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Jazz


yrian

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Una volta nel Forum avevamo un topic in cui parlare di musica non da consumo. Vi partecipavano in pochi, ma vi partecipavano. Provo a riaprirlo sull’onda dell’emozione di ieri, sperando che non diventi un mio monologo.

 

Da ieri sera sono una persona migliore. Veramente non mi sentivo certo migliore all’inizio, Domenica sera, quando sono riuscito a prendere posto nel mio palco: ero anzi esausto per aver trascorso il Sabato a Milano dal fidanzato e la Domenica a Torino coi forummini; confesso addirittura che, sceso dal treno, più che verso il teatro avevo avuto quasi più voglia di dirigermi verso casa. Ma poche note sono bastate a spazzare via da me ogni stanchezza.

 

E lo stesso deve essere capitato più o meno a tutti, se è vero che durante il concerto non si sono manifestati esemplari delle Sei Razze Malefiche di Spettatori che vivono nei teatri e si attivano durante gli spettacoli: gli impenitenti Ritardatari, gli immancabili Cellularisti, gli imperterriti Commentatori Ad Alta Voce, gli inguaribili Deboli di Vescica, gli irriducibili Scartatori di Caramelle, gli inemendabili Tossitori Agonizzanti.

 

Niente di tutto questo ieri sera. Attenzione assoluta fin da quando sul palco del Teatro Comunale di Modena prendono posto nell’ordine Denardo Coleman alla batteria, Tony Falanga al contrabbasso, Al Mc Dowell al basso elettrico e infine lui: Ornette Coleman, nell’ultima delle tre uniche date italiane che ha in programma.

 

Mancava dall’Italia da tre anni (“Umbriajazz 2003”) e non incideva da almeno dieci. Un applauso fragoroso accompagna l’entrata dell’ultimo Grande Vecchio del jazz. Avanza lento e a fatica. E’ fasciato in un elegante abito blu cobalto decisamente demodé, ma questo è l’unica concessione che fa alla propria vanità. Un cappello a tesa larga ne nasconde il volto, che indoviniamo segnato e scavato. Per tutta la serata non pronuncerà altro che poche parole, ma il suo silenzio non comunica scontrosità come già in Miles, né introversione come in Don Byron: comunica modestia e compostezza, forse anche un po’ di rigidità, perché – ricordiamo – colui che ha rivoluzionato la storia del jazz inventando il “free”, colui che è per il jazz ciò che Schoenberg è stato per la classica, colui che negli anni ’60 era uno dei punti di riferimento assoluti per la ricerca musicale… ebbene, costui non ha avuto certo vita facile.

 

Nemmeno io, confesso, il cosiddetto “sistema armolodico” di Coleman l’ho mai capito… e, come altri prima di me (illustri musicologi compresi), dubito persino che esista. Temo si tratti solo di una fantasia di Coleman stesso che, come moltissimi artisti, all’epoca avrebbe dovuto forse preoccuparsi più di operare che di lanciarsi in manifesti poetici e dichiarazioni programmatiche. Ma sono passati più di quarant’anni, perché discuterne ancora?

 

Quello che resta, sopite le polemiche, è una leggenda vivente, che è diventata tale non certo solo grazie alla “armolodia”. Ornette Coleman è prima di tutto uno squisito interprete. E lo ha dimostrato domenica sera, tirando fuori dal suo sax alto un suono sempre cristallino, persino nelle impennate più aspre, e un discorso musicale assolutamente moderno in ogni contesto, siano esso i brani più free in cui l’improvvisazione collettiva e paritaria la fa da padrona oppure le struggenti ballad che hanno strappato a me – e ci giurerei non solo a me – più di una lacrima.

 

L’improvvisazione spezzata, torrenziale, pirotecnica dei suoi anni d’oro si è ormai trasfigurata, non meno incisiva ma arricchita da un fraseggio languido e, direi, meditativo. Sì, forse ciò sarà anche una conseguenza dei quasi ottant’anni che Coleman ha sulle spalle, ma non posso fare a meno di pensare che, superata l’era delle polemiche, ci viene ormai restituito un aspetto della sua musica spesso troppo trascurato o comunque mascherato nel polverone sperimentale: l’appassionato lirismo che fa di Coleman “anche” un grande melodista.

