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"Il Respiro della Luce"


Orah

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I. Non è più la stessa cosa

 

“Sono esausto, me ne vado a letto.” annuncia Alon, mentre rientriamo in casa dopo l’ennesima nottata spesa fuori.

Ancora devo capire come fai a tornare a casa alle tre di notte per alzarti poi di buon ora la mattina ed avere la forza di andare in palestra.

Non abbiamo cominciato neanche da due settimane ed io sono già ridotto ad uno straccio.

“Domani mattina vai a correre?” gli domando, come se non sapessi già la risposta. Non si può dire che tu sia un tipo imprevedibile; in nove mesi di convivenza conosco a memoria tutte le tue abitudini: dal modo in cui scivoli fuori dal letto silenziosamente, raccogli la tua borsa con la roba da ginnastica, a come lasci il dentifricio strizzato male. Riesco a capire i tuoi stati d’animo da uno sguardo: ma non è una connessione particolare tra noi, è che sei maledettamente trasparente. Anche se fai di tutto per nasconderlo, cerchi di apparire forte ed estroverso.

In realtà sei consapevole di non ingannare neanche te stesso.

Dai tuoi occhi stanchi leggo un sorriso e tanta dolcezza... a volte mi chiedo come tu faccia a dispensare così tanto amore per chiunque.

Sei una persona meravigliosa e questa semplice constatazione, che prima mi faceva battere il cuore, adesso mi getta nel profondo sconforto.

Ascolto i tuoi passi goffi tra il bagno e la camera da letto... la prima volta che ti ho visto mi hai solleticato un sorriso bonario e infantile. Sei sgraziato per natura e, nonostante il tuo costante esercizio fisico, i tuoi movimenti restano sempre incompiuti, attenuati.

Quando urti qualcosa o inciampi, guardi i presenti con le guance arrossate ed un sorriso timido tra ironia e scusa.

E tua madre che ti guarda sempre scuotendo la testa e sussurra a fior di labbra “non è cambiato per niente il mio bambino.”

Non posso lamentarmi della tua famiglia: tua madre è stata un angelo con me, mi ha accolto come fossi un altro figlio. E così tua sorella e tuo fratello: sei fortunato per il bene che tutti ti vogliono.

Te lo meriti.

Accendo il mio pc, controllo la posta elettronica: mi è arrivata la conferma del volo di domani sera.

Ti ho detto una mezza bugia: che parto per un convegno di lavoro e torno a New York.

Ho solo omesso che non ho intenzione di tornare qua da te.

Nove mesi da immigrato, nove mesi da turista e da estraneo in uno stato che mi sta troppo piccolo. La camicia mi si è appiccicata addosso, per l’afa soffocante e per il nervosismo.

Nella nostra camera fai finta di dormire. Stai con gli occhi socchiusi nell’oscurità, supino: aspetti sempre che venga a letto anch’io per darmi il bacio della buonanotte.

O per fare l’amore.

Tu non sai cosa sia un pigiama: da marzo in poi dormi sempre a torso nudo, solo i boxer addosso. Hai dei muscoli scolpiti e potenti: se avessi un temperamento diverso, potresti fare male con facilità. Ma le tue mani non hanno mai picchiato qualcuno.

Mi metto la maglia del pigiama e ti raggiungo: nonostante l’aria condizionata questa è stanza è dannatamente calda.

Rotoli nel lenzuolo fino a venire contro di me e mi baci sulla bocca: sai di dentifricio e del Martini bianco che abbiamo bevuto dopo lo spettacolo. Ti passo una mano tra i capelli corti e ispidi, tu mi stringi forte a te, mentre una mano scende a cercare le mie gambe.

“Sono stanco morto.” gli dico, cercando di non lasciarmi trascinare dall’eccitazione. Fare l’amore adesso renderebbe tutto ancora più complicato.

“Dai, yankee.” mi stuzzichi, una mano calda tra le mie gambe. “Una cosa veloce.” Strusci il tuo naso grande contro il mio.

