delle partiture da reality show con registri lessicali sempre uguali, quello che colpisce è il gergo militare che dilaga negli altri film di genere ... ascoltare Dracula che parla come un marine mentre usa i suoi super poteri con i medesimi effetti speciali usati per Magneto è disorientante.

In finale tutto questo mi ha influenzato nello scrivere l'ultimo racconto "La Congiura degli Innocenti". All'inizio dovevano essere tanti racconti brevi disgiunti tra loro per inframezzare le varie prefazioni, ma scrivendoli uno di fila all'altro e mentre guardavo decine di film, li ha resi una sorta di sceneggiatura della stessa storia ... ma non solo di quella particolare che stavo scrivendo, ci sono finiti dentro anche tutti gli altri racconti scritti fino a questo momento. Ho ripreso i fili delle varie trame usandole come il tessuto di un  tombolo, su cui ho ricamato la scena di un'azione conclusiva.

Purtroppo, però, questo racconto essendo una serie di sketch, di quadri cinematografici che poi sono stati messi in fila come si usa per il montaggio di un film, ha bisogno di un preambolo chiaro che dia tutti i supporti narrativi per comprendere l'azione. A tale scopo, l'ultima delle prefazioni, quella che precede il racconto vero e proprio, va necessariamente letta. Non solo, ma scrivendola mi sono lasciato andare al genere "docufiction" (XD) producendo una roba che proprio non saprei come definire in termini letterari. A me piace, spero che non risulti troppo pesante perché scimmiotto i registri lessicali delle parabole evangeliche con aggiunta di parecchio sarcasmo.

 

NB: Editando ho deciso di dividere nettamente con post diversi le prefazioni "classiche" dall'ultima che va necessariamente letta insieme al racconto.

Un'ultima cosa sul racconto, l'ho costruito esclusivamente attraverso i dialoghi dei protagonisti ... è praticamente un film. A me scrivere dialoghi viene facile come per un schizofrenico è ascoltare le voci nella propria testa. Ho comunque sfrondato parecchio e al solito ho cercato di togliere ogni parola inutile per alleggerire la lettura e aumentare la dinamica delle azioni.

Come ho detto, all'inizio i diversi capitoli erano racconti scritti per inframezzare le prefazioni, ma rileggendo ho capito che in questo modo si perdeva il senso del puzzle con le tesserine narrative sciolte che va ricomposto mentalmente dal lettore, quindi ho deciso di dividere le prefazioni e unire i racconti sotto un unico titolo ... mi sa che sto rendendo tutto estremamente più complicato di quanto sia in realtà ... ma è solo perché la semplicità è difficile da spiegare. E' solo un giochino di specchi, ma se mi è riuscito, avrò dato un corpo narrativo unico all'intero primo libro.

Basta che al solito esagero con le spiegazioni ...

Chiusa questa prima stagione, credo che non ci rimetterò mano prima di Natale ... mi aspetta un autunno lavorativo d'affrontare ... che palle ... situazioni pesanti da prendere di petto ... bah, se penso a kafka che si lamentava di non avere dieci ore di fila da dedicare alla scrittura, io sono molto più fortunato ... basta va ... meglio che inizi a editare che è una roba lunga da fare ....

Concludo con uno spoiler sulla prossima stagione, come si usa sempre fare ora sui titoli di coda di un film. Gelsa cadrà per mano Ittaka e l'intera civiltà dei giganti crollerà con l'ascesa al trono di spine di una figura controversa "Semiuk, la regina di Mogul".

 

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Silverselfer

L'Origine del Verbo Lapis

 

 

Il massiccio roccioso del vulcano Ethos era stato la dimora prediletta degli Zenosti e i Tommacei, loro servitori, lo avevano abitato fin dall'inizio dei tempi.

Gli schiavi tommacei presi a servizio presso le certose zenoste erano resi sterili per impedire che si formassero discendenze in grado nel tempo di affrancarsi dal clan di origine. Questo è quanto accadde quando, dopo l'esodo dei padroni, quei luoghi rimasero appannaggio dei loro schiavi, che erano gli unici a conoscerne l'esatta ubicazione.

 

Essi si fecero chiamare monaci, ma non comprendevano che qualche segreto rubato con gli occhi della complessa mistica zenosta.  Rimasti orfani dei padroni e privi di sostentamento, questi tornarono tra i fratelli tommacei affermando di aver ricevuto in eredità la pratica del culto di Inn e pretesero tributi per continuarla.

Il monacato dell'Inn non era un vero ordine come il Geda, con una forma gerarchica capace di esercitare degli specifici intenti. Essi erano le prime vittime delle congetture cui ricorrevano per spaventare gli adepti del culto. Vivevano raminghi diffidando gli uni degli altri ed esercitavano la loro arte come degli sciamani, custodendo gelosamente le briciole di sapere che avevano rubato, non facendosi scrupoli a ricorrervi per mero interesse personale.

Fu per il loro dispotismo che i fratelli tommacei li abbandonarono sulle montagne e discesero nella vicina città di Normenia, fondata dai Suddacei.

 

I Suddacei erano seguaci del culto dei vulcani e Normenia si dichiarava paladina di Ethos. Essa sorgeva a nord del massiccio vulcanico, vicino a una sua bocca terziaria che i Suddacei usavano come fucina per la loro rinomata arte di fonditori di metalli. Quando i Tommacei vi giunsero, era poco più di un accampamento stanziale. Essi vi trasfusero la scienza che avevano assorbito dagli Zenosti, edificando palazzi e lastricando le strade che vi conducevano, trasformandola in breve tempo nella prima vera città a sud del Desh.

 

I Tommacei assoggettarono culturalmente i loro cugini Suddacei, che in breve si convertirono al culto di Inn e all'unico Dio Hat, del quale erano eguali figli. Fu così iniziata una storia comune scolpita in Verbo Lapis, com'era d'uso per i Tommacei. Fornendo il modello d'integrazione tra clan diversi, che condusse nel tempo al Primo Regno di Gelsa.

 

 

 

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Il Tempio della Memoria

 

Anticamente gli Zenosti usavano comunicare con i Tommacei attraverso delle tavole di pietra, che facevano trovare loro nel Tempio di Inn. Allo stesso modo, i Tommacei scolpivano sulla pietra la genealogia dei propri cerchi magici e ogni altro accadimento in seno ai propri casati, che poi riponevano nel Tempio tenendo così informati i propri padroni.

 

L'imponente Tempio era il fulcro di quella che era chiamata "La regola di Inn", ossia la legge attraverso cui gli Zenosti governavano le vicissitudini dei loro servi. Vi si ordinavano i fanciulli destinati al servizio presso le certose Zenoste e, soprattutto, si riceveva il verdetto inopinabile regolato dalle leggi scolpite sulle tavole di pietra. Il cui giudizio prevedeva anche l'estremo passo oltre il Pozzo del Fato. Questo era una voragine dalle pareti verticali intorno a cui era stato eretto il Tempio, dal cui fondo era possibile scorgere il ribollio del sangue di Teos. 

 

Il giorno dell'esodo Zenosta, gli schiavi a servizio nelle loro certose suonarono il grande corno dell'adunanza posto nella piramide sommitale del Tempio. Riuniti sulla spianata antistante, i clan Tommacei ricevettero la notizia dell'abbandono dei propri protettori e da allora commemorarono l'evento come il giorno del pianto.

Gli antichi schiavi iniziarono una feroce disputa su chi spettasse il controllo del pezzo più importante del lascito zenosta. La questione si risolse dichiarando il Tempio proprietà del popolo Tommaceo, nel senso che questo vi avrebbe pagato i tributi per la prosecuzione del culto, poi ripartiti in maniera eguale tra quelli che si fecero chiamare i monaci della Regola di Inn.

 

Giunse poi il periodo buio delle eresie, in cui i monaci si scomunicavano a vicenda per le diverse interpretazioni della Regola. Divenne usuale ricorrere all'estremo passo oltre il Pozzo del Fato, con cui le fazioni vincenti risolvevano le dispute teologiche. Seguivano i monaci eretici nel pozzo anche tutti i loro seguaci, ricercati e poi giudicati da un apposito tribunale inquisitorio.

Il lungo periodo di terrore spinse progressivamente un numero sempre maggiore di Tommacei a riparare nella città di Normenia. Sul ricatto di una scomunica, questi proseguirono a pagare i tributi al Tempio, presso di cui continuarono a recarsi per riporvi le tavole della propria memoria.

 

La conversione dei Suddacei alla Regola di Inn inasprì i rapporti con monaci. Fu in occasione della nona fiera della Concordia che il Patriarca Ludovico dei Guglielmi si rifiutò di pagare il tributo al Tempio. La fiera della Concordia era un evento che cadeva ogni trentacinque cicli solari, durante la quale i clan erano tenuti a pagare un tributo straordinario per l'assoluzione plenaria dei reati contratti dai propri avi in spregio della regola. Quella volta era stata indetta con sette cicli solari di anticipo per metter fine a una truculenta faida tra clan suddacei che si protraeva da cinque lustri, contravvenendo alla Regola di Inn che puniva le faide con la pena capitale.

 

L'espediente era frutto dell'impegno diplomatico Tommaceo e usava il tributo al Tempio solo come il pretesto per chiudere la disputa con il perdono di Dio. Il rifiuto del Patriarca Ludovico causò invece l'ira dei monaci, i quali non esitarono a comminare la massima pena prevista dalla Regola a tutti i protagonisti della faida, cioè la condanna al salto nel Pozzo del Fato. I clan Suddacei, che sapevano ben usare le lame forgiate nelle loro fucine laviche, si ribellarono passando sul fil di spada ogni tonaca gli si parasse dinanzi.

 

Ben presto il numero dei monaci votati al martirio si ridusse a favore di quanti ricoverarono nelle certose zenoste scampando alla furia dei suddacei. Questi convennero nella pace offertagli dai fratelli Tommacei, che prevedeva la cessione a loro favore del governo della Regola contenuta nel Tempio di Inn.

 

Col tempo, la piccola comunità degli scribi tommacei che si trasferì nel Tempio proliferò, tramandando da genitori a figli la particolare conoscenza delle tavole della memoria. Il successo della piccola comunità si basava sulla scienza con cui dipanava le contese tra clan. Vi riuscivano grazie all'introduzione del Concilio. Esso riuniva i rappresentati inviati da ogni clan per discutere l'oggetto del contendere con il conforto degli abati custodi della memoria in Verbo Lapis. Ogni disputa risolta lasciava in eredità la propria spiegazione, andando ad arricchire di tavole il patrimonio della Regola. 

 

 

 

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I Monaci Teoiti

 

La certezza fornita della legge scritta fece sempre più proseliti che si rivolgevano al Tempio per sciogliere ogni sorta di disputa, da quelle politiche che coinvolgevano i clan a quelle più comuni che regolavano le genealogie interne ai cerchi magici. Fu proprio per governare meglio le piccole questioni che s'inviarono in ogni clan dei nessi del Tempio.

A tale scopo si dette un valore all'arte d'imparare a memoria il Verbo Lapis. Tuttavia, l'enormità del numero delle tavole accumulatesi, riduceva questa sapienza alla capacità di comprenderne la complicata archiviazione. La scienza degli scribi del Tempio dovette ricorrere sempre più spesso alla sacralità del luogo da cui proveniva per riuscire a celare le proprie lacune, fonte di grossolani fraintendimenti e malevole interpretazioni.    

 

Il successo del proselitismo in Verbo Lapis causò presto gli strali dei monaci dell'ormai superata Regola di Inn, che pretendevano di essere gli unici custodi del culto sulla montagna di Ethos e, di conseguenza, i soli a poter riscuotere le offerte dei pellegrini.

Ci fu una lunga disputa da cui ne venne una lungimirante separazione dei ruoli. Il Tempio di Inn fu sconsacrato e non avrebbe più ricevuto i tributi dei pellegrini. A governarlo sarebbero stai gli abati Custodi della Memoria, scelti dai membri del Concilio dei clan.

La sacralità necessaria all'esercizio del Verbo Lapis fu assicurata dalla consacrazione degli scribi del Tempio in un ordine monacale minore intitolato a Teos, divinità inferiore all'Inn di cui erano seguaci i monaci degli antichi schiavi zenosti. Il culto vulcanico di Ethos, tanto caro alle lame suddacee temute dai monaci dell'Inn, fu riformato insieme con quelli delle Lamie sciamaniche, in favore dell'unico Dio Hat da cui discendevano.

 

Il monacato teoita si diffuse per tutto il regno con il consenso dei clan perché il Verbo Lapis rendeva fruibile la propria scienza manualistica a tutti quanti sapessero leggerla.

La diffusione delle tavole in Verbo Lapis formò una memoria comune ai diversi clan e contribuì alla nascita di una coscienza di popolo.

 

 

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Il Connubio tra Commercio e il Verbo Lapis

 

I Quatari Gaddei erano un clan falese originato da un incrocio di sangue suddaceo e vivevano a Normenia prima ancora della discesa dei Tommacei dal monte Ethos.

Essi intuirono subito le opportunità introdotte dal Verbo Lapis e lo utilizzarono per la stipulazione dei contratti, sostituendolo alla tradizionale stretta di mano alla presenza di due testimoni. Potevano quindi ricorrere all'autorità delle tavole della memoria e quando non riuscivano a far rispettare il verdetto tommaceo con le lame dei cugini suddacei, allora scrivevano in Verbo Lapis il nome del clan inadempiente nella lista dei "Fraudolenti Vasa", di modo che questi non avrebbero più potuto commerciare con le altre rocche gaddee dell'intero Bush.

 

Il Verbo Lapis divenne in breve tempo la struttura portante del banco gaddeo.  Era però indispensabile che tutti riconoscessero l'autorità del Tempio e presto i Gaddei lo pretesero da chiunque volesse commerciare con le loro rocche. Flotte di scribi tommacei furono arruolati nei banchi e non c'era commerciante Gaddeo che non avesse a seguito un Tribus, tre scribi riconosciuti dal tempio. Essi erano quanti ne servivano per la stipula di un contratto in Verbo Lapis.

 

Il periodo delle feroci incursioni ittake diete notevole impulso all'economia di guerra, la quale favorì lo sviluppo della comunità intorno al Tempio. Gli ingenti capitali che vi confluivano portarono all'abbattimento delle rupi circostanti per favorire gli insediamenti.  In breve si sviluppò la città di Gelsa e nulla poté il cruccio dei monaci dell'Inn, quando la città fu proclamata "sacra" e intitolata al supremo Dio Hat. Ricacciare gli Ittaki sul Desh fornì il motivo per saldare le rocche militari in una lega, i cui Cavalieri Patriarchi sedettero nel Concilio che elesse i propri Custodi della Memoria. Tutti riconobbero così l'autorità del Tempio di Gelsa, detta La Luminosa.

 

In tutto questo il monacato teoita ebbe modo di diffondersi ed esercitare il proselitismo teocratico insito nell'originaria vocazione del Verbo Lapis. Fu la crescente discriminazione aristocratica indotta dal piccolo clan patriarcale a dar forza al precetto teologico di essere tutti uguali dinanzi all'autorità della saggezza espressa in Verbo Lapis. Il popolo asservito per censo alla nobiltà abbracciò così la fede dell'unico Dio Hat, dinanzi alla cui legge tutti indistintamente dovevano genuflettersi. 

 

 

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La Cacciata Parride e la Condanna a Morte dei Dimidium.

 

 

 

La delicata questione che condusse all'abbandono dei Parridi della Terra Santa, scaturì dal loro rifiuto di abbracciare la fede monoteista del Tempio. Gli abati Custodi della Memoria fallirono nell'intento di riformare il credo panteista della Dea Parride Amir, di modo da poterlo armonizzare con la morale dell'unico Dio Hat.

La Dea amante della felleide Zeneide inasprì la retorica dei monaci contro  i dimidium. Il culto saffico di Amir era divenuto l'ultimo baluardo delle antiche tradizioni nomadi, convertirlo era indispensabile al proselitismo tommaceo.

 

La sessualità regolata in Verbo Lapis era funzionale alla procreazione. Questo concetto divenne il fulcro della teosofia ascetica del monacato superiore di Inn. Essa avversava i culti panteistici delle lamie e promuoveva l'abbandono di una natura attentatrice delle virtù spirituali. La santità giungeva dall'affrancamento dei bisogni fisiologici, favorendo l'ascesi di uno spirito extra corporeo. Il Deorum Ignis era la volontà di Dio che riuniva l'entità spirituale maschio-femmina, dal cui talamo nuziale proveniva il perdono per il proprio peccato carnale.

La sessualità ispirata dai culti sciamanici era altresì legata all'eterogeneità dei flussi tra Inn e Mag. L'entità di genere maschio-femmina indispensabile alla riproduzione non rivelava alcuna trascendenza divina. La sola regola era fissata dall'appagamento dei bisogni individuali e quindi non esisteva un modello morale di sessualità che escludesse tutti gli altri. 

 

La diatriba teologica si concentrò così sull'avversione per la figura del dimidium, che finì per rappresentare il caos combattuto dall'ordine portato nel mondo dal Verbo Lapis. La sessualità consumata da due individui dello stesso sesso non aveva alcun fine, se non l'appagamento di un bisogno ritenuto fatuo. Proibire questo genere di rapporti fu conseguente alla continenza sessuale pretesa dal Deorum Ignis.

 

I fatti precipitarono quando il dimidium fu ritenuto il frutto malato di una natura attentatrice del futuro della razza. Questo fece rientrare i dimidium nell'antica Regola di Inn che curava gli storpi gettandoli nel Pozzo del Fato. Il tribunale dell'inquisizione, retto dal monacato superiore di Inn, iniziò a sentenziare le sue condanne che non erano riconosciute dagli abati custodi della memoria, quindi non avevano corso, ma accendevano ogni volta un feroce dibattito in merito.

La ratifica di quelle sentenze era osteggiata dal voto conciliare in cui sedevano i cavalieri patriarchi parridi devoti al culto della Dea Amir, supportati dall'accondiscendenza dei clan falesi fedeli agli insegnamenti Geda. A opporsi alle sentenze del tribunale dell'inquisizione c'era anche il partito delle madonne che si appellavano alla pietas per i propri figli nati "storpi".

 

L'ultimo atto di questa feroce battaglia politica avvenne a seguito di un terremoto che fece dirupare l'ala est del Tempio della Memoria, sotto le cui macerie trovò la morte il venerando padre Askalot, relatore di una famosa arringa contro la pietas del partito delle madonne e ispiratore dell'enciclica che avrebbe portato alla cacciata dei clan parridi dall'assemblea conciliare. Il tragico evento naturale fu colto come un segno divino che si scagliava contro gli abati custodi della memoria, i quali furono accusati di simonia e meretricio dal tribunale dell'inquisizione, che riottenne così l'esclusiva giurisdizione sul Pozzo del Fato situato all'interno del Tempio. 

 

 

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Dalla raccolta dei discorsi de' "L'Ecclesiaste": Gaudium Nasciturus Rule. Discorso del monaco superiore dell'Inn, il venerando padre Askalot, tenuto durante il Sommo Concilio a conforto della regola e contro il partito delle madonne che si appellava alla pietà per sottrarre i propri dimidium al Pozzo del Fato. 

 

(Itr. "Vanitate Temptress" v:7/36.) Costituisce vanità il fiore che non fruttifica o la dolce polpa di un frutto privo di seme perché è fatuo il piacere senza genitura. La natura attentatrice della vanità appesantisce il fardello dei giusti e svia il cammino dalla retta via. (…) In questo mondo siamo venuti non per essere colmi di fatue vanità bensì degni a proseguire il cammino di chi prima di noi tracciò la via. (…)E' per vanità che si sottrae alla legge quanto essa è chiamata a correggere.

 

(Cp.I "Ius Corrigere"  prg.: 15 v.: 12/15) Il Tempio dell'Inn ci fu  indicato per correggere il danno e scaraventarvi nell'abisso la menzogna della natura attentatrice. Il maligno risiede nello storpio che rallenta la marcia gloriosa, pur via esso è riconoscibile nelle oscene brutture che il proprio fine infligge a una forma ributtante. Si fece più subdola la natura dell'errore quando concepì il dimidium, tanto esso all'apparenza porti i segni della santità a simboleggiare il fulgido divenire di una prole sana, essa si rivela nella menzogna della vanità sterile di un fiore privo di profumo. (…) Questo è dunque il diritto con cui si corregge l'abbaglio di non aver saputo riconoscere la malevolenza al suo primo vagito.

 

(Cp:7 "Virtus Sacrificii" v.:24/36) E' codardia l'orrore indotto dal salto nel Pozzo del Fato e mai ci sia pietas per il più vile tra i sentimenti.  (…) Non è forse il sacrificio il primo dogma di fede impostoci dalla memoria? Non è in nome di esso che gli impavidi impugnano l'elsa? Il fiore rigoglioso profuma del sacrificio fecondo del proprio savio destino. E' il sacrificio a metterci al riparo dalle fatue vanità, capaci d'illanguidire gli animi e condurre alla perdizione.

 

(Cp:9  "Impetum in Sacris" v.: 4/19/27/28/30) La deformità perniciosa sta nella natura degli invertiti dal polso mellifluo. Ecco dunque dove si annida lo scandalo. La scellerata fornicazione di corpi avviluppati come grumi di vermi, parchi della sozzura in cui si pasturano. Essa corrode le carni della prole sana deviandola nel fatuo piacere privo di sacrificio. (…) Voi femmine, che pure non esitate a donare la genitura retta nelle sante battaglie, illanguidendo dinanzi alla codardia, siete le prime ad infettarsi del morbo trasmesso dagli invertiti, cercando di nascondere quanto dovreste denunziare per la sanità di tutti noi. (…) Ebbene vi dico: «Voi peccate di vanità!». (…) Vorreste costringerci a provare pietas anche per lo sterco che donate alla terra? O dovremmo tenerci in grembo quanto il vostro non ha saputo partorire sano e giusto? (…) Ci avete portato qui a bestemmiare contro le sante regole, lascito della gloria degli Avi, solo per la vanità di una debolezza che ci vorrebbe inquinare fino all'estinzione della genia.

 

(Eplg. "Gaudium Nasciturus Rule" v.: 5/9/11/15.) Io vi ordino di rinunziare alla vanità del mondo ed estirpare la sterile gramigna tentatrice. (…) Abiurate il maligno e sposate la santissima fede, fonte di virtù in osservanza della regola. (…) L'ubbidienza è la regola, la regola è gioia e non v'è futuro partorito sano inosservante del buon consiglio. Senza regola regnerebbe il caos e il male è quanto non sta nella regola. (…) Il Pozzo del Fato restituisce alla terra quanto dalla terra è venuto stolto e in nome di Hat, sia fatta la volontà di Dio.

 

 

Critica della Matriarca Del Bastié dei Parridi da Ramì alla requisitoria del Venerando Padre Askalot. Passi tratti da "Aurum Vanitas", "Impii Doctrina Tommacea" e" Virtus est Gianis Naturalis "

 

"Aurum Vanitas"

 

(…) L'antico Tempio fu eretto a custodia della Regola di Inn, tanto cara ai monaci dell'ordine superiore a essa consacrati. E' bene rammentarsi che le matrone ostetricie tommacee sono tenute a chiamare i monaci per mondare il sangue del neonato dal peccato insito nelle sue viscere, riconciliandolo in tal modo con la grazia divina. Un verdetto emesso a posteriori che conduce al "Pozzo del Fato", contraddice l'infallibilità della cura imposta in precedenza degli stessi monaci inquisitori.

 

(…)I monaci superiori di Inn sono soliti chiedere il pagamento di un riscatto sacrificale per rimettere in pace il malcapitato di turno con il loro iracondo Dio. Questi arditi paladini di una regola soprannaturale occultata da sigilli invisibili, denunciano il male solo per venderne la medicina.  

 

(…) Può dunque definirsi fatuo il sentimento delle madonne che si fanno mordere il capezzolo per nutrire la prole? Sicuramente non si può lodare chi trasgredisce la regola, pur non è accettabile appellarsi alla sanità portata dal sacrificio, quando dal mercimonio dello stesso si è fatta un'arte. E' bene trarre a misura della giustizia il bisogno di quanti saranno chiamati a ubbidirvi, così da non doversi imporre attraverso sacrificio alcuno.

 

"Impii Doctrina Tommacea"

 

(…) L'intera Tribù Parsa e in particolar modo i clan Tommacei, furono asserviti alle necessità degli Zenosti. Ne assunsero le indiscutibili virtù, tuttavia ne contrassero anche le nefaste regole, usate dai venerandi per imbrigliare ogni loro velleità di riscatto. Essi sono gli "Avi" cui i Tommacei si prostrano rivolgendo i propri piagnistei di litanie con la riverenza tipica degli schiavi. Evocano la memoria convinti di ascoltarla provenire dalla bocca del loro unico Dio, costruito a foggia degli antichi padroni.

 

(…) Ecco dunque l'astuzia delle virtù scaturite dalle privazioni, frutto della scienza di chi ha lo scopo di tener lontano le mani del servo dalla dispensa di casa.

 

(…) Quando gli Avi scomparvero, gli schiavi si ritrovarono con una libertà sentita come una colpa. I Tommacei scolpiscono la memoria degli Avi nella roccia per cavarsi dalla coscienza il disorientamento del libero arbitrio. Fanno dell'ubbidienza incondizionata una moralità, usando la costrizione di quello steccato di divieti per evocare la verga di un padrone. Maggiore è la sofferenza cagionata dalla privazione indotta dalle virtù spirituali, maggiore è l'invidia che ispira veementi requisitorie contro di coloro che sono nati liberi e liberi vogliono morire.

 

" Virtus est Gianis Naturalis "

 

(…) E' una distorsione intellettuale provocata dalla volontà di offendere se stessi, riponendo la gioia in virtù intrise d'incomprensibili speranze extra mondane, a ispirare Askalot nella sua requisitoria contro i dimidium. Discriminare la sanità del piacere della carne al solo scopo dell'infusione di mitis nel cratere femminile, preclude il naturale flusso delle pulsioni tra Inn e Mag. Pretendere d'interromperlo non può che ingiuriare la natura del mondo. 

 

(…) La facoltà di scegliere porta intrinseca il germe del piacere, usato per riconoscersi nell'appagamento delle proprie necessità; così il panteismo che lo usa per discernere le disuguali gioie come eterogenea è la natura di piante o animali, è inviso a quanti rinunciano alla soddisfazione dei propri bisogni per educarsi sul modello ispirato dall'unico Dio, che per il vero tradisce ogni natura del mondo.

 

(…) Arrogarsi il diritto d'individuare quale sia il giusto equilibrio di Inn e Mag contenuto in maschi e femmine, offende la natura che regola se stessa nel piacere e non certo nel desiderio di sottrarsi alle sue leggi. Pretendere di condurre ogni afflato della natura nel sacrificio del parto, nasce dall'annichilimento del pensiero a favore di concetti composti di parole estrapolate da regole aliene dal contesto cui si vorrebbero far appartenere.  

 

(…) I monaci dell'ordine superiore, ferventi paladini della castità, hanno in spregio le terme intitolate alle lamie delle sorgive. Più volte vi fecero irruzione accoltellandone avventori e vestali; ponendo sulle pire sia gli abati custodi della memoria, sia i loro stessi confratelli sodomiti, sorpresi in atti licenziosi per purificarne le carni con il fuoco del loro unico Dio. (…) I Parridi dei clan di Ramì, cui mi fregio di aver dato numerosi figli, faranno a meno dell'assoluzione da una colpa che tanti ebbero a trarre piacevole soddisfazione, rassegnandosi di buon grado a non divenire dei castrati tommacei.