 

Coleman è degnamente fiancheggiato dal figlio Denardo alla batteria, di cui – forse a causa dell’ingombrante cognome – poco si notano di solito le ottime qualità, non fosse altro che la tellurica energia. Non meno impressionante è Tony Falanga: passa spessissimo all’archetto e regala al pubblico alcuni dei momenti più intensi dell’intera serata quando rimaneggia Mozart o quando duetta accoratamente con lo stesso Coleman che, come occasionalmente fa, imbraccia il violino (per pochi secondi soffia anche nella tromba, ma se ne stanca ben presto). Meno convincente appare il basso elettrico di Mc Dowell, della cui perizia non dubito, ma che si è scarsamente fatto notare durante il concerto, limitandosi a punteggiare di tanto in tanto i soli di Coleman e rimanendo sostanizlmente inudibile. Da lui, peraltro, proveniva, l’unica “sporcatura” (uno stacco non pulito) nella prestazione di un quartetto che invece può vantare un affiatamento evidentemente raro.

 

Alla fine del concerto una strana figura femminile si presenta ciondolante in palcoscenico. La cosa non stupisce, perché la voce si è ormai sparsa in tutto il teatro: Patti Smith era di passaggio tra il pubblico; niente di più naturale che si unisca al quartetto per il gran finale. La Smith non è certo un mostro di simpatia: ondeggia, biascica nel microfono, sputa verso la platea, trasforma il concerto (che fino ad ora è stato sì importante ma offerto umilmente) in uno spettacolo artificioso di tipo decisamente diverso. Tuttavia, dopo essersi scaldata, non manca di ipnotizzare un pubblico già estasiato – e non scelgo a caso la parola, perché il secondo dei due bis concessi da Coleman con Patti Smith ha delle sonorità decisamente mistiche.

 

Due ore di emozioni musicali tanto più intense se pensavo, con un peso sul cuore – di certo non solo io – che questa è stata probabilmente l’ultima occasione di poter ascoltare dal vivo in Italia il grande Ornette. Anche se vorremmo che per altri ottanta, cento anni lui potesse migliorare il mondo con la sua musica.

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  • 4 weeks later...

Ieri, Mercoledì 1 Novembre, i trecento fortunati che sono riusciti ad entrare nel gremito Baluardo della Cittadella di Modena, hanno potuto godersi uno dei migliori concerti che attualmente possa offrire il panorama jazzistico italiano: Francesco Cafiso e Fabrizio Bosso.

 

Di Francesco Cafiso si dice da molti anni che è la promessa del jazz italiano. Non è vero: non è più una promessa, è una realtà più che consolidata. Ormai nessuno più osa mettere in dubbio la bravura di questo giovanissimo sassofonista e sostenere che debba ancora maturare. “Ciccio” Cafiso è un musicista affermato – e pluripremiato – in tutto il mondo (testimone il caposcuola della mainstream, Wynton Marsalis in persona, di cui Cafiso si può considerare pupillo): il fatto che non abbia ancora diciotto anni è solo un di più.

Il suo contralto ha un suono pieno, corposo e rotondo. Espone il tema con tranquilla decisione, lo varia dapprima in modo quasi scontato, poi man mano si scalda, comincia a sgranare agilità a tutta forza, infine trascina il pubblico in un meraviglioso mondo di suoni e – si direbbe – luce. Quando vuole strafare trova anche, nelle cadenze, delle soluzioni melodiche davvero originali. Qua e là gli sfugge qualche nota non proprio centrata, ma non si sa se per sbaglio o per scherzo, quasi a voler sconfinare per un istante in un altro mondo, fatto di ombreggiature che non sa o forse non vuole (non ancora) esplorare.

Ma di questo ragazzo non colpiscono solo le qualità strettamente musicali: conquista con la sua forza comunicativa; non quella delle parole (non è un intrattenitore, pronuncia a mala pena due parole per presentare i suoi compagni), bensì quella del suo entusiasmo, che lo porta a donarsi completamente durante i propri assolo e a lanciare grida sinceramente eccitate durante quelli altrui. Si aggiunga che ricopre il ruolo di leader con disinvolta sicurezza ma anche tranquilla umiltà, la stessa umiltà con cui si divide quotidianamente tra le tournée mondiali e lo studio, presso il Liceo della propria città, Catania; di Catania frequenta anche il Conservatorio, come se già non fosse uno dei migliori musicisti italiani.