“Stasera no.” rispondo deciso, abbracciandolo. “Per una volta potresti non andare a correre domani mattina?” gli sussurro all’orecchio. “Vorrei stare un po’ con te.”

“Come vuoi, amore mio. Ma di solito tu dormi ancora quando mi alzo per andare a correre.” Appoggi la testa sul mio petto, in cerca di carezze.

“Mi sveglierò.” gli rispondo, tanto so che non riuscirò a dormire.

È così difficile lasciarti andare.

L’amore non è tutto, l’amore non basta.

Io ti amo ancora, ma non abbastanza da restare qui. Mi sento strangolato in una vita che non mi appartiene, non riesco a integrarmi in un paese del quale non so la lingua e a stento ho imparato venti parole in nove mesi.

I tuoi amici si sforzano di parlare in un inglese scolastico e incomprensibile per me: non fanno altro che ricordarmi quanto i nostri mondi siano lontani ed inconciliabili.

Vivi in mezzo a musicisti, pittori, poeti, scrittori e artisti come te. Sembra che sappiate sempre cosa fare, che abbiate dentro una luce, una speranza.

Credete in quello che fate, siete come adolescenti che pensano di poter cambiare il mondo.

Io vi ammiro tanto. Io ti ammiro.

Ti ammiro quando manifesti per la pace, per la giustizia, per i nostri diritti..

Sai, quando ci siamo conosciuti mi sei sembrato uno di quegli artisti radical chic che si battono per grandissimi ideali, godendo intanto degli stessi privilegi di tutti i ricchi e sfruttando il mondo e le persone allo stesso modo.

Non ti credevo molto, ecco.

Poi ho scoperto che sei veramente un idealista, un essere in estinzione.

Credo che negli Stati Uniti non se ne trovino più di persone così… io non sono così.

Perché se qualcuno ti grida in faccia che sei una checca, un frocio, un comunista e un senza-dio, tu ridi a testa alta con le fossette sulle guance e tiri dritto per la tua strada.

Non ti ho mai visto perdere la calma: possiedi una serenità interiore granitica.

Io, che per formazione e lavoro sono un avvocato, abituato a far sì che le parole trasformino i fatti e che non sempre siano i buoni a vincere... che cosa ci faccio qui?

E non pretendo che tu mi segua a New York, che tu lasci andare tutto quello in cui credi e per cui combatti nel nome di un amore... chissà quanto duraturo poi.

E allora non c’è altra soluzione, dobbiamo separarci. Devo andarmene.

 

“Alla fine ti sei svegliato davvero... oppure dovrei dire che non hai proprio dormito?” mi sorridi bonariamente, strusciandoti gli occhi. Mi abbracci con dolcezza. “Adesso hai voglia di parlare?”

Lo guardo, spaventato. “Credi che non l’abbia capito, Stephen?” ancora una volta nella tua voce di velluto non riesco a sentire rabbia né sorpresa. Forse solo un po’ di delusione.

Mi prendi la mano e me la scaldi tra le due.

“Te ne vai.” Il tuo sguardo è limpido, come sempre. Questa tua reazione mi spiazza... questa nuova freddezza è un tentativo di difesa?

Annuisco. Mi sento paralizzato.

Finalmente distogli lo sguardo dal mio viso, ritornando umano.

“Non mi ami più.”

“Non essere melodrammatico. Non è così... è che...” Come faccio a spiegargli quello che ho in testa?

“Ovunque andiamo ti senti fuori luogo. Non sono stato abbastanza bravo - sempre che si tratti di bravura - a costruire una casa, a farci diventare una famiglia. Forse è stata una decisione affrettata, dopo tutto.” Ti alzi, inciampando nel tappeto e non riesco a trattenermi dal ridere.

“Almeno fare il pagliaccio mi riesce bene, a quanto pare.” Il cane, abituato a svegliarsi con il padrone, ci guarda timido dalla porta, finché lui non lo chiama a sé e si inginocchia per accarezzarlo.

