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Della scuola riformata


D.

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Invece che il solito profluvio, apro con le parole di un mio carissimo amico, ingegnere titolare di un suo proprio studio in Roma.

 

Da qualche parte nel corso del tempo si è infilato il concetto, che si è andato consolidando nel tempo, di rafforzamento del link mondo della scuola / mondo del lavoro, dando l’innesco ad un pericolosissimo crinale dove ormai siamo dentro con tutte le scarpe.

 

Il concetto base per cui il sapere, la cultura, il conoscere sono un valore in sé, un “basic” in qualche modo dell’esser uomini e d’appartenenza all’umano genere, autobastevole a sé stesso quindi, non abbisognante di altre giustificazioni esterne è andato sfocando nel tempo, e progressivamente scolora sempre di più. In questo processo siamo ormai abbastanza avanti, forse irreversibilmente.

 

Ma su questi aspetti, il valore in sé, voglio sorvolare, mi sembrano assolutamente indiscutibili ed auto evidenti. Il saper leggere un libro, o l’imparare a commuoversi per una poesia bella o davanti a un quadro, la capacità di metter in piedi un ragionamento articolato soggetto predicato e complemento per esprimere e sostenere ciò che si pensa sono ciò che ci differenzia da un animale e discuterne mi sembra superfluo.

 

La voglio vedere invece in questo intervento, da un punto di vista pratico, terra terra, concreto. La ricaduta dello studio sul lavoro e quindi la possibilità di guadagnarsi da vivere.

 

A mio modo di vedere, in quest’ottica, la foto ad oggi (parlo in generale, a tutto c’è eccezione ovviamente… parlo di come la formazione si sta strutturando in Italia) è che le elementari ed i licei stanno a fatica tenendo, le medie e gli istituti professionali sono una Caporetto, gli studi universitari in rapidissima degradazione.

 

Gli interventi effettuati sulla struttura dei programmi scolastici e dei corsi universitari nell’ultimo decennio sono stati pesantemente polarizzati in questa direzione: preparare lo studente al mondo del lavoro. Perniciosissimo approccio a mio modo di vedere, dal punto di vista pratico ed operativo e, mi dice la mia esperienza professionale personale senza alcuna ombra di dubbio, fallimentare.

 

La realtà è che lo studio, la preparazione, il sapere il conoscere, sono come dicevo cose utili in sé per l'umano, e poi, ma solo poi, possono e sperabilmente devono essere delle opportunità. Quei pivot su cui costruire il proprio percorso professionale.

 

Mi trovo a fare colloqui di assunzione a neolaureati molto spesso. Quello di cui ci sarebbe bisogno davvero, e che un decennio fa era in verità disponibile su ampi bacini, son persone in grado, in un certo campo, d’avere la capacità di leggere capire ed apprendere, nella loro disciplina, sostanzialmente tutto. Persone dotate di basi solidissime e di metodo. Non esiste nessun campo in cui si accede al mondo del lavoro “imparati”; il training on the job nello specifico di qualsiasi settore è ineliminabile. I neoassunti migliori, in qualsiasi campo, impiegano almeno un paio d’anni prima d’esser un minimo autonomamente operativi; nei primi due/tre anni sono sostanzialmente un investimento. Questo posto siano in grado di prendere in mano un libro, leggerlo e capirlo ovviamente. Ovvero che sappiano studiare ed applicare un metodo di apprendimento. Questa è la capacità che serve davvero e che un corso di studi deve dare. Ai colloqui arrivano invece ormai da anni, persone abbastanza ferrate in campi piuttosto limitati, con scarsa capacità di riadattamento, e preparazione di base fortemente, (ed in maniera impressionante davvero!) indebolita rispetto a un decennio fa, cosa che li rende fragilissimi sul fronte della riconversione della flessibilità e soprattutto dell’apprendimento.