 

 

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La Congiura degli Innocenti

 

 

 

 

 

Dall'Enciclica "Dei Gratia Replet Corda Peccatorum" che determinò l'esodo Parride dalla Terra Santa: (…) che le città Parridi diventino carnai e si semini sulla terra il sale della prostituta cui si genuflettono, giusta condanna alla sterilità del fatuo (…) Assolta dalla colpa sia la lama a sgozzare l'empio e giusto è darvi ricompensa nel tenere per sé quanto lo stolto conquistò con la bestemmia (…) Siano traboccanti del salubre spavento, gli occhi sfuggiti alla giustizia della cuspide di Apos (…).

 

 

 

 

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L'opalescente luce del nuovo giorno avvolge la città. Ogni rumore sul portico della doganella di Ponte Nord cade nella nebbia come il tonfo di un sasso in uno stagno. Il capitano del naviglio proveniente da Gelsa indugiava lo scarico delle merci volgendo nervosamente lo sguardo a ogni movimento sospetto.

 

-        Dov'è il pericolo dinanzi cui dovremmo fuggire?

-        Non vi basta quanto leggete in questa enciclica?

 

Ramì, anche conosciuta come la città dei cinque ponti o città di mezzo, sorgeva sul fiume Pestum a metà via tra Gelsa e Tasside, mentre i suoi ponti si ponevano a guado del corso d'acqua su una strada che correva da est a ovest tra Loudesìa e Palendrìna.  Sulle cime di molte sue torri sventolava il gonfalone di Tasside poiché Ramì era stata fondaco Parride in terra ferma.

 

-        Oramai gli abati Custodi della Memoria ratificano ogni sproloquio di quei lupi che ululano le loro blasfemie.

-        E le affilate lame suddacee compiono cecamente i loro verdetti.

 

La vereconda Ipse abbandonò il palazzo della veneranda madre di Ramì, stringendo in mano un fagottino di medicamenti. Quanti si avvidero della sua sagoma scura scivolare rasente i muri delle strette calle, raccontò di aver veduto uno spettro dileguarsi nella nebbia.

 

-        La Vereconda Badessa di Mogul vorrebbe che cedessimo senza combattere?!

-        Matriarca Del Bastié rammentate quanto accaduto a Rocca di Mont Segur? Dopo aver appiccato il fuoco alle terme, bruciò anche il monacato teoita insieme a mezza città. Gli abati custodi della memoria accusarono il meretricio Parride e assolsero la scelleratezza compiuta, asserendo che Hat avrebbe ben saputo discernere i sani dagli empi, santificandoli nel martirio del proprio aureo sacrificio.

-        Se cercano il martirio, saremmo ben lieti di farne loro abbondante dono.

-        La lotta redentrice si nutre del male che combatte. L'intero Bush sarebbe percorso da una guerra fratricida, favorendo l'incombente minaccia ittaka.

-        Alla Badessa di Mogul non bastano i denari con cui contribuiamo alla guerra ittaka?

-        Quei soldi accrescono il potere di Gelsa.

-        Perdonate la malevolenza, ma a trarre beneficio da un esodo Parride dalla Terra Santa sarebbero anche i banchi dei vostri fratelli di stirpe Gaddei, gli stessi che intrallazzano con i Tommacei facendo la fortuna del Verbo Lapis.

-        I banchi Parridi avranno ben poco da commerciare, quando riceveranno la scomunica.

-        Vereconda Ipse, come potrebbero scomunicarci senza il consenso del Concilio e dei cavalieri patriarchi falesi che vi siedono?

-        Matriarca Del Bastié, Mogul combatte sempre le sue battaglie, ma quella che fronteggiamo insieme non sarà uno scontro tra eserciti ma di coscienze e non avrà bisogno di alcuna ratifica. I monaci tommacei sono in ogni casato e arruolano soldati nel credo che professano. Al momento della scomunica essi si solleveranno da entro le mura delle vostre città e avranno il volto di quanti oggi vi sono amici e persino parenti.

-        Purificheremo il vigore con il sangue dei traditori.

-        Decenni di conversioni minacciano le vostre città ben più dei drappelli Suddacei che le porranno in assedio. Dovrete sciogliere i matrimoni contratti in Verbo Lapis e far abiurare loro il credo del Deorum Ignis, quando essi saranno legittimati da Gelsa a privare voi di ogni sostanza.

-        Volete darmi ad intendere che abbiamo perso la battaglia prima ancora d'impugnare la spada?

-        La disfatta da temere è il mite consiglio di una conversione redentrice. Il mare è il regno dei Parridi e saprà custodire il tesoro della loro memoria. Farvi degnamente ritorno sarà la risposta migliore allo spregio delle ingiurie tommacee.

-        Abbiamo contribuito alla grandezza di questa terra e non lasceremo in mano ai Parsi l'eredità dei nostri figli.

-        Lascerete la vostra eredità ai Parridi convertiti, con cui potrete continuare i commerci e indirettamente governare Tasside e Ramì attraverso i matrimoni in Verbo Lapis.

-        Dobbiamo dunque abbassare il capo dinanzi all'empietà di quegli sciocchi?

 

 

Il capitano del naviglio sul portico d'approdo dette il segnale di mollare gli ormeggi appena le vesti scure della vereconda Ipse frusciarono silenziose sulla passerella d'imbarco. La corrente del fiume trascinò lentamente il barcone sotto i ponti di Ramì in direzione di Tasside. Solo allora la vereconda calò il cappuccio del suo mantello e volgendo lo sguardo al futuro, si preparava a compiere una missione ben più dolorosa d'affrontare di quella appena compiuta.

 

 

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La notte di Gelsa la luminosa è costellata da fuochi che la fanno brillare come un firmamento stellato. Il drappello di cavalieri che ha in consegna la sicurezza dell'ala est del Tempio della Memoria, dopo aver smontato di guardia si è recato a consumare la cena nella vicina  locanda. Dopo la bisboccia, stavano uscendo in strada quando incrociarono l'imponente bue bianco che trainava il carro di una commerciante Gaddea.

 

-        Suvvia comandante Blasto, siete irriverente a urinare nel portico dell'illustre lamia di queste terme!

-        Le faccio solo dono della mia lamia d'orata … ah ah.

-        Argo, forse il comandante ha mal riposto la sua fiducia prendendoti nel suo drappello? Può esistere un morro che non sia stato blandito dalle streghe Geda?

-        Sallustio, tenete a freno la vostra lingua biforcuta! Questo porco bestemmiatore m'è più caro di un figlio … ah ah.

-        Forse è la birra che parla attraverso la bocca di mio padre?

-        Argo ha abbracciato la vera fede ed ha più volte dimostrato la fedeltà al suo capitano.

-        Egli vi tradirà ogni volta che le streghe gli chiederanno di defecare sulla vostra tomba …

-        Intanto devo a lui se non sono ancora calato nella fossa … caspita! Quel grigione era grosso come il mio cavallo … ah ah. Argo, ti darò in moglie la mia primogenita per quel tuo eroico gesto.

-        Padre, state sragionando … è meglio che andiate a riposare.

-        A tal proposito, figlio, voi che cavalcate alla mia destra, dove eravate quando quell'accidenti di bestia sbucò dal suo anfratto?

-        Così mi offendete …

-        Miei accoliti … qualcuno di voi l'ha visto sguainare la spada dinanzi al grigione?

-        … è una mammola … ah ah …

-        Li hai uditi anche tu … il mio unico figlio maschio è una mammola dal polso mellifluo.

-        Padre!

-        Sallustio, figlio mio, sei una merda di cavaliere e da domani sarà Argo a cavalcare alla mia destra.

-        Siete solo un ubriacone che non sa cosa dice …

-        I veri maschi bevono birra per dire quanto non vorrebbero ascoltare da altri.

-        … vi ho sempre servito con devozione.

-        Ma se ti pisci nelle braghe ogni volta che c'è da sguainare la spada!

-        … ha il polso mellifluo … ah ah …

-        Li puoi ascoltare da solo cosa dicono di te gli altri …

-        Se avete finito d'insultare il vostro unico figlio maschio …

-        No, non ho finito … anzi sì, sparisci … aspetta! Affrettati a ingravidare tua moglie perché se fossi uno sterile invertito come dicono, ti aprirei la gola da parte a parte, prima di scaraventarti io stesso nel Pozzo del fato … ah ah.

 

Quando il sonno ebbe rapito le coscienze dei cavalieri, il giovane dory morro scivolò fuori dal suo giaciglio e con passi felpati raggiunse la strada. Correndo lungo le mura dei palazzi per non essere scorto, arrivò alla locanda, dove s'introdusse furtivamente. Salito al secondo piano, si ritrovò sbarrato il cammino dalla grossa mole della cavaliera al soldo della commerciante gaddea. Egli non esitò a sgattaiolare su per il tetto per raggiungere la finestra ad abbaino, scrigno del suo desiderio.

 

-        Argo! Sei forse impazzito?

-        Avrei scalato il cielo pur di rincontrare il tuo sguardo.

-        Stai mettendo a rischio la missione.

-        Preservare la tua incolumità è la mia missione.

 

La mano pallida della fanciulla trasse rapida il giovane dory nell'ombra dell'abbaino. La sua voce avrebbe voluto essere severa nel rimproverarlo, ma per il vero la tradiva la gioia che illuminava il suo bellissimo volto.

 

-        Vorrai anche seguirmi nell'alcova di quel porco che comprerà i miei servigi?

-        Nahim …

-        Che c'è?

-        Io …

-        Non indugiare oltre o il tuo capitano suddaceo sospetterà qualcosa.

 

Nahim attorcigliò i lunghi capelli dorati raccogliendoli su una spalla, prima di sporgersi verso il ragazzo a porgli un bacino sulle labbra.

 

-        Andrà tutto bene.

-        … e se non andrà tutto bene?

-        Allora moriremo da eroi.

-        Trovi che sia indegno il desiderio di felicità?

-        I tommacei ti hanno forse plagiato con le loro invettive?

-        Cosa c'è di male nell'essere parco del proprio destino.

-        Dimenticando il destino degli altri?

-        … e se fuggissimo … non dovresti recarti da quel porco?

-        Che resterebbe del clan, se ognuno rincorresse la propria felicità?

 

Argo e Nahim, chiusi in un tenero abbraccio, stettero rimirando lo scorcio di un cielo stellato.

 

-        Ricordi la saetta che scagliasti contro quel luminoso mattino a Mogul?

-        Lo faccio ogni volta che temo per la tua sorte.

-        Io non ho saette con cui proteggerti, ma solo la mia spada.

-        Se fuggissimo, saremmo costretti a nasconderci da nemici invisibili che la tua spada non potrebbe combattere.

-        Eppure sarebbe bello … con te non avrei bisogno di altro.

-        I Tommacei ritengono indegno il nostro bisogno.

-        Che c'importa di cosa pensano gli sguatteri Tommacei, noi siamo Morri.

-        Noi siamo dimidium e il nostro clan va oltre l'appartenenza a una stirpe.

-        Dove sono i dimidium tommacei? Perché dobbiamo combattere per loro, quando essi si nascondono o peggio, vestono la tonaca di quanti ci accusano?

-        Ci accusano di essere fatui e non possedere spirito di sacrificio, ma noi siamo padri e madri di tutti quelli che nasceranno come noi. Tu ed io stiamo combattendo per il nostro clan.

 

 

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Dodici anni prima a Gelsa si erano riuniti in concistoro i monaci dell'ordine superiore di Inn per discutere l'eresia Parride. In tal occasione si era deliberato un voto conciliare su una questione di discendenze tra clan Lammidi, in cui si erano di nuovo contrapposti i voti dei patriarchi Parridi contro il diniego all'inizio di una nuova stirpe Pallacorde di sangue Dandalo.

Fu inviata una delegazione da Gelsa presso la Vereconda Badessa di Mogul per sollecitarne l'alleanza, al fine di esortare i patriarchi falesi a non perseverare nell'appoggio al voto conciliare parride.

 

-        Porgo i miei umili ossequi all'illustre signoria vostra …

 

La Vereconda Era sedeva sul trono di spine, posto al centro della sala rotonda del Cerchio Magico della Sorellanza.

 

-        Quale missione vi spinge fin negli aspri reconditi della fortezza di Mogul?

 

La pelle d'ebano della badessa celava nell'ombra il volto incoronato dal velo scuro della verecondia.

 

"Non potrete usare i soliti trucchi da strega con me".

 

-        Gli abati custodi della memoria m'inviano per trarre un vostro prezioso consiglio su argomenti assai delicati.

 

"Venerando Padre Askalot perché vi celate sotto quel saio d'abate e lasciate parlare per voi il vostro servo?".

 

-        … la questione Parride deve essere dipanata …

 

"Fate sfoggio della magia di cui siete schiave e in questo luogo ne perpetrate l'abietto esercizio".

 

-        La grande influenza politica della Sorellanza saprà certo ricondurre al mite consiglio alcuni patriarchi conciliari falesi.

-        Io e le consorelle tutte siamo solo delle umili educatrici e la Sorellanza alleva poveri orfanelli della sanguinosa guerra contro la temibile insidia Ittaka, cui il destino ci vede combattere da cento anni orsono.

 

"Potete ingannare chiunque ma non me … siete solo delle sguattere a servizio del male".

"Le Geda non furono create per mansioni che erano di voi supposti monaci e non rubammo quanto ci fu insegnato".

"L'umiltà degli ultimi è un'arte che non s'insegna e non si ruba".

"E' l'umiltà degli ultimi che vi permette di comunicare in metempsicosi?"

"E' la voce dell'imprescindibile che cala sul suo umile servo a preservarlo dalla tentazione del male".

 

-        Il buon governo del popolo non può certo conciliarsi con l'infamia di certi postriboli!

-        Il culto delle Lamie delle sorgive appartiene alle tradizioni più antiche dei clan, le stesse che ci condussero dove siamo oggi.

 

"Bestemmiate impunemente la volontà di Dio a farvi lustro delle sozzure pagane!"

"Non sono io a farmi lustro di una volontà che tutto permette alla vostra di condurre ogni sorta di assassinio".

 

-        Di perniciose pulsioni ubriacano i vapori della lamia, da cui vengono le truculente faide che i monaci teoiti sono costretti a fronteggiare attraverso il conforto della fede.

-        E' forse nella volontà del Tempio di Gelsa governare la politica delle pulsioni che intercorrono tra Inn e Mag?

 

"Siete educatrici di meretricio, malevole ispiratrici della devianza, ecco dunque rivelata la vera intenzione dell'istituto Geda".

 

-        La Vereconda Badessa è al centro di un Cerchio Magico vasto quanto lo stesso Bush. Governate con saggezza la genealogia dei casati più illustri …

-        Potete risparmiarvi certe blandizie che pungono ancor più delle spine del trono su cui sono assisa.

 

"E' l'ira di Dio ad abbattersi per mano Ittaka su questa rocca della malevolenza!"

 

-        Badessa Era, fin quando i cavalieri patriarchi Parridi saranno confortati nel voto conciliare da quelli falesi, essi continueranno a tutelare i dissennati Lammidi.

-        I nostri patriarchi sono abbastanza saggi da saper esprimere da soli la propria volontà di voto.

 

"La volontà di Dio combatte l'empietà di chi tiene a cuore il bisogno delle proprie viscere a dispetto delle gioie spirituali".

 

-        L'ultimo Concilio si è trovato a stroncare sul nascere una temibile faida scatenata dai selvaggi Dandali che avevano rapito una tenera principessa Pallacorde, educata nel timore di Dio dai vostri fratelli di stirpe gaddea nella Santissima Genesta …

-        Quel Concilio deliberò per l'indipendenza della saggia decisione presa dalla veneranda più antica di tutte le stirpi Parse.

-        La veneranda Jeredra avrebbe benedetto una nuova stirpe di selvaggi.

-        I Tommacei sono contravvenuti a una decisione conciliare ricorrendo alle vie di fatto.

 

"Non ci sarà pace nel mondo fin quando non sarà estirpata la mala pianta Geda".

 

-        L'intera tribù Parsa seppe compiere la sua scelta in piena grazia di Dio, nonostante i Morri votarono in combutta con i patriarchi Parridi … capite che c'era una faida da stroncare sul nascere?

-        I Tommacei hanno compiuto la loro scelta in spregio all'autorità della veneranda Jeredra.

-        Suvvia! Il Regno non ha bisogno di nuove stirpi.

-        Di quale regno parlate?

 

"Il Regno di Dio, blasfema infingarda!"

 

-        Il Geda vuole forse trascinare il Regno in una guerra?

-        S'illude chi pensa basti impugnare l'elsa con la retorica per vincere una battaglia.

 

"L'esercito di Dio non conosce sconfitte"

"Allora ti consiglio di andar a far proseliti in Verbo Lapis anche tra le orde Ittake".

 

-        Sapete bene che l'eresia Parride è inconciliabile con il nuovo corso …

-        Ho inteso fin troppo l'intento di chi usa il pelo di volpe per avvelenare le sorgive, solo per accusare i Parridi di essere avamposto delle lamie salmastre in Terra Santa.

 

"Sarete sconfitte dalla storia"

 

 

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-        Le sto offrendo un fior di loto sbocciato direttamente da un ninfeo subacqueo.

 

Mentre a Gelsa le giornate trascorrevano nella loro convulsa quotidianità, la commerciante gaddea conduceva alacremente i traffici per cui si era recata nella capitale.

 

-        Il prezzo che ne chiedete è troppo alto.

 

Le mani della commerciante rivoltavano pacatamente i chiassosi bracciali cui erano adornati i polsi.

 

-        Dite al vostro padrone che non sono abituata a trattare con degli sguatteri avvezzi a mercanteggiare il pesce al mercato.

 

La segaligna gaddea abbandonò con disappunto il tavolo delle trattative, dirigendosi verso le scale che conducevano al piano superiore della locanda. Il nesso di quel suo discreto cliente la richiamò una o due volte, usando parole non appropriate al rango cui la signora teneva ad appartenere. Ella, pur rinunciando a salire in camera, preferì sedersi presso il banco, dove chiese all'oste una coppa di sidro.

 

-        Non è per mancarvi di rispetto che sono costretto a chiedervi di ripensare il prezzo di quanto pretendete.

 

Il nesso continuava a guardarsi nervosamente attorno e avrebbe ben voluto chiudere quella trattativa il più rapidamente possibile.

 

-        Il vostro padrone mi ha commissionato un gioiello di cui temo il suo servo non sia in grado di cogliere la lucentezza.

 

L'esperienza di quel mercanteggiare solcava la faccia della gaddea scolpendole in volto una vezzosa maschera di cinica accondiscendenza, tradita dall'irremovibile volontà di spillare il prezzo più alto.

 

-        Si era pattuito per un terzo di quanto ora pretendete!

-        Quello era il solo prezzo della discrezione.

-        Suvvia! Sapete quanto me che della vostra merce sono piene le terme di ogni città.

-        Una concubina cresciuta nel chiostro di Hat vale tanto oro quanto pesa e se il vostro signore non può permettersela, troverò certo un altro acquirente.

-        Quante volte ho sentito fregiarsi di quel titolo delle vestali consumate dalle carezze dei loro clienti.

-        Mi state dando della bugiarda?

-        Quello che avete chiamato "sguattero", dodici anni orsono incontrò l'austera Vereconda Badessa di Mogul. Era assisa sul trono di spine e mentre le parlavo per conto del mio maestro, temetti per tutto il tempo che mi falciasse la vita col solo sguardo. Dovrei denunciarvi per blasfemia per quanto raccontate della prostituta che cercate di vendere.

 

La commerciante gaddea sfilò uno stecco di legno di tek dal cartoccio poggiato sul bancone della locanda. Lo infilò in bocca masticandolo e poi, umettando con la lingua le labbra sporche di burro porporato, ne sorbì la resina.

 

-        Abate Mikalos come mai se a Gelsa è proibito sorbire resina, sui banchi delle locande ci sono cartocci di tek?

 

Lo sguardo dell'abate sfuggì quello della commerciante gaddea, divenuto improvvisamente pungente.

 

-        La prego di non rivolgersi a me con nome e titolo.

-        Perdonatemi, avevo dimenticato che avete proibito anche agli abati di frequentare le mescite, pur lasciando aperte le locande.

-        State diventando inopportuna.

-        Lasciate i monaci bestemmiare il culto delle lamie delle sorgive e poi eccovi a fare meretricio per loro conto.

-        Smettetela!

-        Io sono come questi stecchi di tek … la colpa è nel gesto di chi li usa e non certo del locandiere che li tiene sul banco.

-        Non siete divertente.

-        Non lo era neanche la vostra minaccia.

-        Pagherò la metà di quanto chiedete.

-        Neanche un soldo di meno.

-        Suvvia! Siate ragionevole.

-        La ragionevolezza è un talento tommaceo. Portate il vostro maestro alle terme e pregate perché i suoi compari non lo facciano arrosto su una pira.

-        E va bene … pagherò due terzi.

-        Conducetemi dal vostro maestro e sarà lui a dirvi se la mia dimidium vale la cifra che pretendo.

-        Silenzio! Per carità non pronunziate quel nome …

-        Allora?

 

-        Stanotte vi condurrò da lui.

 

 

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-        … il Capitano Blasto mi aveva assegnato all'ala est!

-        Il Capitano non verrà e stanotte mi occuperò io dei turni di guardia …

-        Sallustio, credo sia importante che …

-        Argo, sono ancora io che cavalco alla destra di mio padre, o sbaglio?

-        Certo e sarò onorato di ubbidirti … tuttavia sono solo un dory e il picchetto al braciere ...

-        La regola permette a un dory particolarmente valoroso di servire alla più alta onorificenza della guardia al Tempio, se accompagnato da un cavaliere di alto lignaggio … come me.

-        Forse il capitano Blasto non mi ritiene ancora degno se …

-        Il tuo capitano stasera mi ha dato la consegna della guardia per andare a tradire la sacra promessa di matrimonio alle Terme.

-        Ma che dici! Il capitano è costretto a letto da un attacco di gotta.

-        Non osare smentirmi e finiscila di blandirlo anche quando non c'è.

 

Sallustio e Argo marciarono attraversano il grande salone centrale, facendo rimbalzare l'eco dei loro passi tra le altissime volte, diretti verso la loggia che dava sulla piazza della Concordia, dove ardeva il braciere dell'Inn.

 

-        Militis officia praestabat! Fauilla ardens?

-        Servavi ardorem clara morum Jelsa.

-        Est nomen meum Sallustio Estense Sadducaei et temptantes accipere honorem custodiebant sacrum ignem.

-        Ad gloriam igitur omnipotentis Dei.

-        Ite in pace, fratres armis.

 

Una volta congedato il picchetto e presa in consegna la guardia, Sallustio attese di rimanere solo per sdraiarsi sull'ampio marmo della balaustra dinanzi al sacro braciere. Spavaldo estrasse due stecchi di tek da sotto il gambale e ne porse uno ad Argo, che era rimasto impassibile nella postura di protocollo.

 

-        Rilassati, tanto non ci può vedere nessuno …

 

Lo esortò Sallustio quando vide il giovane dory restio a disattendere gli onori del suo picchetto.

 

-        Ubbidisci al tuo capitano!

 

Solo dopo un ordine perentorio, Argo lasciò la sua postazione alla sinistra del braciere e tentennando sui passi, raggiunse Sallustio accettando il bastoncino di tek che continuava ostinatamente a porgli.

 

-        Mio padre ti ordinerà presto suo cavaliere … dovresti esserne contento.

-        Ne sono onorato.

-        Così non dovrai rischiare la vita in una di quelle selvagge fiere degli arditi riservate ai pezzenti, giusto?

 

Argo intuiva la malizia con cui Sallustio lo stava interrogando.

 

-        Conosci il nome del mio casato e la gloria del patriarca che lo fondò.

 

Sallustio rise aprendo platealmente le braccia al cielo a quella che le era sempre parsa una gran balla.

 

-        Discenderesti da Marcello De Rosa, che originò il più antico casato dei Turriti … talmente antico che ogni Morro potrebbe ben vantare qualche apparentamento con il leggendario capostipite.

-        Che stai insinuando?

-        Sei un vile bugiardo che vuole approfittarsi della benevolenza di mio padre per fare carriera.

 

Sorbendo la resina di tek sulle sue labbra, lo sguardo di Sallustio si fece particolarmente torvo prima d'iniziare a leggere la visione ispirata dalla droga.

 

-        Sei solo uno di quegli orfanelli che raccattano le Geda … un'orda Ittaka sventrò il cerchio magico del tuo clan … appesero a un albero tua madre … e poi le aprirono il ventre per sviscerarla … ho sentito dire che gli Ittaki apprezzano particolarmente le interiora delle loro prede …

-        Zitto o …

-        Un dory cresciuto dalla Sorellanza non può prestare servizio presso il Tempio e quando ti costringerò ad ammettere le tue vili menzogne, mio padre sarà obbligato a cacciarti.

 

Il silenzio notturno è rotto dal lento incedere del carro trainato dal bue bianco della commerciante gaddea. Quando sta attraversando la piazza antistante al Tempio, non può sfuggire all'attenzione del picchetto a guardia del braciere sacro. Argo vorrebbe in qualche modo distrarre Sallustio, ma egli coglie immediatamente lo sguardo lungo del suo interlocutore.

 

-        Il Capitano Blasto mi aveva chiesto di accogliere quel carro e scortare la commerciante gaddea dall'abate Mikalos.

-        Io sono il suo sostituto, sarei dovuto essere avvertito!

-        Ho tentato vanamente di dirti la necessità che restassi all'entrata est.

-        Taci, infingardo! Hai fatto questo per mettermi in cattiva luce con mio padre.

-        Lasciami andare … faccio ancora in tempo a …

-        Tu rimani qui … andrò io.

 

Argo si morse il labbro dal disappunto mentre Sallustio si allontanava verso l'entrata delle stalle del Tempio. Quando vi giunse, aveva il fiato corto e fu accolto dalla guardia sgomenta per quanto stava accadendo.

 

-        C'è l'abate Mikalos!

 

Disse a Sallustio per giustificarsi di aver fatto entrare il carro.

 

-        Sallustio d'Este, la prima dote di una guardia del Tempio è un'opportuna discrezione.

-        Avreste dovuto comunicarmi la necessità di un adeguato riserbo.

-        E' quanto feci … ma vostro padre dov'è?

-        Egli è stato trattenuto da impegni improrogabili.

-        Quale impegno è più importante del suo servizio al Tempio?

-        Io … io …

-        Vostro padre, la guardia all'entrata e adesso voi … quanti altri dovranno sapere ciò che non esiste? Tre non è il numero giusto per conservare un segreto.

-        La mia guardia è tra le più fidate e vi scorterò personalmente.

 

L'enorme cavaliera della commerciante gaddea scese dal carro e con fare indolente sistemò le scalette davanti alla porticina posteriore. Vi discese la signora sotto un mantello scuro che fu accolta da un salamelecco dell'abate.

 

-        Credevo vi foste dimenticato del nostro appuntamento e, ditemi, siete solito accogliere i vostri ospiti con un così folto picchetto d'onore?

-        Dovete perdonare quest'eccessivo affollamento, ma al solito c'è stato un disguido con il servizio di guardia.

 

La commerciante scrutò con sdegno il volto di Sallustio e poi gli si avvicinò con il piglio di una sfidante.

 

-        Chi è costui?

-        Lui è il capitano della guardia e ci scorterà personalmente.

 

Si affrettò a spiegare Mikalos.

 

-        Io non vedo i galloni di un capitano.

 

Rispose la gaddea, diventata esageratamente sospettosa.

 

-        Suvvia, è solo il figlio del capitano. Suo padre avrà da che rispondermi per essersi assentato proprio stasera.

-        Rimanderemo l'incontro.

-        Cosa! E perché?

 

La commerciante diede una carezza audace a Sallustio e premette sulle sue labbra il pollice dall'unghia laccata.

 

-        Non mi affiderò a una guardia con la mente offuscata dal tek.

-        Ma che dite?

-        Guardate da voi.

