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Né con te né senza di te


Chimera

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~ Né con te né senza di te ~

 

 

 

 

 

 

Accarezzo il suo corpo nudo. Il sensuale calore di quella pelle risulta terribilmente invitante sotto le mie dita.

 

Come sempre sorge in me l'inebriante desiderio di stringerlo, e tuttavia esito: v'è qualcosa che mi fa desistere. Continuo ad accarezzarlo con leggerezza. Forse è il suo respiro regolare, segno che è addormentato. Forse è la serenità del suo volto assopito, con quella sua lievissima aria di beata soddisfazione. Cose, queste due, che non voglio turbare in alcun modo. O forse è semplicemente che mi piace davvero troppo stare a guardarlo mentre dorme e lasciare che i miei pensieri giochino con le proprie confuse volute sul candore del suo corpo.

 

Al di là dalla vetrata, nera di notte, nevica. Qualcuna delle fioche luci della strada lascia cogliere il bianco di quegli innumerevoli fiocchi che con tocco silenzioso e leggero cadono sulla città. Largo IV Marzo si lascia ricoprire docile dalla neve, il chiaroscuro dell'illuminazione notturna che gioca con gli alberi e la via lastricata.

 

Fuori, il freddo dell'inverno. Dentro, il tepore del nostro giaciglio.

 

Dopo un po' il richiamo del suo collo, là dove la pelle nuda si contende con i capelli quella curva che mi è sempre riuscita così sensuale, mi vince e chino il capo. Lo bacio piano in quel punto particolare, e nel mentre lo faccio mi stringo istintivamente a lui. Con il profumo dei suoi capelli e della sua pelle che mi s'infiltra nelle nari, prendo ad accarezzargli il capo.

 

Si desta. Sebbene abbia fatto tutto con attenta leggerezza, i miei gesti hanno evidentemente intaccato la quiete del suo sonno.

 

«Scusami, t'ho svegliato...».

 

Mi sorride, dolce e rassicurante, voltando il viso verso di me. Dice dopo un momento: «Che fai, non dormi? A che pensi?».

 

Faccio un vago gesto con la mano. «A te. A me. A noi, quando ci siamo conosciuti. Dove siamo stati...».

 

«Ohlalà, come mai così romantico stanotte? Dove sono finiti il tuo Martini e la tua sigaretta? E io che credevo d'avere un ragazzo cinico!». Canzonatorio, con una lieve nota di malizia.

 

Gli sorrido divertito. «È tutta colpa tua! Non riesco ad essere cinico con te nei dintorni. E devo aver perso il mio Martini qua tra le lenzuola...». Prendo a frugarlo e palparlo scherzosamente dappertutto: «Aspetta, che mo' lo cerco un attimo!».

 

Lui tenta di divincolarsi dal solletico, ed al tempo stesso si presta al tocco delle mie dita con la sinuosità di un gatto intento a fare le fusa. Ridiamo entrambi. E ci baciamo intensamente, acquietati infine l'uno sopra l'altro.

 

Il silenzio ci ricopre e per un attimo restiamo ad osservare, attraverso i vetri della finestra, il buio della notte animato dalla neve che cade.

 

«Perché non me lo racconti?» mi sussurra ad un tratto all'orecchio, rompendo col tenue calore della sua voce la serenità di quella quiete.

 

«Che cosa?».

 

«Quello che stavi pensando. Come ci siamo conosciuti. Dove siamo stati».

 

«Perché? Tanto sai già tutto: c'eri anche tu, ricordi?».

 

«Coglione, certo che c'ero anch'io! Ma voglio sentirmelo raccontare dalla tua bella voce».

 

«A parte che la mia voce è orribile. E in ogni caso...».

 

«Non m'importa, per me è bella. Fanne una storia e raccontamela. Dai, per favore!».

 

Gli scocco un bacio sulle labbra. Sorridendo complice, acconsento: «Okay, dai. Ma solo perché sei tu che me lo chiedi, e me lo chiedi così, tutto nudo...».

