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Siete favorevoli al TTIP?


Rotwang

  

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  1. 1. Favorevoli al TTIP?

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La Repubblica

 

Governi svuotati di potere e significato. La democrazia che cede il passo all'oligarchia delle multinazionali. Addio alle politiche social-democratiche che hanno fatto la storia dell'Europa per lasciar spazio al neo liberismo. E' l'epilogo temuto da Colin Crouch sociologo e politologo britannico celebre per aver coniato il termine "postdemocrazia" nell'omonimo libro in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate. Crouch punta il dito con il Ttip, il trattato transatlantico di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, che "servirebbe ad aumentare le tutele di consumatori, ma invece viene usato solo per ridurle". E critica l'Unione europea perché "ha dimenticato l'eredità delle Commissioni Delors e Prodi fondate sul compromesso tra liberismo e socialdemocrazia per interessarsi solo al liberismo. Siamo caduti in una trappola da cui non riusciamo a uscire".

 

Più che vittima di una trappola, il Vecchio continente sembra stretto tra due idee antitetiche di Europa. Non crede?

No, siamo davvero in trappola. Da un lato siamo consapevoli dei cambiamenti che porta la globalizzazione e delle necessità di avere un'Unione europea capace di affermarsi ai massimi livelli dove vengono prese le principali decisioni economiche; dall'altro abbiamo bisogno di una politica più vicina alla vita quotidiana. Bruxelles dovrebbe convivere con istituzioni vicine alle persone: le decisioni devono essere prese a livelli diversi a seconda degli argomenti. Il rischio che corriamo è quello di pensare che il nazionalismo rafforzi la democrazia.

 

Il referendum su Brexit, il prossimo 23 giugno, metterà alla prova le due idee di Europa.

L'appartenenza alla nazione rimane tra le poche identità, che legano la gente al mondo politico. E in un mondo pieno di rischi internazionali - dalla globalizzazione economica, che sembra minacciare il lavoro, all'immigrazione fino al terrorismo islamico - c'è la forte tentazione di vedere la nazione come una fortezza. Il referendum britannico darà ai cittadini la possibilità di concentrare tutte queste ansie su un bersaglio singolo: l'Unione europea. Una tentazione che si scontra con la paura di un futuro totalmente incerto, dicendo addio a tutti i nostri rapporti economici degli ultimi 40 anni. Sarà una battaglia  tra due paure: quella di un mondo incontrollabile contro quella di un isolamento totale.

 

Come si sconfigge la paura?

Con un'Europa più intensa. Delors e Prodi lo avevano capito: bisogna legare in maniera indissolubile i livelli più alti a quelli più bassi. Bisogna riscoprire le politiche regionali, aumentando il loro peso. La Scozia è un caso emblematico: vogliono più autonomia a livello locale, ma sono molto legati all'Unione europea per mantenere un ruolo di peso a livello globale. L'Europa non è una tecnocrazia apolitica, ma rischia di diventarlo se ripensiamo rapidamente il ruolo delle istituzioni.

 

Gli anni dell'austerity hanno contribuito ad allontanare Bruxelles dai cittadini.
Sì, perché sono stati anni persi a consumare tutta l'energia nel tagliare la spesa e a fare attenzione ai bilanci. Invece, sarebbero serviti a fare altre cose.

 

Per esempio il Ttip?

Anche. Il Trattato transatlantico di libero scambio serve davvero, ma solo se ci permette di aumentare gli standard di sicurezza. Per il momento, invece, le discussioni vertono solo sul come ridurre gli standard: anche perché un mondo con standard di sicurezza più alti ad ogni livello sarebbe un mondo più caro. E gli americani non possono accettarlo. Però gli europei sbagliano a pensare di essere gli unici a garantire la piena tutela dei consumatori e dei cittadini. In alcuni campi è certamente vero, ma sul fronte bancario la realtà è diametralmente opposta: siamo noi che dovremmo imitare i loro standard. E comunque anche negli Stati Uniti crescono le resistenze con la diffidenza ad aprire il loro mercato agli europei.