“Deve proprio assistere a questa scena?” Non so perché sono infastidito dalla presenza dell’animale. Del suo animale: è arrivato prima lui di me in questa casa.

“Non è un bambino. È solo un cane, vero Eliador?” E mi stupisco che mi ritorca contro la frase che sono solito dirgli io, che Eliador, appunto, non è suo figlio, ma è solo un essere a quattro zampe e con tantissimi peli.

È un golden retriver.

“Stavamo dicendo?” mi riprende.

“Mi... mi stai facendo saltare i nervi!” sbotto involontariamente. “Ci stiamo lasciando e sembra che non te ne importi nulla! Hai messo del ghiaccio intorno al cuore stanotte?”

“Tu mi stai lasciando. Non mi sembra che tu mi stia dando molta scelta. Siamo adulti abbastanza da non fare melodrammi, giusto?” continui imperterrito a rivolgerti al cane, come fosse lui il tuo interlocutore.

Poi sussurri bofonchiando qualcosa che non capisco.

“Puoi ripetere per favore? Lentamente ed in una lingua a me comprensibile, grazie.” La mia frecciatina sembra che sia servita a riscuoterti. Lasci andare Eliador e ti alzi, spazzolandoti miseramente le gambe ricoperte di peli giallo-arancione.

“Risparmiamoci pianti, urla, oggetti rotti ed insulti, per favore. Non credo che potrei riuscire a sopportarlo.” Finalmente la tua voce si incrina, lasciando trasparire per un attimo tutta la tua vulnerabilità.

“Alon... mi dispiace. Mi dispiace tanto.” Cerco di avvicinarmi, ma tu mi volti le spalle ancora una volta.

“È la vita.” Solo il tremolio lento e convulso dei pugni lungo i fianchi, che lentamente risale fino alle spalle, mi dà sentore del tuo stato emotivo.

“È tutto quello che hai da dire?” urlo. “Prima mi dici che già lo avevi capito, poi ti comporti come se fosse normale, come se non te ne importasse niente... Potremmo anche non vederci né sentirci mai più dopo che il mio aereo sarà partito e non mi chiedi nulla? Non vuoi sapere? Non domandi? Non reagisci, cazzo!”

“Quello che c’è da sapere l’ho già imparato. È che l’amore non basta. L’amore da solo non basta.” mi sussurri, aprendo gli avvolgibili e facendo entrare lo splendore polveroso del sole e la vista della spiaggia.

“E perché non basta? Agli altri basta? Agli etero basta? Non ti facevo così cinico, così pieno di pregiudizi.”

“L’amore da solo non basta a nessuno.” Guardiamo entrambi il tuo viso riflesso nel vetro. Hai gli occhi chiusi.

La giornata si preannuncia schifosamente torrida, sulla spiaggia alcuni bambini si stanno già rincorrendo per entrare in mare.

Raccogli da terra i jeans e te li infili con rabbia.

“E cos’altro ci vuole, eh?” ti chiedo, afferrandoti per le spalle. La mia mano grassoccia si spreme contro il tuo bicipite.

“Volontà. Determinazione. Speranza. Fede. Sto ancora cercando una risposta da qualche parte.”

Scivoli verso la scrivania, dal disordine delle tue cose prendi il cellulare, l’i-pod ed il guinzaglio.

“Eliador, vieni!” lo chiami in ebraico, mentre ti infili le scarpe da running.

“Non dimenticarmi se puoi. Prenditi cura di te.” Mi sussurri, avvicinandoti piano.

Mi baci, le tue labbra sottili e aride sulle mie, il tuo sapore che si mischia a quello delle lacrime.

“Ti amerò sempre.”

Mi concentro sulle vibrazioni del tuo pomo d’Adamo, poi sullo scricchiolio delle tue scarpe sul pavimento, anche Eliador sembra fare piano, come avesse percepito quest’aria di lutto.