 

 

~

 

 

«Conquistami» ti dissi.

 

Eravamo usciti un attimo fuori dallo Smile Tree – adoro i cocktail di quel posto! Chiacchieravamo. Anzi, più che altro tu parlavi ed io mi fumavo una sigaretta. Nella piazzetta della Consolata, quella sera ancora mite di metà ottobre, non c'era nessuno, solo noi e le due statue barocche della chiesa che ci guardavano indifferenti. O forse compassionevoli?

 

Non ricordo come cademmo sull'argomento, fatto sta che ti dissi proprio così. E tu mi guardasti un poco stupito, prima che un sorriso ti prendesse le labbra.

 

Sì, è vero: era stato abbastanza impertinente da parte mia, quasi audace. Soprattutto per uno come me. E dicendolo, in cuor mio, avevo tralasciato il fatto che già non riuscivo a fare a meno della tua personalità e che il tuo volto aveva fatto breccia e m'aveva conquistato, con quei lineamenti decisi ma non troppo forti, quegli occhi di un blu intenso e cangiante come il mare e quella barbetta bionda tenuta un poco incolta – Dio, quanto mi piace! – che ti sottolineava le linee del mento e della mascella e che terminava sul capo in folti e vivaci ciuffi dorati.

 

Audace, sì. Perché pur chiedendomi che cosa io avessi di tanto particolare – vabbé, qualcosa di particolare forse, ma di speciale ne dubito abbastanza – da attrarti così tanto, come al solito m'ero fatto prendere dalla suggestione del momento. Ero sulla difensiva e quando sono sulla difensiva sai che tendo a fare lo snob. E così t'avevo velatamente sfidato.

 

Ricordo – non so perché te lo sto dicendo, ma era come se la memoria di quella indefinita sensazione continuasse ad aleggiare su di me –, ricordo appunto che la notte prima di conoscerti avevo fatto uno strano sogno. Era un sogno? Penso lo fosse. Non so, mi sembra che lo fosse.

 

Avevo sognato una sera simile a quella. C'era la nebbia, però, ed ero in mezzo agli alberi, in un parco forse. Camminavo sulle foglie ingiallite – erano ingiallite? Credo fosse autunno. Camminavo piano, con calma. Avevo il guinzaglio di Rufus in mano. La luce gialla dei lampioni si mescolava alla foschia e ai profili scuri dei rami. E poi... Poi non ricordo più, ma mentre ti parlavo fuori dallo Smile Tree rammento che la sensazione di quello strano sogno era ancora con me.

 

Ricordo pure che quella sera indossavi quel tuo bellissimo cappotto blu petrolio che mi piace così tanto. Sai di quale parlo, vero? Quello che ogni volta cerco di fotterti e portarmi via. Non t'arrabbiare, ma la prima volta che t'avevo visto, non avevo quasi manco notato il tuo volto, preso com'ero ad osservare con cupidigia il tuo cappotto. Sì, lo so: sono proprio un irrecuperabile finocchio.

 

Nel mentre parlavamo, avevo quasi finito la sigaretta, alternando qualche sorso del mio French Martini Twist, che avevo poggiato sul tavolino lì affianco. Come sempre nelle nostre conversazioni, tu sorridevi, ridevi, scherzavi, malignavi, facevi l'offeso, controbattevi o mi davi ragione sempre al momento giusto. La qual cosa solleticava sin troppo facilmente il mio ego.

 

Rufus, il mio bellissimo Rottweiler di otto mesi, di cui t'avevo già parlato un sacco di volte e che avevi finalmente conosciuto di persona quella sera, gironzolava qua e là nella piazzetta. Sì, è proprio il mio orgoglio Rufus!