 

A preoccupare i cittadini sono soprattutto le clausole Isds che permettono alle aziende di citare per danni gli Stati che con le loro norme mettano a repentaglio i loro profitti. 

E' vero, sono la cosa più pericolosa del trattato. La clausola più antidemocratica. Certo oggi già esistono, ma gli Stati sono liberi di scegliere se riconoscere il diritto alle aziende o meno, con il Ttip diventerebbe invece una regola vincolante per tutti. Il meccanismo di citare in giudizio gli Stati che promulgassero leggi contrarie agli interessi delle aziende era nato per attirare risorse finanziarie nei paesi in via di sviluppo: le multinazionali chiedevano garanzie prima di investire negli Stati a rischio temendo che un cambio di repentino di governo le avrebbe danneggiate. Insomma, il principio era in qualche modo positivo, era un incentivo alla stabilità, ma lentamente il sistema di è esteso fino all'Europa. Basti pensare alla svedese Vattenfall che ha chiesto miliardi di danni alla Germania dopo la decisione - in seguito alla tragedia di Fukushima - chi chiudere le centrali nucleari. Il Ttip in questo senso sarebbe un disastro, il mercato entrerebbe direttamente nelle politiche sociali dei governi che non potrebbe più tornare indietro.

 

In questo modo il potere sarebbe trasferito alla multinazionali?

Sì, sarebbe il punto finale della post democrazia. Un mondo nel quale le istituzioni tradizionali continuano a esistere, ma si svuotano di significato e la politica non è più in grado di incidere. Per fortuna non siamo ancora a questo punto, ma la strada che abbiamo imboccato è proprio quella. E il Ttip darebbe un'accelerata in questa direzione.

 

Anche per questo le trattative per il Ttip stanno sollevando proteste in tutta Europa. 
E' vero, le resistenze sono molte: i cittadini stanno prendendo coscienza di questa rischio, ma l'atteggiamento dei manifestanti è ambiguo, si uniscono le proteste di sinistre a quelle della destra nazionalista. Bisogna fare attenzione, perché la difesa delle democrazione non passa per più sovranità. I movimenti nazionalisti cavalcano solo i diasgi della popolazione, dalla paura dell'immigrazione alle paure per l'occupazione.

 

Come si fa?

I governi devono uscire dalla trappola dei debiti, insomma credo che serva una certa austerità, ma diversa da quella applicata in Europa. Serve un cambiamento di direzione delle politiche sociali che oggi hanno strutture non sono adatte: le pensioni sono troppo generose, mentre mancano le risorse per la formazione e l'istruzione. Abbiamo bisogno di un grande compromesso a livello europeo per incentivare i paesi a usare i soldi in modo migliore. Il caso della Grecia è emblematico: riceve critiche per come usa le sue finanze, ma non è chiaro quali siano le cose giuste da fare. Un tempo l'Europa mediava tra liberismo e democrazia sociale, ora la palla è in mano solo ai primi, senza alcun compromesso.

 

Renzi si scontra spesso con le politiche europee. Come lo giudica?

Ho casa in Umbria, ma non conosco abbastanza bene la sua politica, di certo vuole essere il Tony Blair d'Italia solo che il suo governo arriva in un momento in cui non c'è molto spazio di manovra proprio per colpa dell'austerity. Per fare riforme profonde bisogna sempre poter offrire qualcosa di nuovo e allettante, non vedo cosa si possa fare in questo momento.

Edited by Rotwang
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Dirò una scemenza ma non è meglio fare accordi con i paesi più a rischio affinché questi si adeguino agli standard dei paesi più ricchi e con più controlli ?

 

Adeguarsi costa, banalmente (al di là del fatto che esistono degli standard internazionali un po' per tutto). Comunque per poter essere venduti in Europa i prodotti di importazione devono sottostare agli standard europei, quindi chi vende qua in qualche modo si è già organizzato.