 

Mostrò il dito sporco di resina all'abate.

 

-        Sallustio d'Este!

 

Esclamò Mikalos.

 

-        Suvvia, madama … siate ragionevole.

-        Non finirò su una pira per voi.

-        Chi non ha qualche vizietto da farsi perdonare?

-        Il vizio più piccolo accusa quello più grande pur di salvare se stesso dalla sentenza.

-        Nessuno denunzierà il peccato dell'altro fin quando sarà comune convenienza astenersi nel vantare inopportune virtù.

-        Non affiderò la mia preziosa merce a costui.

-        Ecco a voi la vostra sacca di denari … ora la merce è mia … salite sul carro e dite alla cocchiera di dirigerlo lontano da Gelsa.

 

Sentenziò Mikalos rompendo ogni indugio. La commerciante gaddea soppesò l'oro contenuto nella sacca e poi volse un'ultima volta lo sguardo verso Sallustio. Non potendo opporre argomentazioni valide, raggiunse Nahim sul carro.

 

-        Che cosa succede la fuori?

-        Colombella mia, siamo nei guai.

-        E' accaduto qualcosa ad Argo?

-        Non c'è …

-        Per nulla al mondo sarebbe mancato, gli è accaduto sicuramente qualcosa di malvagio!

-        E' troppo tardi per tornare indietro.

-        Ditemi … avrete per certo scrutato le menti di queste persone.

-        Argo è un cavaliere della sorellanza e qualsiasi cosa gli sia accaduta …

-        No!

-        Nahim! Non è il momento di perdere la calma. Ho scrutato nell'animo di chi si è presentato al suo posto, ma aveva masticato tek e non mi è stato possibile distinguere il vero da quanto egli desidererebbe essere tale.

-        Che cosa avete visto?

-        Santi numi! L'ho veduto scannare il padre, sviscerare la moglie e pasteggiare con le sue interiora … devo continuare?

-        Voglio sapere cosa avete visto a proposito di Argo.

-        Colombella, quello è un pusillanime e nel suo cuore cova il rancore dello spavento per i nemici che non avrà mai il coraggio di fronteggiare.

-        Mi è stato insegnato di guardarmi mille volte da quanti non hanno il coraggio di pugnalarti al petto poiché attenderanno l'attimo propizio d'infilzarti alle spalle.

-        Lo so e non ci poteva accadere sciagura peggiore …

-        Governerete la sua mente?

-        Askalot è come un ragno al centro di una ragnatela, si accorgerebbe immediatamente della mia presenza.

-        Allora chi mi farà uscire dalla sua cella?

-        Colombella mia, cercherò di venirti in aiuto se non troverai da sola il modo di farlo.

-        Se solo avessi avuto Argo vicino a me …

-        Sei la migliore concubina combattente dell'ordine.

-        Ma cosa gli è accaduto?

-        Fa attenzione con Askalot, se intuisce la frustrazione che stai provando per Argo, avrà il bandolo della matassa per dipanare l'inganno … e se dovesse accadere, non indugiare oltre e usa le lame di cui sei munita.

 

Nahim fu scortata in una delle celle riservate ai venerandi del Tempio e quando la porta si richiuse alle sue spalle, Sallustio fu sollevato dal suo incarico.

 

-        La vostra disgraziata presenza mi ha impedito di spuntare un prezzo equo con l'infingarda commerciante gaddea.

-        Mi appello all'infinita condiscendenza che il mio casato ha sempre trovato presso Sua Eminenza … così disonorerà mio padre!

-        Abbiate almeno la decenza che esige la vostra corazza e smettetela di piagnucolare.

-        Santi numi! Saprò ben sorvegliare la porta di un dormitorio.

-        Sallustio d'Este, spero che tanta avventatezza sia ispirata dalla resina del tek o sarei portato a credervi mentecatto.

-        Santi numi …

-        Smettetela di bestemmiare o dimenticherò di chi siete figlio.

-        Eminenza! M'inginocchio invocando il perdono dei miei peccati.

-        Suvvia! State diventando imbarazzante.

-        Bacio un lembo della veste che dispensa indulgenza anche all'ultimo dei pellegrini.

-        Ego te absolvo a peccatis tuis … e ora tornatevene a casa, non vi voglio più vedere al Tempio.

-        No! Rimarrò a guardia di questa porta al costo della mia stessa vita.

-        Oh, divino Hat abbi pietà di me.

-        Non tradirò la vostra fiducia … la supplico non mi condanni all'infamia paterna.

-        Lo avete già fatto.

-        Giuro su quanto mi è più caro che nessuno passerà da questa porta.

-        Possibile che non capiate? Qui c'è da custodire quanto accadrà dietro quella porta.

-        E allora diventerò ceco, sordo e muto.

-        Non mi fiderei di voi nemmeno se vi faceste cavare gli occhi, tagliare le orecchie e strappare la lingua.

-        Perché! Perché! Perché!

 

Sallustio perse il senno e cavandosi l'elmo dal capo, lo scagliò in terra lanciando invettive a quanti ingiuriavano le sue infinite qualità. I suoi erano peccatucci al confronto di un mondo intero che si lordava le mani nel proprio sterco riscuotendone profumati encomi.

 

-        Vi ho forse offeso in qualche modo? Ho masticato un bastoncino di tek, ma ogni sentinella ne porta almeno dieci nel gambale per sopportare il tedio delle interminabili ore di guardia.

-        Se fossi vostro padre, mi vergognerei di aver dato alla luce un simile arnese.

-        L'illustre cavaliere Blasto? Egli sta solo aspettando un motivo legale per assassinarmi e voi … voi glielo state dando.

-        Le decisioni del cavaliere vostro padre hanno sempre riscosso la mia più sentita ammirazione.

-        Ora capisco! Tutta questa manfrina è stata ordita a mio discapito.

-        Sallustio d'Este, il vostro ego mi sta infastidendo oltremodo.

-        Allora perché mio padre è mancato a una consegna così importante?

-        Il Comandate Blasto è un uomo assennato e avrà incaricato un suo fiduciario …

-        E perché non a me?

-        Che non si fidi di voi? E ora toglietevi di mezzo finché avete una speranza che ripensi alla vostra inqualificabile condotta.

-        Aspettate.

-        Sallustio d'Este state mettendo a dura prova la mia santità.

-        Voglio denunciare un fatto gravissimo che attenta la sicurezza del Tempio.

-        Continuare ad accusare i vostri compagni è indegno.

-        Voglio denunciare mio padre.

-        Oh, fareste bene a risolvere le vostre beghe famigliari fuori da qui.

-        Il Comandante Blasto ha introdotto nel corpo di guardia una spia della sorellanza.

-        Suvvia Sallustio! Siete patetico.

-        Si chiama Argo De Rosa dei Turriti Morri ed è questo individuo il fiduciario di mio padre. Io l'ho smascherato giusto in tempo per impedirgli di venire a conoscenza dei vostri ospiti.

-        Non credo a una sola parola di quanto dite.

-        Era da tempo che sospettavo di lui e nell'intento di fargli ammettere le sue colpe, questa sera gli spostati il servizio assegnatogli da mio padre per condurlo con me al picchetto d'onore.

-        Se dovessimo sospettare di tutte le guardie morre …

-        Eminenza! Stasera l'ho indotto alla verità facendogli masticare tek.

-        Sallustio, ammiro la fantasia con cui state prontamente inventando una storia non solo capace di assolvervi, ma addirittura di farvi guadagnare un encomio.

-        E' la verità!

-        Quale verità? Volete la lista delle guardie morre attualmente in servizio al Tempio?

-        Argo De Rosa è un bugiardo che ha sapientemente blandito mio padre, fino a indurlo a sostituirmi nel marciare alla sua destra.

-        Odiate solamente per questo quel ragazzo?

-        Questa sera ha ammesso di essere un senza nome, cresciuto nell'orfanotrofio della sorellanza di Mogul.

-        Vi rendete conto della gravità delle vostre accuse?

-        Eminenza, sono un umile servitore a servizio della verità.

-        E sia. Arrestate questo ragazzo con vostro padre che l'ha introdotto nel Tempio e quando li condurrete al tribunale dell'inquisizione, consegnatevi voi stesso per mia espressa querela di falsa delazione.

-        Ma Eminenza!

-        Se riponete tanta fede nel vero, non temerete certo gli accertamenti degli inquisitori.

-        Eminenza!

-        Ti ricordo la pena per chi si da fuggiasco è la scomunica, nel caso di un casato nobile e ricco come quello cui appartenete, comporterebbe la perdita del blasone e la confisca di ogni bene da parte della santa causa.

 

 

 

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La cella di Padre Askalot era una grande stanza quadrata dai muri spogli e il pavimento ricoperto da un tappeto grigio. Il giaciglio era un cassettone alto con una stuoia imbottita di baccelli di legumi. La sola finestra era poco più di una feritoia posta sopra l'inginocchiatoio. Quando la porta si richiuse alle spalle di Nahim, i suoi occhi faticarono ad abituarsi alla penombra rischiarata appena da una candela di sego. La giovane credeva di essere sola, quando compì qualche passo verso la fiammella. Seppure l'acre odore di santità del venerando padre appestasse l'aria, ella non aveva scorto la sua presenza ed ebbe un soprassalto all'udire la sua voce gutturale, mentre iniziava a biascicarle uno stentato benvenuto.

 

-        Non avrete certo timore di un vecchietto come me!

 

Le disse, cercando vanamente di rassicurarla. La sua esile figura emerse da un angolo della stanza più buio degli altri. Indosso non aveva che un panno annodato sui fianchi a celargli le vergogne. La pelle grigia gli si tendeva attorno alle ossa piegate dal tempo trascorso in penitenza.

 

-        Abbandonate gli indugi e mostratevi agli occhi di questo povero servo di Dio.

 

Nahim non aveva mai veduto un essere più brutto di quello e abbassò lo sguardo quando si lasciò scivolare di dosso il mantello in cui era avvolta.

 

-        V'è una tentazione più sublime della fragrante polpa della giovinezza?

 

Il venerando padre si avvicinò completamente affascinato dalla pelle candita di Nahim. Annusò le sue carni avvolte nella trasparenza di vesti guarnite di seducenti monili.

 

-        Esedra è un nome atipico per una fanciulla.

 

Nahim si rincuorò quando il vecchio, forse nell'intento di stupirla con la sua arte, le svelò quel nome che le Geda le avevano imposto a difesa dei suoi pensieri.

 

-        … tanto tempo fa era il titolo dato al luogo adibito ai riti funerari degli antichi avi …

 

Il venerando padre continuava a sciolinare la sua sapienza, come unico orpello di una vanità resa grottesca da quel suo corpo cadente. 

 

-        Quell'imbecille dell'abate mi ha domandato perché pagare tanto per una creatura come te.

 

L'orifizio sdentato della sua bocca sputava fuori le parole insieme alle labbra raggrinzite, mentre la corposa lingua recuperava le bave che ne colavano via.

 

-        Lo stolto non può sapere quanto sediziosa sia la natura nelle sue vanità.

 

Lo sguardo del vecchio si perdeva tra le curve del corpo di Nahim, facendosi nervoso e rivoltando le cataratte in cui annegava una crescente libido.

 

-        Presto, mostrami il tuo abominio.

 

Le disse sfiorando con la mano dalle nocche bitorzolute, l'arricciatura sul cavallo dei suoi pantaloni di velo.

 

-        Non volete che prima vi allieti con una danza?

 

Gli rispose Nahim, andando a prendere i campanelli da legarsi alle caviglie.

 

-        Oh, sì! Dammi il tamburello … voglio tanta musica!

 

Il venerando padre sdilinquì come un bambino. Si sedette sul ciglio del letto e iniziò subito a ruotare il bastoncino su cui era posto il tamburello, due palline legate a uno spago presero a rimbalzare ritmicamente con il giubilo del vegliardo.

 

-        Danza per me …

 

I campanellini sulle caviglie di Nahim suonavano allegri sui passi di danza, empiendo quell'austera cella di un clima di festa.  

 

 

 

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-        Argo, dobbiamo farci arrestare o il mio casato perderà titoli e sostanze!

 

Quando Sallustio tornò al braciere sacro, sguainò la spada tentando di mettere agli arresti l'odiato fratello d'armi; ma non appena questi pose la mano sull'elsa, l'altro già era in ginocchio a chiedergli perdono per la malevolenza compiuta contro suo padre.

 

-        Sallustio, se conosco il comandante Blasto, ti sgozzerà ancor prima di ascoltare le tue suppliche.

-        … e se fuggo, m'inseguirà per scorticarmi vivo.

-        Non ti resta che confessare la falsa delazione.

-        Hai ragione! Non mi resta che appellarmi alla clemenza degli inquisitori e chiedere la giusta espiazione per i miei peccati.

 

Argo seguì Sallustio con lo sguardo mentre si allontanava compiangendo le sue sfortune, sapeva che non appena avrebbe veduto la regola degli inquisitori, pur di non esserne fustigato, avrebbe rinnegato ogni virtuoso proposito. Quindi alzò lo sguardo sulle imponenti mura del Tempio e provò tutto il gravoso peso dell'incombente decisione che doveva prendere. Avrebbe voluto correre dalla sua Nahim per trarla in salvo, ma sapeva che non lo avrebbe mai seguito perché la missione era più importante dell'egoistico intento di felicità ispirato dal loro amore.

 

-        Che succederà adesso?

 

Argo si tolse l'armatura e fuggì prima che giungessero ad arrestarlo. Si arrampicò sul tetto della locanda e s'introdusse nella camera della commerciante gaddea.

 

-        Disertando hai ammesso quello che sei e il tuo comandante ne pagherà le conseguenze.

-        Sarei dovuto rimanere per difendere l'onore del mio comandante?

-        Avresti dovuto ammazzare quel pusillanime di suo figlio quando ti ha intralciato la prima volta. Ora tutto è compromesso e Nahim è rimasta bloccata nella cella di Askalot.

-        Mi avete insegnato l'arte della spada, eppure quando pongo la mano sull'elsa, ho la sensazione di brandire un inganno.

-        Se avessi incrociato la spada del tuo comandante in battaglia, non avresti esitato ad affondare il tuo fendente.

-        Gli avrei concesso tuttavia l'onore di difendersi, così l'ho infilzato alle spalle.

-        Sei giovane, ragazzo mio, e confondi la battaglia con le romanze insegnatoti al collegio dalla romantica Vereconda Lea.

 

Gli disse la commerciante gaddea, cercando di grattargli via dalla testa i suoi rimorsi con un'energica carezza tra i capelli.

 

-        Eravamo tutti segretamente innamorati della Vereconda Lea.

 

Le rispose Argo sorridendo timidamente di quell'audace ricordo.

 

-        Oh, che impudenza!

 

Finse di scandalizzarsi la commerciante gaddea, trattenendo nel petto la tenerezza per gli innocenti che accoglievano al collegio e il dubbio di sacrificarli per un intento più grande di loro.

 

-        Ora che la mia fuga confermerà la delazione di Sallustio, egli potrebbe denunciare quanto ha veduto stanotte per salvare l'onore del suo casato.

-        Nessuno può prevedere le scelte compiute da un pusillanime di quella schiappa.

 

Rispose la commerciante gaddea, mentre contava e ricontava i soldi nella sacca consegnatole dall'abate; quando parve coglierla l'illuminazione e lanciò una moneta al ragazzo.

 

-        Qual è il segreto di un piano perfetto?

 

Chiese repentina ad Argo.

 

-        L'attento calcolo di ogni probabilità del caso.

-        Ci sarà sempre una variabile imprevedibile, come lo è stato la codardia di Sallustio.

-        Il piano è compromesso?

-        Ora bisogna scardinare l'azione dal calcolo delle probabilità di riuscita.

-        Dobbiamo tirare fuori Nahim dal Tempio?

-        Diventeremo noi stessi una variabile imprevedibile da cui dovranno guardarsi i nostri avversari.

-        Dunque la missione non è compromessa?

-        La certezza l'avremmo avuta se tutto fosse andato secondo il piano, ora lanceremo i dati e ce la giocheremo con la sorte … te la senti?

 

 

 

 

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-        No, che non me ne andrò. Abate Mikalos uscite dalla vostra tana.

 

Il carro trainato dal bue bianco è fermo davanti al portone delle stalle del Tempio e la commerciante gaddea sbraita contro la guardia che non le permette di entrare.

 

-        La dichiaro in arresto.

 

La minacciò il capitano delle guardie giunto di gran lena.

 

-        Fatelo e racconterò quanto ha già fatto trascinare il comandante Blasto dinanzi all'inquisizione.

 

La notizia di quanto accaduto quella notte aveva gettato lo scompiglio tra i casati incaricati della guardia del Tempio. Il rischio di subire un interrogatorio, faceva temere per quei peccatucci che ognuno covava in gran segreto.

 

-        Siete forse impazzita a venire qua in pieno giorno!

 

Esclamò l'abate, quando il capitano della guardia introdusse discretamente la commerciante gaddea presso le sue stanze.

 

-        Contate i soldi mille volte e vedrete che mancherà sempre una moneta.

 

La commerciante dalle vesti appariscenti lanciò la sacca di denaro sul tavolo, rivendicano la truffa di averne ricevuta una in meno al contratto pattuito per i propri servigi.

 

-        Suvvia, fosse anche vero, vi ho pagato fin troppo profumatamente.

-        Rivoglio la mia dimidium.

-        Vi farò arrestare.

-        Temo che dovrete affrettarvi perché in questo momento un drappello dell'inquisizione sta già marciando verso il Tempio per condurci entrambi davanti ai giudici.

-        State scherzando!

-        Eppure vi avevo avvertito che quella guardia ci avrebbe denunciato.

-        Sallustio d'Este! Maledetto infame …

-        Restituitemi la concubina e sarà la vostra parola contro la sua.

-        Quei monaci non sono ragionevoli e saranno ben lieti di mettere un altro abate su una pira.

-        Non avete altra scelta.

-        Io non lo penso. C'è solo una cosa che gli aggrada di più di vedere un abate su una pira, ed è porci su un monaco peccatore. Askalot giace ancora nell'alcova del peccato con la dimidium e qui ho la mezzana che ve l'ha condotta corrompendo il figlio del comandante Blasto. Io ho sventato il complotto denunciando Sallustio prima e ora sto per far scaraventare nel Pozzo del Fato i fautori del disgustoso meretricio.

-        Vi ho mentito.

-        Che state dicendo?

-        Volevo solo costringervi a darmi il mio denaro e riprendermi la concubina. In realtà non sta arrivando alcun drappello dell'inquisizione.

-        E come facevate a sapere dell'arresto di Sallustio.

-        N'è giunta voce alla locanda.

-        Siete una truffatrice assai ingenua se credevate di poter …

 

In quello stesso istante irruppe nella stanza il capitano delle guardie con una notizia sconvolgente.

 

-        E' giunto un drappello dell'inquisizione e pretende di conferire con vostra Eminenza.

 

Mikalos per un attimo non comprese più il senso di quanto gli stava accadendo.

 

-        Non guardate me, come potevo sapere che quel pusillanime avrebbe veramente confessato.

-        Ammazzate quest'abietta faccendiera.

 

Prima che l'abate riuscisse a finire d'impartire il suo ordine, la commerciante gaddea offuscò le loro menti. Ebbe giusto il tempo di trovare quanto avrebbe dovuto discretamente trafugare Nahim tra le carte dell'abate Mikalos, poi sgusciò via dalla stanza, ma la sorte non le fu favorevole e appena fuori il drappello dell'inquisizione svoltò nel corridoio.

 

-        Arrestatela!

 

Urlò l'abate Mikalos e poi …

 

-        Ho sventato un meretricio!

 

Ripeté al monaco a capo del drappello di guardie dell'inquisizione.

 

"Non c'è più tempo"

 

Udirono nelle loro menti i congiurati.

 

"Che la sorte sorrida agli innocenti"

 

La commerciante gaddea giunse sul grembo le mani, unendo la punta dei pollici e degli indici. Tutte le ombre si avvilupparono su di lei in un gorgo da cui scaturirono mille frammenti di uno specchio che ne rifletteva l'immagine oscura.

 

-        E' una strega Geda!

 

Esclamò l'abate inquisitore alzando la verga su cui appoggiava i propri passi. Una luce fiammeggiava dalla cima del bastone che squarciava le ombre mentre se ne volavano via come un nugolo di corvi neri.

 

 

 

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-        Quali streghe Geda?

 

Giaceva nudo il monaco Askalot, spossato per il trastullo avuto con il grazioso abominio di Nahim, quando sovvenne udendo anch'egli una voce nel pensiero che lo esortava a un repentino allarme.

 

-        Hai veduto qualche vereconda Geda?

 

Domandò fulmineo a Nahim che era già schizzata fuori dal letto, sorpresa con le mani nella sua sacca mentre legava al corpo le lame di cui era munita.

 

-        Avete avuto solo un brutto sogno.

 

Cercò di rassicurarlo Nahim.

 

-        Lasciate che vi allieti con una danza …

 

Il monaco sapeva che quella voce non l'aveva udita in sogno, ma preferì ugualmente cedere al richiamo dei mille batacchi nei campanellini di Nahim.

 

-        Dobbiamo agire in fretta!

 

Ripeteva continuamente Argo alla grossa cavaliera della commerciante gaddea, mentre l'aiutava a tirare le stringhe della sua enorme corazza di cuoio.

 

-        Aspetta … qual è il tuo nome?

 

Le chiese Argo un attimo prima di entrare in azione. La ragazzona dalle trecce rosse avvampò dall'imbarazzo perché nessun maschio le aveva mai chiesto prima come si chiamasse …. Solo nelle sue più ardite fantasie aveva osato credere che un giorno lo avesse fatto un cavaliere valoroso e bello com'era Argo …

 

-        Mi … mi chiamo Minnegard.

 

Fece appena in tempo a biascicare con il cuore in tumulto perché Argo già marciava verso la guardia posta davanti al portone delle stalle.

 

-        Gran bella giornata, non trovi?

 

Gli chiese Argo prima che quello gli puntasse contro la picca per il "chi va là". Argo afferrò sotto il braccio la punta della lancia e trasse a sé l'avversario che si sbilanciò cadendo a terra. Con un balzo fu su di lui, ma questi ebbe comunque il tempo di sguainare la spada e respinse l'attacco. Teneva Argo in ostaggio con le spalle contro il portone di legno, quando si udì un sibilo simile al canto di un coro di lamie dei boschi, un attimo dopo il volto che stava guardando Argo si piegò in una smorfia singolare, cadendo in terra insieme al corpo esanime.

 

-        Santi numi! Se avessi sbagliato mira …

 

Disse a Minnegard mentre lei cacciava le dita nel cranio sfondato della guardia, nell'intento di cavarvi via dalle cervella sfrittellate la sua ghianda di piombo per la frombola.

 

-        Tiriamolo dentro il portone prima che qualcuno lo veda.

 

Minnegard non si ricordava se ci fosse stato mai qualcuno che le avesse rivolto più di qualche parola necessaria a impartirgli un ordine.

 

-        Ora che ti è preso? Dobbiamo affrettarci!

 

Povera Minnegard! Lei un ragazzo nudo non l'aveva mai veduto prima e le tolse il fiato rimirare la grazia virile del bel corpo di Argo, mentre si toglieva di dosso i suoi abiti per indossare la corazza della guardia morta.

 

-        Minne, hai forse un malore?

 

No, Minne non si era mai sentita meglio e a testimoniarlo c'era un bel sorriso sul suo volto giocondo.

 

-        Rischieremo solo la vita in due se andassimo insieme …

 

Argo le ordinò di aspettarlo lì, anche se non le spiegò che non potevano andare insieme perché una mole come la sua non sarebbe potuta certo passare inosservata. 

 

 

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-        Sei una bellissima farfalla!

 

Nahim stava ballando la danza squìttera delle lingue di drago tenendo i due nastri di seta legati direttamente ai polsi. Essi non erano tradizionalmente uno rosso e l'altro giallo, bensì avevano il colore dell'argento e lanciavano bagliori di luce mentre disegnavano nell'aria scie luminose.

 

-        Quale meraviglioso sortilegio!

 

Aveva delirato il vegliardo un attimo prima che la porta si sprangasse per il poderoso calcio menato da una delle guardie dell'inquisizione.

 

-        A cosa debbono assistere i miei santissimi occhi!

 

L'abate Mikalos fu gettato nella stanza e cadde sul pavimento come un cencio vecchio.

 

-        Le vanità strisciano come vermi insinuandosi nella casa di Dio.

 

Il vegliardo si trascinò sulle ginocchia al cospetto del monaco inquisitore che lo accusava di empietà.

 

-        Io non volevo … come avrei potuto resistere … sono stato indotto in tentazione da quell'abietta creatura … è stata allevata dalle malefiche Geda … conosce sortilegi e inganni … chiunque rimarrebbe irretito dalle vanità che sa evocare …

 

Piangeva le lacrime della contrizione con cui lavava i piedi nudi del monaco dell'Inn suo giudice.

 

-        Non tu che avevo scelto tra mille per preservare l'incolumità della mia mente dall'insidia Geda.

 

Il vegliardo perse il grigiore imposto dall'età e il suo corpo parve riacquisire il vigore che le tante penitenze avevano umiliato. La pelle allora si mostrò agli occhi degli astanti del nero di cui era stata ricoperta il giorno in cui iniziò ad appartenere ad un monaco consacrato alla regola di Inn.

 

-        Mi hanno indotto in tentazione … io non avrei voluto …

 

Il monaco a capo del drappello di guardie svelò il volto celato nel buio del suo cappuccio, rivelandosi nelle fattezze del vegliardo che aveva appena smascherato.

 

-        Sono stato ingannato con un atto di magia!

 

Intervenne l'abate Mikalos, quando si avvide di aver obbedito per tutto quel tempo a un impostore, cui il vero Askalot aveva dato le sue sembianze.

 

-        Lodate il Signore, abate Mikalos, che vi ha appena reso testimone di un miracolo ottenuto con la preghiera attraverso la volontà di Dio.

-        Santissimo Padre, come potevo avvedermi … se ero convinto di servire voi?

-        Mi avreste servito introducendo nella mia cella mere vanità come la musica, la danza e quell'aberrazione ignominiosa che ho dinanzi?

-        Sono stato indotto in fallo dal vostro servo.

-        Siamo tutti servi nella casa del Signore che c'induce in tentazione per liberarci dal male.

-        Mi avete ingannato!

-        Sono state le vostre menzogne ha evocare gli incantesimi delle vanità di questo postribolo.

-        Chiedo venia a sua Santità.

-        E l'avrete perché il Signore è clemente con i suoi servi. Le carni del monaco saranno purificate con il fuoco, mentre voi, abate Mikalos, sarete mondato solamente del lembo di carne con cui inquinate il mondo attraverso la menzogna. Lo storpio sia invece condotto immediatamente al Pozzo del Fato.

 

Non c'era da indugiare oltre. Le guardie condussero prima via il monaco che delirava le sue invocazioni alla clemenza, poi presero in consegna l'abate Mikalos. Nahim sarebbe stata la prossima e si accusava impietosamente di aver fallito la sua missione … ma poi realizzò che a parlarle era solo la paura di perdere la vita, eppure non era là per salvare se stessa. Davanti a sé aveva Askalot e indossava tutte le lame di cui necessitava per ottemperare all'ordine ricevuto dalla commerciante gaddea.

 

Si sottrasse alla mano della guardia che avrebbe voluto afferrarla piegandosi come il giunco fa col vento. Soffiò se stessa tra i goffi movimenti delle guardie con la stessa grazia con cui volava sui passi di danza. I nastri d'argento si srotolarono leggiadri e i loro bordi affilati baluginarono mentre si tendevano verso il collo di Askalot. Le lingue di drago si attorcigliarono facendo sputare fuori la lingua al monaco che, caduto sulle ginocchia, annaspava cercando d'ingollare aria nell'orifizio della sua bocca. Fu allora che l'affondo di una spada le trafisse un fianco e provò l'inconsistente consapevolezza della morte. Gridò al mondo il suo addio e divaricò le braccia, tranciando di netto la testa di Askalot.