 

Mentre chiacchieravamo, si era avvicinato a noi tutto scodinzolante, toccandoci con il muso in cerca di attenzioni che noi, presi dalla conversazione, tardavamo a dargli. È un po' permaloso quando non lo si caga, Rufus. Siccome gli davo poca soddisfazione, venne verso di te, ti leccò la mano e si strusciò contro le tue gambe festoso.

 

«Sembra proprio che io gli piaccia» esclamasti, facendogli qualche carezza sul capo.

 

Ed io avevo subito azzardato, prendendo al volo l'occasione: «Sai come dicono alcuni, no? Tale padrone tale cane...».

 

Cogliendo la lusinga, avevi ribattuto: «E come posso fare per farmi fare le feste pure dal padrone?».

 

Mi lasciasti così, piacevolmente stupito ed interdetto, gli ingranaggi della mia mente che s'erano un attimo inceppati assieme alla mia lingua.

 

Aspirando una profonda boccata di fumo, ripresi il dono della parola. «Conquistami» ti risposi infine in un tono scherzosamente provocatorio, sottolineato dalle spire di fumo che si disperdevano.

 

Fu il tuo turno di restare un momento interdetto. Ma poi ti affiorò uno di quei tuoi sorrisi luminosi, incastonati dalla leggera peluria bionda del tuo volto. «Non l'ho già fatto?» insinuasti.

 

«Sei presuntuosetto, neh?».

 

«Davvero? Lo sono?».

 

«Oh sì, ma quel tanto che basta».

 

«Che basta per cosa?».

 

La conversazione mi stava sfuggendo di mano. «Non saprei...».

 

«No? Mmm, vediamo un po' se basta per questo...».

 

Ero talmente imbambolato che quasi non me ne accorsi. Ti avvicinasti prendendomi la nuca con la mano e mi desti un bacio. Un bacio calmo, leggero ma persistente, le tue labbra sulle mie, leggermente insaporite dal cocktail che avevi bevuto.

 

Riuscii a balbettare qualcosa del tipo: «Ah... Vai per... le spicce tu, eh?».

 

Non so se fu perché ci vide improvvisamente l'uno a contatto con l'altro o perché s'era stufato di non ricevere attenzioni. Fatto sta che Rufus, abbandonato ogni indugio, mi si gettò contro, le zampe sul mio petto, per tentare di leccarmi la faccia – che sia gay anche lui?

 

Io, le capacità cognitive completamente azzerate, preso alla sprovvista com'ero stato dal tuo bacio, in quel momento a mala pena coordinavo il mio corpo per stare in piedi per conto mio. Figurati con Rufus che mi si getta addosso!

 

Ruzzolai a terra sulla schiena: una culata memorabile! E quell'idiota del mio cane che credeva mi fossi finalmente deciso a giocare con lui e che un poco mi mordicchiava la mano, un poco mi leccava la faccia lì sul lastricato, la coda tutta scodinzolante.

 

Non ce ne fu più né per te né per me: scoppiammo entrambi fragorosamente a ridere. E ridemmo per parecchi minuti, tu appoggiato al muro, io ancora a terra mentre cercavo di divincolarmi dal muso di Rufus.

 

«Conquistami» t'avevo detto.

 

Penso che ormai tu l'avessi fatto.

 

 

~

 

 

E quel nostro fine settimana in Corsica, te lo ricordi?

 

Era l'inizio di giugno. Lo era? Mi sembra di sì.

 

Entrambi avevamo potuto prenderci una piccola pausa tra un esame universitario e l'altro. E ce l'eravamo anche presa comoda: cinque giorni, dal giovedì al lunedì successivo, per far base a Bonifacio e girare la costa meridionale sull'omonimo stretto, con tutte le sue splendide spiaggette.

 

Tu non eri mai stato in Corsica. Io sì, una volta in campeggio, durante una vacanza con gli amici. Ti lasciavi guidare alla scoperta di quei piccoli luoghi che io avevo già visto e ricordavo. E che rivedevo con intenso piacere, perché là con me c'eri tu, cui potevo mostrarli, quasi fossi stato un maggiordomo orgoglioso nel dischiudere ad un visitatore giunto da lontano i battenti di una porta che immetteva nella piccola meraviglia di uno studiolo interamente affrescato.