 

Si è detto di Cafiso che la sua musica è mondo solare e che solo di tanto in tanto cambia carattere; l’esatto contrario vale per Fabrizio Bosso, trombettista a sua volta eccezionalmente giovane, anche se non giovanissimo come Cafiso, che attualmente accompagna con regolarità: gli assolo di Bosso consistono soprattutto in raffinate sfumature, chiaroscuri, atmosfere rarefatte che improvvisamente esplodono in crescendo elettrizzanti e poi si ripiegano nuovamente. La sua sordina proviene da lontano, non solo nello spazio ma anche nel tempo. Il suo discorso musicale non è un monologo, ma un dialogo con se stesso, tanto vario sa essere il suo spettro sonoro. Non c’è glissato, acrobazia, agilità, corona che la stupefacente tecnica di questo ragazzo non sappia affrontare: se non avesse ANCHE tanto sentimento, Bosso sarebbe comunque uno straordinario virtuoso. Né gli manca l’ironia, che gli permette di costituire il partner ideale per un trascinatore come Cafiso: lo scherzoso canone competitivo con cui aprono “One more kiss” strappa al pubblico più di una risata, così come il bis che conclude il concerto, una divertente versione jazz della sigla della serie animata “I Flinstones”.

 

Il giusto merito va riconosciuto all’impeccabile sezione ritmica, che compone il quartetto italiano stabile di Cafiso: Andrea Pozza (pianoforte), Aldo Zumino (contrabbasso), Stefano “Brushman” Bagnoli (batteria – e mai soprannome fu più azzeccato!). Tutti e tre sono solidi esperti, affiatati e contagiosi, dalla scatenata “Chaingang” che apre il concerto fino alla già nominata sigla dei “Flinstones”. Dopo l’ultimo bis guardi l’orologio e ti accorgi che sono passate due ore senza che nemmeno te ne rendessi conto. Torni a casa semplicemente felice.

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  • 5 months later...