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  • 2 weeks later...

L'Espresso

 

Se dipendesse dai negoziatori americani la bistecca alla fiorentina sarebbe già fuori mercato. Sostituita da una gigantesca fetta di manzo proveniente dagli allevamenti intensivi del Texas o del Nebraska, dove le mucche sono cresciute a forza di ormoni e antibiotici. Fosse per quelli europei, a essere archiviati nella spazzatura sarebbero invece il falso Asiago e la provola del Wisconsin, versioni falsificate dei nostri prodotti tipici, con tanto di bandierine italiane sulla confezione.

È solo un esempio delle centinaia di trattative in corso. Ma basta a illustrare la distanza delle posizioni tra Unione europea e Stati Uniti alle prese con la negoziazione commerciale del secolo: la prima tra le economie più avanzate del globo. Se andrà in porto (ed è un grande “se”) l’accordo transatlantico chiamato Ttip istituirà un’area di libero scambio che coinvolgerà quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e quasi un miliardo di consumatori. Riguarderà ogni settore economico, dall’agricoltura all’industria, fino ai servizi, con l’unica eccezione esplicita, pretesa da Parigi, del settore degli audiovisivi, e includerà anche la sfera degli appalti pubblici e del reciproco riconoscimento di molti titoli di studio di milioni di giovani già nati globali. A stare al Cepr , il rapporto di valutazione dei suoi effetti voluto dalla Ue, potrebbe aumentare il Pil europeo di una percentuale compresa tra lo 0,2 e lo 0,5 per cento, a seconda dell’estensione degli accordi finali.

 

Solo una parte minima del trattato riguarda l’abbattimento completo, o quasi, degli ultimi dazi che rendono più costose sia le esportazioni europee sia quelle americane. Ed è una parte, a dire la verità, cara all’Italia perché noi brilliamo proprio in quei settori su cui le tariffe imposte dagli Usa sono ancora significative, come l’agroalimentare, il tessile e la pelletteria su cui incombono dazi anche del 40 per cento. Ma il cuore del trattato è lo smantellamento delle barriere non tariffarie, ovvero di tutte quelle regole protezionistiche e di quegli standard produttivi che rendono più difficili e costose le importazioni di beni e servizi. Se dalla loro eliminazione deriverebbe l’80 per cento dei benefici economici del patto, non è la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde dell’Atlantico lo scopo principale del Ttip. Lo è invece «la costruzione di un’area che, nel diventare economicamente la più grande ed avanzata del Globo, possa imporre i suoi standard economici e legali sulle altre economie mondiali», spiega a “l’Espresso” Carlo Calenda, classe 1973, negoziatore per l’Italia del Ttip in Europa, nella prima intervista da ministro dello Sviluppo economico: «Questo è il valore fondamentale dell’accordo. Potremo a quel punto dire alla Cina: “Negli ultimi trent’anni ti abbiamo aiutato a crescere e a creare una classe media, facilitando le tue esportazioni. Ora è tempo che apri i tuoi mercati ai nostri prodotti”. Se non riusciremo a farlo adesso, tra 15 anni non ne avremo più la possibilità e la forza, e i cinesi si potranno tenere i loro dazi alti e non fare entrare le nostre merci».

 

Negli occhi del presidente americano Barack Obama la creazione di questa gigantesca area di scambio sulle sponde dell’Atlantico, unitamente a quella che ha definito con i principali Paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico - dal Canada al Perù, dal Messico al Vietnam, fino all’Australia - dovrebbe porre rimedio alle distorsioni provocate dalla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Che se ha creato e sostenuto le classi medie nelle economie dei Paesi in via di sviluppo ha messo però sotto pressione il ceto medio in quelle avanzate. E ha trasformato il Paese comunista di Mao Tse-tung nella seconda economia mondiale, senza averne scalfito il sistema politico dittatoriale. Contrariamente alle aspettative.