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II. Primavera in Novembre

Novembre 1993

 

Delilah sedeva nel giardino comune, accoccolata sotto ad una vecchia palma, torcendo e stritolando il fazzoletto a fiori umido di lacrime.

Il giardinetto del kibbutz splendeva sotto un cielo ancora troppo chiaro e bianco per portare pioggia, una leggera brezza smuoveva le foglie degli alberi.

Di solito rifugiarsi lì per qualche minuto calmava il suo spirito e le dava la forza per andare avanti.

Aveva sempre amato la natura, sarà che era nata in campagna e lì aveva passato gli anni più belli della sua vita, in Polonia, con i suoi genitori e suo fratello.

Guardare l’erba le ricordava quanto piacere provasse a correre per i campi a piedi nudi, rincorrendo un gatto o un corvo.

Era tutto ciò che era disposta a ricordare della sua vita precedente.

Certo a volte i ricordi del trasferimento a Varsavia, della brutalità del ghetto affioravano ancora nelle notti insonni, ma cercava di scacciarli con un colpo di ciglia, altrimenti il dolore l’avrebbe ammazzata.

Aveva già raccontato quello che sapeva a qualche studioso mandato dalla Knesset, tanti anni prima e alla sua prole, adesso chiedeva solo di riposare.

Ma quale riposo poteva esserci per lei se anche quella nuova vita si stava rivelando una Gheenna?

Adi stava tardando ad arrivare e la donna doveva ricorrere a tutto il suo buon senso per convincersi che si trattasse solo di un banale ritardo, dovuto al lavoro o a chissà quale altra faccenda.

Il sole di fine estate non sembrava neppure toccarla, non si curava della piacevole brezza che le accarezzava il volto, quasi a volerla consolare.

Reclinò la testa tra le ginocchia, guardandosi le mani rovinate dal lavoro e per la prima volta si sentì decisamente vecchia.

Ad un estraneo la sua vita poteva sembrare regolare e serena: cinquantacinque anni, un marito ancora in vita, tre figli ormai adulti e un nipotino.

Apparenze.

La sua vita di coppia era quanto di più disastroso riuscisse a immaginare: Shmueli, suo marito e compagno da una vita intera, non la amava più e peggio ancora, non la rispettava più.

Probabilmente anche lei non l’amava più, ma tuttavia il solo pensare alla sua immagine arcigna e fragile allo stesso tempo, alle spalle lunghe e curve, a quell’ aspetto perennemente emaciato la inteneriva.

Shmueli era più vecchio di lei di nove anni. Sfuggiti entrambi alla rovina del ghetto, quel ragazzo allora tredicenne l’aveva presa bambina e aiutata a scappare.

Erano stati vicini di casa per un anno, poi i tedeschi e la rivolta si erano presi i loro genitori.

Delilah non ricordava nulla a parte un rumore malefico nelle orecchie che non smetteva mai, che sapeva di grida, di fuoco e di morte. E gli occhi verdi di quel ragazzino che la guardavano e in qualche modo la imploravano di resistere.

Lui si prese cura di lei, le giurò che non l’avrebbe abbandonata e che insieme avrebbero curato le proprie ferite.

Fu del tutto naturale finire sposati, anni più tardi.

Non che lei non avesse contribuito alla loro sopravvivenza: se Shmueli aveva avuto la forza di strapparla dalla loro terra infernale, poi il peso di quanto visto lo aveva precipitato in una sorta di stato di malattia che lo aveva reso incapace di prendere qualsiasi decisione.

Aveva bisogno di essere guidato, di trovare qualcuno che gli dicesse cosa fare e come muoversi. Lei si era rivelata più intraprendente, per quanto giovane.

Solo nel kibbutz là in Galilea erano riusciti finalmente a trovare un po’ di quiete, là dove non c’era nulla da affrontare ed era qualcun altro a decidere per il bene di tutti.

Suo marito era per lei aguzzino e figlio allo stesso tempo.

Tutti i giorni, da diversi anni, le urlava addosso per qualsiasi cosa, l’accusava di essere un incapace, una madre arpia che ha fatto scappare i propri figli, una bambina.