 

Dal corridoio giungeva il suono delle schermaglie, i fil di spada si sfidavano per il dritto e il rovescio, impegnati a trattener la furia che animava l'elsa di Argo. Avrebbe desiderato trarre una magia dal grido di Nahim, invece la pena gli piegò il braccio e scoprì maldestramente il fianco all'avversario. Faticò molto a risalire passo dopo passo, affondo dopo affondo, il terreno perduto e non distingueva più il suo sangue da quello che cavava via dalle vene dei suoi ex fratelli d'armi. Li vinse tutti perché non poteva essere altrimenti, ma il fendente mortale lo ebbe guardando Nahim giacere nel proprio sangue.

 

Il desiderio di morte sospirò il suo afflato nel cuore del ragazzo. Argo sarebbe rimasto ad aspettare la fine, se un sussulto non avesse scosso il petto di Nahim. La chiamava pregandola di non abbandonarlo, trattenendola ancora più forte tra le braccia. Gli occhi di Nahim si schiusero sul volto dell'amato per portarsene via il ricordo e si dispiacque di vederlo piegato nella brutta smorfia del pianto, avrebbe tanto desiderato rivedere il suo bel sorriso e la luce che era capace di accendere in quegli occhi …

 

Presto, doveva fare presto! Argo correva ma non riusciva a volare e allora malediva se stesso perché le guardie giungevano da ogni parte e presto lo avrebbero fermato. Sfiancato, incespicò nei propri passi e cadde rovinosamente di sotto una rampa di scale. Era finita. Piangeva e tutte quelle guardie che lo conoscevano, pensavano che fosse un pusillanime come tutte le spie. Le lacrime erano per il vero il sangue di quella ferita che portava nell'animo. Slacciò la pettorina e schienale dell'armatura e si sfilo il carmaglio dalla testa. Strinse a sé il corpo di Nahim e poi si piegò su di esso, affinché i fendenti non ne potessero flagellare la bellezza.

 

-        All'assaaaalto!

 

Tonfi. Enormi colpi parevano scuotere il tempio. Il pavimento vibrava come se a calpestarlo fosse stato il piede di qualche creatura leggendaria. Una dopo l'altra le guardie voltarono il capo in direzione della sommità della scalinata, poi l'arazzo su una parete cadde attirando l'attenzione su di sé. Qualcuno chiese a chi gli stava accanto se pensava si trattasse di un terremoto, ma la risposta giunse insieme all'urlo di una guardia scaraventata via da chissà cosa.

 

-        Via! Scappiamo … Deve per certo trattarsi di qualche evocazione malevola giunta dalle profondità dei boschi.

 

Fece appena in tempo a dire una guardia, prima che il suo comandate lo pugnalasse al fianco per placare la paura che avrebbe spaventato ulteriormente i suoi cavalieri.

 

-        Questo è quanto accade a chi mollerà la presa sull'elsa della propria spada.

 

Disse il capitano delle guardie. Si tirò dietro Argo, trascinandolo per i capelli e una volta salito sulla scalinata, si preparava a sgozzarlo per arringare i suoi armigeri.

 

-        La nostra vita appartiene al Signore, morte ai demoni nemici del Tempio!

 

Per il vero nessuno comprese bene se pronunziasse: Signore o dottore o altro, poiché qualcosa lo investì portandoselo via oltre la finestra, tanto che il resto della frase molti giurarono fosse stato solo un urlo di spavento.

 

-        Minnegard?

 

Esclamò Argo nel dubbio di riconoscerla nel fondo del lungo corridoio, dove un nugolo di guardie cercava di opporre resistenza alla furia di una grande sagoma oscura.  Poi si udì di nuovo il sibilo della frombola e quegli armigeri corsero via, nella vana speranza di trovar rifugio da quei proiettili infuocati.

 

-        Scappate!

 

Urlavano quanti giungevano di corsa con le corazze mezze strappate di dosso. Poi ricominciarono i tonfi che parevano volessero tirar giù i soffitti del Tempio stesso.

 

-        Caricate le balestre.

 

Il più alto in grado tra le guardie ordinò di andar a prendere e caricare le balestre e così si prepararono all'estrema difesa. Non appena scorsero Minnegard oltre la balaustra sopra la scalinata, i dardi furono scoccati.

 

-        Minne!

 

Fece in tempo a urlare Argo, salvandola da morte certa. Ella alzò lo scudo, subitaneamente trafitto dalla prima ondata di dardi. Minnegard fece roteare il suo grosso e pesante martello di ghisa e lo scagliò contro la colonna portante della scalinata. Questa resse appena il primo colpo e al secondo venne giù insieme all'architrave che sosteneva. Una valanga di detriti rotolò di sotto dalle scale investendo chiunque con la propria violenza.

Si scatenò un "si salvi chi può" nel terremoto provocato dal martello di Minnegard. Argo si teneva stretto a lei guidandola verso una scorciatoia per le stalle, mentre proteggeva con il proprio corpo Nahim.

Minnegard, menando il proprio maglio contro ogni colonna, ostruendo la via dietro di sé, voleva solo assicurarsi che nessuno potesse seguirli. Povera ragazza! Forse era per lo spavento che in quei colpi imprimeva tanta forza. Rapida come un bufalo impazzito, menava dritta e a manca, di sopra e di sotto, senza tregua e intanto le travi di marmo si abbattevano l'una sull'altra, tanto che Argo la implorò di fermarsi.

 

-        Minne, così ci ammazzerai tutti!

 

Minne, Argo e Nahim caracollarono fuori dall'uscita est del Tempio e s'infilarono dritti nel carro trainato da Sohnderkuhmonde.

 

-        Aka! Aka! Eh!

 

Urlò la commerciante gaddea agitando le briglie del bue. Le grandi ruote di legno cigolarono iniziando a girare lentamente.  Il rumoreggiare dei crolli continuava e un attimo dopo che il carro uscì dalla piccola via che costeggiava il Tempio, l'intera ala est collassò su se stessa, dirupando in una nuvola di polvere e detriti.

 

-        Nahim si salverà.

 

Sohnderkuhmonde procedeva senza bisogno di guida alcuna sulla strada che conduceva al porto fluviale di Normenia, mentre la commerciante gaddea medicava la ferita di Nahim. Argo aveva scrutato il suo volto cupo per tutto il tempo, nel tentativo di carpirvi un'emozione rassicurante.  Per alleviare la preoccupazione che gli rabbuiava il cuore, rubò con un giochino di mano la cipolla che Minne si era appena pelata e l'addentò facendole l'occhiolino, così lei iniziò a sbucciare un'altra cipolla sperando che le rubasse anche quella.

 

-        La missione è riuscita, ma nell'intento abbiamo reciso troppi destini.

 

La commerciante gaddea era riuscita a trafugare la copia dell'enciclica con cui l'Abate Mikalos si preparava ad autorizzare l'assedio delle città parridi.

 

-        Abbiamo abbandonato la via tracciata per cavalcare l'imprevedibilità del momento. E' un puro caso se non ne siamo stati disarcionati.

 

La ferita di Nahim sarebbe stata medicata adeguatamente solo dopo aver raggiunto la città di Ramì. Aveva perduto molto sangue e avrebbe trascorso una notte tra gli spasmi della febbre alta, ma la commerciante gaddea assicurò che non avrebbe permesso al suo cuore di raffreddarsi.

 

-        E ora sali in barca, ragazzo mio, Nahim avrà bisogno di tutto il tuo calore.

 

Il capitano del barcone mollò gli ormeggi e la corrente del fiume trasse a sé i loro destini. La commerciante raggiunse la cabina del timone e finalmente sciolse l'incanto in un sospiro di sollievo.

 

-        Ben tornata Vereconda Ipse.

 

La salutò il capitano, senza domandarsi dove fosse finita la commerciante gaddea.

 

 

 

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Ipse con l'infante in braccio, aveva rallentato il passo perché la carezza di Hat le faceva illanguidire la fronte glabra e le sue vesti nere parevano sul punto d'incendiarsi.  Tasside era una città senza ombre e pareva volesse cancellare anche la sua; decise dunque di ripararsi tra i caroggi che si dipanavano fino al porto fluviale. Avrebbe dovuto tener calato il cappuccio del mantello oppure tessere un incanto per rievocare l'aspetto della commerciante gaddea, ma era stanca di fingere ed era animata dallo strano desiderio di mostrarsi agli altri per quello che era.

 

-        Solo dell'acqua, per favore … molto fresca se potete.

 

Tasside era così diversa da Mogul! Benché l'oste della locanda dov'era entrata non sapesse cosa significasse il velo della verecondia perché non aveva mai veduto una Geda, il suo aspetto lo raggelò e anche gli altri avventori seduti ai tavoli, abbassarono la voce per le loro ciarle.

 

-        Aspettate … so che qui crescono i limoni.

-        A volontà, mia signora.

-        Potete tagliarne una fetta per la mai caraffa d'acqua?

-        Abbiamo anche dell'ottima cedrata, se la desidera …

-        Sì … la desidero.

 

Il calore di quella città riaccendeva il desiderio anche in una vecchia radica come la sua. Sorbì la cedrata con un gusto tale da darle un piacere intenso che le sciolse le lacrime fin troppo trattenute negli occhi. Carezzò il bambino che teneva stretto al seno, con il calore che non aveva mai saputo esprimere a sua madre, quando la raccolse da bambina in quel villaggio ai piedi del Desh. I singulti del suo pianto incuriosivano e una donna seduta al tavolo vicino al suo, le chiese cosa l'angustiava.

 

-        Dubbi … feroci dubbi ottenebrano la mia ragione.

 

Rispose Ipse, spaventando la donna che si ritrasse perché intuì la vastità di un'angoscia troppo grande da sostenere. Se avesse consegnato quell'innocente alla sorellanza, ne avrebbe fatto un predestinato, privandolo del libero arbitrio ispirato dal proprio desiderio di felicità.

 

-        Ho bisogno di due caraffe di latte di vacca da portar via per il bambino.

 

Uscì dalla locanda perdendosi nella vitalità dei caroggi tassidiesi. Si fermò a un banco per comprare un grazioso ninnolo per il bambino e si dilettò nel contrattarne il prezzo come avrebbe fatto una commerciante gaddea. Riprese il cammino vivificata da una bizzarra pacatezza d'animo, le parve persino di sentire meno il peso dell'infante sul braccio e della giara di latte che teneva nell'altro.

 

-        Minne, puoi occupartene tu?

 

Raggiunto il molo, consegnò a Minnegard i suoi fardelli ma sentì di nuovo assalirla l'apprensione di prima. Si voltò un'ultima volta verso quella bellissima città fiorita e disse addio alla sua amata bambina … poi salì sul barcone e vide Nahim salutarla con un piccolo gesto della mano, mentre Argo le sorrideva, entrambi sdraiati al sole sulla prua del barcone.

 

-        Si torna indietro?

 

Le domandò il capitano dopo aver mollato gli ormeggi …

 

 

 

 

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Fine Primo Libro

 

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  • 2 years later...
Spoiler

Rieccomi dopo chissà quanto tempo a rimetter mano a questo progetto perché ho bisogno di  prendere congedo dalla realtà almeno per un po'.

Ho notato che gli indirizzi delle immagini non si aprono e non so se è un problema di connessione o il passaggio al nuovo browser del forum le ha mandate a pallino. E' un peccato perché perdo un sacco di tempo a cercarle e anche per realizzare le GIF peri titoli o i decori grafici ...  continuerò  lo stesso a inserirle, anche se poi c'è il rischio che rimarranno visibili solo temporaneamente.

Ho sospeso la scrittura rimandando al proseguo verso l'avvento dei draghi contenuto nel primo canovaccio. Però, rileggendo tutto di un fiato, mi sono accorto di aver tirato via alcune vicende con superficialità e soprattutto di aver penalizzato la parte letteraria e questo non va bene. 

Un altro difetto macroscopico che ho ravvisato è che ho dato molte indicazioni sui clan dei giganti coinvolti nelle vicende storiche, ma poi i protagonisti dei racconti provengono tutti dalla stirpe cablatea, di cui dico poco e niente ... 

Dunque ho deciso di fermare il tempo storico e proseguire solo con i racconti del novellario del regno antico, fissando un punto temporale sospeso tra il vecchio e il nuovo mondo, cioè l'esodo nella terra zenosta. Lo farò senza preoccuparmi della sintesi, a cui ricorro troppo spesso per non perdermi per strada. 

Per non perdermi, seguirò invece lo schema dell'albero genealogico della tribù dei giganti Parsa che riedito qui:

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Ogni volta parlerò di una stirpe descrivendo i clan dei suoi casati e il mondo da dove provengono. Inizierò proprio con i giganti di stirpe cablatea.:I Lammidi, di cui abbiamo già avuto dei personaggi Dandali e Pallacordi --->

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E poi conosceremo i controversi clan Falladi ... di loro abbiamo conosciuto solo i Tarocchi nel racconto di Minne Voleva Danzare ... il personaggio di Minne è quello che mi ha divertito di più scrivere.

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Al solito, inizierò con una sorta di estratto da un libro storico del regno antico,. Tale  >>Sulcide da Genesta<< è un monaco teoita, non tommaceo perché proviene appunto da Genesta, dove furono ordinati dei monaci falesi. I falesi, a differenza dei tommacei, condividevano dei cerchi magici con i cablatei e, infatti, nelle vicende già raccontate, le Jeda morre falesi cercarono di difenderli dal nuovo corso tommaceo in verbo lapis. Tuttavia, si noterà il punto di vista >>istituzionale<< con cui Sulcide definisce malevole tutte le pratiche sciamaniche dei cablatei. 

Questa prima parte mi serve per tratteggiare la mappa delle terre cablatee e distribuirci sopra i  cavalieri di piombo. 

Voglio avvertire che in questi frangenti cado nell'insana tentazione di favellar nella foggia delli antichi ... è solo una nota di colore e lo faccio anche se mi rendo conto di quanto possa stridere con le sue sgrammaticature nelle orecchie di chi legge ... è una debolezza che mi concedo in barba alle preposizioni e declinazioni.

Sui protagonisti ---> Ne ho piene le scatole di regine e giochi di potere per la conquista dei troni e conseguenti battaglie epiche. Lo so che è l'anima del racconto fantasy, ma lo trovo anche un discorso molto classista e dalle coloriture assai >>fascistoidi<<. Io uso la forma del racconto proprio per diversificare i protagonisti, potendo in questo modo ricominciare la storia sempre da zero.

Un altro aspetto è quello lgbt. Ne parlai anche con il mio ex compagno, attivista nonché D&D dipendente, mi rimproverò di porre poco l'accento su queste tematiche ... per il vero, lo disse riguardo al primo canovaccio, ma poi recependo il suo input ho introdotto la vicenda dei dimidium. Il mio punto di vista rimane essenzialmente anti segregazionista e nella mia visione fantasy la sessualità di maschi e femmine non incide sulla diversità di genere. Tra i giganti le donne cavaliere equivalgono a un uomo in armatura e anche l'omosessualità o la sessualità ermafrodita non è penalizzante, ognuno vive serenamente con la propria diversità. Di questo ne ho dato larga spiegazione sia nei culti che nelle tradizioni e la condanna dei dimidium arriva dopo un certo corso della società che dal nomadismo matriarcale, si assoggetta alla cultura stanziale del cavaliere patriarca ... lo sottolineo solo per quanti iniziano a leggere da questo punto e non hanno voglia di conoscere  gli ingranaggi e i bilancini della scatola da orologiaio che ho costruito. 

Mi pare di aver detto tutto sulla guida alla lettura ... posso iniziare l'avventura verso l'esplorazione delle selvagge lande cablatee ... 

 

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Introduzione

 

 

Le Selvagge Terre Cablatee

 

 

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(Dal breviaro: Li mondi prima dello grande esodo; del verecondo monaco teoita Sulcide da Genesta)

Si sole favellar dello ceppo cablateo come lo sangue più ardimentoso delli giganti. Leggenda vole che lo lammide soleva mandare lo puteo incontro alla cuspide di Peresside in groppa allo sauro che avea schiuso lo sguardo sulla medesima alba. Lo dardo stesso dello titano Apos cacciava così lo foco nelle vene sue. Ivi rimaneva a infocolare le orgogliose faide tra clan, codeste ragioni facevano dello filo della spada lo vomero che ingrassava la terra dello sangue delli eroi, ove piantare lo seme di nuove stagioni d’impavido coraggio. 

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Da mille e più stagioni, i clan lammidi piantavano li accampamenti nomadi appresso le migrazioni delli imponenti mastodonti muschiati, ove lo verbum venti carezzava le antiche steppe fino all’origine delli tempi.

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Le lande cablatee si raggiungevano dopo quattro giorni e cinque notti di marcia ininterrotta dalli ardui approdi delle coste falesie, ove lo piede roccioso dello altopiano strapiomba punto nello Mare Nostrum. Le stirpi giganti dette Falesie abitavano queste coste mille stagioni orsono, prima della chiamata nella terra promessa dai fratelli Zenosti.

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Prospicene detta Regina delle Lamie era lo nome dello approdo più interno alla regione selvaggia delli Cablatei. Vi si giungeva dopo un giorno di navigazione tra le rocce a strapiombo dello fiordo dalle dolci acque, donde confluivano le lamie di ogni rivolo cablateo, respingendo così l’insidia salamastra di Amis.  La leggenda narra che esso fu squarciato all’origine delli tempi, collo fendente di Peresside lanciata dallo titano Apos, dentro la roccia ancora viva di Teos.

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Prospicene sorgeva nello fondo dello fiordo ed era abitata da mille e più mille stagioni dalla stirpe Parsa dell’Attachi Gaddei Falesi. Ivi commerciavano colli fratelli loro Quatari che si spingevano fin nelli scorci più remoti delle terre cablatee.  All’epoca dello grande esodo, si contavano ben cinque volte cento venerande madri attache e delli sparuti cerchi magici rimasero ad abitare codesto fiordo, ove giunsero li gloriosi clan lammidi delli Pallacordi, imbarcati per dar man forte alli cugini Morri Falesi, impegnati nello feroce contenimento delle orde ittake dall’antica Mogul.  Fu allora che si dettero i natali allo più giovine tra li casati lammidi, detto delli Riveraschi, pe’ abitare quelli stessi approdi rimasti orfani dello primigenio sangue.

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Codesto casato fu originato sotto lo consiglio dello Jeda che scelse la Principessa Eufrasia delli pallacordi lammidi per accogliere nello suo nobile cratere una stilla dello fulgido sangue attaco gaddeo faresio.

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Lo sangue migliore filtrato dentro lo novo cerchio magico, trasfuse in codesti lammidi delle mitezze dolci come lo miele d’ambrosia, colle mirabili fattezze dell’oro e lo ferro. Tale nobile genìa governò Prospicene durante tutto lo Regno Antico, ove continuarono ad imbarcarsi i cavalieri pallacordi e da qui si doveva passare per addentrarsi entro le selvagge e misteriose terre cablatee.

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Dopo diversi giorni di marcia tra li passi delli monti falesi, si sopraggiungeva nello paesaggio ondulato delle steppe pallacorde, donde lo sguardo incontrava l’orizzonte senza ostacolo alcuno.

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Seppure nelle canzoni pallacorde si soleva raccontare come non c’erano occhi che avean veduto il confine della steppa, li versi delli poeti dandali cantano le lodi della terra loro posta oltre codesto orizzonte, alle pendici delli monti le cui alte vette erano chiamate Criniera di Vesta.

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Li novi cartografi hanno allo vero accertato che li calanchi abitati dalli clan squitteri scavano lo costone orientale dello Desh ittako.  Si potesse edificare mille ponti a superare l’asprezza di codeste rocce, solo qualche giorno di cavalcata separerebbe le lande pallacordi dalle alte mura di Mogul.

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Lo ceppo cablateo radicava nelle due stirpi Lammide e Falledo che seppure avean bevuto lo stesso latte della terra all’origine delli tempi, mai lo stesso albero dette frutti così diversi. Lo sangue lavico delli clan lammidi si spegne entro le vene delli fratelli falledi. Essi tengono lo carattere sottomesso e incapace d’impugnare altra picca che non sia quella delli bastoni sciamanici, colli quali si governano malamente alla pari delle pecore. I cinque casati falledi campavano nelle medesime lande delli fratelli lammidi senza scorno alcuno, cavando dalla terra quanto avevano in bocca.

Nello cratere spento ti talune venerande cablatee, zampilla ancora tenue la sorgiva della prolifica lamia a gonfiare lo ventre loro, donde trabocca nello core a divenir linfa di pianta. Solo le venerande più longeve radicano in alberi detti Verecondi, intorno allo cui ceppo si ramificano i clan. E’ buono costume nell’arco dell’esistenza di ogni cablateo recarsi presso lo proprio Albero Verecondo a contemplare la voce delli avi dentro lo fruscio delli rami. 

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I clan dandali abitavano le regioni a sud est della grande steppa, ove lo soffio gelido sceso dalla Crine di Vesta faceva rabbrividire ogni carezza di Hat. Lo manto bianco dell’inverno teneva lontane le  mandrie dei mastodonti che giungevano solo per brucare la fugace stagione primaverile.

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L’asprezza della terra loro spingeva li dandali a mettersi a servizio presso li pallacordi come mandriani. L’ardore dell’Inn dandalo faceva loro cattivo ufficio e non era visto di buon occhio trattenerne nel proprio clan più dello necessario. Sovente provenivano dai clan dandali coloro che si davano alle scorribande dedite alla caccia di frodo o finanche all’assassinio. Tanto che li drappelli di cavalieri pallacordi ricacciavano indietro le carovane che si spingevano fuori dalle loro terre.

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Li fieri pallacordi erano per lo più di tradizione armigera, seppure amassero parimenti la caccia e le loro tende circolari seguivano le migrazioni dei mastodonti. Li clan contavano in grande numero li nobili cavalieri, custodendo la ricchezza che ivi affluiva dalle spade messe a servizio dei cugini parsi. L’arte della guerra cui erano dediti, rendeva utile assoldare delli mandriani dandali e presso le tende loro servivano molti falledi. Li casati nobili pallacordi usavano prendere casa nelli approdi Riveraschi, ivi soggiornavano per necessità, preferendo alli confortevoli modi cittadini, la vita delli avi nelle steppe selvagge.

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Nicumeni e Catacumeni abitavano le lande poste oltre le costiere falesi, donde la terra arsa dallo sguardo rovente di Hat inaridiva nelle stagioni calde. Li clan nicumeni si distinguevano pe’ lo particolare pigmento scuro della pelle. Cavalieri arditi, erano nomadi armigeri nonché allevatori di cavalli di rinomata possanza. Poco si sa delli loro cerchi magici che raramente piantavano le tende presso altri clan, preferendo starsene tra le lande più remote delle proprie terre, ove rimasero sordi anche alla chiamata zenosta nella terra promessa.

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I clan Catacumeni vivevano presso le oasi sparse pe’ lo deserto Melindo, ove alcuno poteva spingersi senza la loro guida. Allo pari delli fratelli nicomeni, nulla si sapeva delli loro cerchi magici, salvo dell’abbondanza che traevano dalle floride oasi, facendone città di mattoni dalle ardite architetture.

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Commercianti di sale e spezie pregiate, le loro carovane affluivano nelli mercati di Semiramide, detta la turrita del deserto. Sorgeva sulle rive dello fiume Meli che sinuosamente attraversava lo deserto da est a ovest fino a gettarsi entro lo Mare Nostrum. Lo delta suo era sorvegliato dalli loro cavalieri onde impedire quanti volessero risalirne le acque.

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Li squitteri abitavano i calanchi orientali dello Desh e pe’ le mille e mille stagioni che precedettero l’avvento nello Bush, li cavalieri loro contennero le orde ittake, preservando le steppe pallacordi dallo nefasto nemico. Idolatri e spergiuri, essi rinnegarono il nuovo corso della fede in verbo lapis e mai ebbero a cuore li precetti delle tradizioni. Li clan squitteri non usavano tenere una tenda circolare ove preservare lo sangue loro e le venerande madri cavalcavano allo fianco dell’armigero. Codesta sciagurata usanza faceva sovente orfani li infanti squitteri, abbandonati poi seco alle carovane che tanto parevano all’occhio delle disordinate orde ittake.

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I cinque clan Falledi abitavano le terre delli fratelli lammidi senza colpo ferire. Essi avevano care le tradizioni sciamaniche delle lamie, le quali risalivano a mille e mille stagioni ancor prima della saggia usanza della tenda circolare. I culti delle lamie onoravano la vita e rifuggivano l’ardore distruttivo dell’Inn. Lo sangue loro era cheto come la linfa che scorre nell’albero. La tradizione sciamanica serviva la terra cui si faceva devota, così li falledi la abitavano da ospiti e non riconoscevano lo diritto di chi se ne faceva padrone. Essi vivevano in sparuti gruppi o spesso vagavano raminghi tra li altri clan, rincontrandosi all’ombra dello loro albero verecondo pe’ li riti sciamanici durante li solstizi e li equinozi. Ogni albero verecondo falledo affondava le radici nello particolare mistero sciamanico delle lamie che lo nutrivano. Mai alcuno riuscì a testimoniare tali segreti conservati in verbum venti, fatto salvo lo ricordo dello stupore nello occhio di chi assisteva a siffatte stregonerie.

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I benastri erano li falledi che più facilmente si soleva incontrare poiché iniziati delle lamie boschive, conoscevano i misteri delle erbe curatrici e non c’era lammide che non usasse tenerne a servizio nella propria tenda. Lo sciamanesimo benastro era riconosciuto in onori e tributi, tanto che lo loro clan si conformava come una potente casta intrigante e ostile che al momento dello esodo, fu scomunicata e interdetta dalla terra promessa zenosta.

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Li falledi Lafrodi erano creature misteriose e schive. Si narra vivessero nelli tronchi cavi delli alberi e alcune leggende raccontano che erano partoriti direttamente dalli alberi verecondi. Dediti per lo più alla raccolta delli frutti selvatici, altro non si conosce delle usanze loro, salvo avvistarli seco qualche sparuto gregge di capre. Osservanti dei misteri delle lamie sorgive, ne conoscevano li segreti più ammaliatori e alla pari delli serpenti dallo bacio avvelenato, sapevano incantare strisciando sopra la panza.

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Dalle fattezze dolci come lo miele, si soleva favellar tra li cavalieri quanto facile fosse cadere in fallo allo comparire tra le steppe di codeste creature conturbanti. Seppure non ci fosse purezza nello sangue loro che imbastardivano financo colle capre allo pascolo, nello ventre delle madri lafrode si tramandavano tutti li floridi doni che si soleva custodire entro lo cerchio magico di un clan. Minuti quanto delli passeri, fuggivano lo sguardo straniero allo fine di non cadere preda dello medesimo fascino con cui incantavano li passanti. Incrociarne lo cammino, era considerato tra li fratelli cablatei uno presagio di buono auspicio, tanto che li rapivano per trattenere la buona sorte entro la propria tenda.  

Lo clan falledo delli Gollodi, seppure avesse radicato in molti verecondi ceppi, originò dallo imbastardimento dello sangue parso gaddeo quataro colla genia lafrode.