 

Come al solito, nei giorni precedenti avevo lavorato di fantasia, figurandomi i luoghi in cui ti avrei portato. E le espressioni sul tuo bel volto: stupore, piacere, felicità o magari – perché no? – delusione, contrarietà, noia.

 

E come al solito la realtà aveva smascherato la futilità di ciò che avevo immaginato, pensato, previsto. Quel lungo week-end fu – in una parola semplice e potente – incantevole.

 

I giorni che trascorremmo a Bonifacio, in quei momenti pigri ed assolati, penetranti come il profumo del Mediterraneo, inconsciamente furono quelli che mi legarono definitivamente a te. E ti resero una parte di me, se non imprescindibile, comunque fondamentale.

 

Laggiù tra le acque cobalto del Mar Tirreno, tu mi vinsi. Ed io mi arresi, grato.

 

Alloggiamo in quell'hotel nel centro della haute ville di Bonifacio; una costruzione dalla facciata vagamente neoclassica accoccolata in mezzo alla piccola folla di edifici medievali ed ottocenteschi stretta tra gli alti bastioni che si spalancavano sul vuoto. Dai suoi balconcini si godeva una splendida vista dei dintorni cittadini, dalla secca fenditura in corrispondenza del porto sino alla distesa del mare scuro.

 

L'hotel era un posto franco e ad un tempo sofisticato, come solo certi luoghi francesi sanno esserlo. Allo stesso modo, tutto il resto era pittoresco e selvatico come solo certe zone mediterranee, autentiche o per assurdo magistralmente artefatte, sanno esserlo.

 

La sera del primo giorno, dopo una veloce cena a base di piatti tipici corsi, consumata in quella cantina dal nome genovese – Doria, mi sembra –, ricordo che passeggiammo tra i viottoli lastricati perdendoci nell'arancione delle delicate luci cittadine.

 

Era passata la mezzanotte e per le stradine non c'erano che poche persone, destinate a scomparire subito, svoltato quell'angolo o salita quella scalinata. L'atmosfera era tranquilla, senza turbamento alcuno, vellutata. Il posto, le cui pietre erano così intrise della immobile placidità del lento scorrere del tempo, sembrava così adatto ad ospitare le nostre figure che si allacciavano, si staccavano, si abbracciavano, si baciavano. Un luogo così pieno di tradizione e, per assurdo, così ben disposto ad accogliere nel silenzio ovattato della notte l'anomalia di due ragazzi l'uno innamorato dell'altro.

 

Sai bene quanto io mi pieghi facilmente alla suggestione dei luoghi e delle atmosfere. Forse era quello o forse eri semplicemente tu... Fatto sta che le difese del mio animo si sbriciolavano sulle brecce che vi avevi aperto.

 

Qualcuno una volta disse che in amore è come in guerra. Le mie battaglie le ho sempre condotte con strategie sfuggenti, pazienti, colpendo là dove sono i punti deboli, magari fulmineo e non visto, spesso aggirando o fuggendo l'assalto diretto.

 

Non ero preparato ad un attacco frontale. Non ero preparato all'attacco frontale che tu mi stavi portando da tempo, dolce, sensuale ed irresistibile.

 

Le mie difese si stavano spezzando. Finalmente. Forse per la prima volta lasciai che qualcuno marciasse su di me nel profondo. Deposi le armi e le mie tattiche, e lasciai che tu mi marciassi dentro.

 

È tutto abbastanza confuso nella mia mente, ma so che quella nostra breve vacanza si protrasse così, tra il mare e la terra, le tue braccia e i miei sorrisi.

 

La mattina di domenica – credo – ti condussi nel luogo che più preferivo tra quelli della zona: la spiaggetta di Saint Antoine.