 

Volendo mirare al rafforzamento e facilitazione del passaggio scuola/lavoro, e limitando il discorso a quelle aree ad alto valore aggiunto, le uniche di cui dovremmo preoccuparci, assistiamo oggi ad una anglicizzazione dell’impianto del sistema formativo italiano disperdendo così quell’asset che ci rendeva davvero, tra tante debolezze, fortissimi nel mondo: una solidità talmente di spessore, a volte, (vivaddio!) anche sovradimensionata, di preparazione di base in grado di affrontare e risolvere, magari nella disorganizzazione più totale, pecca questa che abbiamo sempre avuto e tutt’ora abbiamo, praticamente tutto. Incluso se necessario, l’affondo su qualsiasi sottospecializzazione relativa al proprio campo o disciplina.

 

Quanto sto dicendo, è applicabile a qualsiasi campo e disciplina appunto, senza eccezione. Innumerevoli contatti con persone attive in campi diversissimi dal mio confermano che questa tendenza del sistema scolastico/universitario italiano è assolutamente generalizzata.

 

Volendomi mettere dalla parte di chi riceve come utilizzatore gli studenti futuri lavoratori, come peraltro mi trovo ad essere in questa fase della mia vita, mi verrebbe da dire all’universo scuola: lasciate perdere di insegnare il mondo del lavoro alle persone. Non è cosa per voi. Fate invece per favore invece quello che non è cosa per noi: mandateci gente in grado di prendere, seriamente però, in mano un libro. Euclide, italiano, latino ed analisi logica a go go per favore. Date loro un metodo. Non c’è bisogno d’altro: solo di questo grimaldello qui. Che senza, ahimè, insegnare o apprendere un lavoro che sia un minimo di livello è praticamente impossibile.

 

Il trapianto sul nostro modello culturale delle modalità formative anglosassoni ci sta massacrando e stiamo mandando in vacca la vita di parecchie generazioni di persone. Che non è un buon risultato. I nostri genitori, con noi, hanno fatto di meglio.

 

Inutile dire che concordo in ogni virgola.

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  • 2 weeks later...
Gli interventi effettuati sulla struttura dei programmi scolastici e dei corsi universitari nell’ultimo decennio sono stati pesantemente polarizzati in questa direzione: preparare lo studente al mondo del lavoro.

 

Questo sarebbe già un passo avanti. Un qualcosa di utile.

Che per quanto mi riguarda, però, è abbastanza falso. Forse la struttura dei programmi scolastici vorrebbe mirare a quello, cioè preparare lo studente al mondo del lavoro, ma con scarsi risultati. Almeno è ciò che ho potuto costatare uscendo dalle superiori, dopo aver preso il diploma in un istituto tecnico industriale, uno di quelle scuole che "dovrebbe" preparare lo studente per inserirlo direttamente nel mondo del lavoro.

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Il senso di questo topic mi pare chiaro, ed è quello di lasciar trapelare non la visione di scuole e ministeri, con tanto di obiettivi programmatici e varie. Interroghiamo direttamente il mondo del lavoro, vediamo cosa pensa non il potenziale lavoratore, bensì il futuro datore. Il risultato su tutti i livelli è disastrosamente evidente. Negli istituti tecnici, i quali sono, appunto, tecnici, sono scarse e insufficienti le ore di praticantato, di laboratorio applicato direttamente alla materia di studio; la teoria è sempre necessaria (io ne ho fatto vocazione..) ma fino ad un certo punto nei suddetti istituti. Dalla realtà da cui io e te proveniamo sappiamo benissimo l'inconsistenza della preparazione scolastica utile ad approntare una occupazione inerente al percorso svolto, benché un certo margine di incompetenza vada necessariamente dissolto giocoforza sul luogo di lavoro; compito della istituzione scolastica dovrebbe essere assottigliare tale margine, non modificarne i connotati, colmandolo d'altro, e lasciandolo sempre immodificato.