A volte la picchiava.

Altre volte volavano i piatti della cucina o qualsiasi soprammobile ci fosse a tiro.

All’inizio, un inizio che si perde anni addietro, lei sopportava con pazienza, confidando che l’amore e la dedizione avrebbero guarito quel comportamento.

E d’altronde quello che avevano subito, forse li aveva disumanizzati: lei stessa si meravigliava di come il suo ventre, che aveva patito la fame e la disperazione, avesse potuto dare la vita e non solo una volta, ma ben tre.

Anche per il bene dei suoi bambini aveva sempre tenuto duro, mai l’anima aveva sanguinato così tanto come quando si era accorta che le continue liti col marito non erano più un segreto “da grandi”.

I gemelli si mettevano a piangere simultaneamente, quasi facessero a gara a chi dei due resistesse di più, l’ultimogenito si metteva ad urlare, un lamento acuto e prolungato.

Forse li ha davvero soffocati, mentre in realtà cercava semplicemente di soffocare il suo dolore.

Vivere non è una cosa facile, nè scontata: questa è la lezione che ha imparato da piccola in Europa.

“Delilah, cos’hai fatto?” le domandò Adi sorprendendola in mezzo ai suoi pensieri. Si siede accanto all’amica, accarezzandole il volto con un gesto che risultra doloroso.

“Shmueli ti ha di nuovo picchiata?” chiese, notando i lividi sul volto dell’amica e cercando le parole che l’altra non ha il coraggio di pronunciare.

Delilah scuote la testa.

“Tu te ne devi andare di qua, amica mia.” Sentenziò la pragmatica moglie del segretario del kibbutz.

Quella contadina di origini rumene, ma nata in Israele prima dello Stato stesso, non era abituata a fare compromessi e non li accettava.

Di fatto è lei che prende le decisioni più importanti in famiglia quanto sul lavoro del marito: le malelingue, sempre pronte a flagellare chiunque, dicono che in casa sia lei a portare i pantaloni.

Di sicuro, Delilah sa che Adi non si è mai fatta mettere i piedi in testa da nessuno, che fossero i suoi genitori, Moshe suo marito o il rabbino.

L’ammira per questo, vorrebbe che la donna le prestasse un po’ della sua forza.

“Stasera parlerò con Moshe e gli spiegherò la gravità della situazione. Avresti un posto dove andare?”

“Potrei andare da mia figlia a Gerusalemme.” Pensa a voce alta. “Anche se in realtà io e mio cognato non siamo in ottimi rapporti, penserebbe sicuramente che vada li per controllare la loro vita familiare e sindacare sulla vita e sull’educazione di mio nipote.”

L’altra riflettè: nonostamnte i suoi tre figli fossero tutti accasati all’interno del kibbutz, capiva perfettamente i timori dell’amica. E d’altronde a chi -genero o nuora che sia- piace aver d’intorno la suocera dopo neppure due anni di matrimonio?”

“E tuo figlio Alon dov’è?” le chiese, visto che sull’altro gemello, Yoseph, emigrato negli Stati Uniti, non ci si poteva contare.

 

“Ha ancora otto mesi sotto le armi. So che quando è in licenza ha un lavoro a Tel Aviv. Ma non mi ha mai detto cosa faccia di preciso.”

“Fantastico, fantastico.” Rimuginò tra sè e sè Adi. “Sai ho una lontana parente, diciamo pure una cugina, ma soprattutto una cara amica, che abita a Tel Aviv ed ha una bottega di sartoria vicino al mercato Carmiel. Giusto a punto avrebbe bisogno di una persona che le desse una mano in negozio.”

“Non credo di essere in grado. Ho sempre solo riparato tute di lavoro e vestiti per bambini.”

“Ma se vesti mezzo kibbutz!”

“E poi Tel Aviv è una città così grande...forse mi fa un po’ paura.”