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Li quatari erano abili carovanieri e si spingevano fin nelli più remoti scampoli della steppa lammide per acquistare merci da rivendere nelli approdi delli fratelli attachi. Per lo più stanziali come tutti li gaddei, tenevano fondachi a far testa di ponte allo continuo girovagare. Vi abitavano per intere stagioni e lontano dallo sguardo materno delli cerchi magici, usavano pascersi nelle lascive alcove colli lafrodi. Ne acquistavano a peso d’oro poiché era merce pregiata da rivendere come vestali alle terme delle grandi città parse, ma ciò che non carpisce la spada lo po’ fare lo core e in breve nelli più grossi fondachi di René, Poirot e Lameé, s’incepparono le nuove stirpi gollode. Colla medesima benedizione delli quatari, ne divennero li podestà. Tuttavia, la nobiltà dello sangue quataro prevalse su quello stregonesco lafrode e lo governo gollode, mite e accondiscendente, ne fece stelle di concordia, ove ogni viandante poté trovare ristoro nella equa giustizia e la fraterna ospitalità.

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Li onofri falledi quando non vagavano raminghi, facevano da guida alle carovane quatare giacché le genti loro conoscevano le lande cablatee meglio delle proprie saccocce.

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Seppure fosse contro lo loro costume, questi falledi erano ben capaci d’impugnar l’elsa contro chi insidiava la loro persona. Originari delle valli tra le Criniere di Vesta, conoscevano lo nome di ogni sasso e pianta delli boschi e avevano tratto ogni astuzia dall’arte delli loro fratelli falledi. Seguaci di Huria, la lamia delle nuvole, sapevano ascoltare lo vento collo quale soffiavano li ordini nelle orecchie delle bestie. Ognuno usava portare seco una delle strane creature silvane che popolavano le terre loro, pare gliene venisse fatto dono alla nascita e codeste creature li servivano meglio dello più fedele delli famigli.

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Onorati e rispettati per le arti che dominavano, erano salutati con favore nelli accampamenti, ove prestavano i loro servigi in cambio della poca ricchezza di cui abbisognavano per girovagare.

I tarocchi falledi servivano i misteri delle lamie della pioggia, dette lo latte della terra pe’ lo nutrimento cui ogni anima dello mondo ne trae. Agrimensori e dediti allo allevare bovidi, usavano piantare le tende sempre nelli stessi luoghi, ivi le carovane delli altri nomadi tornavano anch’essi pe’ trovare ristoro e quant’altro abbisognavano.

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Lo tarocco non avea a lamentarsi se nelle mani era custode di ogni arte che prova lo braccio e fiacca lo rene. Alto nello spirito, era parco dello poco cui traeva dalla terra e dallo commercio delli manufatti, specie quelli tratti dallo mestiere dello maniscalco. Seppure non avesse l’astuzia di trarne la dovuta ricchezza, l’arte dello fabbro era lo mestiere che lo impegnava maggiormente e sovente se ne trovavano a servizio presso li fratelli pallacordi.

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L’innata maestria nello adoperare le mani, li faceva divenire maestri d’armi e usavano legare la spada allo fianco, nonostante questo giammai se ne vide uno nelle vesti di armigero poiché i misteri delle lamie della pioggia avevano in uggia quanti affondavano lo fendente nella carne viva.

Li tarocchi condividevano taluni alberi verecondi colli onofri e questi imparavano da essi a maneggiare la spada che legavano alla spalla e ancora da loro apprendevano lo precetto di adoperarla per difesa.

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  • 5 weeks later...
Spoiler

Ho terminato il primo racconto e mi ritrovo esattamente nella stessa condizione di quando iniziai l'altra serie ... cioè non mi riesce di pensarli come storie assestanti e già nella mia testa si stanno cucendo tra di loro in una vicenda tipo comédie de la vie. Non so bene cosa succederà, ma di certo i personaggi che si trovano in un racconto ricompariranno negli altri e alcuni di questi che figurano come minori in una storia, diventeranno protagonisti in altri. Tant'è che il Malandruccolo di questo racconto già mi sta ispirando la prossima storia ... chissà dove andrò a parare! Ho idea che come per la scorsa volta, tutti i racconti andranno a incasellarsi nella trama di una storia generale più grande ... in cui probabilmente si potrà leggere il senso del grande esodo che spingerà i clan a migrare nella terra promessa zenosta. 

Riguardo alla storia che sto per postare c'è da dire che riguarda i clan Tarocchi. Iniziare da loro era più facile in quanto li avevo già incontrati e conoscevo bene dove trarre ispirazione. Nel racconto si ascoltano delle voci fuori campo che non vanno capite, nel senso che le uso come una pennellata di colore. Io trovo che la lingua di ogni popolo custodisca in sé quella cultura e ascoltando il suono delle parole si può comprenderne il gusto o persino il rigore morale. In questo caso ho usato il boero sudafricano e di fatto i Tarocchi sono dei boeri e anche le loro terre ricordano in tutto e per tutto il Transvaal e le montagne del Drakensberg  ... così, se qualcuno volesse vedere il Landsberg tarocco, deve solo digitare su Google Immagini >>Drakensberg Montains<< e converrete con me che si tratta di una terra magica. 

Mi sembra di aver detto tutto ... 

 

La Pietra dello Scandalo

 

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Prima dell’avvento nel Bush, oltre le colonne del passo in verbum venti, i Tarocchi Falledi Cablatei scavavano le miniere di ferro sui lontani colli del Landsberg. A testimoniare quel tempo vi è solo rimasto qualche verso di canzone a zampillare dalla roccia fredda della memoria. In una di queste si narra di Hutter-Munder, un curioso villaggio che per il vero ne conteneva due. Hutterbergerburg sorgeva sulla montagna ed era abitato dai minatori mentre Mundergruberburg era nella valle dove i Tarocchi dissodavano la terra per cavarvi cipolle.

-       Neef Heinrich, jou koei is mal geword!

I poeti pescavano dal fiume del tempo gli accadimenti delle loro genti per intrecciarli in versi da affidare ai messaggeri del domani. Nei clan ricoprivano ruoli importanti e in quelli tarocchi essi erano delegati alla semina della memoria nel fertile humus di fanciulli e fanciulle.  Waldbrunner Von Hoff prima di essere un sommo poeta, era un precettore assai rispettato per il suo inflessibile rigore scolastico. Il Cerchio Magico di Hutter-Munder gli aveva concesso l’onore d’imprimere il proprio onorabile nome a una figlia per originare un nuovo clan tarocco. La principessa Ebergund era amatissima dal padre ed egli la ricopriva di attenzioni esaudendo ogni suo capriccio. A servizio presso la casa di Waldbrunner viveva Juno Krauseinle che le era stata affidata affinché vegliasse sulla sua particolare follia. Juno divenne la sua allieva prediletta, alla cui memoria il sommo poeta affidava con soddisfazione le romanze più belle. Waldbrunner compose persino un sonetto in cui descriveva i suoi occhietti vivaci su un musetto lentigginoso, incorniciato da un indomito crine riccioluto, tratteggiato come fiammelle rosse crepitanti.

-       Iemand het die klokkie aan die stert vasgebind!

Dopo la nascita di Juno, nella tranquilla valle di Mundergruberburg prese a riecheggiare l’eco delle sue birichinate. Oramai correva voce che la bambina fosse guastata da una lamia nefasta e da più parti si levavano le proteste presso la sua matriarca. Non c’era punizione che riuscisse a fare mettere giudizio a quella pargoletta, fino a quando legò un campanaccio alla coda della vacca di Heinrich Muller ...

-       Heinrich se koei is nou lam omdat hy die tuinheining van Margaret se groente gebreek het!

Quella volta la vacca prese a correre imbizzarrita per tutto il villaggio, finendo per azzopparsi contro lo steccato dell’orto di Margaret Naaister.

-       Jou niggie is mal!

Heinrich il mugnaio e Margaret la sarta chiesero un’udienza alla veneranda madre per porre fine alle follie di Juno una volta per tutte. Il cerchio magico deliberò quindi per il bene di tutti i villici che Juno fosse posta sotto la custodia dell’onorato precettore Waldbrunner.

-       My dogter Ebergund het hulp nodig by die huis

Juno avrebbe dovuto aiutare la figlia del sommo poeta con le faccende domestiche, ma la rubiconda Ebergund era una principessa votata a un grande destino di matriarca e si approfittava della piccola Juno per farne una sua ancella.  

-       Ag, Juno help! Daardie verskriklike gevleuelde akkedis is nog steeds op my vensterbank.

Venne il giorno in cui la veneranda in persona si pronunciò sulla progenie di Ebergund e il suo cratere avrebbe accolto una scintilla degli Onofri Jensen dei Falledi Cablatei del Nord. Fu così che iniziarono a giungere presso di lei numerosi pretendenti, ma uno in particolare s’invaghì del suo animo originale e romantico. Odd Jensen era una rinomata guida carovaniera a servizio dei Quatari e come molti della sua gente trascorreva l’esistenza in viaggio, così le inviava dei versi appassionati con la sua variopinta lucertola alata, capace di ripetere le parole di chiunque. Ebergund non riusciva proprio a spiegarsi tanto accanimento su di lei perché detestava quel famiglio tanto quanto il suo padrone, delegando ogni volta all’allieva prediletta del padre, il compito d’insegnare a quello sgorbio di bestiola dei graziosi versi per declinare l’indesiderato corteggiamento.

-       Odd Jensen het groot verborge kwaliteite!

Affinché si desse origine a un clan, la principessa doveva trovare uno sposo cui la veneranda concedesse l’onore di fondere il suo nome a quello del clan tarocco che lo accoglieva. La bizzosa Ebergund fu molto scrupolosa nel suo compito, esaminando ogni notte un pretendente diverso nella sua alcova. Juno non si spiegò mai perché tale scelta ricadde proprio sul timido Odd e meno che mai comprese il malizioso ammiccamento che le fece Ebergund dopo essere giaciuta con lui.

-       Ek het nog nooit 'n soortgelyke boomstomp gesien nie

Era stata Juno a intrecciare quell'amore epistolare con Odd e si era innamorata a prima vista dei suoi grandi occhi timidi, capaci di leggere nel suo animo incompreso. Fu colta dallo sconforto nel vederlo tra le braccia di Ebergund, tanto che decise anche lei di diventare madre solo per fargli dispetto. “Troverai certo sollievo a scaricare quella lamia marcia che ti appesta il ventre” Si pronunciò così la saggezza della sua matriarca, perorando l’urgenza di trovarle qualche pretendente capace di domare la sua proverbiale testardaggine. “Si ravvederà quando un dardo farà scintillare la lamia del suo cratere” Ne erano certe anche tutte le altre matriarche del Cerchio Magico, che proprio non si spiegavano che cosa andava cercando quella piccola deficiente. “Questa volta vedi di farti andare bene qualcuno del clan Grawegate di Hutterbergerburg” I tentennamenti di Juno fecero perdere la pazienza alla sua protettrice che per quella faccenda stava perdendo la stima della veneranda. “Lascia che l’Inn e il Mag facciano il proprio corso” A tale scopo fu riempito il carnet di ballo che Juno avrebbe danzato durante i festeggiamenti per la maternità appena ottenuta da Ebergund.

-       My suster, wat 'n groter vreugde om te weet dat jy die eerste pa van jou kinders by my party sal vind!

Le disse Ebergund, felice che avrebbe trovato durante la sua magnifica festa il primo padre dei suoi figli. Ai festeggiamenti accorsero i rappresentati di tutti i clan Tarocchi del Landsberg e di quelli Onofri del Nord. Nella piazza di Mundergruberburg c’erano festoni colorati che scendevano giù da pali altissimi e i bambini saltellavano felici per le strade a soffiare le bolle saponate del buon auspicio. I fumi dell’arrosto profumavano l’aria e la frutta rotolava copiosa dalle cornucopie poste sul tavolo del banchetto. “Juno, ti affido Biribò” Però Juno era ancora più scontrosa del solito perché non riusciva a dimenticare le tenere carezze sul suo cuore ascoltate nelle parole di Odd.

“Prometti che baderai Biribò?” Si sentiva persino in colpa per l’inganno in cui l’aveva condotto perché Ebergund rideva dei suoi capelli scoloriti e di quel naso rosso che faceva la trombetta ogni volta che ci soffiava via il moccio. “Juno, mi ascolti?” Certo che lo stava ascoltando e si arrabbiava perché lui non lo capiva da solo che era lei quella che amava con tanto accoramento. “Non la devi mai perdere di vista, capito?” Ebergund lo aveva scelto per la grossa radica che gli pendeva tra le cosce mentre il cerchio magico lo aveva preferito solo perché indossava l’armatura leggera da guida carovaniera, ma nessuno lo stimava come lei per il suo animo nobile. “Biribò!” Tanto meno c’era qualcuno che aveva dimostrato più affetto di lei per la sua dannata bestiola ...

“Stai attenta ai cani” Come tutti gli Onofri anche Odd viveva in una sorta di misteriosa osmosi col suo famiglio. “Specie ai gatti!” Juno adorava Biribò, nei cui grandissimi occhi arancioni c’era la stessa dolcezza che vedeva in quelli di Odd. “Ehi, ragazzina scendi dalle nuvole” Era Ebergund che rabbrividiva solo al nominarla e gli aveva fatto promettere di tenerla lontana da lei durante la festa. “Scusami, non volevo offenderti” Era però indelicato dubitare di lei come chiunque altro del villaggio e doveva smetterla anche di trattarla come una ragazzina. “Sì, lo so che oggi sceglierai il tuo sposo” Era stato solo per ingelosirlo che aveva accettato di danzare con quegli scava buche di Hutterbergerburg, ma era chiaro quanto tutti i suoi versi meditati per serate intere valessero niente al confronto della seducente avvenenza di Ebergund.

Juno non aveva proprio testa per le galanterie dei ragazzotti di Hutterbergerburg. “Ha più semola in faccia che la mia scrofa nel suo scifo” Iniziò dunque a sollevarsi un coro di critiche per le sue bizze indisponenti. “Che preferisca la compagnia dei maiali?” Nessuno le perdonava di essere triste in quel fausto giorno, arrivando ad accusarla d’invidia nei confronti di Ebergund. “Piccola ingrata, faresti meglio a ritirarti fino alla fine della festa” La rimproverò la matriarca perché le stava tirando il biasimo dell’intero villaggio addosso. “Faccio quello che voglio” Juno rispondeva sempre allo stesso modo fin da quando era bambina, ma ora era diverso perché si sentiva una nota scampanata in mezzo a un coro di felicità.

Pestò con i piedi il carnet di ballo e sciolse la graziosa acconciatura che le tirava fastidiosamente i capelli. Tanto non sarebbero bastati tutti i nastrini colorati del mondo a renderla più gradevole agli occhi di quella masnada di bifolchi. Lo spirito romantico di Juno si cibava delle romanze insegnatole da Waldbrunner e quei personaggi parevano non esistere nella realtà ... salvo quell’imbecille di Odd che aveva scambiato Ebergund per una vera principessa delle favole. La ragazzetta rubò una pinta di birra nel tentativo di trarvi un poco di felicità, ma dopo i primi sorsi ci rimediò solo un rigurgito di malinconia che la abbatté definitivamente. Col capogiro negli occhi, si coricò sul covone di fieno per i cavalli e solo allora si accorse del bel canto di un menestrello che lì accanto intratteneva i commensali.

Malandruccolo, seppure non fosse alto più del culo di una vacca e avesse delle braccia inabili sia per la spada e sia per la zappa, era lo stesso un bel giovinetto! Indossava buffe brache variopinte e una giubba gialla come dell’oro colato, portava ai polsi e al collo curiose treccine di cuoio colorate come si raccontava usassero gli sciamani dei boschi. Recitava le romanze preferendo il tamburello al liuto, accompagnandosi con dei gesti plateali che suonavano buffi perché alle caviglie portava dei campanellini squitteri. Non si capiva se il pubblico rideva per le storie buffe e licenziose che raccontava o perché lo stavano sbeffeggiando, ma tanto a Malandruccolo pareva non interessare il motivo per cui sentiva tintinnare le piastre di ferro nell’obolo che passava tra gli astanti.

“Com’è finita?” Chiese Juno, quando il menestrello le porse il cappello dalle frange colorate. “Finita che?” Le rispose il giovinetto, cacciando lo sguardo impertinente tra le pieghe delle sue vesti. “La giostra del cavaliere per conquistare la pulzella” Disse Juno, coprendosi le spalle con la mantellina della veste che prima di quel momento non aveva mai capito a cosa servisse. “E’ morto col cuore infilzato sulla picca dell’amore” Cantò su note improvvisate lo stravagante menestrello, ben sapendo di farle un dispetto. “ Non mi dai niente?” Domandò, facendo tintinnare il denaro nel suo cappello, dopo essersi rotolati sul covone di fieno per chissà quanto tempo. “Regalami Biribò” La lucertola alata che imitava le voci, gli avrebbe fruttato bei denari durante le fiere. “Restituiscimela subito!” Gli ordinò Juno, immaginando come l’avrebbe presa Odd se avesse ascoltato quella trattativa.

“Biribò non potrebbe vivere lontano dal suo padroncino” La rassicurò Malandruccolo su quello che era stato solo uno scherzo mentre si divertiva a far saltare la bestiolina da una mano all’altra. “Restituiscimela” Juno ribadì il suo ordine perentorio e fu solo allora che incrociò l’intensità del verde smeraldo negli occhi del giovinetto. “Scusami, non volevo” Lui le restituì Biribò ma non era per la sua insolenza che si stava scusando. “Dovrei coprirmeli, però la benda è fastidiosa” Juno non capiva di cosa stesse parlando, preoccupata com’era che non si accorgesse dell’imbarazzo di cui si sentiva avvampare. “E’ idromele?” Chiese ancora lui e senza aspettare una risposta bevve dalla caraffa che Juno teneva lì accanto. “E’ birra d’orzo!” Esclamò disgustato come se avesse appena sorbito del piscio d’asino. “Ora devo andare o Rostiglione mi cucinerà per cena” Certo che non era stato per la sua solita indisponenza che se ne stava andando, ma Juno se ne dispiacque allo stesso modo, tanto che non seppe fare a meno di corrergli dietro fino al carro dei saltimbanchi per scusarsi.

“Piccola serpe, hai di nuovo preso il mio liuto col tamburello” Quando giunse di lì appresso, vide quel Rostiglione temuto dal giovinetto minacciarlo a suon di sberle. “Tira fuori i denari fatti col mio mestiere” Malandruccolo gli sfuggì tra le gambe, ma quello lo prese al volo sventolandolo per i piedi come uno straccio. “Ti do da mangiare per fare il funambolo” Juno non poteva assistere ancora senza intervenire. “Basta!” Urlò d’impeto a quello che le appariva come uno spietato orco. “Principessa Ebergund!” Esclamò Malandruccolo, schizzando via dal capo carovaniere per correre ai suoi piedi con una profonda riverenza. “E’ lei la principessa?” Si domandò stupito Rostiglione. “E chi altri potrebbe tenere sul braccio il famiglio dello sposo?” Era un inganno e Malandruccolo le strizzò l’occhio affinché non lo tradisse.

“Sì ... certo che sono io ... mi chiamo Ebergund ... potete chiedere a mio padre se non mi credete ... lui è il grande poeta Waldbrunner” Aveva finito per insospettire ancora di più quella volpe di Rostiglione con le sue inutili spiegazioni. “E’ venuta per ringraziare della romanza che le ha suonato di certo il mio menestrello?” Quale romanza e perché le sembrava di cogliere del sarcasmo nelle parole dell’omaccione ... che avesse subodorato l’inganno? “Sì ... certo, come no!” Juno si stava per sentire male. “Che villano a fuggire via prima di accettare la vostra generosa offerta” Si sbrigò a dire Malandruccolo porgendole il cappello con una nuova riverenza. “Ce ... certo!” Certo un bel corno, quel farabutto le stava sfilando una piastra di ferro! “Affondate la mano e arraffate più che potete” Le sussurrò il giovinetto esortandola a fuggire via da quel luogo. “Ecco a voi, mio benefattore” Continuò poi, offrendo i denari rimasti ai piedi di Rostiglione.

“Quanta generosità, Principessa Ebergund!” Esclamò il capo carovaniere. “Diventerete certo la più generosa delle venerande” Beh, Juno aveva mani piccole e non aveva potuto trattenervi più di qualche piastra di ferro. “Permettetemi di offrirvi il trono del mio umile spettacolo” La ragazzetta sapeva di dover rifiutare e fuggire via come l’aveva esortata a fare Malandruccolo, ma in tal modo non lo avrebbe più rivisto e in quel momento dirgli addio la spaventava più di qualunque altro rischio. “Ecco a voi la nostra regina” Le pareva di ascoltare il brusio di maldicenze mentre si sedeva sulla panca merlata di rosso della regina dei buffoni. “Riverisco voi e il vostro degno sposo” Stava per svenire quando la folla esplose in una grassa risata per la riverenza di Rostiglione al suo sposo Biribò.

“Che entrino gli acrobati!” Stava per fuggire via, ma poi partì il rullo di tamburi ed entrarono i saltimbanchi con le loro capriole e piroette. Voleva troppo guardare per una volta ancora gli occhi di quel giovinetto e se ne rimase seduta, fino a quando fu tesa la corda del funambolo e lo vide saltarci sopra come uno scoiattolo. Lo scandalo di quanto stava facendo corse di bocca in bocca fino a giungere in un baleno nell’orecchio di Ebergund. Quella volta l’aveva combinata troppo grossa e fu lo stesso Waldbrunner colla palandrana da sommo poeta che si recò in quel luogo a mondare l’affronto arrecato all’amata figlia. Schiaffeggiò Juno dinanzi alla platea dei paesani, declamando in versi l’oltraggio subito e con questi rinnegandola come sua protetta.

Juno fu condotta sulla pietra dello scandalo e vi avrebbe trascorso in ceppi tre giorni, durante i quali i villici avrebbero contribuito a farle meditare le sue colpe con insulti e sberleffi. Dopo di che, sarebbe stata ricevuta dalla veneranda madre, dinanzi alla quale si sarebbe prostrata chiedendone l’infinita venia per non essere bandita dal clan. “Ma che ti è saltato in testa!” Era notte fonda quando Odd si recò da lei con Biribò appollaiata sulla sua spalla. “Ebergund è furiosa con te” Biribò aveva ripetuto davanti a lei i versi che Odd aveva ascoltato credendo che provenissero dalla sua bocca. “Hai fatto una cosa malvagia!” Tutta quella dannata storia ora aveva preso l’aspetto di un malevolo inganno per irridere il buon costume della propria gente.

“Ti sei presa gioco del mio amore” La credeva così senza cuore da poter pronunciare quelle parole con il solo scopo di schernirlo? “Vuoi ancora ingannarmi, non ti basta aver rovinato il giorno più bello della mia vita?” Sarà stato pure sbagliato quello che aveva fatto, ma era stato l’amore contenuto nelle sue parole appassionate a sedurla. “E’ per invidia che ti sei finta Ebergund in quello spettacolo di buffoni!” Credevano che fosse stato il livore covato per tanto tempo verso chi le aveva teso la mano per aiutarla a motivare quel malevolo intento. “Ti sei presa sempre gioco di tutti e ora non c’è nessuno che deporrà a tuo favore” Quell’accusa la feri più di ogni altra maldicenza e allora rovesciò per stizza la ciotola di minestra calda che Odd le aveva portato. “Juno, se non ti ravvedi sarai bandita, riflettici” Il pianto le strozzò in gola la voce però trattenne le lacrime per non dargli soddisfazione, perdendo così l’ultimo amico che le era rimasto.

Le lacrime salate arsero per ore gli occhi della povera Juno, fino a quando la luna declinò dietro la montagna, calando sulla  notte una coltre impenetrabile che inghiottì il mondo come lo aveva sempre conosciuto, Accecata dal buio, la ragazzetta si avvide che a trattenerla in quel luogo c'era solo lo sdegno contenuto nella pesante pietra dello scandalo. Chiedere venia alla veneranda madre avrebbe significato prendersi sulle spalle quel macigno cui era stata messa ai ceppi e allora iniziò a guardare l'orizzonte della libertà nel fondo oscuro della notte senza apprensione. L'indeterminatezza segnava le sconfinate opportunità offerte dalla vita ... capaci di contemplare ogni sua più strampalata aspettativa da folle. Scoprì in quel momento che l'anello di ferro messo intorno alla caviglia, era troppo grande per il suo piedino e a trattenerla c'era solo il timore di essere bandita. Ora che però era capace di guardare nel buio senza provar spavento, l'anello di ferro si sfilò da solo, lasciandola correre via incontro al suo destino.

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  • 1 month later...
Silverselfer
Spoiler

Ecco il secondo racconto di questa nuova serie del novellario ... tutti i propositi snocciolati nell'altro spoiler sono andati a farsi friggere ... penso troppo e così ho finito per complicare quello che doveva essere solo una scrittura piacevole ... però, ammesso che mi riesca di mettere in porto questa nuova struttura, riuscirei a cucire i racconti già scritti con questi nuovi e tutti insieme introdurrebbero alle prossime vicende epiche della Regina Semiuk ... ci riuscirò? 

Tutto dipende anche dalle vicende della vita reale perché io per scrivere ho bisogno di assoluta tranquillità che si traduce in una sorta di eremitaggio laico ... in questi ultimi tempi ne ho potuto disporre grazie a una serie di accidenti, ma francamente me ne vorrei risparmiare di nuovi e soprattutto rimettermi in salute ... anche perché il conto in banca necessita di essere rimpinguato. 

Bah, come dice il sommo poeta Gaudio Uttilio dei Pallacordi Lammidi ---> Bando a siffatte amenità. 

Fin da quando ho iniziato a pensare di scrivere un romanzo fantasy, ho cercato d'immaginarmi una colonna sonora e oramai ne ho ascoltate tante, riuscendo a capire solo quello che non voglio e cioè quelle marce tutte in crescendo tipo scontro epico da talent show. Ho trovato dunque questa versione molto bella e interessante dello screenplay di Conan the Barbarian ... lo so che dal principio uno ne penserebbe subito male, invece no ...

Ecco ... io mi sono immaginato su queste note  il veliero alle prese con le minacciose onde sotto le falesie attiche con il crescendo che coincide nel momento della Geda nicomeda ad evocare la sua prima aura della verecondia per sapartire le acque come un'invisibile polena dinanzi all'incedere dei remi .. ok, meno male che il pezzo è finito o finivo per spilerare tutto ... 

Passo e chiudo .. 

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 Sul Sentiero del Destino

Dallo mare, la via d’accesso a Fresia Ab Aquis rimaneva celata all'occhio nello stesso modo delle insidie pronte a cogliere allo minimo fallo. Lo naviglio gettava in acqua le lunghe braccia per procedere colli remi tra le attentatrici dita di Amis che, dallo sprofondo dello mare, emergevano come faraglioni a foggia di aguzzi artigli

-        Madre nostra, la vereconda nicomeda vi chiede udienza.

Da sette giorni il veliero si tratteneva in rada in attesa della chiatta per lo sbarco. Non era consigliabile imboccare la gola d’accesso al fiordo d’acqua dolce con un naviglio di tale pescaggio. Gli scogli sotto le rocce a strapiombo delle falesie attiche ne avrebbero squarciata la chiglia.

-        Siete forse venuta per lamentarvi ancora del rancio?

-        Perché avete calato i remi in mare?

-        Abbiamo imbarcato vettovaglie solo per un ciclo di luna ...

-        Che se ne farà di un buon pasto in fondo al mare?

-        Accetterò i vostri consigli quando mi troverò a solcare le aride steppe cablatee dei nicomedi.

-        Portate rispetto all’onorato istituto che rappresento.

-        Perdonatemi, ma credevo di aver imbarcato una vereconda morra che incrociando le dita ci avrebbe tolto da ogni impaccio.

-        Sono stanca delle vostre meschine allusioni ...

-        Ed io delle vostre inutili lagne.

A una mistica Geda era insegnato di non farsi mai coinvolgere dalle emozioni che funestavano il mondo, ma la sagoma scura di questa giovane vereconda faticava molto a rimanere impassibile dinanzi l’indisponenza di Golda. Il capitano del vascello parride non mostrava alcuna riverenza per il suo mantello dalla grande cappa, mentre continuava a gingillarsi col ratto bianco che usava tenere sulla spalla.