Riesumerò il mio vecchio topic-monologo sul jazz; parte nella speranza che qualcun altro intervenga, parte per affidare al ciberspazio le mie impressioni sul concerto di Wallace Rooney domenica 15.Senza troppi giri di parole: non mi è piaciuto molto. E direi che non è piaciuto molto nemmeno al pubblico convenuto, che ha applaudito puntualmente ma non troppo calorosamente. Ben altri entusiasmi avevano accolto qualche giorno prima Jan Garbarek (con Trilok Gurtu) e avrebbero accolto qualche giorno dopo il trionfale “Attila” con Pertusi e la Theodossiou mattatori.E dire che di pubblico ce n’era davvero molto, in quanto il concerto di Rooney era un evento attesissimo: non capita tutti i giorni di poter ascoltare “l’ultimo allievo di Miles Davis”, colui al quale il grande guru del jazz contemporaneo ha regalato in punto di morte la propria tromba. Nel foyer ho sentito uno spettatore molto più esperto di me dire che “se Miles Davis ha fatto questo prima di morire, vuol dire che quando è morto era bello rincoglionito” (sic).In effetti di Miles Davis in questo concerto c’era ben poco. Rooney dice di non voler imitare lo stile del maestro (come dicono tutti gli allievi che di fatto finiscono proprio per farlo)… e passi. Dice che il suo programma di proposito non prevede pezzi di Miles… e passi (ma già un po’ meno, perché viene da chiedersi come mai allora il concerto si intitola “Tributo a Miles Davis”: forse per richiamare più pubblico?). Passi anche che – misteriosamente – dei musicisti preannunciati ad affiancare il leader Rooney, nessuno era presente sul palco del Comunale di Modena; passi anche questo, sono cose che capitano. Ma sinceramente faccio fatica a far passare un concerto sciatto come quello cui ho assistito.Forse erano poco affiatati? Non credo: gli stacchi erano tutti piuttosto precisi e anche l’impasto era ragionevolmente amalgamato. Forse erano semplicemente poco convinti. Rooney suona la tromba con tecnica sicuramente impeccabile e ne trae un limpido suono indiscutibilmente milesdavisiano. Ma questo non basta: i suoi assoli – pochi e brevi – erano quasi del tutto privi di idee. Se si aggiunge che Rooney è fisicamente goffo e lento, che per di più ha l’abitudine di andarsene dal palcoscenico durante gli assoli altrui, si comprende come mai al concerto sia mancato un elemento base del jazz: la comunicativa. Certo, anche Davis si allontanava dalla scena (di più: suonava di spalle e maltrattava il pubblico), ma nel suo caso si trattava di atti segno di una forte personalità, non del contrario come nel caso di Rooney.Non mi dispiaceva il sassofonista, ma siccome ha suonato anche meno di Rooney stesso (costretto?), non riesco a sbilanciarmi troppo. Di certo mi ha ispirato simpatia, non fosse altro che per l’aver alternato il sax tenore al soprano. E io, che volete farci, quando vedo un soprano mi commuovo…Quanto alla sezione ritmica: il pianista-tastierista era pressoché inudibile e ha contribuito ben poco alla serata; il contrabassista sembrava davvero valido e mi dispiace di essermi perso il suo assolo, perché sono andato via prima della fine e mi è stato poi raccontato che l’unico assolo appunto del contrabasso è stato relegato nel bis che non ho sentito; il giovane funkeggiante batterista è stato l’unico elemento davvero convincente, grazie alla sua estatica fisicità e alla sua straordinaria inventiva timbrica e dinamica che – non sto esagerando – a tratti mi ricordava addirittura Elvin Jones e che sembrava l’autentico leader della formazione, al punto da non assecondare gli assoli altrui bensì guidarli.Un caso a parte è il suonatore di “roundtables”, questo sì milesdavisiano. I suoi interventi spaziavano dal semplice arricchimento ritmico all’effetto di straniamento (sentire, un malinconico duetto di piano e tromba intervallato da voci campionate fa un certo effetto), fino all’assolo vero e proprio. Non ho molta familiarità con questa tecnica (non riesco nemmeno a concepire come si possa suonare un giradischi al di là dell’ormai inflazionato scratch anniottantesco); può darsi fosse un musicista mediocre, ma a me profano è sembrato di una bravura straordinaria.Ne ho parlato al maschile, ma gira voce fosse una ragazza. Non saprei dire: a causa dell’angolazione del mio palco e del suo look oversized, mi riesce difficile stabilirlo. Forse potrei se avessi un elenco dei nominativi di questi musicisti. Ma, come ho detto, non erano quelli annunciati sui programmi di sala e temo che, almeno qui in zona, non se ne serberà memoria.

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  • 2 months later...

Esattamente quarant'anni fa - il 17 Luglio del 1967 - moriva prematuramente John Coltrane, uno dei più grandi musicisti della storia.Genio nell'arte e santo nella vita, Trane è uno di quei pochi che hanno cambiato la mia esistenza. So di non essere l'unico a dovergli tanto.A nome mio - e di tutta l'umanità - un commosso pensiero a lui che ora riposa nell'abbraccio del Supremo Amore.La sua musica è sacra, il suo nome è benedetto.

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Guest Raindrops88

Non avevo visto questo topic, comunque mi ricordavo di Coltrane e del 17 luglio, è una di quelle persone che mi sarebbe piaciuto sentire dal vivo, ma la mia eta mi ha imposto di conoscerlo solo attraverso dischi e altri supporti d'ascolto. Coltrane è uno dei pochi autori di musica mooolto sofisticata che mi è sempre piaciuto. Mi spiego meglio, ho seguito per buona parte dei miei 18 anni di vita lezioni al conservatorio, e sono stato letteralmente immerso, almeno per sei anni, nella musica classica. L'istruzione ha cambiato me e i miei gusti musicali ovviamente, e tutt'ora prediligo le musiche che posso seguire logicamente e armonicamente, scartando le melodie più sperimentali, arzigogolate, astruse, che, come dicevano i miei insegnanti "le capisce chi le suona, e basta". Poi ho cominciato a studiare jazz, come estensione naturale del discorso musicale classico, e mi sono tuffato nel mondo di Coltrane, e di tanti altri, ma solo lui è rimasto, non mi chiedete perchè, è davvero puro fascino. Gli altri autori solo se sono legati al mondo degli spirituals, dell'africa in modo più forte, con ritmiche travolgenti, tempi stravaganti, o melodie struggenti e condivisibili a livello di sentimenti, solo se si muovono in questi campi mi piacciono in qualche modo. Si, ho dei gusti complicati, ma in fondo chi di noi non ne ha? :(

