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L'ombra negli occhi


Kador88

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                                                                             PROLOGO

 

“Andiamo, muoviti, vecchia carriola!” imprecò Abraham Lockwood, seduto al volante del suo vecchio pick-up. L'automobile gli rispose sobbalzando, mentre si inerpicava su per lo stretto sentiero che costeggiava un bosco di latifoglie, sollevando cumuli di terriccio e pietrame. Seduta sul sedile del passeggero, una Bonnie eccitata uggiolava a più non posso, armeggiando con la zampa destra contro il meccanismo di apertura della portiera. Abraham scostò di poco il viso dalla stradina sterrata, voltandosi a guardarla con occhi pieni d'affetto: quel cane era ormai la sua unica compagnia. Da quando sua moglie Isabel era morta, quasi dieci anni prima, Bonnie era stata l'unica che gli fosse rimasta vicino. I Lockwood non avevano figli, così, da quando la sua amata consorte aveva lasciato questo mondo, poteva ben dire di aver vissuto in solitudine. “Dannato tumore osseo!” disse a denti stretti, stringendo con mano ferma il volante rivestito di cuoio nero, tutto sbocconcellato dal tempo e dall'usura. Scalò la marcia per rallentare, in modo troppo deciso, provocando uno stridio ferroso che poco gli piacque, ma il pick-up ne usci indenne limitandosi a tossicchiare dal motore. Finalmente, un paio di curve dopo, avvistò il posto che da ormai diversi anni frequentava nelle mattinate umide e fredde di fine settembre. Rallentò fino a fermarsi, mentre Bonnie ora non la smetteva più di dimenarsi e di saltare verso il finestrino, del tutto insofferente al fatto che tra lei e il mondo esterno si frapponeva una lamina di vetro. “Adesso ci siamo, buona!” la accarezzò dolcemente Abraham, aprendole la portiera con un secco movimento misurato. Il cane si fiondò immediatamente fuori dall'abitacolo, cominciando a correre lungo lo spiazzo umido e infangato, ma senza allontanarsi troppo dal suo padrone. L'uomo scese dalla vettura, facendo attenzione a non scivolare sulle foglie bagnate che già si attorcigliavano attorno ai suoi piedi, mentre muoveva i primi passi nell'aria fine di quel mattino d'autunno. Scaricò l'attrezzatura dal baule e si mise in spalla un vecchio fucile a canne mozze, di quelli come ormai non se ne fabbricavano più. Una volta, aveva sentito dire da qualcuno che in quei boschi si aggiravano torme di cervi, ma lui in tutta onestà doveva riconoscere di non averne mai visto nemmeno uno. “Eppure ormai sono quasi dieci anni che vengo qui... dieci anni, come vola il tempo!” pensò, stringendo gli occhi, mentre nella sua mente si rincorrevano le immagini di Isabel, vestita di bianco nel giorno del loro matrimonio. Immediatamente avvertì una morsa stringersi attorno al suo cuore: nonostante sua moglie non fosse più accanto a lui da tanto, troppo tempo, gli mancava ancora terribilmente: a volte poteva persino di nuovo rivederla assorta nelle faccende di casa, tutta presa dal tirare a lucido quelle dannatissime posate d'argento, un'eredità della sua bisnonna. Oppure la sentiva cantare sommessamente, come era sua abitudine fare quando stava riassettando la cucina. O anche... la lingua umida di Bonnie lo riportò alla realtà: il cane era tornato a prenderlo e adesso gli stava strusciando il muso morbido contro le mani, scodinzolando a più non posso. “Si, andiamo, bella. Non preoccuparti, sto bene!” le rispose lui, risvegliandosi da quel torpore che lo assaliva quando viaggiava con la mente nel regno dei ricordi. Presero a camminare, Bonnie in testa, lui leggermente più indietro. Il cane si fermava ogni tanto lungo il sentiero sterrato, come a sincerarsi che il suo padrone la seguisse. Abraham, dal canto suo, camminava pigramente respirando l'aria pulita a pieni polmoni. Aveva subito da qualche tempo un intervento a cuore aperto, e il suo medico gli aveva consigliato qualche gita lontano dall'aria inquinata delle città, raccomandandosi però di non esagerare e di non sforzarsi: alla sua età, poteva essere facile incappare in qualche ricaduta... l'uomo