 

Omogeneizzare standard e procedure non è però né semplice né indolore. Non quando, pur avendo molti valori universali in comune, le filosofie economiche, legali e sociali di due Continenti economicamente equivalenti sono tanto diverse. E così ci sono settori industriali come la chimica, le auto, la farmaceutica e i dispositivi medicali, in cui l’omogeneizzazione degli standard è poco controversa perché riduce i costi dei produttori oggi obbligati a doppie specifiche tecniche e amplia la scelta dei consumatori. Ma ce ne sono altri, come l’agroalimentare o gli stessi servizi pubblici (che in teoria sono esclusi dal tratatto ma la cui definzione internzionale lascia spazi all’ambiguità), dove i cambiamenti rischiano di provocare a un abbassamento degli standard di vita dei cittadini europei. Il come è presto detto. L’Europa non permette produzioni potenzialmente nocive della salute: caso iconico sono gli organismi geneticamente modificati. Per noi prevenire è meglio che curare. Gli Usa, invece, per non danneggiare gli imprenditori, richiedono una dimostrazione scientifica della pericolosità del prodotto per eliminarlo dal mercato, addebitando al consumatori l’onere della prova e l’assunzione del rischio di malattia o addirittura di morte.

 

Due sono i prodotti che incarnano l’abisso culturale tra le due sponde dell’Oceano: il manzo arricchito di ormoni e antibiotici e i polli chimici. Sono il frutto delle condizioni di vita in un allevamento intensivo: gli ormoni rendono la carne più magra, gli antibiotici prevengono le malattie e i lavaggi con la clorina depurando le carcasse dei polli da eventuali infezioni. In Europa invece è tutto il processo produttivo ad essere controllato in ogni sua fase, dal momento in cui nasce l’animale a quando finisce sul piatto. Filosofie e stili di vita inconciliabili, appunto. Come quelli che hanno a che fare con la protezione dell’ambiente: in Europa gli standard sono spesso più rigorosi di quelli americani, soprattutto sui pesticidi che contengono agenti chimici potenzialmente cancerogeni.

 

Al di là delle divergenze fitosanitarie, semplici e immediate da spiegare alla popolazione e dunque cavallo di battaglia per gli oppositori del Ttip, rimane la questione del se e come il nostro comparto agricolo (caratterizzato da prodotti qualificati e protetti dalla loro provenienza geografica che gli americani, abituati alla sola tutela del marchio di fabbrica, non capiscono, e da una produzione di piccole o medie dimensioni) possa fare fronte all’invasione delle esportazioni agricole di massa dei colossi agroalimentari statunitensi. Secondo uno studio redatto dal parlamento europeo, con l’approvazione del Ttip le esportazioni agricole americane verso la Ue godrebbero di una crescita doppia rispetto a quella delle esportazioni agricole verso gli Usa, addirittura esponenziale nel settore dei latticini.

Lo stesso ministero dell’Agricoltura americano, in un documento citato da Greenpeace, prevede una diminuzione del prezzo pagato ai contadini europei in ogni categoria alimentare, con l’eccezione dei formaggi. Un rapporto di Friends of Earth esprime invece la preoccupazione che il settore agricolo finirà per diventare su entrambe le sponde dell’Atlantico monopolio di poche multinazionali, con comparti decimati - frutta e ortaggi, cereali, carne bianca, latticini - e conseguente perdita di posti di lavoro.

Tutti gli studi sull’impatto del Ttip, dal Cepr a quello stilato dall’università Tufts negli Usa, sottolineano come l’accordo inevitabilmente avrà delle ricadute sull’occupazione, negative o positive a seconda del settore. Se comparti come quelli delle auto, dei macchinari di precisione o del tabacco sperimenteranno una crescita di produttività e di occupazione sarà perché altrove, nell’agricoltura o nel settore dei prodotti elettrici, ad esempio, in seguito alla chiusura delle aziende, i lavoratori, soprattutto quelli poco qualificati, saranno costretti a cambiare mestiere. «Ogni Paese si concentrerà su quello che sa fare meglio», sostiene l’economista Carlo Stagnaro. Ed è bene che, in un primo periodo di aggiustamento alla nuova situazione commerciale, l’Europa sia preparata con strumenti di aiuto alla disoccupazione e di sostegno alla formazione. Anche perché, tirando una riga, rischia comunque di perdere tra i 450 mila (Cepr) e i 600 mila (Tufts) posti di lavoro.