 

«Guarda, il luogo è un sogno. L'unica cosa è che bisogna scarpinare per un po' prima di arrivarci» ti avvertii, usciti dall'hotel. «Se non hai voglia non c'è problema».

 

«Tranquillo! Se dici che è bellissimo e ne vale la pena mi fido. Andiamoci. E poi così rassodiamo un po' le ciape!». Mi sorrisi sornione, con il candore dei tuoi denti in bilico tra la risata, la complicità e l'ironica comicità che avevi messo nel pronunciare quella parola piemontese che t'avevo insegnato e che ti era sempre risultata tanto buffa.

 

Dio, i tuoi sorrisi! Ho la sensazione che tutto ciò che è davvero essenziale tu me l'abbia sempre detto attraverso un sorriso. Il resto, le parole, i baci, le carezze, i sospiri, i silenzi, le urla e i gesti, sono sempre stati soltanto il naturale e vivido intermezzo tra un sorriso e l'altro.

 

Arrivammo in auto fino al nuovo faro di Capo Pertusato – chissà poi dove l'avevamo tirata fuori, quell'auto. Da lì la strada proseguiva seguendo l'incerto saliscendi del promontorio, interdetta ai veicoli da una catena tirata su alla bell'e meglio. L'asfalto era screziato delle rosee tonalità dei detriti di granito mescolati ai bitumi del catrame.

 

Lungo di essa ci fermammo varie volte ad ammirare gli strapiombi a picco sul mare, il verde della bassa vegetazione, il profilo lontano e fortificato di una Bonifacio arroccata sulla sua lingua di roccia.

 

Dalla strada asfaltata deviava, ad un certo punto, un sentiero fatto di sassi, terra battuta e sabbia, che spavaldo si gettava in giù, aggrappato al costolone del rilievo, e che conduceva dabbasso. Là in fondo, incastonato tra le formazioni rocciose come la lastra colorata di una vetrata, c'era il mare.

 

Con la cautela tipica di chi percorre una via incerta e selvatica, scendemmo anche noi, la terra che a tratti quasi sembrava rigettare il sentiero stesso e che, in altri, sembrava invece aprirsi per ospitarlo nel suo grembo, protettiva. Verdi e grigi arbusti di tamerice, felce e rosmarino selvatico sfumavano ininterrottamente le pareti delle alture, bianche e marroni, riarse dal calore. Il sole delle undici, pieno e calmo, vivificava tutti i colori e dava lucentezza all'inesausto intarsio blu dello specchio del mare.

 

Durante tutta la scarpinata avevo visto i tuoi occhi, curiosi e meravigliati, correre da un capo all'altro delle alture selvagge per poi finire ogni volta a perdersi nell'immensa nota cobalto dei marosi, così piena e viva nella luce mattutina. E in cuor mio avevo esultato, senza darlo a vedere, perché ero riuscito a strapparti quell'espressione di genuino e stupito piacere che ti illumina il volta in una maniera tutta tua.

 

Raggiungemmo dopo un po' – in realtà mi parsero pochi attimi – la raccolta spiaggia di Saint Antoine. Alle nostre spalle si apriva in pendenza crescente la ripida fenditura su una delle cui pareti s'erpicava il sentiero dal quale eravamo giunti. A sinistra si ergeva rassicurante la massa del promontorio su cui giaceva, come se vi fosse stato appoggiato, il vecchio e dismesso faro di Pertusato, risalente alla fine dell'Ottocento: era l'estrema propaggine meridionale della Corsica. La nostra destra era invece coperta da un alto spuntone roccioso dalla forma caratteristica. Nasceva al livello della spiaggia e si innalzava in rapida ascesa per una ventina di metri o più, sino alla cima piatta come quella di un altopiano. Su di essa stava un enorme masso di forma vagamente cubica, o comunque non dissimile da un parallelepipedo. Sembrava uno di quegli altari semplici e spogli, fatti di un unico, squadrato blocco di granito. Come se un gigante avesse posto su quel basso promontorio dall'aria vagamente sacra un altare per venerare il dio del mare.

