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Numero chiuso e ordine sparso


Bloodstar

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Avrete sentito che il TAR ha bocciato il numero chiuso imposto dal senato accademico della Statale di Milano ad alcuni corsi di facoltà umanistiche.

Siete d'accordo al numero chiuso in generale? Siete d'accordo al numero chiuso a Lettere ?

Pensate che i test di ingresso siano una valida scrematura?

Siete d'accorso col fatto che, in assenza di direttive nazionali, gli atenei procedano in ordine sparso in materia?

Come valutate il fatto che, da una parte, ci viene costantemente ricordato che l'Italia ha un numero molto basso (troppo basso, secondo alcune letture) di laureati, dall'altra discutiamo di numero chiuso e limitazioni. 

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Sono favorevole al numero chiuso: ci sono troppi studenti che non frequentano l'università con profitto, costituendo un costo e riducendo i servizi per gli altri. Il problema dei pochi laureati non dipende da difficoltà di accesso all'università ma da altri problemi, culturali e di struttura dell'intero percorso scolastico italiano.

Tra l'altro si noti che i test d'ingresso (quelli ben pensati) hanno dimostrato una stretta correlazione tra il punteggio ottenuto nel test e la quantità di crediti media conseguita in ogni anno di iscrizione e i voti medi degli esami superati. Quindi sì, possono essere una validissima scrematura.

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A quel che so io esistono corsi di laurea per i quali esiste una programmazione nazionale ( facoltà sanitarie-infermieristiche, scuole di specializzazione professionali ) ed esistono altri casi in cui può esserci una limitazione a livello di Ateneo ( corsi di studio che necessitino di tirocinii laboratori cioè una offerta formativa limitata per sue caratteristiche intrinseche )

Insomma il concetto dovrebbe essere che se organizzo un corso di studi in scienza dell'alimentazione che necessita di laboratori chimici e la mia offerta formativa è limitata a 500 posti, nonostante il corso attivato non rientri in quelli soggetti a programazione nazionale devo/posso limitare gli accessi a 500

Suppongo vi sia insofferenza da parte dei Rettori delle facoltà umanistiche per il fatto di dover accogliere tutti, ricevendo poche risorse o avendo personale docente insufficiente

Questo creerà problemi di aule, la necessità di rendere l'obbligatorietà della frequenza dei corsi virtuale etc

Da un lato le loro facoltà non rientrano in quelle che la legge riconosce come soggette a programmazione degli accessi, dall'altro non caratterizzandosi come insegnamenti "tecnici" è presumibile anche siano penalizzate nei finanziamenti

 

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1) Non sono affatto d'accordo con il numero chiuso per diverse ragioni. Una é che spesso chiede conoscenze pregresse che comunque si andranno a riaffrontare una volta iniziate le lezioni (parlo almeno per ingegneria/medicina etc.). Non so quali potrebbero essere i quesiti a lettere ma posso riportare l'esempio di un amico che chiamerò Gino. Gino ha sempre voluto fare medicina ma, ahimè, al liceo non abbiamo avuto un buon professore di biologia. Gino però non si è scoraggiato e ha provato comunque a studiare da solo durante l'estate. Purtroppo, al primo tentativo non é riuscito a passare e ha quindi fatto un anno a farmacia per poi ritentare il test di medicina l'anno dopo ed essere preso. Adesso é in regola con gli esami e non prende meno di 27-28. É stato giusto arrestarlo quell'anno quando c'è gente che entra e ristagna cullandosi del fatto che tanto é dentro, quindi può prendersi tutto il tempo che vuole, avendo magari tolto l'occasione ad altre persone più volenterose? Credo proprio di no.

2) questo porta alla seconda risposta. No, un test d'ingresso non è una valida scrematura per diverse ragioni. Una è quella sopra citata, la seconda è che non sono test uniformati tra i vari atenei come non tutti escono dalle scuole superiori con le stesse conoscenze. Ci sarà chi sa più in letteratura, chi più in matematica e così via. Inevitabilmente si creano degli squilibri nella preparazione  degli studenti che influenzano pesantemente l'esito del test. La soluzione quindi non è il test di sbarramento iniziale. Bisognerebbe dare la possibilità a tutti di entrare, dopo di che chi entro l'anno di 10 esami ne dà uno scarso magari (salvo situazioni particolari)  sarebbe il caso di liberare il posto a qualcuno che prende l'università un attimo più seriamente. Si può questionare sul numero limitato di laboratori ma tanto quelli (se li vedi) sono qualche anno più avanti, quando ormai la scrematura naturale avrebbe già fatto il suo corso.