sorrise: aveva quasi ottant'anni, ma tutti glie ne davano come minimo dieci di meno. Non aveva mai capito se la gente pensasse davvero che lui avesse un'altra età oppure se lo dicesse soltanto così per dire. Continuò a camminare, facendo leva col suo bastone da passeggio per attraversare una serie di leggeri dislivelli. Il fucile gli ciondolava lungo la spalla sinistra, un peso inutile attaccato al suo corpo: non aveva la minima intenzione di cacciare alcunché. Soltanto, il sabato era il giorno della caccia: questo gli permetteva di scindere la settimana in giorni ben precisi, in modo da poter passare il tempo occupandolo con migliaia di piccoli preparativi che per lui erano ormai divenuti indispensabili. Si fermò a riflettere su quanto si sentisse solo ultimamente, ma proseguì per evitare che i fantasmi della nostalgia riprendessero ad aggredirlo durante quella mattina. Si concentrò sulle migliaia di sensazioni che gli turbinavano intorno: l'arietta fresca gli pizzicava le guance e le braccia nude, mentre un odore di terra smossa e foglie bagnate gli solleticava le narici. Gli alberi, degli ippocastani a prima vista, erano in pieno sfavillio a causa della luce lattiginosa e ovattata del sole, che si rifletteva sulle loro foglie cangianti d'autunno, accendendole di bagliori infuocati. Un tordo solitario diffondeva il suo richiamo per la selva in miniatura, ma non riceveva alcuna risposta. All'improvviso, i cespugli alla sua destra presero a muoversi, frusciando, e quel rumore si diffuse rapidamente per tutto il sottobosco, zittendo le garrule voci degli uccelli che andavano salutando il mattino sorto da poco. Bonnie, che aveva cacciato la testa tra le radici contorte di un albero divelto, si voltò verso la direzione del rumore e prese ad abbaiare forsennatamente. “Buona, buona!” la redarguì Abraham, facendole gesto di stare tranquilla con la mano. Ma il cane ignorò il comando: inarcò la schiena, cacciando la coda tra le zampe posteriori, per poi proseguire con una serie di latrati secchi e lamentosi, di intensità crescente. Abraham cominciò a spaventarsi sul serio: possedeva Bonnie da molti anni e, in tutto quel tempo, non l'aveva mai vista così terrorizzata. “Che si tratti di un orso?” si chiese, facendo scivolare il fucile dalla spalla e puntandolo verso quei cespugli arruffati, che ancora si stavano agitando, sibilando sempre più bruschi. Portò l'arma all'altezza degli occhi, mirando verso quel mare verde ed impenetrabile, deciso ad aprire il fuoco contro qualsiasi cosa vi fosse fuoriuscita. Finalmente, dalla massa di vegetazione emerse l'origine di tutti quei rumori: l'uomo spalancò la bocca. Non poteva crederci. Non era reale. Non poteva essere reale. Due occhi verde smeraldo spuntavano da una frangia scura e ispida. Quello che doveva essere un vestitino rosa a fiori, adesso era uno straccio bucherellato che ricopriva un corpo tutto pelle e ossa. E, ultimo ma non meno importante, un pesante collare di ferro stava serrato attorno al collo di quella creatura, con un rimasuglio di catena che ancora penzolava a mezz'aria. L'uomo indietreggiò, barcollando, mentre era ancora incapace di credere a ciò che gli si stava materializzando di fronte: alle sue orecchie, i latrati disperati di Bonnie arrivarono sordi e rochi, come se il suo fedele cane fosse immerso in una dimensione parallela. Abraham continuò a camminare all'indietro, finché non urtò con le spalle il possente tronco di uno degli alberi del bosco. Si riscosse dallo shock e si costrinse a fissare chi gli stava dinnanzi riconoscendo, sotto lo strato di magrezza e sudiciume, le fattezze di una bambina di circa dieci anni.

 

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  • 3 months later...
Silverselfer

...e ma sei proprio bravo! 

 

Uno scritto molto curato, Hai una buona mano da narratore. Sono certo che il resto del racconto è già nella tua testa, quindi mi sento di augurarti  buon lavoro e soprattutto non scoraggiarti ... niente paturnie .. sei bravo. 

 

Se poi ci vorrai regalare qualche altra pagina ... 

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