 

Davanti a noi, invece, le acque. Verdi, blu e celesti, che si contorcevano agitate nell'incessante caleidoscopio della schiuma, dell'abisso e della lucente pioggia di riflessi luminosi che ne imperlava cangiante la superficie. Al di là, il profilo scuro della costa della Sardegna.

 

E il cielo. Limpido, di un azzurro commovente. Solcato pigramente da enormi nubi bianche, molto basse sull'orizzonte, i contorni talmente nitidi nella luce del sole da conferire a quelle candide masse una plasticità quasi scultorea, alla stregua di uno straordinario sipario di velluto rigonfio che s'apriva sull'immenso del cielo, cristallizzato nel tempo dalla sapiente mano dello scultore.

 

Il vento spirava senza sosta dal mare, alternando raffiche prepotenti a più calmi momenti di brezza e portando seco l'intenso odore della salsedine.

 

Dio, quanto m'ha incantato quel luogo! Magico ed orgogliosamente raccolto, pareva uscito da un poema greco. L'Odissea, con tutta probabilità.

 

Ricordo che la caletta era praticamente deserta, occupata solamente da una coppia di mezz'età, lui con i capelli sale e pepe, lei bruna, abbronzata e generosamente snella come la migliore delle donne mediterranee. E da un solitario escursionista, intento ad immergersi nei flutti, il fisico atletico e guizzante.

 

«Mmm, che muscoli!» notai io con una punta di malizia quando lo vidi.

 

Mi rifilasti un pugno di affettuosa gelosia sul braccio – lo facesti, vero? –, guardandomi di sbieco e fintamente risentito, adombrando velati sottintesi: “è meglio se guardi da un'altra parte!”.

 

Non sono mai stato un santo – lo sai. Come tutti, chi più chi meno, d'altronde. «In fondo siamo tutti dei pezzi di carne e come tali ragioniamo» avevo detto cinico un giorno – te lo ricordi? Lo penso ancora. E tuttavia, quale sconfinato universo di pensieri e parole, di emozioni, istinti, abitudini ed imprevisti che è concesso a questi pezzi di carne!

 

Ci mettemmo in costume e ci sdraiammo sulla sabbia. Io già abbastanza scuro, un po' più basso e robusto nel fisico. Tu, perfetto, il corpo slanciato e sensuale dalla muscolatura definita, la pelle già sfacciatamente abbronzata dopo solo pochi giorni di sole, ed impreziosita dalla tua corta, vellutata peluria bionda.

 

Tutto merito dei geni mediterranei di tuo padre, lo sai bene. Così come sono merito dei geni siculi di tua madre – ne sono certo – gli occhi azzurri e i capelli biondi: antico retaggio dei normanni giunto zigzagando tra le generazioni e i secoli fino a te.

 

Tutto si fa confuso nella mia memoria, ma ricordo con insolita nitidezza le sensazioni che mi avvolsero in quella spiaggia nelle ore seguenti. Sensazioni che si fanno immagini e che, ciò nonostante, rimangono dentro di me come cose che più che vedere con gli occhi, sentii nel profondo. Il tepore del sole sul corpo, la frescura dell'acqua marina, il sale sulla pelle e l'odore della salsedine nelle narici. La sabbia calda, quasi bollente, che si disfaceva e si componeva in forme sempre nuove sotto i miei piedi, i suoi granelli dappertutto. Il respiro cadenzato del mare, a volte quasi indispettito, altre calmo e regolare.

 

E poi, verso il tramonto, la luce cremisi del sole che inondava ogni cosa, la ingentiliva, quasi l'appassiva man mano che s'avvicinava all'oscurità della sera. Noi due soli – gli altri visitatori se n'erano andati, come svaniti – e la nostra presenza che si fondeva con la quiete di quel luogo.