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Ma no, non hai gusti complicati. :DNon c'è nulla di male nel prediligere la tonalità: c'è chi sostiene che essa faccia parte inevitabilmente del nostro patrimonio genetico. Io personalmente non lo credo (abbiamo imparato a fare a meno della prospettiva, possiamo fare altrettanto con l'armonia tradizionale), ma non posso negare che sia così per la maggior parte della gente.Quanto a Trane, centri proprio il punto. La sua musica, pur essendo tecnicamente ostica, costruita su strutture non comprensibili a un ascolto superficiale, va diritta in fondo all'anima: in realtà parla un linguaggio universale; essa è un'esperienza intuitiva, totale, mistica.E questo lo si deve alle grandi doti umane di John Coltrane, che sempre rimasero sottese alle sue sperimentazioni avanguardistiche.

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Guest Raindrops88

Permettimi di ampliare un minimo il discorso del linguaggio universale. in fondo la musica è il linguaggio universale, sarò rigido, ma qualcosa di cantato, suonato, rumoreggiato, che non è condivisibile, ne in un primo ne in un ultimo momento, non è universale, in altre parole, allora non è musica, è dissertazione, è affidarsi al caso degli accostamenti, è cercare suoni a caso che tornino in un discorso più amplio. Coltrane va oltre, secondo me, e si pone su di un piano tutto suo. è la magia di Coltrane, in altre parole, anche io la faccio risalire al suo spessore di essere umano, perchè sentire cose di Coltrane suonate da altri non mi da assolutamente sensazioni simili all'esecuzione originale. Qui sono arrivato ad accettare quella che potrei chiamare "pura magia". Sarà il sapore delle vecchi registrazioni, gli strumenti, o una miriade di altre cose, ma ritengo che una simile esperienza non sia ripetibile, finchè qualcun'altro non arriverà e come Coltrane ripeterà la magia.Chiedo perdono per una simile dissertazione :( oramai è una mia deformazione professionale, ragionare sulla musica in questi sensi.

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Guest Raindrops88

ahahaha, immaginavo!Ovviamente non intendo che non sei in grado di capire, ma solo che certe cose, almeno io, le sento molto per così dire d'istinto, e non riesco a spiegare con buone parole cosa intendo.Provo a risintetizzare il concetto. Allora, la musica di per se è un linguaggio universale, qualcosa che il genere umano condivide in tutto il mondo. Se un rumore, una musica, un ritmo, non sono condivisibili, in un qualche modo, da più persone che lo/la ascoltano allora non stiamo parlando di musica. Detto questo, alcune musiche sono più universali di altre: la musica di Coltrane, è in altre parole su di un altro piano, più alto. Anche io tendo a dire, che questa "migliore qualità", sia dovuta allo spessore personale del nostro musicista, e ne traggo prova quando, sentendo le musiche di Coltrane, suonate da qualcun'altro, non mi impressionano minimamente, le trovo banali, noiose, incomprensibili. In altre parole c'è un ingrediente segreto, altrimenti le note di Coltrane, ma come di tantissimi altri autori, sono un ammasso di virtuosismi, tecnica, soluzioni armoniche. Ora, questo ingrediente segreto, è la pura magia di una sensazione, oppure può essere identificato in qualcosa di più materiale, come gli strumenti, le vecchie registrazioni su vinile, ma soprattutto, esistendo questo ingrediente segreto, si può ripetere la magia di Coltrane?Io ci ho provato, poi semmai si passa a parlare d'altro, non è mica così fondamentale che io dica la mia su queste cose :( :(