“Su, su, amica mia... devo ricordarti che sei scappata dall’Oropa in tempi ben peggiori?” le ricordò, provocandole immancabilmente un sorriso: non si abituerà mai a quella pronuncia strana della sua terra natale, senza dittongo e con la “r” così arrotata da diventare impercettibile.

“Vieni con me amica mia.” La invitò, prendendola per mano, “Ho del te e un pacchetto di biscotti molto buoni.” Le due donne si avviarono verso l’appartamento di Adi.

Le strade del kibbutz erano ancora deserte, ognuno era ancora intento al proprio lavoro ed i bambini erano ancora a scuola.

“Ti aiuterò io a sistemare tutto, persino a preparare le valigie.” La confortò Adi, facendola entrare in casa e mettendo su del tè. La fece accomodare in cucina.

“Ma come fai ad essere così sicura che la tua parente mi voglia con sè..” esclamò, per non crearsi false illusioni.

“Dì, ti ho mai detto qualcosa di sbagliato quando mi fidavo delle mie intuizioni?” la rassicurò. “Piuttosto, dimmi, hai notizie di Yoseph?”

“Ha trovato lavoro, sai? Così riesce a pagarsi gli studi in architettura. Lavora in uno studio. E poi mi ha scritto che ha conosciuto una bella ragazza ebrea, mi ha mandato una foto. Sono carini insieme.”

“E bravo il nostro ragazzo. Domani Tel Aviv, il prossimo anno ti toccherà andare a New York a trovare i tuoi nipotini americani. Sai, un po’ ti invidio, i miei figli non hanno mai avuto abbastanza intraprendenza per uscire dal nido. Io ci speravo un poco, almeno per Lior. Capisco che magari per delle ragazze sia più difficile decidere di allontanarsi dalla famiglia, ma un ragazzo...” diceva, cercando di far comparire un altro sorriso sul viso di Delilah, mentre nel frattempo affettava un pompelmo su un piattino sbreccato.

“Pensa che io e Shmueli abbiamo litigato proprio per questo, è uno dei suoi leitmotiv.”

“Che cosa?” chiese Adi, senza essere stanca di sentirsi ripetere ancora una volta la stessa storia. Era convinta che sfogarsi fosse la cura migliore.

“Che ho fatto scappare i nostri figli...perchè li ho soffocati.”

“Che ingiustizia!” commentò ancora una volta, servendo due tazze di tè bollente. “Tua figlia è un’infermiera, ha una bella famiglia, così giovane com’è! E probabilmente ti darà almeno un altro nipotino! Yoseph ha un lavoro di successo...”

“Non esagerare. Ancora deve diventare un architetto.”

“Ma vuoi mettere studiare da architetto a New York con lo stare a lavorare nei campi in un kibbutz sperduto al confine col Libano.” Si infervorò l’amica.” E Alon che farà?”

“Lo sai, questo è un altro dei problemi recentemente. Shmueli dice che il ragazzo è un buon a nulla, che è tutta colpa mia, perchè l’ho viziato troppo.”

“Ma se è un ragazzo tanto dolce. Mi ricordo che le maestre parlavano sempre così bene di lui, era il primo della classe ed era sempre gentile e rispettoso di tutti.”

“Suo padre è furioso perchè non ha avuto neanche un grado nell’esercito.”

“Non tutti possono essere portati per la vita militare. Suona ancora il violino? Suonava così bene, mi ricordo che sentirlo suonare era l’unico modo per addormentare Roni da piccola.”

“Credo di sì, se l’è portato via con sè... Shmueli non ha mai gradito che lui suonasse, voleva che fosse Leah a imparare, ma lei di musica non ha mai voluto sapere niente.”

“Non vedo cosa ci sia di male. Magari diventerà maestro di musica una volta finito il militare. O maestro e basta, i bambini gli sono sempre piaciuti tanto.”

“Non credo che sia quello che voglia.” Sospirò Delilah, arrossendo. Si rifiutava di dare voce ai sogni adolescenziali che il figlio gli raccontava per lettera.