3) ancora no, non è giusto che gli atenei decidano per sé. Dovrebbe essere una direttiva comunque proveniente dall'alto. Altrimenti inizierebbero le solite questioni che l'ateneo X è meglio dell'ateneo Y perché è a numero chiuso ed entra solo la gente in gamba e con voglia di fare (assolutamente falso).

4) se l'Italia ha pochi laureati, questo è dovuto al fatto che il sistema universitario italiano avrebbe bisogno di importanti cambiamenti. Non è limitando l'accesso che si risolve il problema ma è invogliando e dando una ragione per restare a chi è dentro che si cambiano le cose. Cito un altro esempio. Per entrare all'uni dove ho fatto la triennale c'era un test di ingresso alla fine del quale in 100 abbiamo iniziato a seguire le lezioni dal primo anno. Il secondo eravamo 40 persone (dell'anno corrente) e il terzo anno ci sono stati minimi di 6 persone a seguire le lezioni di un corso. A quel punto ti domandi: com'è possibile? Siamo tutti cretini o c'è qualcosa di sbagliato nel modo in cui sono organizzate le cose? È stato veramente necessario il test di ingresso se poi ci siamo ridotti così?

Edited by Quiescent93
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Voi italiani avete urgente bisogno di capire che non potete aspettare che la fortuna piova dal cielo o che ve la fornisca lo stato per voi, ma che dovete darvi da fare e utilizzare al meglio le vostre capacità e le vostre possibilità. È con l'impegno e la fatica di ogni giorno che si costruisce la propria vita. (cit.)

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Comunque è chiaro che se il numero degli immatricolati cala del 20%

Ed io ( Stato ) ne approfitto per tagliare il fondo di finanziamento ordinario del 25%

E' chiaro che ci sarà bisogno di limitare gli accessi del 5%, nonostante il calo del 20%

Una operazione del genere non è programmazione o selezione, ma disinvestimento

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Favorevolissimo al numero chiuso. 

Io sono entrato a Medicina Veterinaria il secondo anno che ci provavo. Lì per lì, il primo anno, maledicevo tutti, urlavo ai sogni infranti, ho fatto una facoltà di ripiego che mi permettesse di convalidare alcuni esami in caso di passaggio.
Il secondo anno mi sono reso conto dell'utilità del numero chiuso. Problemi su problemi soprattutto di tipo economico.. anche per banalità.

- Mancavano i guanti in lattice per fare le esercitazioni di Osteo-Miologia al primo anno, nei laboratori di Malattie Infettive e Anatomia Patologica al terzo anno. 
- Aule piccole e fatiscenti che non potevano contenere più di 80 persone.. e quando entrai io ero 95esimo su 95 posti (che culo direi!).. per cui mi sono ritrovato molte volte a seguire le lezioni seduto per terra o direttamente dal corridoio. 
- Colleghi impreparati (il test non era incentrato sulle materie che avresti studiato), che davano esami a oltranza per prendere alla fine 18... e poi si sono laureati per fare l'informatore farmaceutico (sic!). 
- Colleghi che sono entrati perché studiare Medicina Veterinaria faceva figo e pensavano di accarezzare fuffi per tutta la vita.. ma che poi sono andati a vomitare in bagno o sono svenuti alla vista di organi freschi messi a disposizione per le esercitazioni, oppure cadaveri di cani, gatti, caprioli, cavalli per l'esame di Diagnostica Cadaverica. La Medicina è anche questo. 

ecc ecc. 

Quindi fanculo i sogni, ci vogliono test ancora più severi e chi è veramente motivato studia come si deve e, alla peggio, ritenta i test l'anno successivo. 

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Non sono contrario al numero chiuso per principio, però ho parecchie perplessità, le quali mi sorgono, lo premetto, dall'osservazione diretta della facoltà di Lettere della Sapienza, quindi sono perplessità abbastanza contingenti.