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No, infatti ciò che dici è opinabile per diversi motivi. Intanto perché non cogli il punto di ciò che avevo scritto io. Non mi riferivo all'universalità della musica, ma alla unviersalità intesa come potenza comunicativa di Coltrane, che - pur facendo avanguardia densa di sperimentazioni tecniche - rendeva le proprie esibizioni immediatamente comprensibili ed entusiasmanti anche per coloro cui rimaneva nascosta la natura concettuale di questa sperimentazione.Poi perché non posso essere d'accordo (ammesso che io abbia capito bene) su affermazioni come:

... la musica di per se è un linguaggio universale, qualcosa che il genere umano condivide in tutto il mondo. Se un rumore, una musica, un ritmo, non sono condivisibili, in un qualche modo, da più persone che lo/la ascoltano allora non stiamo parlando di musica...
perché la musica - e in genere l'arte - non funzionano così; perigliosissimo è il credere di poter stabilire un confine netto tra ciò che è musica e ciò che non lo è sulla base della fruibilità di un dato flussosonoro. Altrimenti, così facendo, spazzi via buona parte della musica contemporanea.Infine, cosa intendi per "musica di coltrane suonata da altri"? O altri suonano a modo loro temi di coltrane ("Naima" e pochi altri) o suonano altri temi nello stile di Coltrane, ma la musica di Coltrane è quella che suona Coltrane e basta: non c'è una divisione (che peraltro nel jazz non c'è praticamente mai) tra momento compositivo e momento esecutivo.
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Guest Raindrops88

Ok, capisco la tua posizione, avevo frainteso il concetto di universale per Coltrane. Per quanto riguarda i confini, sono d'accordo che quelli netti, tracciati alla cieca sono piuttosto pericolosi, il mio era nulla di più che una sorta di definizione, o almeno lo è per me. Questo non vuol dire che la definizione sia per se sufficente, però ha una sua importanza nella possibilità di definire la parola musica, ripeto, la ha per me :( . Quello che non capisco è la tua allusione al mondo della musica contemporanea, per me, quella è una delle più universali e condivisibili, fose meno comprensibile, ma che agisce a livelli diversi dalla sensibilità istantanea. Ed infine, si, mi riferivo a temi di Coltrane "riutilizzati", e mi permetto di aggiungere che autori del panorama jazzistico, fondano la loro ricerca musicale proprio sull'idea della bellezza tutta spartito per così dire, ovvero, che l'esecutore, ovviamente capace, istruito, non uno sprovveduto, qualunque esso sia, può essere in grado di estrapolare dalle note una certa atmosfera, sentimenti, ed elementi comunicativi, anche se non è lui stesso il compositore del brano. Ma qui purtroppo devo ammettere di professare una verità limitata a pochissimi esempi, e neanche brillanti, peccato, perchè invece questa è la mia idea preferita di jazz, come continuamento ed ampliamento del discorso musicale classico.Oddio anche stavolta un filo logico un pò ingarbugliato, comunque la discussione è interessante, peccato non prenda molto gli altri utenti del forum :(

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Lascia pedere... Difendere il jazz oggi è anche più difficile che difendere la musica classica... PEccato, perché nel vecchio Forum gli appassionati di jazz non mancavano. :cry:Quanto alla musica, la tua definizione purtroppo non è operativa. Non si può definire musica solo ciò che la maggioranza delle persone riconosce come tale, altrimenti (e qui mi spiego) spazzi via la musica contemporanea, in quanto essa di proposito cerca di scardinare le certezze musicali consolidate nella maggior parte del pubblico, la tonalità prima di tutto.Oppure ancora - facendo un esempio un po' azzardato - chi aprisse questo Forum potrebbe credere che la musica sia quella di Emma Bunton (°o°o°o°) e che classica e jazz contino ben poco; invece è il contrario (ne riparliamo tra cento anni).Quindi quando ora dici che secondo te la musica contemporanea è quella più universale mi sbalordisci: tutti sanno che è la musica di ascolto più impegnativo e meno intuitivamente comprensibile. O credi che i forummini nel loro lettorino MP3 nuovo di zecca, coloratissimo trendissimo e pucchosissimo ascoltino il "Moses und Aron"?Qaunto al rapporto tra musica classica e jazz e a quello tra composizione ed esecuzine, sei naturalmente padronissimo di preferire la "third stream" e prediligere le pedissequa riproduzione di modelli, ma non è solo questa la natura originaria del jazz... e temo che così facendo tu ti privi della maggior parte - la parte migliore - del patrimonio musicale afroamericano.