“Sono sicura che troverà la sua strada, è ancora giovane.. e poi si sa come sono questi ragazzi della nuova generazione, come la mia Roni... vivono nel loro mondo di sogni, tutto cassette, fumetti e giochi.. E poi sono ragazzi, crescono meno in fretta… le ragazze ti sfuggono di mano come farfalle. Ieri erano bambine e domani ti ritrovi nonna. Vedrai che anche lui troverà una bella ragazza con la testa sulle spalle che lo farà svegliare tutto d’un colpo” Delilah scoppiò a piangere improvvisamente, singhiozzando forte.

“Shmueli mi ha picchiata perchè lui ancora non ha una ragazza, E ha già ventuno anni.” Adi abbracciò l’amica.

“Probabilmente non ve l’ha detto. Io ho saputo che Lior si era fidanzato dalle chiacchiere della gente, altrimenti me lo avrebbe detto il giorno prima delle nozze. E’ naturale che sia così, ed è anche un bene.”

“Alon mi dice sempre tutto. Mi avrebbe detto se avesse trovato qualcuno.”

“Lo sai che tuo figlio è timido.” le spiegò, mentre le massaggiava il collo.”E’ normale che si tenga delle cose per sè.. non è colpa tua. Non ti devi preoccupare per lui. Adesso devi pensare solo a te stessa e a ricominciare la tua vita. E a bere questo tè che altrimenti andrà sprecato.”

 

Quella sera Delilah rientrò in casa con gli occhi illuminati da una speranza nuova. Dopo il tè, quel pomeriggio Adi aveva telefonato alla sua lontana cugina, la signorina Rachel Cohen. La quale aveva accettato di buongrado la proposta di una nuova aiutante che le tenesse compagnia anche in casa, almeno per un periodo, dato che la signorina che prima lavorava con lei se n’era andata all’improvviso.

Quella leggera allegria si spense quando Shmueli la travolse.

“Perchè non eri a lavoro oggi?” Delilah chinò la testa colpevole.

“Sono stata da Adi. Aveva bisogno che le riparassi un..un vestito.” Aggiunse.

“E perchè non te lo poteva portare a lavoro? Cosa ti immischi con quella poco di buono?”

“Parlane con rispetto. E’ sempre la moglie del nostro segretario.”

“Moshe dovrebbe farsi valere di più. E comunque essere moglie di qualcuno non esclude il fatto che una donna possa essere una poco di buono.” Shmueli le si avvicinò e la prese per un polso.”Voi donne siete la rovina del mondo.” Le mollò uno schiaffo sonoro sull’orecchio, facendola scuotere.

“E pensare che quando ci siamo sposati eri una perla, una ragazza così piacevole e ubbidiente. Adesso sei una vecchia vipera.” Le torse il polso, senza che lei facesse nulla per fermarlo: non riusciva proprio a reagire quando suo marito la trattava così.

E in fondo pensava di meritarselo, per qualche motivo che non riusciva a capire.

“Se non avessi avuto rispetto per la mia dignità, avrei dovuto cacciarti di casa tanto tempo fa!” le urlò.” A lavorare nei campi, sotto il sole cocente devi stare! Non sei stata neanche capace di educare i tuoi figli!”le parole tremende non riuscirono neppure a ferirla tanto era dura la corazza che si era costruita.

I colpi, invece, arrivarono forti e diretti.

“Era meglio che tu fossi morta coi tuoi genitori.” Arrivò a dirle Shmueli, in un impeto di collera inarrestabile.

Delilah urlò forte, così forte da svegliare tutto il vicinato, avventandosi contro di lui, che rimase impietrito, costringendolo ad uscire di casa. Chiuse la porta a doppia mandata, spaventata e crollò pesante sul divano.

Chissà se lui aveva mai pensato davvero all’opportunità che lei se ne andasse. Forse no, come lei lo aveva solo fantasticato fino a quel momento, senza mai pensare che quel proposito si sarebbe realizzato. L’affetto che nonostante tutto provava per lui, la voglia di far vivere i suoi figli in una famiglia normale, il rispetto degli impegni le avevano impedito di scappare.