Far entrare meno persone non significa necessariamente investire di più sul singolo, perchè, allo stato attuale, nulla mi assicura che i finanziamenti restino invariati anche con minori iscrizioni. Se a Lettere danno 10 per 100 studenti, ed è, poniamo caso, già molto poco, dal momento che se ne potranno iscrivere solo 70, cosa mi assicura che i finanziamenti non scendano a 7? Con la giustificazione ipocrita che con lo 0.1 a studente si riesce tranquillamente ad andare avanti e mantenere un livello decoroso (come si sta attualmente facendo). Stesso discorso può farsi riguardo il numero dei professori e la consistenza numerica dei corsi. Il numero chiuso, vista l'attuale grado di considerazione, potrebbe comportare un ulteriore taglio alle facoltà umanistiche.

Io sono iscritto a Storia moderna e contemporanea, insieme a me si sono iscritte circa 60 persone a questo corso. Alla fine del secondo semestre del secondo anno a seguire con una certa assiduità i corsi saremo rimasti in 15. Degli originali 60 non so quanti abbiano rinunciato, quanti abbiano smesso di frequantsare e dare esami pur restando iscriti e quanti abbiano solo smesso di frequantare pur dando esami.: il punto è che a lezione siamo rimasti un quarto di quanti hanno iniziato, quindi una qualche selezione c'è stata. Quindi invece di scremature a priori (fatte sempre con metodi opinabili) non sarebbero da valutare selezioni in corso d'opera? Basate magari su crediti acquisiti e media mantenuta?

 

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28 minutes ago, Bloodstar said:

Se a Lettere danno 10 per 100 studenti, ed è, poniamo caso, già molto poco, dal momento che se ne potranno iscrivere solo 70, cosa mi assicura che i finanziamenti non scendano a 7?

Attenzione, però, che gli studenti fuori corso, includendo nella definizione anche quello non ammessi al secondo anno per criteri interni dell'ateneo (crediti insufficienti, determinati esami non superati, ecc.), non vengono conteggiati nel totale degli studenti di cui i finanziamenti sono calcolati.

In altre parole, avere 100 iscritti di cui 30 fuori corso fa ricevere all'università gli stessi finanziamenti che riceverebbe se avesse solo 70 iscritti, tutti in corso. Con la differenza che i fuori corso sono un costo.

Inoltre, bisogna anche considerare che accogliere più studenti comporta costi più elevati per l'ateneo (servono più docenti e collaboratori, più aule o aule più grandi, più strutture, i servizi, come segreterie, mense e biblioteche, vanno dimensionati per più persone, ecc.) e se poi molti di questi dopo il primo e il secondo anno spariscono, l'università va in perdita.

D'altra parte i test di ingresso per scremare gli studenti si fanno in tutto il mondo, non si capisce perché in Italia non vadano bene.

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38 minutes ago, paperino said:

Inoltre, bisogna anche considerare che accogliere più studenti comporta costi più elevati per l'ateneo (servono più docenti e collaboratori, più aule o aule più grandi, più strutture, i servizi, come segreterie, mense e biblioteche, vanno dimensionati per più persone, ecc.)

alla Sapienza si ovvia brillantemente il problema delle poche cattedre creando corsi oceanici da centinaia di persone. I servizi sono privilegi a cui è meglio non abituarsi. Due cessi per piano sono sufficienti, come pure un solo applicato in segreteria didattica ecc.

Quindi il fatto che si debba ridimensionare in grande se c'è più gente è solo una teoria   migliore dei mondi possibili.

Faccio notare che qui si parla della situazione italiana concreta, non di principi astratti sul sistema universitario, perchè in quel caso rivedrei molto le mie posizioni sul numero chiuso.

Edited by Bloodstar
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Faccio notare che qui si parla della situazione italiana concreta, non di principi astratti sul sistema universitario


Però dall'altra parte attenzione a non generalizzare a tutta l'Italia i problemi che trovi a Roma. Io parlo per la mia esperienza e problemi gravi come quelli che citi non ne ho trovati.

Poi è inutile mischiare i problemi, non è che se alla sapienza o in altre uni (minuscole non casuali) ci sono criticità allora il numero chiuso diventa sbagliato. Il numero chiuso è giusto così come gli altri problemi sono da risolvere.