-        Sono nata su questo legno e affonderò con esso piuttosto di vedere morire di fame l’equipaggio che ho partorito col travaglio ...

I grandi seni cadenti da veneranda attestavano i galloni del comando di Golda poiché quel vascello si ordinava come una tenda circolare galleggiante. Cinto alla testa portava il fazzoletto con i colori del suo clan, gli stessi che sventolavano sulla cima dell’albero maestro. La salsedine le aveva inasprito le profonde rughe che il cruccio sulla fronte ripiegava sugli occhi, fino a farli scomparire sul grosso naso ritratto in una smorfia inquietante.

-        Condurrò la prua oltre quella dannata insenatura e non sarà certo l’azzardo più ardito che avrò da raccontare davanti al prossimo boccale di birra.

Alla giovane nicomeda, invece, avevano appena rasato l’ampia fronte per indossare il velo della verecondia e quella era la prima volta che lasciava le mura del collegio di Mogul. L’istituto Geda Sororum aveva iniziato da poco a tessere il suo vasto cerchio magico nella nuova società dei Cavalieri Patriarchi, ordinando delle Geda anche al di fuori dei clan morri. Certi cambiamenti nelle antiche tradizioni faticavano ad arrivare sui navigli parridi, specie per delle vecchie matriarche come Golda che non faceva mistero del pregiudizio verso una Geda lammide dalla pelle scura nicomeda.

-        I vostri moniti m’infastidiscono quanto udire lo squittio dei ratti in cambusa prima di sorbire la sbobba.

I falesi dipendevano dai navigli parridi per il trasporto dei drappelli di cavalieri cablatei necessari a contenere la minaccia ittaka. La resistenza dei clan lammidi ad abbandonare le terre dei loro avi, stava favorendo l’insediamento dei parridi in terra zenosta, i cui fondachi diventavano fiorenti città con cui era sempre più difficile stabilire equi accordi di convenienza reciproca. Tale condizione, unitamente all’incedere delle vicende tommacee che determinavano l’affermazione del Tempio di Gelsa sulle tradizioni armigere di Mogul, aveva indotto la Badessa Geda a perseguire lo scopo di trapiantare del sangue lammide nel Bush. Jeredra era la virgo dandala cresciuta nel chiostro di Hat per inceppare una nuova stirpe di cavalieri cablatei, nelle cui vene scorresse il fervore dandalo insieme alle virtù pallacordi.  

-        Vegliate piuttosto sulla vostra vergine, i cui effluvi profumati di mag ubriacano la ciurma.

Li marinai erano punto colti da frenetica attività per contrastare la schiumosa crine di Amis, volta a trascinare la chiglia tra li impervi flutti sotto le aguzze rocce a strapiombo. Lo capitano di vascello urlava li ordini dallo ponte di comando e con strilli sempre più forti giungevano in un lampo fino all’ultimo della ciurma. Scampati alli tanti pericoli, rimaneva da infilare lo naviglio in quella fenditura nella roccia colla stessa perizia della sarta nell’infilzare la cruna dell’ago.

Jeredra ed Era avevano condiviso il tempo del collegio nell’istituto Geda, prima che il loro cammino si avviasse su sentieri diversi.

-        Sono audaci questi parridi!

-        Quante volte ti devo dire di non uscire sul ponte a startene appollaiata come una colomba dinanzi a uno stormo di falchi.

-        La colombella è ben lieta di farsi catturare ... se il falchetto è di suo gusto.

Jeredra indossava il sari blu delle virgo con la lunga manica a mantello sul braccio destro che ne poteva celare il volto, lasciando scoperti solo gli occhi. Quelli di Jeredra erano piccoli e color nocciola, maliziosi quanto lo sguardo di una volpe.

-        Persino quella stolta dell’armatrice si è avveduta delle tue civetterie.

-        Amica mia, forse vi hanno sterilizzato anche gli occhi insieme al ventre?

-        Il mio sguardo rimane ben saldo sulla missione affidatami.

-        Il confino in quel dannato collegio è finito e appena poseremo piede sulla terra degli avi, nulla ci tratterrà dal volarcene via finalmente libere.

-        Ho pronunciato le promesse dinanzi al sacro uffizio e non confermerò le malevolenze di chi vi si opponeva per l’eresia di cui si è macchiata la mia stirpe.

-        Siamo nate lammide, estirpate dalla nostra terra per degli interessi che non ci riguardano.

-        La minaccia ittaka ...

-        E’ una menzogna, della cui prova è il rifiuto nicomedo alla presunta chiamata zenosta.

-        Non bestemmiare!

-        Ho incontrato in sogno un padre zenosta ...

-        E vi avrebbe ordinato di copulare come una cagna?

-        Sono nata libera e nessuno potrà ridurmi in catene.

-        Non permetterò che il mitis di uno di questi bucanieri inquini il tuo cratere.

-        Suvvia, ci sono modi sicuri e altrettanto gustosi per mettersi in saccoccia un dardo infuocato.

Jeredra trovava diletto a stuzzicare lo stoicismo della sua amica. Le teneva la mano, carezzandole di tanto in tanto le gote d’ebano, ben sapendo quale istinto il suo mag profumato infiammava in quel cuore caldo nicomedo.

-        A quanti ti sei già concessa?

-        Se hai bisogno di pormi tale domanda, ha ragione chi pensa male di una nicomeda Geda.

-        Che stupida a fidarmi di una dandala!

-        Ho posto io la condizione che fosti tu ad accompagnarmi ...

-        Lo hai fatto perché sai approfittarti delle mie debolezze ...

-        Ho fatto un sogno in cui eri assisa sul trono di spine.

-        Ah, ti prego, che scempiaggine!

-        I miei sogni non mentono mai e quando quel giorno arriverà, io sarò diventata un ceppo verecondo, sotto cui verrai ad ascoltare la verità che cambierà il mondo ... questo mi ha detto il padre zenosta.

Sarebbe stata opportuna la forza di mille remi per resistere allo vorticoso incedere delle lamie dolci, che dallo fiordo rigettavano nello mare le lamie salmastre di Amis. Era così che dalle rocce dette Dentes Anguis, si allungavano delle cime al cui appiglio si legavano alcune carrucole e al pari di ruote, esse conducevano il naviglio nell’oscuro antro cavernoso dell’unica via d’accesso a Fresia Ab Acquis.

-        Comandante Golda! Così finiremo contro le scogliere ...

-        Tornatevene in coperta o la sventura che vi portate dietro non mancherà di colpirci ancora.

La risacca faceva beccheggiare pericolosamente il naviglio e nell’infernale sconquasso, le due passeggere erano state costrette a lasciare la loro cabina per salire sul ponte di comando.

-        Era, ti prego aiuta quel ragazzo che si protende verso la cima.

-        Di chi parli? Non v’è marinaio che non stia rischiando la vita.

-        Quello là ... è il più ardito, lo vedete?

-        Mi accorgo fin troppo bene quanto ti stia a cuore la sua sorte.

-        Stupida, il destino di tutti noi finirebbe col suo.

Era si scoprì il capo, mostrando l’ampia fronte, intorno a cui stentava a formarsi per la prima volta un’aureola della verecondia. Jeredra spronava l’amica a non demordere e dunque la giovane Geda unì le dita e alzandole dinanzi al volto, iniziò a soffiarvi attraverso l’arte di cui si era fatta adepta. Accadde quanto mai si era visto prima scaturire da una Geda morra e un’invisibile polena prese a solcare le acque davanti alla prua del naviglio, allontanando dallo scafo il pericoloso sciabordio delle onde. Fu allora che l’ardito marinaio riuscì a catturare la cima che dalle aguzze rocce del Dentes Anguis, si protendeva in aiuto per resistere all’irruenza delle acque che respingevano il naviglio verso la furia della risacca marina.

Nulla avrebbe spaventato più delli mille pericoli appena scampati, tanto che parea persino accogliente la quiete delli lugubri echi nello lago di Petra Aquae.  Qui li marinai davano foco alle torce per consolare l’anima colta punto dallo tremore d’ossa. Lo caldo giorno lasciatosi alle spalle, ivi giungeva solo colla forza di tre fendenti di luce, penetranti l’imponete volta di oscura roccia dello grembo della montagna. L’alito avvelenato di Amis ancora strozzava in gola, mentre lo dolce soffio di Fresia Ab Aquis traeva le vele di randa e di trinchetto verso la bocca d’uscita.

-        Brutto uccellaccio del malaugurio, aspettavate forse che qualcuno dei miei figli ci lasciasse la pelle, prima d’incrociare le vostre dita da strega?

L’inaspettata potenza dell’aura della verecondia suscitata da Era divise la corrente delle acque, permettendo al naviglio di scorrere senza alcun impedimento nella gola tra i due picchi rocciosi del Dentes Anguis.

-        Ci volevate far marcire in rada nell’inutile attesa della chiatta di sbarco?

Appena il naviglio fu inghiottito nell’oscuro antro cavernoso del lago dalle acque rocciose, furono spiegate la randa e il fiocco per risalire il soffio di vento che conduceva fuori dall’enorme grotta nel cuore della montagna. Fu allora che Golda diete stura alla rabbia trattenuta fino a quel momento e per poco non aggrediva la vereconda.

-        Tenete lontana la vostra orribile bestia.

Sospirò Era, resa esausta dallo sforzo appena patito, mentre il ratto bianco che Golda usava tenersi sulla spalla le digrignava gli incisivi, abituato com’era a interpretare gli umori della sua padrona.

-        Forse avrei dovuto dirvi prima che nella sbobba sorbita da tre giorni orsono, ci sono i parenti della mia topa.

Qui vi attendeva una perigliosa navigazione tra le penombre delle gole rocciose. Nella lenta risalita verso la luce che scorreva in alto al pari di un serpente dalle scintillanti squame turchesi, la poppa dello naviglio solcava lo buio nel silente sciabordio di una notte liquida. Collo incedere, le pareti a strapiombo allargavano lo soffocante orizzonte, iniziando a far cadere dalle scoscese pareti delle chiome verdeggianti, dai cui anfratti si riascoltava lo gioioso canto della vita.

-        E’ stata una freccia di Patroclo a infilzare quest’uccello per noi.

-        Questo uccello si chiama Frottola delle falesie e non è certo noto per le sue carni saporite.

-        Preferisci la solita sbobba di ratto?

Jeredra fremeva dall’entusiasmo per essere finalmente giunta nella terra degli avi, dove avrebbe incontrato il destino indicatole dal padre zenosta.

-        Lo voglio giovane e coraggioso come lui.

-        Ti sei infatuata di questo parride!

-        Ho incontrato il suo volto in sogno ...

-        Anche lui! Beh, rassegnati perché il tuo sposo sarà un valoroso principe pallacorde.

-        Però somiglierà a Patroclo ... i miei sogni non mentono mai.

La giovane verecondia nicomeda faticava a tenere imbrigliata l’intraprendenza della sua virgo.

-        Hai ben visto quello di cui sei capace, neanche la badessa di Mogul potrebbe fermarci.

-        E’ il mio sangue impuro a degenerare l’aura benedetta delle madonne morre.

-        Sono loro che ti hanno instillato questa credenza e le cose cambieranno quando siederai su quel dannato trono di spine in nome dell’orgoglio lammide.

-        Non riesco a capire cosa intendi ...

-        I falesi mandano i nostri cavalieri al macello mentre i loro clan si spartiscono le rocche con i tommacei.

-        Temo che siano proprio questi pensieri malevoli ad aver generato quell’aura nefasta.

-        Noi saremo le principesse che sovvertiranno l’ordine costituito per condurre all’equo riscatto il sangue dei nostri avi.

L’animo era colto da un moto di gioia quando la speranza, provata dallo travaglio appena patito, ritrovava slancio sulle candide ali delli uccelli. L’avvistamento di taluni attracchi animati dall'operosità delli clan attachi rimasti tra le loro native rocce, consolava dalla solitudine di quelli luoghi, confidando di non starsi ad addentrare in qualche mortifera landa posta allo confine dello mondo. Infine, sull’incedere dello pomeriggio, si levava un alito di vento che gonfiando le vele, affrancava dalla fatica di una vogata che durava da quasi un giorno intero.

-        Dunque, appena avrete abbandonato la nave ... vi dimenticherete di me!

-        Una principessa ha ben altri pensieri per la testa che occuparsi del ricordo di un mozzo di vascello.

-        Ho conosciuto baldracche più sincere di voi ...

-        Oh, Patroclo! Sei solo uno sciocco.

-        Dite bene ... solo uno stupido poteva credere alle vostre lusinghe.

-        Non ti ho mai mentito ...

-        Sono l’amante più focoso che avete mai conosciuto?

-        Per i mille dardi di Hat, sei il solo che abbia mai avuto!

-        Allora sappilo ... non incontrerai mai qualcuno che t’impali sul suo dardo come faccio io.

-        Sei forse impazzito, non vorrai ricominciare ancora!

Sul far della sera si avvistavano le mura di Prospicene, bagnate dallo tramonto che le rendeva dello stesso colore dell’oro. Lo fragoroso cascare delle lamie avvolgeva la Regina delle Acque; tra le rocce ove si piantava lo trono suo, esse scorrevano in un impetuoso incedere di rapide capaci di porre in fallo anche lo piede di un titano. Lo facile attracco nello porto da basso non ingannava certo lo sguardo di chi lasciava lo naviglio per risalire quelle impervie rocce, fino a giungere sullo ponte di accesso alla città.

-        Era! Non senti anche tu il cuore palpitare forte nel petto?

-        E perché dovrebbe? Il mio non ha certo galoppato per tutto il pomeriggio.

-        Il mio cuore scalpita perché quelle sono le lamie della terra nei nostri avi.

-        E quelle sono le mura di Prospicene, dove ha avuto inizio l’esodo e ivi finirà solo quando l’ultimo cablateo sarà tradotto in terra promessa.

-        Solo perché guardiamo le mura dal lato sbagliato ... appena avremo superato il ponte della doganella, esse diventeranno l’ultimo bastione contro l’eresia tommacea.

Si pernottava in qualche locanda del porto nell’attesa di rimettersi in cammino. Prima dell’alba era bene scucire qualche denaro all’oste affinché ti procurasse una guida che conoscesse bene il dipanarsi degli scoscesi sentieri. Alle prime luci del mattino, dopo un riposo incapace di dare ristoro alle membra affaticate, già si risalivano a dorso di mulo i terrazzamenti che conducevano su dei pianori, addentrandosi sempre più in una macchia di floridi arbusti, spesso alti più della chioma di un fitto bosco.

-        Abbiamo pagato per dei muli e vi presentate con degli asini?

-        No, milady ... voi avete assoldato la miglior guida, questi li dovete ancora pagare al locandiere.

-        Ho consegnato una cambiale col sigillo che basterebbe ad assoldare un esercito!

-        E allora siete stata una sprovveduta perché vi sarebbero bastati dieci soldi per avere dei muli al posto di questi asini.

-        Almeno una portantina per la mia virgo, ella non può cavalcare!

La fecondità delle lamie dolci impregnava l’aria della sua essenza che, nell’abbraccio colla luce, iniziava a crepitare nella moltitudine dei colori della vita.  Ardeva nei muschi strisciando tra i sassi, librandosi poi sulle ali invisibili d’innumerevoli animelle e così via a germogliare in vampe sempre più ardenti. Sovente si udiva lo scrocchio di una fiammata che azzannava, nutrendo la meraviglia di arcobaleni minacciosamente sempre più accesi.

-        Santi numi, cos’era quel ruggito?

-        Il tuo cuore non freme più d’incontrare la selvaggia terra dei nostri avi?

-        Batte fin troppo, dopo questo spavento ... era vicinissimo, l’avete udito?

-        La guida mi ha detto che incontreremo presto una stazione di cambio, lì potrai ristorarti.

-        Saremmo già arrivate, se avessi dato un cavalo anche a me.

-        Tu non sai cavalcare ...

-        L’ho fatto così tante volte in sogno che certo potrei insegnarti.

-        Quelli che cavalcavi nei tuoi sogni erano forse ciucchi testardi quanto una virgo dandala?

-        Sono dei Ciucchi! E’ dunque vero che c’è penuria di cavalli da quando i nicomedi hanno rifiutato la chiamata in terra promessa.

Giunti dinanzi alle mura di Prospicene, lo petto si gonfiava in un sospiro nel provare di nuovo la carezza dello cielo sopra la pelle. Dopo essere riemersi dallo abisso, si avea fretta di posare lo piede sullo ponte della Doganella di Ninfa, in un incedere che tratteneva la corsa per riabbracciare quella civiltà abbandonata varcando le rocce del Dentes Anguis, inghiottita da quel serpente scuro che rumoreggiava ancora nell’impetuosità delle acque sottostanti.

-        Assaggia questo pangiallo, è più saporito di tutto il miele delle arnie del Bush!

-        E questi sono i pomi d’oro che nascono in terra nicomeda ... la mia terra.

-        Senti piuttosto la fragranza dell’uvetta speziata!

-        Proviene di per certo da Semiramide ... la turrita del deserto.

-        Sarebbe dunque questo il mondo selvaggio da cui dovremmo fuggire?

Appena il velo scuro della verecondia si presentò alle porte della città, Prospicene fu colta dall’imbarazzo di non essere pronta a offrire la sua proverbiale ospitalità. La notizia si levò in fretta come una brezza che faceva rabbrividire dallo spavento e ad ogni passo condotto dal piccolo drappello di viandanti, per le viuzze strette si udiva un fuggir ramingo di porte sbattute. Sguardi curiosi sbirciavano da dietro le imposte socchiuse, ma ben pochi rimanevano a spiare lo scalpitio del ciucco su cui viaggiava una delle leggendarie madonne mistiche.

-        Svegliatevi, mio divino ... un nesso del governatore in persona vi attende in anticamera!

-        Ah, mi volete forse uccidere? Tirate giù quei paramenti dinanzi alla finestra prima che Apos mi trafigga l’occhio rendendomi orbo.

-        Oh, mio divino! C’è un nesso del governatore, non vorrete farlo attendere ...

-        Santi numi, potrà pure attendere un siffatto arrogante che bussa ai miei appartamenti in piena notte ...

-        Oh, cielo ... non vi avrò seriamente reso orbo, tanto da non avvedervi della luce del giorno!

La vereconda fu condotta dinanzi al palazzo del governo, ivi si spalancarono le imponenti porte e squillarono le trombe d’oro mentre si calavano in fretta dalle finestre i drappi di velluto con le insegne riverasche.

-        Quale onore ... quale grande onore ... grandissimo onore ...

Ripeteva nervosamente l’omuncolo cicciottello che le corse incontro, incespicando più volte nella sua vestaglia da camera rosso vermiglio.

-        Onoratissima, state bene ... e tu non sai manco assistere una dama? Ti farò comminare cinque giorni di consegna ... e anche al vostro capitano! State bene milady?

Era cercò vanamente di mantenere l’opportuno contegno di una vereconda mentre una guardia in pompa magna l’aiutava a discendere dal ciucchino, ma un piede in fallo per poco non la faceva cadere, rischiando di scoprirle il volto premurosamente tenuto celato sotto la cappa del mantello.

-        Questi sono gli appartamenti della primavera, affrescati dal Lazzarino di Ramì ... presto tirate via i paramenti dalle finestre, cosa aspettate!

Una vereconda non rivolgeva mai la parola a chi non fosse stato designato dal suo ufficio, dunque Era si limitò a tirar via una mano dalla manica del mantello per dare il suo assenzio ad essere guidata dal ciambellano.

-        Tu non ti sei potuta avvedere della faccia di quel lacchè quando ha veduto la mia mano nicomeda.

Il ciambellano si affrettava davanti al corteo cerimoniale spalancando personalmente le grandi porte dagli ornamenti dorati per farvi sortire la portantina presa in consegna dalle guardie di palazzo.

-        Onorabilissima vereconda ... prego prima voi ... questi sono i migliori appartamenti del palazzo.

Le suntuose stanze del palazzo avevano le pareti altissime e i soffitti finemente affrescati. Quelle dove furono condotte le ospiti, erano le più belle del palazzo. Le ampie finestre davano sulla meraviglia verdeggiante sottostante, dove si gettavano fragorosamente le lamie, generando fiammeggianti arcobaleni quasi perfettamente tondi.

-        Stupida falleda ... richiudi quelle finestre o il vento inzupperà le vesti delle nostre ospiti.

La giovane inserviente era stata appena assunta a palazzo e non sapeva ancora che le finestre avevano tutte una doppia apertura che serviva a far entrare la luce e trattenere il fragore assordante delle cascate.

-        Perdonate questa sprovveduta ... purtroppo c’è penuria di manodopera e  anche qui dobbiamo attingere maestranze dai clan zoticoni falledi.

Il ciambellano si congedò non prima di aver dato precise disposizioni all'inserviente. Fu preparato un bagno aromatico nelle piccole terme del palazzo e al ritorno nelle loro stanze, le ospiti trovarono una radiosa tavola imbandita, dalle cornucopie traboccanti delle migliori delizie provenienti da ogni angolo delle terre cablatee.

-        Burro di nocciole scquittere!

-        Jeredra ... hai ragione ... bisogna essere dei folli per abbandonare questo paradiso.

-        E tu che non credevi ai miei sogni ... te lo avevo detto,  al collegio ci hanno sempre mentito.

Intanto nella suntuosa camera del sommo poeta Gaudio Uttilio dei pallacordi lammidi, detto il fiore radioso delle steppe, si stava consumando una piccola tragedia.

-        Ah, sei forse impazzito? Indossare il viola di prima mattina, che scempiaggine ... passami la palandrana gialla.

-        Mio Divino, la lavandaia non l’ha ancora riconsegnata la palandrana gialla.

-        Dovrei forse conferire con un' illuminata vereconda di Mogul colle braghe?

-        Mio Divino, c’è anche la palandrana di broccato blu con il collo di pelliccia che vi piace tanto ...

-        E certo, mi presenterò come un rude cacciatore a colei che potrebbe porre in rovina Prospicene?

-        Che ne dite di quella vermiglia con ...

-        Sono rovinato e l’intera stirpe si prepari alla sciagura ...

-        Questa fucsia con i paramenti di seta gialla?

Ogni memoria dei clan cablatei era riposta nella favella del poeta, che ne faceva degli eruditi al cui saggio consiglio lo straniero si appellava per l’intercessione presso le venerande madri. I suoi versi barocchi ammansivano l’orecchio e al contempo sapevano infervorare l’animo con sferzanti invettive, finanche capaci di condurre dei cavalieri in battaglia.  La loro arte oratoria valeva bene quella di maneggiare una spada ed era questa a renderli celebri presso le ricche corti Falesi.

-        Mio Divino, le scarpine di vernice le ho mandate a risuolare ...

-        Mi chiedo perché ti tengo ancora a servizio, se non sai neanche occuparti delle minime incombenze.

-        A tal proposito, mio infinito benefattore, ci sarebbe da pagare la lavanderia con il ciabattino.

-        Ah, come se avessi tempo di occuparmi di siffatte amenità, infilami piuttosto le scarpe colla tomaia nera.

Il sommo poeta Gaudio Uttilio era solo uno dei tanti diplomatici che popolavano la ricca corte del palazzo governativo prospicense. Chiunque conducesse affari in terra cablatea aveva bisogno della loro mediazione per ricevere udienza dal governo della città. Il poeta raccoglieva anche le istanze di giustizia, che traduceva in versi lirici per rendere la verità più conveniente ai suoi clienti. Ogni clan inviava i propri talenti presso il ginnasio di qualche illustre poeta di Prospicene, munendoli di un appannaggio al fine di accrescere la propria influenza nel palazzo governativo.

-        Permettetemi d’introdurvi il fiore delle steppe cablatee, l’onorevole poeta Gaudio Uttilio dei pallacordi lammidi.

Il cerchio magico riverasco che reggeva il governo di Prospicene era una diretta emanazione del Geda Sororum, che ne decideva le sorti in ogni momento. Alla vereconda giunta in città fu quindi assegnato di tutta fretta il più accreditato tra i poeti sulla piazza. Nel nervoso silenzio dei corridoi di palazzo c’era trepidante attesa di ascoltare quali fossero le ragioni per cui la badessa aveva inviato quel suo nesso.

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  • 3 months later...
Silverselfer
Spoiler

Questo racconto mi è costato tanto lavoro e un sacco di tempo ... come del resto anche gli ultimi due perché di fatto li ho scritti senza sapere prima cosa andassi a scrivere. Sono nati tutti da una manciata di appunti sulle differenze tra l'arte di un poeta e quella di un menestrello ... 

In particolare, quest'ultimo racconto l'avrò riscritto almeno cinque o sei volte e siccome contiene un loop temporale, mi si è allungato uno sproposito e oramai carezzavo l'idea di abbandonarlo, tanto mi si torcevano le meningi ogni volta che ci mettevo mano. 

I loop temporali sono infidi perché ogni volta che cambi un dettaglio, si crea un effetto domino che ti costringe a limare tutte le sboccolature che si vanno a formare. Insomma, dopo mesi e un lavoro certosino, credo di avergli dato una forma godibile.

Tra l'altro, riflettere tanto su questa storia, mi ha permesso d'inquadrare meglio tutto il contesto ed ora posso dire che questa raccolta prepara l'avvento della regina Semiuk ... ma siccome ora sono proprio esausto, rimando il prossimo racconto in autunno.

Riguardo invece alla colonna sonora per questa storia, ho scelto questo brano anche per l'immagine di copertina, il cui volto rappresenta per me  il giovane Rostiglione ...

E' tutto ... ci risentiamo a settembre! 

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Il Maleficio delle Piume di Cristallo

 

I

I teatri offrivano il proscenio ai giovani poeti senza mecenate che declamavano in pubblico i loro versi per guadagnarsi da vivere. L’arena circolare al centro degli spalti richiamava i cittadini, in particolar modo quando diveniva l’agone di una qualsiasi contesa cantata in versi. Era appena accaduto a René che si accendesse la disputa tra un popolare poeta gollode e il mercante quataro proprietario di alcune terme cittadine, dove viveva l’oggetto del loro fervente amore. Le affilate rime del poeta avevano finito per acuire i rancori striscianti tra la nuova stirpe falleda e i vecchi padroni falesi, costretti a concedere sempre più libertà a quei discendenti dei loro concubini lafrodi.

Accadde una sera, dopo l’abituale spettacolo. Nel silenzio notturno riecheggiava ancora lo scroscio degli applausi e il poeta gollode andava raccogliendo con una lampada a olio le piastre di ferro lanciate sul palco. Quando la luna appena sorta dal ciglio dell’ultimo anello degli spalti, gli fece volgere lo sguardo al cielo, fu allora che nel suo orecchio si cacciò un inquietante frullo d’ali. Il brivido della paura corse via lungo la schiena del poeta e rapido si apprestò verso l’erta scalinata che discendeva fin nel portico d’accesso al teatro, dove udì di nuovo quel frullo d’ali come fosse un tintinnare di cristalli.

“Chi va là?” Chiese al buio che se ne rimase in silente attesa dei suoi passi. Alzò dunque il lume per schiarire quello che gli parve il timore di un fanciullo e s’immerse nell’oscurità con l’incedere dello spavento che lo sospingeva in avanti. Vedeva oramai la flebile luce notturna filtrare dal porticato, quando gli si parò dinanzi una sagoma scura e incappucciata che per tre volte gli volò incontro attraversandolo come fosse uno spettro. Colto da un convulso di spavento, il poeta fuggì lasciando cadere la lampada che rivoltandosi sparse la fiamma sulla piccola pozza d’olio fuoriuscita. Solo una volta in strada, egli si voltò per guardare in faccia il terrore che lo inseguiva, accorgendosi di stare udendo il crepitio d’ali di una fenice che avvampava, alzando il suo volo nel cielo notturno con le fiamme che iniziavano ad avvolgere il teatro.