 

Tu eri nudo su di me. Le nostre figure si allacciavano, il tocco delle tue mani scivolava sulla mia pelle. Le labbra, le nostre labbra erano dappertutto. Il tuo corpo con istintiva passione premeva sul mio ed io, cingendoti con le braccia, ti legavo a me e i nostri membri eretti si toccavano l'un l'altro, stretti tra i nostri ventri.

 

Dici che la sto facendo troppo teatrale? Forse hai ragione, ma sai come sono fatto, no? Come siamo fatti.

 

Ah, l'amour! Ci rende proprio dei beati coglioni, non credi? Sia quando c'è che quando non c'è.

 

Sentivo il tuo respiro animale dentro la mia bocca, i nostri gemiti si perdevano nell'aria del tramonto. E poi quella scarica di tensione che attraversò entrambi i nostri corpi, il roco verso liberatorio delle nostre gole, la soddisfazione delle nostre membra che infine ci acquietava, distesi.

 

Restammo così per quelle che mi sembrarono ore – furono ore? Forse furono solo pochi minuti, una sospesa e fugace eternità dove il sole s'era fermato a cavallo dell'orizzonte per poter continuare a gettare ancora qualche barlume scarlatto su di noi.

 

Con innaturale nitidezza sentii un piccolo brivido di freddo attraversarti il corpo e trasferirsi a me, portato dalla fresca brezza del mare. Potevo accarezzare la tua pelle d'oca; ne ricordo ogni più minuscola asperità. Come se fosse l'unico dettaglio davvero degno di nota. Come se fosse l'unica cosa che i miei sensi potessero avvertire, che la mia mente potesse registrare.

 

I nostri corpi, l'uno abbracciato all'altro, e quella pelle d'oca che ne animava la superficie, che rendeva il nostro abbraccio più indispensabile. Più accogliente.

 

E poi... Poi non riesco a ricordare...

 

 

~

 

 

Mi sveglio, accorgendomi di essermi addormentato mentre guardavo la TV. Sono intontito, piacevolmente. Ho ancora nelle nari l'odore della salsedine del mare. Nella testa baluginano sfilacciati strascichi della confusa memoria di un abbraccio, di pelle che rabbrividisce, del tepore di un giaciglio, di neve che cade, di foglie ingiallite nella notte tinta di scuro, di un sole al tramonto, di una piazzetta con una chiesa e un cane, di peluria bionda, di un vecchio viottolo illuminato da luci arancioni. Stringo inconsapevolmente col corpo qualcosa che mi è sfuggito, che non c'è più. Un sogno, era un sogno. O più sogni? Quale dei miei sogni? Cosa dei miei pensieri?

 

Metto a fuoco la stanza, il divano, il televisore. La destata realtà dimessamente riprende il proprio dominio sui sensi e sulla mente. Mi volto verso Rufus, che se ne sta sdraiato anche lui sul divano. Mi guarda con buffa aria interrogativa, la lingua rosa penzoloni. Scodinzola: è in attesa della sua uscita serale, per la quale sono decisamente in ritardo.

 

Gli rivolgo un sorriso.

 

«Ma che sogno a fare ché qui con me ci sei tu?» chiedo al suo simpatico muso nero e marrone, dandogli una vigorosa carezza sul capo. «Vieni, andiamo».

 

Prendo il mio Rufus ed esco per strada. Le vie di Torino sono deserte. Faccio un largo giro, attraversando il centro, racchiuso nella zona ZTL ormai tanto familiare ai torinesi. Arrivo al limite di Corso Vittorio Emanuele II e lo seguo per un tratto in direzione del Po. Rientro poi nel centro prendendo Via San Massimo.

 

Un adolescente in bomber, jeans e sneakers è accovacciato dietro un'auto, assistito da due amici e intento a rimettere l'anima tra il marciapiede e la strada.