Se vogliamo parlare di problemi concreti dell'Italia direi che il primo è che ci sono troppe università; questo campanilismo di voler avere l'ateneo dietro casa è sciocco e controproducente. Bisognerebbe concentrare le risorse in grandi poli, evitando inutili rivoletti.
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1 hour ago, Bloodstar said:

Non sono contrario al numero chiuso per principio, però ho parecchie perplessità, le quali mi sorgono, lo premetto, dall'osservazione diretta della facoltà di Lettere della Sapienza, quindi sono perplessità abbastanza contingenti.

 

Fra il 2005 ed il 2015 si sono perse circa 66.000 matricole pari ad un calo del 20% delle immatricolazioni su scala nazionale

Il calo maggiore si riscontra nelle zone del paese tradizionalmente più scolarizzate

E come ho già detto i tagli ai finanziamenti statali, causa rigori di bilancio, sono stati maggiori del calo delle immatricolazioni quindi al netto di possibili recuperi da sprechi ( su cui non conterei molto, visto che si parla dell'Italia ) è chiaro che la spesa pro capite per studente è diminuita

Ovviamente la risposta è il corso oceanico o il numero chiuso ( nel tentativo di salvaguardare un quid di qualità )

Ma in termini macroeconomici è sempre un numero chiuso che si inserisce nel quadro di un disinvestimento e non di un investimento o di una riqualificazione della spesa

Questo è oggettivo, come è oggettivo che in Italia abbiamo gli "idonei non beneficiari di borsa di studio" per mancanza di coperture ( il ché è abbastanza vergognoso considerando gli sprechi sistemici fra facoltà, baronie, dipartimenti etc )

Quanto al fatto che un cospicuo numero di studenti si iscriva all'università, nell'attesa che papà lo sistemi...è un fenomeno che c'è sempre stato

Ai miei tempi molti facevano anche fatica a superare gli esami, non c'erano le lauree brevi etc eppure ciò che si è visto è che è decisiva la rinuncia piuttosto che la selezione, per cui nonostante una diminuzione dell'abbandono da insuccesso, rimane alto l'abbandono spontaneo

L'abbandono spontaneo è chiaramente un problema endemico multifattoriale, "papà lo sistema" è solo una battuta

E' come se ci fosse una "fase di passaggio" nella vita in cui si continua a studiare nell'attesa di chiarirsi le idee, mi iscrivo a scienze del turismo e poi ripiego sul patentino di guida turistica, accetto il lavoro che mi procura il capo-bastone di famiglia piuttosto che studiare 'sta merda di storia etc

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Quando ai tempi feci il test d'ingresso per accedere al cdl triennale in Storia, qui all'Università di Pisa, un'impiegata della Segreteria studenti mi disse che esso, in realtà, non era altro che il preludio all'introduzione del numero chiuso anche nei corsi di scienze umanistiche dell'ateneo. A distanza di anni, che io sappia, nulla è stato fatto in tal senso.

Il test d'ingresso che feci, sostanzialmente una prova di comprensione e analisi del testo, domande aperte e domande a scelta multipla (riguardo grammatica e letteratura italiana, storia, geografia, filosofia, storia dell'arte e del cinema, diritto, economia e cultura generale), non pregiudicava in effetti l'immatricolazione al corso. Ieri come oggi, il suo non superamento porta all'applicazione di un ''debito formativo'', cioè vincola la carriera universitaria dello studente ad un esame (scelto dal consiglio di dipartimento) da dare necessariamente nella prima sessione d'esame disponibile (gennaio-febbraio), pena l'impossibilità di sostenere tutti gli altri e quindi proseguire nel piano di studi.

Ora, tenendo conto che solitamente gli esami del mio corso - rispetto ad altri - in qualche modo li superi quasi sempre (la difficoltà non sta tanto negli esami in sé, ma nel modo di gestire il tempo per prepararli), è chiaramente uno sbarramento farlocco. Per corsi come quelli che ho frequentato io, invece, andrei a intervenire a valle, ossia irrigidendo le modalità di esame (incluso un uso più frequente dei voti al di sotto del 25...) e rendendo più specialistico il corso stesso, cioè spingendo su corsi monografici e ''sperimentali''. 