-        Lo funesto incendio è imputato allo poeta Rostiglione che preso dalli pensieri per le sue malevole rime, maldestramente pose il piede in fallo, lasciando cadere la lampada ad olio.

Rostiglione era il giovane poeta gollode che si era innamorato perdutamente dell’irresistibile bellezza di Palmira, una vestale catacumena condotta in città da Pastranò, il mercante quataro proprietario delle più lussuose terme cittadine.  

-        Si dispone lo ritiro della patente per lo esercizio dell’arte sua.

Pastranò aveva pagato cento piastre d’oro per la bellezza esotica della sua vestale e non l’avrebbe certo resa gratuitamente all’amore di un poetastro di strada. La vicenda della giovane catacumena prigioniera dell’avarizia quatara acquisì in tal modo delle assonanze con la condizione da cui provenivano i lafrodi progenitori del sangue gollode. 

-        Si rimandano allo saggio consiglio dello Cerchio Magico Gollode i termini della sentenza restrittiva sull’ufficio dell’arte sua.  Lo poeta è altresì condannato all’ammenda de cento piastre de ferro e cento de argento pe’ li danni cagionati allo impresario teatrale quataro.

La saggezza gaddea suggeriva di dirimere le questioni prima che si manifestassero e questo aveva indotto i quatari a filtrare in un nuovo cerchio magico il sangue meticcio generato tra la loro nobile stirpe falese e quella insulsa dei lafrodi falledi. L’incerta stirpe del nuovo clan escludeva i gollodi dalle cariche pubbliche cittadine e di questione in questione, i due clan contrattavano una soluzione che non favorisse troppo uno dei contendenti.

-        In nome dello equo diritto chiamato a sopraintendere lo quieto vivere dei fondachi quatari, per la sua condotta sobillatrice, si combina lo bando alla vestale Palmira dei Catacumeni Lammidi.

Il processo tenutosi per l’incendio del teatro aveva l’intento di chiudere la contesa tra Pastranò e Rostiglione. Il mercante quataro aveva ottenuto il silenzio dell’avversario, pur dovendo perdere i servigi della sua preziosa vestale, mentre l’amore del poeta gollode sarebbe stato risarcito da una fulgida carriera presso la corte di quello stesso tribunale.

-        Lego con questo nastro di seta il mio cuore al tuo polso ...

Il profondo amore di Rostiglione non gli permise di abbandonare al suo destino la bella Palmira e decise di seguirla nell’esilio. Pagata l’ammenda dovuta per l’incendio al teatro, al giovane gollode rimase giusto il necessario per acquistare un carro coperto e il mulo per trainarlo. I due celebri amanti si ridussero così a vivere del poco che poteva offrire l’arte di un menestrello.

-        Arriverà il giorno in cui sorbiremo la giustizia dal dolce calice della vendetta.

L’ostracismo quataro li costrinse ad avventurarsi sulle vie più remote delle terre cablatee. Il canto di Rostiglione ora doveva inseguire il piacere della danza nei lupanari, spuntando l’obolo con versi quanto più licenziosi. La frustrazione dell’artista si ristorava nel desiderio di riscatto che spingeva Rostiglione a incontrare l’arte di poeti mai ascoltati prima, allo scopo di arricchire il proprio canzoniere e con quello, un giorno conquistare la corte liberale di Prospicene.

-        A quale livrea apparterranno siffatte piume di cristallo?

Era successo durante la bisboccia in un lupanaro che un cacciatore dandalo s’invaghisse dei begl’occhi lafrodi del menestrello. Cantarono allegramente e Rostiglione spuntò birra e companatico anche per la sua amata. Il poeta non ebbe dubbi sulla benevolenza di quel brutto ceffo, finendo per confidargli ogni sua vicissitudine. Il dandalo gli propose dunque di presentarsi a suo nome presso un grande poeta che viveva sulle montagne del Landsberg. Solo al momento di salutarsi, il menestrello fu insospettito dall’inusitata generosità del cavaliere errabondo, che gli cedette persino il suo bellissimo mantello piumato per proteggersi dal freddo durante il viaggio che lo attendeva.

-        Mi chiedo quale servigio ti abbia reso un così prezioso dono ...

Si domandò Palmira, ma la sua gelosia si sciolse quando l’amante gli pose il mantello sulle spalle e, rapito dalla sua bellezza, fecero all’amore per tre giorni e tre notti sotto la tiepida carezza di quella brillante livrea di piume. Tanta passione riaccese la speranza nel futuro che cominciò ad ardere il loro presente, spingendoli sulla via indicatogli dal cacciatore dandalo per andare a trovare Jacek, il sommo poeta capace di declamare versi dolci come il miele di betulla.

II

Jacek il poeta viveva tra gli houtkappers, che era una piccola comunità di boscaioli originata dal sangue tarocco onofrio. Quella non era ancora la stagione migliore per avventurarsi tra quelle selve poste all’estremo nord del Landsberg, poiché il tiepido sole primaverile non riusciva a scaldare il soffio gelido che scendeva dall’imponente Criniera di Vesta. Il sangue catacumeno di Palmira, ancora prima di giungervi, era stato colto da un’insolita indisposizione ...

-        Quale fausto destino ci starà mai conducendo tra quest’odiosa sabbia ghiacciata?

La strada poco battuta era accidentata dalle pozzanghere del disgelo che acuivano i sintomi del malessere di Palmira, costringendola a chiedere di scendere continuamente dal carro. La sciantosa del menestrello, indisposta nel corpo e nello spirito, prima di rincantucciarsi nel tepore del bel mantello, ogni volta pungeva col suo sarcasmo il nocchiere della propria sorte.  

-        Per tutte le lamie del mondo, affrettati!

Palmira non era solita attardarsi nei suoi bisogni ma Rostiglione era preoccupato dal sopraggiungere misterioso di cantilene al suono di tamburelli sciamanici. Chiamò Palmira più volte e quando una strana processione comparve dalla bruma della sera, tirò le redini del mulo per togliere il carro dalla strada e dirigerlo sul sentiero dove l’aveva vista scomparire.

-        Quale incantevole visione!

Procedendo su quel sentiero appena distinguibile tra gli alberi, si giungeva a una radura nel cui prato fiorito affiorava un piccolo stagno. Lo specchio d’acqua cristallino si allargava sotto le fronde di un gelso nero dal tronco contorto, che vi faceva baluginare la luce del cielo come fosse una pioggia di brillanti.

-        Palmira ... sei davvero tu?

A Rostiglione parve di scorgere la figura di Palmira adagiata sull’erba, ma le piume di cristallo del suo mantello riflettevano in tal modo il baluginio delle acque, da apparire come uno sfolgorio dalle mille sfumature cangianti, tanto che Rostiglione dubitò di aver sorpreso una lamia boschiva venuta fuori dal suo ninfeo.

-        Dovrei forse diffidare di quanto vedono i miei occhi?

Rostiglione era intimorito dall’incombente litania che pareva seguirlo e avrebbe preferito tirar dritto per la sua strada, ma non poteva proseguire senza Palmira e quindi scese dal carro per accertarsi che quella visione non fosse solo un miraggio.

-        Palmira, sei tu?

Le domandò, confidando in una risposta che fugasse ogni suo dubbio. “Mio Amato!” Esclamò lei, accorgendosi della sua presenza solo dopo che egli trovò il coraggio di allungare una mano verso lo sfolgorio del mantello. “Ti stavo aspettando” Rostiglione non era neanche certo di aver sfiorato veramente quella figura spettrale. “Assapora che delizia!” Palmira volse lo sguardo tra i rami di gelso, su cui maturò la prima bacca della stagione che le cadde direttamente in palmo di mano.

-        Se indugerai ancora, la notte ci sorprenderà nel bosco!

Il menestrello cercò in ogni modo di dissuaderla dal rimanere in quel luogo. “Sarebbe scortese rifiutare l’invito di questa brava gente” Palmira aveva di certo perso il senno perché non c’era nessuno oltre a loro due sulle rive di quello stagno. “Ecco, li vedi?” Disse indicando dei villici che disponevano le ceste colme di cibarie attorno al gelso nero per quella che pareva una festa sacra. 

-        Presto, va a prendere il liuto e unisciti a loro per rifocillarti ...

L’ultimo fendente di luce che filtrava tra le fronde del gelso secolare, tramontò in quel momento, spegnendo lo sfavillio delle piume di cristallo. “Palmira, dove sei?” Le piume del mantello erano tornate trasparenti come lo specchio d’acqua, riflettendo parimenti le ombre della sera. “Palmira!” Rostiglione vide scomparire la sua dolce colombella mentre si calava la cappa del mantello sul capo.  

-        Ehilà, brava gente!

I gollodi avevano abbracciato il culto di Hat dei falesi gaddei e Rostiglione non credeva alla magia delle lamie sciamaniche. Gli era stato insegnato che nelle sue vene aveva prevalso il nobile sangue quataro ed era solo per malevolenza, se i falesi ritenevano i gollodi ancora dei falledi. Lui non dava credito alle strambe storie ascoltate dalla bocca delle trisavole lafrodi e si disse che era stata certo la fame che gli abbrancava le budella ad avergli giocato quella brutta allucinazione.

-        Ehilà, brava gente ...

Quelli che si presentarono come dei pellegrini houtkapper giunti a onorare lo spirito del loro ceppo verecondo furono molto ospitali con il menestrello, riservandogli il posto d’onore intorno al falò. La sciamana che ne guidava le danze sotto il gelso nero, gli porgeva dei deliziosi bocconcini di carne speziata, mescendo la birra d’orzo direttamente tra le sue labbra. Il banchetto si protrasse fino a notte inoltrata e Rostiglione, completamente ebbro, si ritrovò a brache calate tra le cosce della sciamana.  I villici continuarono a suonare i tamburelli fumando arnica montana, anche dopo che il menestrello cadde esausto sui procaci seni della donna.

-        Che senso avrebbe proseguire il mio viaggio senza la stella che ne conduceva il cammino?

“Dall’alito del non morto dandalo che incontrasti, proferì il maleficio di cui era pregna la sua carne putrefatta” Il menestrello aprì il suo cuore alla sciamana, rivelandole del dandalo incontrato nel lupanaro, del mantello ricevutone in dono e del dolore patito per la misteriosa scomparsa di Palmira. “La sua tomba era nei fondali limacciosi di questo stagno, da cui risorgeva per seminare il terrore tra i villici” La sciamana gli narrò della ferocia del cacciatore dandalo. “Rubò quel mantello magico per sfuggire alla maledizione della luna nuova” Rostiglione domandò anche di Jacek, ma appena pronunciò il suo nome, tutti quelli intorno al falò sputarono nella brace. “Jacek è lo sciamano che ordì il maleficio in cui cadesti” Fu su indicazione di Jacek che il non morto dandalo pose il suo mantello sulle spalle di Rostiglione. “Risolvi le tue pene, abbandona questo luogo” La sciamana lo indusse in un sonno profondo cantando una litania magica, con cui lo esortava a proseguire sul sentiero del suo destino nel mondo.

III

-        Palmira ... Palmira ... mia amata, dove sei?

Il mattino dopo, Rostiglione si risvegliò con le membra intorpidite come se stesse risorgendo dal proprio sudario. Fu colto allora da una desolante solitudine e prese a urlare il nome della sua dolce colombella, spargendo nel bosco gli echi spaventosi di un’incommensurabile pena.

-        Quella era solo una bagascia da quattro soldi ...

Vide poi spuntar fuori dalla boscaglia una pazza che andava biascicando le sue farneticazioni.

-        Ehi tu, non ti stanchi mai di ragliare?

Gli disse spazientita la matta. “Avete forse veduto una fanciulla nel bosco?” Domandò Rostiglione inseguendo l’accattona che razzolava tra i resti del falò, sbocconcellando qualche avanzo.

-        Se l’avesse sbranata il grigione con cui hai banchettato, ora si troverebbe nelle tue budella ...

Gli ghignò in faccia mentre riattizzava la brace rimasta viva sotto la cenere e contenta come una bambina si fregò le mani, deliziata dal tepore che ne venne.

-        Se continuerai a usare il tuo scopo come un’ascia per abbattere il mio albero, guarderai nella verità che cade solo ciò che vuoi credere.

Dalle farneticazioni dell’accattona iniziava a trapelare del senno che disorientava ancor più della sua follia.

-        La malasorte arriva su due gambe, uno dei piedi appartiene alla verità in cui non vuoi credere e l’altro alla convenienza che t’induce ogni volta in fallo.

Se non erano solo delle fantasie le storie ascoltate dalle sue trisavole lafrodi, quella donna poteva essere uno dei tanti riflessi spettrali rimasti intrappolati nello specchio d’acqua.

-        Rassegnati alla verità in cui non vuoi credere e scoprirai il sentiero capace di condurti via.

La speranza di riabbracciare Palmira si sciolse, abbandonando i suoi pensieri con lacrime amare quanto il fiele.

-        Languire nella pena non ti restituirà ciò che hai irrimediabilmente perduto.

Questa consapevolezza lo feriva col fil di lama di una verità per troppo tempo celata nel suo cuore.

-        Ficcatelo in quella zucca vuota, il non morto ti ha buggerato e la sciantosa è volata nello stagno poiché le hai posto sulle spalle il tuo mantello di piume.

Mille volte maledetto doveva essere quel demone di un dandalo che aveva mentito sull’arte di Jacek per condurlo in quel bosco, dove il maleficio del mantello gli aveva sottratto Palmira.

-        La mia unica colpa è di essermi lasciata ingannare dalle cantilene dello sciamano benastro.

Disse laconicamente la donna, anticipando il dubbio che andava formandosi tra i pensieri di Rostiglione ...

-        Sono lo spirito di questo ceppo verecondo e i pellegrini si ristorano alla mia ombra per ricevere risposte cui non mi posso sottrarre e per quanto sia triste, è la verità che senti frusciare tra i miei rami.

La verità che aveva ascoltato la notte prima dalla bocca della sciamana, sosteneva che Palmira era prigioniera in fondo allo stagno, costretta nel maleficio che un tempo condannava il non morto dandalo.

-        Povera me, io non so nulla di stregonerie, come potevo intuire il maleficio che condusse la tua sciantosa sulle sponde del mio stagno?

La pazza si tenne forte alla verga su cui usava appoggiare i passi perché ben conosceva l’ira che stava per cogliere il menestrello.

-        Restituiscimi Palmira o per tutte le cuspidi di Hat, compirò il tuo destino prima del tempo.

Rostiglione prese a scuoterla con tutta la forza che aveva nelle braccia, ma la donna era solida quanto il ceppo del suo albero.

-        Infida maliarda, assaggerai la lama della mia scure.

Il menestrello corse a prendere nel carro la sua ascia e piazzò un colpo nel fusto del gelso nero, da cui schizzò subitaneamente del lattice urticante.

-        Se raggiungi la tua colombella in fondo al mio stagno, rimarrete uniti per l’eternità ...

Se Rostiglione si fosse tuffato nello stagno per raggiungere Palmira, sarebbe rimasto per sempre prigioniero di quell’attimo insieme alla sua amata.

-        ... ma se non vuoi affogare in una verità che già conosci, volta le spalle all’irreparabile e prosegui sulla strada del tuo destino.

Rostiglione decise di proseguire sul sentiero del suo destino, anche se la coscienza di abbandonare l’amata colombella tratteneva i sui suoi passi e si sentì spezzare irrimediabilmente il cuore quando gli voltò le spalle.  

IV

Lontano dal ninfeo, Rostiglione iniziò a dubitare delle parole udite dalla folle. A ragion veduta era più assennato credere di essere finito in una combutta ordita dal suo acerrimo rivale.

-        Il cacciatore dandalo e lo sciamano benastro agivano per conto di Pastranò.  

Rostiglione rimuginava gli indizi, andandoli poi a sistemare nella congettura che Palmira non era rimasta vittima di un fantomatico maleficio, bensì era stata rapita per conto di Pastranò e per scoprire dov’era stata condotta, avrebbe dovuto interrogare Jacek.

-        Stavo per abboccare all’inganno di quella folle come uno sciocco saltainbecco.

A tardo pomeriggio incrociò una locanda del villaggio houtkapper e decise di fermarsi per spuntare la cena.

-        Suona pure il tuo liuto se credi, ma questa è la notte di plenilunio e nessuno si arrischia in strada per venire a far bisboccia.

Gli disse l’oste asciugandosi nervosamente le mani in uno strofinaccio. Rostiglione riascoltò dalla sua bocca la storia del non morto dandalo e cercò di cacciare in fondo alla mente il ricordo forsennato di quanto doveva ancora accadere. Lui non sarebbe dovuto essere in quel luogo prima che il dandalo rubasse il mantello allo sciamano benastro!

-        Jacek si è nascosto nel suo eremo.

I maldestri incantesimi procurarono allo sciamano il dispetto dei villici houtkapper che lo volevano impiccare per aver attirato su di loro la vendetta del non morto.

-        E’ colpa del suo dannato mantello, se in questo villaggio non si distingue più la gente in carne ed ossa dagli spettri.

Le ultime parole del locandiere fecero riemergere dalla memoria di Rostiglione un monito ascoltato quando era fanciullo: «Non ci si riflette negli specchi d’acqua perché il tuo spirito vi piomberebbe dentro, diventando uno spettro tra gli altri spettri del passato».  

-        Se ci consegnerai il suo mantello, le tue gesta saranno ricordate nelle canzoni.

Rostiglione poteva avvertire Jacek di quanto sarebbe accaduto, impedendo in tal modo che Palmira finisse nello stagno. Ingannò dunque l’oste sulle sue reali intenzioni, convincendolo a farsi dire come trovare lo sciamano.

-        Sei tu Jacek lo sciamano benastro!

Quando partì all’alba del mattino seguente, l’oste lo salutò ammonendolo con mille cautele poiché il maliardo aveva tessuto tali incantesimi intorno al suo eremo, che già altri si erano perduti tentando la stessa impresa.

-        Ora conosco l’origine di ogni mia sventura.  

Rostiglione non incontrò alcun impedimento seguendo le indicazioni datogli dall’oste, ma a metà percorso si prese un grande spavento imbattendosi in un grigione. La bestia bramiva minacciosa restandosene però sul ciglio della strada. Il mulo del suo carro parve non avvedersi di nulla e gli sfilò pericolosamente accanto procedendo come nulla fosse.

-        Ti ho veduto la notte dell’incendio al teatro ...

Rostiglione fissò con lo sguardo gli occhi della bestia e questa si ammansì, iniziando a seguire il carro. D’improvviso, la palpitazione del cuore gli sconquassava il petto e appena ebbe questo violento turbamento, udì anche il frullo d’ali misterioso e il tintinnare di cristalli ascoltato la notte dell’incendio al teatro ... immediatamente dopo apparve in fondo alla via l’eremo dello sciamano.

-        Sei sempre stato alla mercé di Pastranò.

Non ebbe più alcun dubbio quando gli si parò dinanzi la sagoma scura e incappucciata di Jacek. Era stato lui a incendiare il teatro e sempre per conto del suo rivale, ne operò l’estrema vendetta?

-        Consegnasti tu il mantello al dandalo affinché mi traesse in inganno.

Le certezze di Rostiglione bramivano ferocemente e il maliardo pensò bene di correre al riparo dietro la porta sprangata del suo eremo.

-        Benedetto figliuolo, per il vero, nella notte dell’incendio ti corsi incontro per ben tre volte tentando di non farti mettere il piede in fallo.

Nessuna ragione dello sciamano benastro poteva più forviare le convinzioni di Rostiglione.

-        Benedetto figliuolo, per il vero dissi al dandalo di affidare il mantello a un meschino lafrode.

La verità di Jacek faceva montare ancor più la rabbia nel cuore di Rostiglione.

-        Benedetto figliuolo, per il vero mi accusi di un delitto compiuto dallo spirito del gelso nero.  

La furia di Rostiglione divenne incontenibile e irruppe nell’eremo spazzando via qualunque cosa gli si parasse dinanzi.  

-        Benedetto figliuolo, per il vero tu sei lo spettro fatto rivivere nelle carni del grigione e nulla hai a spartire col gollode trattenuto nel maleficio dello stagno.

Dalla bocca di Jacek sarebbe venuto fuori anche il resto della verità, se una zampata non gli avesse appena tirato fuori le budella ...

-        Che stregoneria è mai questa? 

Appena si avvide dell’assassinio commesso, Rostiglione si scoprì imprigionato nel corpo del grigione, ma la sorpresa più grande fu scorgere lo spettro di se stesso abbandonarlo.

-        Padre mio, senza la vostra carne, lo spettro continuerà a tornare nell’incanto in cui si riflette.

Scorse poi un fanciullo nell’angolo della stanza. Aveva sugli occhi una benda che pure non sembrava impedirlo nei movimenti, almeno non quanto la catenella legata alle sue caviglie.

-        Padre mio, mettetevi sulle sue tracce o smarrirete la via per il gelso nero.

Il fanciullo non temeva il feroce grigione e gli si rivolgeva chiamandolo padre mio. Lo salutò carezzandogli il capo prima di sfilare il mantello da sopra il cadavere. Poi Rostiglione lo vide indossare la sfolgorante livrea con un tal abile gesto, che gli parve di vedere un uccello librarsi in volo in un tintinnar di cristalli.

V

Il grigione vagò nel bosco per mesi cercando di ritrovare lo spettro di se stesso, fin quando la notte invernale calò la sua coltre buia e gelida sulle montagne del Landsberg, costringendo la belva a rintanarsi nel fondo di una grotta. Oramai Rostiglione stentava a riconoscersi nell’infausta forma del maleficio che lo colse e si addormentò tremebondo con la speranza di non risvegliarsi mai più.

-        E tu che ci fai ancora vivo?

Si sarebbe detto che il calore lavico dell’Inn avesse oramai abbandonato il suo cuore, quando Rostiglione si sentì rintuzzare il fianco dalla punta di un bastone e per qualche istante pensò di risvegliarsi da un brutto sogno.

-        Per le mille saette delle Hurie tempestose, anche lo spettro è di nuovo qui!

Era stata la folle a trovarlo nella grotta, costringendolo poi a seguirla a suon di bastonate, quando iniziarono a diffondersi nel bosco degli echi di un richiamo agghiacciante, che facevano ammutolire persino il canto dei passeri.

-        Quella sciamana era buona solo per togliere il malocchio alle vacche.

Giunti nei pressi dello stagno, il grigione riconobbe a chi apparteneva la disperazione impressa in quel richiamo ...

-        Perché ti fermi?

Lo ammonì la pazza, agitando minacciosamente la verga in aria ... ma poi scorse qualcosa negli occhi del grigione e stava quasi per cacciarglieli via con le sue dita bitorzolute, mentre vi scrutava dentro le immagini dei trascorsi che le erano stati preclusi dal nuovo corso degli eventi.

-        Povera me, il malandruccolo è tornato e mi ha già sottratto il mantello!

Si disse spaventata prima di rimettersi in cammino, puntando violentemente il bastone in terra per dare vigore ai suoi passi. Rostiglione la seguì cautamente e quando fu sul ciglio della radura in cui affiorava lo stagno, rimase nascosto nella boscaglia per spiare con lei quanto stava per accadere.

-        Per le mille saette delle Hurie tempestose!

Esclamò la pazza, quando vide apparire il fanciullo bendato in un turbinio scintillante, che catturò poi nella miriade di riflessi lo spettro del menestrello, giunto a cercare la sua Palmira.

-        Il malandruccolo è cresciuto e ora sa ben usare i sortilegi del mantello piumato!

Si levò dunque un coro gracidante che richiamò il fanciullo sulle sponde dello stagno. Egli stese il mantello sull’acqua, affidandolo in tal modo alle ranocchie che vi emersero per prendere in consegna la livrea sfolgorante e ricondurla nei meandri delle acque.  

-        Egli ha già spento la fiammella di Jacek e ora vorrà recidere anche il ramo del fato in cui radica il mio ceppo.

Dopo aver restituito il mantello alle acque, il fanciullo scomparve in un lampo che tuonò nel ciel sereno. Lo spirito del gelso nero era proprio sconsolato mentre abbandonava il nascondiglio tra la boscaglia, biascicando la sua follia al grigione che ne seguiva i passi.

-        Se non fossi già matta, impazzirei ora che ho veduto l’impossibile.

Allo spirito del gelso nero si torcevano le meningi nel tempo in cui cercava di mettere ordine negli accadimenti per comprendere l’occulto che vi si celava. L’esito dell’esorcismo svoltosi l’anno addietro non era più come se lo ricordava. Lo aveva scorto negli occhi del grigione, in cui era riposta la memoria di un altro corso che ebbero gli eventi.

-        Povera me, che patii per anni i colpi di scure dello spettro evocato dalle perfide Damigelle.

Erano quasi cento i pleniluni di primavera in cui aveva veduto sopraggiungere lo spettro del menestrello in cerca della sua sciantosa. Ogni anno la sua scure minacciava il ceppo del gelso nero e per questo lo spirito aveva accettato l’aiuto di una sciamana per esorcizzarlo.

-        L’infido Jacek confidava nella sua scure per tenersi le mie piume ...

Prima di divenire lo spirito del gelso nero, quella fu la principessa tarocca Ebergund che dette inizio al piccolo clan degli houtkappers unendosi a del sangue onofrio. I suoi discendenti si tramandavano la triste storia delle sue nozze, in cui fu umiliata da una perfida ancella che fuggì insieme al promesso sposo.

-        Infido e bugiardo come tutti i benastri, fin dal principio m’ingannò per appropriarsi del maleficio contenuto nelle penne dalla punta di cristallo.

Era tradizione che una principessa chiedesse al primo padre dei suoi figli un pegno d’amore da custodire come eredità di tutto il nuovo clan. Il giorno del proprio matrimonio, Ebergund ricevette le variopinte penne dalla punta di cristallo della lucertola alata appartenuta allo sposo onofrio, e solamente quelle le rimasero dopo che egli fuggì con la sua ancella. Ebergund le conservò in uno scrigno e le maledisse ogni giorno del resto della sua vita, fino a quando non si ammalò di una febbre nervosa che la indusse nella pazzia.

-        Gli intrugli di quello stolto sono stati la mia sciagura ...

Le matriarche houtkappers interpellarono i più noti guaritori benastri per alleviare la malinconia che affliggeva la loro veneranda madre. Fin quando giunse Jacek che promise di restituirle la serenità perduta, stillando via il fiele che le avvelenava il cuore. A tale scopo, Ebergund accettò di farselo pungere con la punta di cristallo delle penne custodite nello scrigno maledetto. Attesero dunque il plenilunio per recarsi nel bosco, dove Jacek fece bere a Ebergund un intruglio prima di conficcarle ogni punta di cristallo nel petto. Dal prosperoso seno zampillò tanto fiele da formare quello stagno ai suoi piedi, in cui lo scrigno maledetto sprofondò mentre le membra di Ebergund radicarono all’istante, tramutandola nel gelso nero.

-        Nel fondo limaccioso dello stagno languono troppi spiriti che ora insidiano il mio tesoro.

I villici avrebbero impiccato Jacek, se non avesse reso al clan il fulcro del loro cerchio magico. Fu così che lo sciamano promise agli houtkappers di tramutare il gelso nero in un ceppo verecondo, ma avrebbe avuto bisogno di molto sangue lafrode per schiarire le acque dello stagno, rese torbide e venefiche dal fiele di Ebergund. I guaritori benastri ritenevano i lafrodi delle bestioline magiche discese dalle misteriose selve poste sopra la Criniera di Vesta.  Questi non si facevano scrupoli a sgozzarli per ricavare intrugli prodigiosi dal loro sangue profumato. Jacek ne acquistava a caro prezzo da un cacciatore dandalo di sua conoscenza e gli houtkappers se ne fecero consegnare uno a ogni plenilunio.