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Guest Raindrops88

Ah, su questo discorso io mi ritengo molto fortunato. Ha voluto il caso che passassi cinque anni di liceo con le persone più aperte dal punto di vista musica, che io abbia mai conosciuto. Siamo riusciti a parlare di opera, melodramma, dodecafonia, jazz e blues, e di li rock, pop, commerciale, mantenendo altissimo il livello di interesse, attenzione, senza sminuire i contenuti di discussione e presentazione. In fondo, se una persona non ascolta jazz, classica o " musica contemporanea colta" è sicuro che le reputi delle cose strane, incomprensibili, lontane. Ma quando si porge l'orecchio non si può fare a meno di constatarne bellezza ed importanza, anche se poi non si ascoltano sul lettore mp3. Mi stupì un giorno beccare sulla chiavetta del discotecaro di classe i quartetti di haydn. Non finisco mai di stupirmi :( :( .

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  • 4 weeks later...

domani scriverò un intervento più lungo, ora mi limitò a questo, la mia canzone jazz preferita, forse banale lo so...http://www.youtube.com/watch?v=5tjlz3DYmTw

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  • 1 month later...

Solo oggi apprendo della scomparsa di Max Roach, avvenuta in un Agosto durante il quale i media preferivano occuparsi di scandaletti effimeri piuttosto che di un lutto così triste.

 

Classe 1924, Max Roach è semplicemente uno dei padri del jazz moderno: dopo gli esordi con Duke Ellington diventa uno dei batteristi preferiti da Charlie Parker, inserendosi nella scia di Kenny Clarke e contribuendo a codificare il nuovo ruolo della batteria, anzi a farla considerare non più un semplice accompagnamento di sottofondo ma uno strumento come gli altri, a pieno titolo.

 

Si deve a musicisti come Kenny e Max l'intuizione che il batterista non deve per forza "tenere il tempo" ma "stare a tempo": spostando la scansione ritmica dalla grancassa al charleston e utilizzando la stessa per lanciare le celebri "bombe", il bebop ha assunto il caratteristico potere elettrizzante che è una cifra indispensabile del jazz dagli anni ’40 in poi (e che pur troppo spesso viene dimenticata dalle martellanti e monotone figurazioni rimtiche della musica pop e dance, con gravi effetti dis-educativi per gli orecchi dei giovani d'oggi, convinti che Britney Spears o altri come lei facciano musica di qualità).

 

Insieme al trombettista Clifford Brown, Max Roach fonda negli anni ’50 una formazione praticamente senza rivali per potenza espressiva e capacità innovativa. Interrottosi il fertile sodalizio con Brownie (a causa, come si sa, della tragica scomparsa di quest’ultimo in un incidente d’auto), Roach prosegue imperterrito per la sua coraggiosa strada, che negli anni ’60 si arricchisce di un impegno politico intensamente sentito e mai più tralasciato. Un titolo per tutti: quel “We insist! Freedom now suite”, proprio del 1960, che costituisce una pietra miliare non solo della storia del jazz ma anche di quella dell’emancipazione dei neri d’America. Il disco riuniva l’incalzante batteria di Roach, le suggestive percussioni di Olatunji, il rapsodico sax di un grande vecchio come Coleman Hawkins, la voce straziante di Abbey Lincoln (che fu moglie di Roach per una decina d’anni): colpì così tanto gli ascoltatori da scuotere la loro coscienza meglio di quanto avrebbero fatto mille comizi e per questo fu malvisto negli U.S.A. e addirittura sequestrato in altri stati, come il Sud Africa.

 

Negli ultimi anni, almeno prima che la malattia lo rendesse del tutto invalido, Max Roach non aveva smesso di suonare e anzi si era dedicato con cuore alla didattica, a formare – si spera – quei nuovi musicisti di cui tanto si ha bisogno.

 

Molto amato in Italia, dove si esibiva spesso, Roach aveva ricevuto una decina d’anni fa la laurea ad honorem in Musicologia al DAMS di Bologna – e qui non posso non inserire un ricordo personale, essendo quella l’unica volta in cui ho potuto ascoltare il grande Maxwell dal vivo. Ne ho ancora i brividi.

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