Ma adesso più niente la tratteneva. Troppe volte sotto le botte aveva maledetto la sua codardia, adesso era tempo di partire.

 

“Aprimi, sono io cara.” La voce di Adi fu una luce di consolazione. Delilah corse veloce ad aprire la porta, trovandosi di fronte l’amica in camicia da notte, una maglia da uomo calata sopra.

“Shmueli è venuto a svegliare Moshe, ma lui non ha voluto saperne e mi ha mandato qua. Dobbiamo partire subito, prima che lui torni e ti gonfi di botte un’altra volta.” Adi le mise una mano sul viso.

“Guardati, come sei tutta segnata.. ti ho portato della pomata e dell’acqua di rose... Svelta, ti aiuto a preparare la valigia.” La incitò, dirigendosi in camera. “Anche Moshe è dalla tua parte, non dovrai preoccuparti di nulla.”

“Ma come arriverò in città? No credo passino autobus a quest’ora.”

“Che autobus e autobus, prendiamo la mia macchina. In qualche ora saremo in città.” Rispose, aiutando l’amica a tirar giù una vecchia valigia polverosa e logora. “Possibile che tu non abbia una valigia migliore di questa? Ti avrei prestato una delle mie...”

“Quelle buone le ho date ai ragazzi.” Sussurrò spaurita.

“Su, su, l’importante è che regga. Metti dentro tutti i vestiti che hai. E la tua roba per cucire.” Con mani tremanti, Delilah sistemò le cose sul letto e poi sulla valigia.

“Sembra che tu stia partendo per una gita, da come sei meticolosa.” Scherzò Adi, abbracciandola ancora una volta.

“Detesto il disordine.” Le confessò. “Mi rende insicura.”

“Mi mancherai, amica mia.. Quindi preparati al fatto che verrò a trovarti spesso!”

 

Alla fine in macchina caricarono due valigie e qualche sacchetto. La piccola e vecchia utilitaria si abbassò sulle ruote posteriori.

Passarono dal refettorio e presero succhi e due panini per la colazione, poi scapparono di nuovo verso il posteggio.

“Che ore sono?”

“Più o meno le quattro. Dì addio al villaggio e preparati a fare il tuo ingresso nella metropoli.” Le annunciò l’amica, girando le chiavi nel quadro di accensione.

“Guten nacht , Bar Am.” Sussurra sottovoce, guardando il paesaggio collinare scorrere dal finestrino.

Guarda le coltivazioni sfilare in mezzo alla roccia e ai campi incolti e pensa a dove andrà. C’è il mare a Tel Aviv, quella cosa che le fa tanta paura e che le sa di fuga.

Non ha mai amato molto quella distesa senza confini.

Ogni tanto le luci di un villaggio fanno loro compagnia.

Il paesaggio, così al buio, è quasi inquietante. Le curve e la strada dissestata aumentano la nausea e le vertigini della fuggitiva.

Le due donne cercano di non addormentarsi improvvisando canti di vecchie nenie o di canzoni sentite alla radio o in tv.

Delilah ama cantare, ma Shmueli non vuole che canti in casa perchè la sua voce gli fa venire il malditesta, dice.

Gentilmente, allo scadere della notte le colline declinano in campi pianeggianti strappati alla terra arida.

Dai finestrini abbassati si sente un odore nuovo, salato e umido: il mare.

E’ a Ma’gan Michel che lo sentono per la prima volta, placido e misterioso, ancora distante.

A Beyt Yanai eccolo, vicino.

La strada adesso scorre veloce, attraversa città di varie dimensioni che cominciano a svegliarsi al giorno nuovo: Netanya, Shikun e infine Ramat Aviv.

All’alba la Collina della Primavera, con le sue strane torri avveniristiche e le mille gru inghiotte le due donne.

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