-        Lo stolto benastro credeva di poter versare il sangue di tanti lafrodi senza che questo mi si rivoltasse contro?

I villici si recavano in processione nel bosco, dove al suono dei tamburelli sciamanici attendevano il dandalo che appendeva il malcapitato per i piedi a un ramo del gelso nero; allorché Jacek invocava Amira per benedire il pugnale che lo avrebbe sgozzato, lasciando poi che il suo sangue scolasse nelle acque limacciose fino al sopraggiungere dell’alba, quando la fune veniva recisa e il corpo esanime cadeva in un tonfo nello stagno. Ci vollero molte animelle lafrodi per schiarire quelle acque avvelenate dal fiele di Ebergund, ma alla fine divennero limpide quanto una lamia benedetta e le radici del gelso nero che se ne abbeveravano, restituirono agli houtkappers lo spirito della loro veneranda madre. 

-        Il malandruccolo lafrode ora cercherà di tenersi il mantello come già fecero in molti.

Lo spirito del ceppo verecondo fu presto tormentato dal gracidio di singolari ranocchie che presero a popolare le sue insalubri acque. I villici le avevano chiamate Damigelle perché parevano cantare le lodi della loro veneranda madre, per il vero la accusavano dei suoi delitti ed Ebergund chiese nuovamente aiuto allo sciamano benastro per farle scomparire dallo stagno. I girini notoriamente si formavano nelle acque lacustri*, ma essendo venefiche quelle dello stagno di Ebergund, Jacek intuì che le Damigelle nascevano per il vero dal sangue dei tanti lafrodi sgozzati. Al fine di placare il loro canto di vendetta, avrebbero dunque dovuto seppellire nello stagno il cacciatore dandalo, che aveva catturato i lafrodi sacrificati durante il rito della luna nuova.

-        Le Damigelle hanno preso il mantello dalle mani del fanciullo ...

I figli houtkapper di Ebergund ingannarono il dandalo commissionandogli un altro lafrode, ma quando si arrampicò sul gelso nero per appendere il poverello, quelli bagnarono la punta di una picca nel gozzo del lafrode e poi la piantarono nel costato del dandalo, che cadde nel fondo dello stagno. Da quel momento, il non morto continuò a riemergere dalle acque a ogni plenilunio per vendicarsi dell’inganno in cui i villici lo avevano tratto.

-        Sono loro che continuano a tramare contro di me come già fecero con il non morto dandalo.

Il maldestro sciamano fu costretto a nascondersi dall’ira degli houtkappers e rischiava di esserne linciato, se non trovava presto un rimedio al danno commesso. Jacek chiese dunque allo spirito verecondo di prestargli le sue penne dalla punta di cristallo poiché solo con quelle avrebbe potuto uccidere definitivamente il non morto. Ebergund usò le sue radici per far riemergere lo scrigno dai meandri delle acque, senza avvedersi che i girini di Damigelle vi deponevano la loro coda piumata prima di divenire ranocchie. Quando Jacek lo schiuse, vide il potere contenuto in quella miriade cristallina e tornò dal ceppo verecondo per farsi dare la seta dei suoi bozzoli**, al fine di cucire tra loro le piume in una trama magica. Promise a Ebergund che attraverso lo sfolgorio delle piume, avrebbe potuto rifiorire per tornare al giorno del suo matrimonio e vendicarsi del tradimento dell’ancella. Quando però Jacek finì di tessere la magica livrea, non la ripose nello scrigno che restituì alle acque dello stagno solo con le penne maledette ...

-        Jacek sosteneva che le piume di cristallo non erano mie, anche se provenivano dallo scrigno in cui riposi io stessa le penne del famiglio di Odd Jensen, maledetto sia il suo nome!

Lo spirito del ceppo verecondo rivendicava la proprietà di quel mantello e chiese dunque aiuto al dandalo che giaceva nel fondo delle sue acque, promettendogli la testa di tutti i figli houtkapper in cambio del mal tolto. Gli occhi del non morto erano immuni dagli incantesimi e Jacek dovette scendere a patti con lui, offrendogli il mantello per sfuggire al maleficio delle Damigelle. Il non morto riuscì così ad allontanarsi dal funesto stagno, ma le sue carni sarebbero presto imputridite se non avesse restituito il mantello a Jacek, affidandolo agli occhi di un lafrode, capaci di trovare la via per il suo eremo. Lo sciamano avrebbe poi gettato l’ignaro messo nelle acque in cui era celata la sua tomba, liberandolo dal maleficio.

-        Jacek e il dandalo complottarono contro di me ...

Quando il dandalo incontrò Rostiglione, non aveva mai veduto un gollode e fu incuriosito dai suoi occhi lafrodi. Sulle prime voleva cavarglieli dalla faccia per rifilarli a qualche sciamano, ma dopo si avvide che quel gollode poteva ben servire al suo scopo, poiché non avrebbe mai trovato un vero lafrode, così sciocco da recarsi presso un guaritore benastro. Appena Palmira posò il suo piede nel bosco, Ebergund si accorse dello scintillio delle piume sulle sue spalle e quando discese ancora dal carro, la trasse in inganno promettendole di guarirla dal suo malessere con le lamie benedette del ninfeo. Palmira fu così avvelenata dalle acque del gelso nero e cadde nello stagno insieme al mantello. Ebergund, ebbra di gioia per esser tornata fragrante e appetitosa come una ragazzina, non si avvide del sopraggiungere di Rostiglione e tanto meno si pentì del suo gesto con lui, scatenandone la vendetta.

-        Indussi il menestrello a tuffarsi senza conoscere il danno che stavo per procurarmi ...

Per fermare la sua scure, Ebergund gli indicò come raggiungere Palmira e Rostiglione non esitò un solo attimo a tuffarsi nelle acque venefiche dello stagno maledetto, ma ivi rimase catturato dall’incantesimo ordito dalle Damigelle per il non morto dandalo.

-        Dannate ranocchie, quale maleficio avete evocato stavolta?

Il sangue lafrode del menestrello lo rese lo spirito custode dello stagno e Jacek propose a Ebergund di cavarlo via dalle acque con degli esorcismi per riprendersi il mantello. Dopo molti cicli lunari trascorsi cantilenando i misteri sciamanici, fu con l’aiuto di una saetta schioccata dall’Huria delle piogge al centro dello stagno, che il ceppo verecondo partorì nel suo tronco cavo un cucciolo di grigione, in cui rimase intrappolato lo spirito custode. Ebergund cinse poi Palmira nelle sue spire radicali, ma le Damigelle evocarono lo spettro del menestrello che a ogni plenilunio di primavera, giungeva furente per la perdita della sua amata, minacciando con la sua scure il fusto del gelso nero. 

-        Accidenti a quella giovenca di una sciamana che mi convinse a sacrificare il grigione per liberarmi dall’incantesimo delle infide ranocchie.

Ebergund dovette cedere di nuovo il mantello a Jacek, che promise di usarlo per dissolvere lo spettro del menestrello. Lo sciamano sapeva come usare gli scintillii delle piume per risalire di riflesso in riflesso, agli attimi del passato che si ripetevano nell’incanto. Individuò nel momento che Rostiglione lasciava cadere la lampada a olio, il punto in cui poteva cambiare il corso degli eventi. Era un sortilegio assai complesso e gli riuscì solo una volta, fallendo però il tentativo di salvare il teatro dall’infausto incendio. Fu così che i villici assoldarono una nota sciamana capace di sedurre qualsiasi spettro e la condussero allo stagno, dove ascoltò i fruscii tra i rami del ceppo verecondo.

-        Quella sciocca sciamana ne fece mangiare le carni allo spettro per condurlo tra i vivi ...

La sciamana voleva dare corpo allo spettro del menestrello per indurlo a proseguire il cammino interrotto del suo destino. Le sue ossa erano però celate nei meandri delle acque ed Ebergund pensò dunque di consegnarle il grigione, in cui era stato intrappolato lo spirito di Rostiglione quando divenne il custode dello stagno. Durante il plenilunio di primavera, i villici si recarono in processione allo stagno e celebrarono con successo l’esorcismo, ma nel momento che lo spettro si dissolse, la notte s’illuminò della luce di una folgore che colpì lo stagno, come già era accaduto durante l’esorcismo di Jacek per catturare lo spirito custode nel corpo del grigione. Stavolta però, gli houtkappers udirono il pianto di un infante lafrode provenire dal tronco cavo del gelso nero. La sciamana vi riconobbe il frutto del maleficio che aveva appena sconfitto e lo consegnò al menestrello come pegno della ritrovata libertà.

-        Negli occhi del grigione ho scorto la creatura nata a seguito dell’esorcismo che ora insidia il mio ceppo verecondo.

Spaventata dall’imprescindibile ragione del fato, la follia di Ebergund le suggerì di affogare il grigione che ne era l’infausto messo. Lo attirò dunque sul bordo delle acque venefiche e scosse i suoi rami per far baluginare la luce sullo specchio d’acqua e trarre così in incanto la bestia; invece, quel riverbero cristallino scintillò negli occhi lafrodi di Rostiglione, restituendogli la coscienza di mille reminescenze.

VI

“La vedo!” La bestia rugliò feroce, mentre già si tuffava per raggiungere il fondo dello stagno. Palmira giaceva dormiente con le mani sulla pancia gravida, prigioniera nell’intreccio delle radici del gelso nero. Era avvolta nel mantello come in un bozzolo luminescente, circondata da allegri storni di Damigelle, che lasciavano scie brillanti al pari di un cielo terso.

-        Anima mia, non ti abbandonerò ...

Rostiglione era rimasto incantato da quella visione per più di un secolo e riemerse dal ninfeo solo nel momento che il grigione lo raggiunse sostituendosi a lui.

-        Infida principessa Ebergund, ora che conosco il nome della mia rovina, posso maledirlo cento volte.

Il menestrello tornò alla vita come se fosse riemerso dalle acque dopo un rinfrescante tuffo estivo e minacciò Ebergund di cavargli le budella com’era già accaduto allo sciamano benastro, se non avesse liberato Palmira dalle spire in cui la teneva prigioniera.

-        Potrai tenerti le due dannate piume, se mi restituisci Palmira con il figlio che porta in grembo.

Di quale figlio stava parlando? Gli occhietti della pazza iniziarono ad agitarsi nervosamente mentre inseguivano i suoi folli pensieri, e non si fermarono fin quando non la condussero alla soluzione di quel mistero.

-        Ecco dunque spiegarsi finalmente l’arcano!

Ebergund e Jacek non avevano considerato che i due amanti avessero concepito una vita sotto il tepore del mantello piumato e che negli anni questa potesse essere divenuta una ninfea.

-        L’infida sciantosa celava del mitis lafrode nel suo cratere!

La virtù del sangue lafrode si trasmetteva integra da madre in figlia a tutti quelli della loro stirpe. Fu così che delle linee di discendenza sfuggirono al controllo delle matriarche quatare, nel mentre fissavano la prima genealogia del cerchio magico gollode di René, cui apparteneva Rostiglione.

-        Le perfide Damigelle hanno celato ai miei occhi la verità per tutto questo tempo.

Stanco di ascoltare la vecchia biascicare le sue follie, Rostiglione era andato a prendere la sua scure e iniziò a menare i primi colpi sul tronco del gelso nero.

-        Creperò piuttosto di cedere il mio stagno a una ninfea.

Incurante dell’ascia di Rostiglione, Ebergund puntò la sua verga nella terra, iniziando a stringere le sue spire radicali intorno a Palmira.

-        Maledette bagasce, avete rubato le penne datemi in dono dal mio sposo.

La scure di ferro aveva già allargato una grossa ferita sul corpo del gelso nero, quando la mano di Rostiglione fu bloccata dal fragore di un tuono e poi udì il vagito di un infante ...

-        E’ nata, ma la strozzerò con queste stesse mani ... certo che lo farò ... soffocherò la piccola bagascia della sciantosa ... non nascerà alcuna ninfea nel mio stagno.

Ebergund, resa mezza cionca dall’ascia di Rostiglione, si trascinò a forza di braccia fino a una cavità nascosta tra le radiche del gelso nero. Scavò tra i vermi della terra ammuffita mentre continuava a biascicare maledizioni mischiandole a una risata nevrastenica.

-        E’ un maschio!

Esultò, quando finalmente trasse un fagottino di foglie e poi lo porse felice a Rostiglione.

-        Il tuo mitis corrotto non ha potuto generare una ninfea.

Rostiglione non riusciva a vederci nulla in quel grumo di foglie e terra ammuffite. Tuttavia, distingueva chiaramente il vagito proveniente da esso ...

-        Questo è il figlio che mi chiedevi in cambio del mantello piumato.

Sghignazzò Ebergund mentre in punta di dita allargava la zolla di terra per mostraglielo.

-        Sembra un verme rachitico, ma è così che nascono i lafrodi ...

L’infante era così piccolo da stargli nel palmo di una sola mano e a Rostiglione si mozzò il fiato perché temeva di nuocergli anche solo respirando. Vi riconobbe la pelle olivastra e i capelli neri di Palmira e si commosse fino alle lacrime, quando quel vermiciattolo appena cavato dalla terra sorrise, facendogli la stessa smorfia che aveva sempre veduto sul volto della sua amata.

-        Se lo condurrai con te, ti porterà ricchezza e benessere.

Disse Ebergund, fraintendendo la titubanza negli occhi di Rostiglione.

-        Bendagli gli occhi o ne rimarrai affascinato e lega le sue caviglie poiché questi malandruccoli sanno correre come leprotti.

Sghignazzò ancora la pazza, rizzandosi faticosamente sulla sua grossa verga.

-        E’ meglio se all’inizio lo terrai in una gabbietta per farlo abituare a mangiare dalla tua mano.

Rostiglione era disgustato dalla follia di quella donna che gli parlava come se la loro questione fosse risolta. Si recò in silenzio nel carro, dove depose delicatamente il suo pargoletto in un nido di stracci e poi tornò a completare quanto aveva lasciato in sospeso ...

VII

Ebergund era lo spirito di un ceppo verecondo tarocco che sapeva di magia quel poco che aveva imparato a maneggiare. Per il vero neanche lei capiva come aveva indotto quel fanciullo a nascere e se avesse potuto uccidere Palmira, l’avrebbe fatto fin dal primo momento. La sola possibilità che aveva per scampare alla vendetta di Rostiglione, era di proporgli un equo scambio di convenienze.

-        Abbiamo stretto un patto e ora che hai tuo figlio, io avrò le mie piume ... è un equo scambio ...   é equo ... equo ... è equo ... equo ...

S’incantò a dire la pazza mentre il gelso nero scricchiolava in procinto di cadere. Poi nel fondo dello stagno comparve una forte luminescenza, da cui venne un accecante baluginio delle acque. Dallo specchio d’acqua iniziarono a zampillare i mille riflessi degli spettri di un passato appena giunto dal futuro.  L’orizzonte degli eventi gettava sulla battigia del presente una mutevole risacca di momenti che si acciottolavano nello sguardo, dando l’illusione di sdoppiarlo e triplicarlo e ancora e di più, fino a disperdere nel turbine del fato ogni consistenza della realtà.

-        Sono le Damigelle che reclamano il malandruccolo.

Ebergund esortava Rostiglione a gettare il suo pargoletto nello stagno affinché si richiudesse quel gorgo del fato che li avrebbe presto risucchiati.

-        Il ramo del fato in cui radicò il gelso nero è stato reciso e dal tuo cuore malefico mai più stillerà un’altra goccia di fiele in queste acque.

Invece, l’esondazione del tempo rientrò nel normale corso degli eventi e la lieve brezza del presente ora bisbigliava tra le fronde floride di un enorme gelso bianco. Volteggiando tra i suoi rami, ne venne giù in un salto da acrobata, un bel ragazzetto in brache dorate che irrise lo spirito del gelso nero declamandone la morte.

-        Padre mio, che bello rincontrarvi, anche se mi chiedo come farete a divenire tanto brutto!

Osservò il furfante lafrode, incontrando per la prima volta il volto giovane di Rostiglione.

-        Malandruccolo, non prenderti gioco di loro!

Infine, si palesò anche lo spirito del nuovo gelso bianco. Era un’Ebergund ancora radiosa nella sua bellezza giovanile che pure brillava di una saggezza antica. Indossava una regale mantella su cui spiccavano le penne variopinte della lucertola alata, ricevute come pegno d’amore durante il fausto giorno del suo matrimonio.

-        Bella ... sono bellissima ... più fresca che qualsiasi ninfea!

La folle cadde in visibilio dinanzi quel sogno concretatosi in tutto il suo splendore. Lo spirito verecondo del gelso bianco le offrì la mano e poi le carezzo il volto, consolando il suo pianto convulso.

-        Maledetta, ora che sei uno spettro, non potrai più nuocere ad alcuno.

Continuò poi a irriderla Malandruccolo, per il solo gusto di farle dispetto mentre quella cercava inutilmente di bastonarlo con la sua verga.

-        Siete voi, dunque, il menestrello da cui questo furfante ha imparato il bel canto.

La rabbia del grigione si agitava ancora negli occhi del giovane Rostiglione che sostenne lo sguardo di Ebergund.

-        Lascia che ti racconti come gli spiriti dannati dal maleficio del gelso nero hanno saputo rimediare al dolore che la mia follia ebbe a cagionarti.

Nel momento in cui Rostiglione ripose il suo pargolo nel carro, lo innestò su quel ramo del fato in cui lo aveva già cresciuto, quando la sciamana lo consegnò al suo spettro rincarnato attraverso le carni del grigione.

-        Il poeta Rostiglione e la sua amata Palmira sono chi soffiò la vita nella mia carne.

Rivelò un giorno Malandruccolo a quell’omaccione che lo teneva in catene per timore del maleficio da cui proveniva.

-        La via per ricongiungerci al nostro destino passa per il crocicchio dove tutto ebbe inizio.

Dopo aver abbattuto il gelso nero, Rostiglione fu colto da un’improvvisa benevolenza del fato. I suoi versi conquistavano qualsiasi pubblico e il successo gli permise di metter in piedi un teatro itinerante con tanto di saltimbanchi e sputafuoco. In cuor suo temeva di aver stretto un patto con l’infida principessa Ebergund, scambiando la sua amata colombella con la provvidenza procuratagli da quel fanciullo.

-        Temevo si celasse in te lo stesso sortilegio che rapì tua madre.

Giunge sempre il tempo in cui i figli riconoscono negli occhi dei propri genitori quei fanciulli che sono stati a loro volta. E’ quello il momento in cui scelgono se manifestargli il diniego per le mancanze subite o accettarli, accordando il perdono all’egoismo venuto da ogni loro debolezza.

-        Figliolo, non permetterò a quelle acque maledette di sottrarmi per la seconda volta quanto ho di più caro al mondo.

Malandruccolo aveva perdonato ancora prima di nascere quell’omaccione propenso a una collera simile al ruglio di un pericoloso grigione, però adesso pretendeva la fiducia che si deve a un giovane uomo attratto dal proprio destino. Dopo ripetuti scorni, suo padre accettò di abbandonare la compagnia teatrale per condurlo là, dove tutto ebbe inizio ...

-        Padre, adesso mi credi? Vi rendo il nastro di seta che donasti a mia madre il giorno in cui foste posti in esilio da René, esso è la prova che lei è ancora qui e mai vi dimenticò ...

Quando Malandruccolo e suo padre fecero ritorno allo stagno, questo era divenuto un invaso limaccioso ricoperto da un canneto. I resti del gelso nero marcivano ancora nel fango e Rostiglione non si sarebbe trattenuto un solo istante, se non avesse veduto la prova che Palmira era ancora trattenuta nel maleficio di quelle acque.

-        Le malefiche penne di Ebergund nulla hanno a che spartire con le piume delle Damigelle.

Appena giunti in quel luogo, Malandruccolo era saltato giù dal carro e sfuggendo alle rimostranze paterne, scomparve nel canneto. Rostiglione stette per impazzire perché rivisse degli attimi che già gli avevano reciso un lembo di cuore e maledisse quella peste di ragazzo, quando ricomparve come sempre incurante delle mille apprensioni in cui lo costringeva quotidianamente.

-        Fidatevi di me, le Damigelle mi diranno come fare ...

Si fermarono in riva allo stagno per alcuni giorni, in attesa del plenilunio. Quella notte le Damigelle gracidarono in coro e Malandruccolo se ne stette ad ascoltarle per tutto il tempo accoccolato sul tronco morto del gelso nero.

-        Padre mio, attenderemo il plenilunio di primavera; allorché sarai ricondotto nei trascorsi in cui dovrai spegnere la fiammella di Jacek lo sciamano.

Per risolvere il maleficio del gelso nero avrebbero dovuto prima ricondurre il baluginio delle piume nello stagno. Fu così che l’omaccione tornò a manifestarsi nello spettro del grigione, in cui un tempo era stato mutato. In quella forma avrebbe incontrato il menestrello sulla via dell’eremo di Jacek, interrompendone il cammino sul suo destino. In tal modo si sarebbe reciso uno dei rami del fato, lasciando quei trascorsi sospesi nel tempo.

-        Padre mio, dopo aver restituito le piume alle Damigelle, i nostri trascorsi muteranno e quando tornerà questo stesso giorno, io non apparterrò più ai vostri ricordi.

La compagnia di teatranti formatasi su quel ramo del fato reciso, divenne uno spettro e fu condotta da Malandruccolo che governava lo sfolgorio delle piume di cristallo, presso Mundergruberburg in occasione delle fastose nozze della principessa Ebergund. Rostiglione era ignaro dei suoi propositi e fraintese il motivo che lo spinse a rubare il suo liuto per recarsi al banchetto degli sposi, cioè indurre in fascinazione la protagonista dell’infausta vicenda, da cui sarebbe venuto ogni maleficio.

-        Me la regali?   

Malandruccolo sedusse Juno poiché sarebbe fuggita con Odd Jensen, destinato a divenire il primo padre dei figli houtkapper della principessa. Si sostituì a Odd che sarebbe andato a cercare Juno poiché custodiva la sua lucertola alata e trovandola ebbra sul covone di fieno, avrebbe ceduto al desiderio di unirsi a lei. Dopo aver fatto all’amore, Malandruccolo si sincerò che alla lucertola non mancasse neanche una penna, ma non fu abbastanza spregiudicato da assassinare Juno.  

-        E’ lei la principessa Ebergund?

Dopo che Malandruccolo non trovò il coraggio di compiere quel delitto, corse via da Rostiglione, sicuro di trovarlo furibondo.  L’omaccione gli strappò le treccine di cuoio e i campanellini squitteri, sicuro che li usasse per tessere i suoi malefici. Juno era di lì appresso ad osservarli e intervenne a favore di chi le aveva tratto in inganno il cuore.

-        Fuggi via!

Per far dispetto a Rostiglione che lo aveva appena battuto, Malandruccolo lo indusse a credere che Juno fosse la principessa Ebergund, ma ebbe subito a pentirsene perché nella carne del grigione di cui erano fatte le sue membra, scintillò la reminescenza che gli fece ricordare il nome della sua aguzzina. Malandruccolo esortò dunque Juno ad andarsene ma la ragazzina, caparbia com’era, rimase ferma sui suoi passi.

-        Ti sfamo per camminare su una fune e mi ripaghi ordendo malefici.

Trovandosi dinanzi a colei che gli avrebbe tolto quanto di più caro avesse mai avuto, Rostiglione riconobbe l’incantesimo del tempo passato in cui era stato tratto. Il suo cuore ferito non poteva comprendere il proposito di risparmiare a Ebergund le sue pene, al fine di non farle riporre nelle penne dalla punta di cristallo tutto il suo rancore.  Egli scelse di perseguire il vano scopo della vendetta per infliggerle un’umiliazione ancora più grande, accrescendo così il futuro potere del maleficio.

-        Affondate la mano nel cappello e arraffate più che potete.

Disse perentorio Malandruccolo alla testarda ragazzina, quando le porse il cappello in cui era riposto l’obolo raccolto durante l’esibizione al banchetto. In tal modo avrebbe potuto denunciare a Waldbrunner, il sommo poeta del villaggio e padre della sposa, la briga dell’ancella in combutta con il menestrello giunto in paese per rovinare quelle fauste nozze. Rostiglione fece poi sedere Juno sul trono della Regina dei Buffoni e affilò le sue rime più sarcastiche, convinto com’era di sbeffeggiare la futura assassina di Palmira.

-        Riverisco la regina e il suo degno sposo ...

Quando il sommo poeta si recò in piazza ad ascoltare i perfidi versi di Rostiglione, Malandruccolo aveva già fatto il malocchio alla ragazzetta e tutti nel villaggio guardavano a ogni sua marachella compiuta fin da bambina come le gesta malevole di un’invidiosa. Juno fu così legata alla pietra dello scandalo, da dove non avrebbe più potuto nuocere alla principessa Ebergund.

-        La poveretta pagò a caro prezzo la meschinità della sua miglior amica.

Il ramo del fato in cui radicò lo spirito del gelso nero fu in tal modo anch’esso reciso, ma non c’era rimedio per i frutti del maleficio che da esso erano oramai caduti. Lo spettro della follia d’amore sarebbe rimasto nell’ombra del radioso gelso bianco, ricordando al mondo il lato oscuro di quel caro sentimento.

-        Rostiglione, lasciati mondare dal male che Jacek ti procurò, incarnando la tua passione in una feroce bestia.

Ebergund immerse il capo del menestrello nella lamia benedetta del ninfeo. La trattenne sotto l’acqua fino a quando vi riemerse in un ruglio terrificante il feroce grigione. Il giovane menestrello guardò la bestia tornare nella selva oscura e si sentì riappacificato col suo cuore.

-        Mio padre ha sempre lamentato la leggerezza con cui disattendevo le promesse fatte.

Malandruccolo parlò al menestrello rimasto orfano di ogni vicenda che li avrebbe legati come padre e figlio. Chiese perdono per tutti gli inganni compiuti allo scopo di giungere a quel momento e poi, prima di salutarlo per l’ultima volta, il malandruccolo cedette all’egoismo di condividere il peso di quella separazione, riponendo negli occhi del padre il riflesso di tutti quei ricordi che non avrebbe più vissuto. In tal modo impose al suo cuore l’incommensurabile pena della perdita di un figlio ...

-        Le Damigelle esigono il loro tributo ...

Malandruccolo si tuffò nelle acque dello stagno, senza mai più riemergervi. Fu allora che Ebergund soccorse il giovane padre che si trovava a fronteggiare quella nuova lancinante separazione. Gli spiegò il senno del suo coraggioso figliolo poiché era andato a liberare la madre dalle radiche di gelso nero che la tenevano ancora prigioniera in fondo a quelle acque. Dove sarebbe rimasto per tenere fede alla promessa fatta alle Damigelle, divenendo lui il custode delle loro piume di cristallo.

-        Ora prendi pure quanto ti è stato ingiustamente tolto.

Il menestrello la vide proprio sotto di lui, dormiente, appena coperta da un sottile pelo d’acqua. Era veramente Palmira o solo uno dei tanti riflessi rimasti intrappolati in quel ninfeo? Rostiglione non ebbe dubbi nell’infilare le braccia nell’acqua cristallina e trarvi via l’amore suo. Lo strinse al petto e seppure gli paresse esanime, non dubitò neanche per un istante di poter soffiargli dentro di nuovo la vita. Palmira tossì fuori l’incanto che le marciva nella gola e dischiuse di nuovo gli occhi, ritrovandosi in quelli mai dimenticati dell’amato.

*I naturisti del medioevo credevano che i girini fossero un prodotto delle acque limacciose degli stagni.

**Quando le prime piante di gelso giunsero a Bisanzio dalla Cina, si pensò che il bozzolo da cui si ricavava la seta fosse un prodotto di quell’albero.

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