I prodotti costituiscono solo una parte del trattato che ambisce a regolare l’intera vita economica del blocco occidentale, servizi inclusi. Attuali e futuri. Se avessero la meglio gli interessi d’Oltreoceano, i burocrati europei sarebbero quotidianamente affiancati dai lobbisti made in Usa, entusiasti all’idea di armonizzare le nostre normative in senso stelle e strisce, dalle assicurazioni alla cura della persona. È vero anche però che la Commissione europea insiste affinché i cugini d’Oltreoceano ratifichino le convenzioni internazionali sul lavoro per evitare che gli europei finiscano con le misere tutele lavorative americane. Secondo i critici, infatti, ci sarebbe il rischio che le aziende Usa chiedano di applicare nella Ue i contratti “iper liberisti” esistenti negli Stati Uniti.

Ma è sui tribunali internazionali dove risolvere le dispute tra le società che si sentiranno danneggiate nei propri investimenti e gli Stati che non vorranno perdere la propria sovranità decisionale, che la polemica è violenta. Il timore di diventare poco più di una colonia delle multinazionali americane terrorizza gli europei di ogni provenienza nazionale in un momento storico in cui tollerano a stento perfino le regole comunitarie. «Perché non utilizzare i tribunali nazionali per le dispute con gli Usa?» si chiede Marco Bersani, leader della rete Stop Ttip. «Perché in un futuro accordo commerciale tra Ue e Cina quest’ultima non accetterebbe mai un trattamento inferiore a quello riservato ai due blocchi occidentali e in quel caso i tribunali sovranazionali sarebbero indispensabili», risponde Calenda pensando all’obiettivo di lungo termine del trattato.

Ma di ulteriori trattati un’opinione pubblica sempre più scettica sulle virtù della globalizzazione non ne vuol sentir parlare. Secondo gli addetti ai lavori, con le elezioni Usa dietro l’angolo, le possibilità che il Ttip venga approvato entro il 2016 non superano il 10 per cento, rispetto al 60 per cento di solo un anno fa. E sono pochi i settori su cui è scontata l’intesa, principalmente quelli in cui sono gli Usa ad avere standard di sicurezza più elevati, come per le auto. «L’America ha perso troppo tempo con il trattato del Pacifico e non ha investito quanto avrebbe dovuto nella negoziazione con l’Europa, tra l’altro più facile per loro», continua Calenda: «Washington ha sempre dato un’attenzione al Pacifico superiore al rapporto con l’Europa, cosa che per me è stata un errore strategico». 

Edited by Rotwang
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  • 5 weeks later...

La Stampa

«Nessun accordo di libero scambio dovrebbe essere concluso se non rispetta gli interessi dell’Unione. L’Europa deve essere ferma». È quanto ha detto il primo ministro francese Manuel Valls ai membri del partito socialista al governo parlando in merito alle trattative per il Ttip (Transatlantic trade treaty) sul libero scambio tra Ue e Usa. «La Francia - ha aggiunto - vigilerà su questo». 

«Posso dirvi francamente che - ha detto - non ci può essere un accordo sul trattato transatlantico. Questo accordo non è sulla buona strada». Secondo lo stesso Valls l’accordo Ttip «sarebbe imporre un punto di vista che non solo potrebbe essere terreno fertile per il populismo», ma anche, più semplicemente un punto di vista che rappresenterebbe «un male per la nostra economia», sottolineando, in particolare, le conseguenze «drammatiche» del porre fine alle quote latte per il settore lattiero-caseario che è uno dei settori principali per la Francia.

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