 

“Tamango” constato tra me, senza curarmi se la mia ipotesi sia corretta o meno. Quel cocktail, servito nell'omonimo locale secondo una ricetta sconosciuta, finisce sempre per fare quell'effetto a chi è impreparato così come a chi, avendo già bevuto altri alcolici, si è preparato fin troppo.

 

Proseguo, senza che i miei passi siano distratti dal terzetto; Rufus, dopo un attimo di canina curiosità, fa lo stesso.

 

Lungo la strada i contorni degli austeri edifici sette-ottocenteschi si perdono nella foschia in un'armonia indefinita, sospesa. Tra l'eco dei miei passi che risuona ovattata, fanno la loro comparsa le severe colonne scanalate della Chiesa di San Massimo. Rufus va ad annusare la base di una di esse, inconsapevole della riverenza che per gli uomini deve portarsi ad un tempio.

 

Sorrido fugace, per quella innocente noncuranza che un cane può ben permettersi. E sorrido anche perché quel luogo mi ha richiamato alla mente quel romanzo di Farinetti che m'era tanto piaciuto: Lampi nella nebbia.

 

Mi concedo di gustare un'altra volta il sapore leggero ed agrodolce che quel libro mi aveva lasciato a suo tempo. Un gusto tondo, ricco come la lineare complessità della vita, e screziato dall'amara quanto oppiacea e suadente nota della malinconia.

 

Mi viene naturale, quasi come un infantile divertissement – quell'infantile divertissement in cui indulgo fin troppo spesso e che mi è così caro –, immaginare di essere un personaggio di quel romanzo, incoerentemente comparso a recitare la sua piccola parte minore.

 

Magari un sopraggiunto quarto membro del gruppetto di vecchi amici di Eugenio, Thibault e Zeno, elegante e spensierato nell'autunno dei suoi anni. O magari il fantasma di Francesco, l'indimenticato compagno di Clemente, che nella notte si dirige, di nuovo reale nell'incarnato della vita, presso la silenziosa galleria d'arte del palazzo di Piazza Cavour, per consolare il suo amato.

 

Un personaggio qualunque, sperso lì a seguire i suoi passi in mezzo ad una nebbia indecisa tra offuscare tutte le cose o semplicemente sfiorarle leggera.

 

Svoltando a sinistra per poi intraprendere una delle piccole rampe in cemento che danno accesso ai Giardini Cavour, cerco il portasigarette di metallo nella tasca interna del mio cappotto nero.

 

Voglio fumarmi una sigaretta, proprio come i personaggi di Farinetti, nella cui mano ne spunta sempre una al momento giusto.

 

Le due fontane del parco cullano il silenzio notturno con i loro gorgoglii. I miei piedi fanno frusciare le foglie ingiallite dall'autunno che invadono il selciato.

 

Slego dal guinzaglio Rufus e lascio che giri libero, seguendolo a poca distanza, le ombre dei rami mezzi spogli proiettate dalla luce giallastra dei lampioni che aleggiano fugacemente su di me e su di lui.

 

Improvvisamente ho un'insinuante sensazione di déjà vu.

 

La mia figura nera tra gli alberi, la nebbia, la sua silenziosa placidità, il buio della notte sfumato dalla foschia e dalla luminescenza dei lampioni. Sì, è proprio un déjà vu: ho già vissuto quel momento, nei miei sogni. Quale dei miei tanti sogni?

 

Un mezzo sorriso mi affiora spontaneo alle labbra, amareggiato e divertito ad un tempo. Come al solito mi viene da chiedermi: “Possibile?”.

 

Mi accendo lentamente la sigaretta e per un attimo circondo quel particolare senso di strana familiarità con voluttuose spire di fumo. E mi incammino tra gli alberi e la notte, cercando, come ogni volta in cui mi capita d'avvertire un déjà vu, di modificare nel suo piccolo il modesto corso degli eventi che quella sensazione, con la sua raccolta indefinitezza, sempre mi sussurra esser destino.

 

 

 

 

 

 

Fine
Edited by Chimera
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