 

Ma un'altra questione mi preme ad un livello più alto di istruzione. Hanno istituito il percorso universitario in tempistiche non adatte alla tradizione, il 3+2 ha portato sfacelo, contro ogni ottima aspettativa (di chi, poi?). Ma ancora una volta interrogherei gli imprenditori, e sono loro a parlare chiaro. I ragazzi sono preparati solo su pochi e specifici argomenti, non possiedono della flessibilità mentale e della minima preparazione di base che possano consentire un raggio d'azione prossimo ai trecentosessanta gradi. Troppo tecnicismo è praticamente disastroso, dacché sono assenti o assai limitati gli strumenti primi per poter affrontare nuovi ed insospettati problemi. Non a caso riporto le parole di un ingegnere, il quale si trova spesso a valutare ragazzi brillanti, ma esclusivamente il un ristrettissimo campo dell'intera area scientifica, nonché difficoltà nell'apprendimento delle nuove tecniche all'avanguardia. Un imprenditore necessita di neoassunti attivi e malleabili, applicabili in tutti i settori che l'attività richiede, e questo è possibile con una solidissima preparazione di base del tutto eliminata dalla travata del 3+2. E' il mondo del lavoro a lamentarsi, non trovando nei giovani le capacità di riadattamento e flessibilità ampiamente disponibili in passato. Il lavoro, come tutte le cose, si impara facendolo. Non è compito per le università.

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A me è sempre parso che tutto sta all'interpretazione.

C'è chi la scuola (inclusa l'università) la vede solo come una tappa obbligatoria, quasi fosse da sempre nel ciclo naturale delle cose (nasce, cresce, va a scuola, lavora e muore).

C'è chi la vede come necessaria per entrare nel mondo del lavoro.

C'è chi vive la scuola come una necessità imposta dalla società, per entrare nel mondo del lavoro, un biglietto da visita che premia l'impegno (impegno nell'assecondare i dettami della nostra società) ma che in termini reali, non è indispensabile.

C'è chi, idealmente, trova la scuola necessaria per se stesso, per la propria cultura, e dal nutrimento di questa ne puo' trovare abilità utili nel mondo del lavoro.

 

Poco importa come i ministeri programmano obiettivi e corsi di laurea, perché all'interno delle scuole, e delle università, queste distinzioni sempre ci saranno.

 

Credo che affronti la questione scavalcando il vero problema, andando oltre.

 

Un imprenditore necessita di neoassunti attivi e malleabili, applicabili in tutti i settori che l'attività richiede, e questo è possibile con una solidissima preparazione di base del tutto eliminata dalla travata del 3+2. E' il mondo del lavoro a lamentarsi, non trovando nei giovani le capacità di riadattamento e flessibilità ampiamente disponibili in passato. Il lavoro, come tutte le cose, si impara facendolo. Non è compito per le università.

 

Il 3+2 (noto che ribadisci il concetto), in questo caso non c'entra proprio niente. Saremmo troppo ottimisti nel credere che lì è il fulcro del dilemma. Prima di arrivare a quella schifezza, c'è un percorso che incide maggiormente su quello che sarà il nostro futuro, quale puo' ad esempio essere la scelta del liceo, e quindi non puoi neanche pretendere che il percorso accademico dia una solidissima preparazione di base, quando si ritroverà ad avere studenti di ogni risma, provenienti da realtà diverse, troppo diverse. Anche nei metodi.

Ma, tagliando la testa al toro, se il problema lo vuoi affrontare dal punto di vista degl'imprenditori che hanno la necessità di trovare gente attiva e malleabile, è mia opinione che la fase scolastica vada del tutto saltata, e occorre che siano loro direttamente a preparare i ragazzi, a secondo delle loro necessità, specializzandoli direttamente sul campo, con la pratica.

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Continuo ad essere convinto che il problema è proprio l'inverso. In Italia c'è un concetto cristallizzato di cultura molto limitata, che esclude tra le tante cose il sapere tecnico. E quando si tratta di insegnare qualcosa che non è considerato cultura, si arriva a farlo purtroppo con noncuranza.

 

Del resto quali sono i paesi dove in questa tendenza sono piú indietro dell'Italia? Quali di questi è messa meglio?

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