Moltissimi miei professori si son lamentati, nel corso degli anni, della poca preparazione mostrata dalle ultime generazioni di studenti provenienti dalle superiori, della necessità di attivare - per ovviare proprio a tale lacune - corsi base molto generalisti di Storia greco-romana (I), Storia medievale (I), ecc., a scapito di corsi più monografici e formativi per diventare specialisti in Storia, ecc.

Tanto Storia - come altri corsi teorici simili - non hanno sbocchi occupazionali veri al di fuori della ricerca e dell'insegnamento. E chi lo fa per cultura personale - magari dopo aver preso una laurea più spendibile o perché ormai in pensione - ha comunque già una base pregressa data proprio da una passione reale. Se è così, dunque, spingerei tutto sulla formazione specialistica, l'attività ''da laboratorio'' (in archivi di stato, biblioteche, fondi archivistici di vario tipo, ecc. - qualsiasi cosa metta a contatto diretto con le varie tipologie di fonti storiche), corsi di scrittura scientifica, ecc. I corsi più generali di storia li lascerei agli studenti di Lettere moderne e classiche, Lingue straniere, Psicologia, Filosofia, ecc.

Chiaro che io sto facendo una riflessione molto legata alla realtà che conosco, mentre andrebbe fatta a livello più generale. Ecco: io valuterei caso per caso.

Poi tutto ciò ovviamente si innesta in uno scenario di continui tagli all'istruzione pubblica e alla ricerca. Le discipline umanistiche - che pure richiedono molti meno fondi per la ricerca rispetto a molte altre discipline di scienze teoriche ed applicate - sono quelle che più soffrono (a parte forse Sociologia, pare), perché sono già l'ultima ruota più sgangherata del carro. Leggevo sul sito ROAR (*) che entro il 2031, salvo cambiamenti nelle tendenze degli ultimi anni, si rischia di non avere più alcun docente di Storia moderna nell'università italiana... ma mi fermo qui, si rischierebbe di dire le stesse cose trite e ritrite (perché i problemi quelli sono e quelli rimangono, nonostante se ne discuti ciclicamente).

Edited by Layer
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13 minutes ago, Layer said:

Quando ai tempi feci il test d'ingresso per accedere al cdl triennale in Storia, qui all'Università di Pisa, un'impiegata della Segreteria studenti mi disse che esso, in realtà, non era altro che il preludio all'introduzione del numero chiuso anche nei corsi di scienze umanistiche dell'ateneo. A distanza di anni, che io sappia, nulla è stato fatto in tal senso.

Il test d'ingresso che feci, sostanzialmente una prova di comprensione e analisi del testo, domande aperte e domande a scelta multipla (riguardo grammatica e letteratura italiana, storia, geografia, filosofia, storia dell'arte e del cinema, diritto, economia e cultura generale), non pregiudicava in effetti l'immatricolazione al corso. Ieri come oggi, il suo non superamento porta all'applicazione di un ''debito formativo'', cioè vincola la carriera universitaria dello studente ad un esame (scelto dal consiglio di dipartimento) da dare necessariamente nella prima sessione d'esame disponibile (gennaio-febbraio), pena l'impossibilità di sostenere tutti gli altri e quindi proseguire nel piano di studi.

Ora, tenendo conto che solitamente gli esami del mio corso - rispetto ad altri - in qualche modo li superi quasi sempre (la difficoltà non sta tanto negli esami in sé, ma nel modo di gestire il tempo per prepararli), è chiaramente uno sbarramento farlocco. Per corsi come quelli che ho frequentato io andrei a intervenire a valle, per così dire, irrigidendo le modalità di esame (incluso l'essere meno di manica larga a livello di voti) e rendendo più specialistico il corso stesso, cioè spingendo su corsi monografici e ''sperimentali''. 

Moltissimi miei professori si son lamentati, nel corso degli anni, della poca preparazione mostrata dalle ultime generazioni di studenti provenienti dalle superiori, della necessità di attivare - per ovviare proprio a tale lacune - corsi base molto generalisti di Storia greco-romana (I), Storia medievale (I), ecc., a scapito di corsi più monografici e formativi per diventare specialisti in Storia, ecc.

Tanto Storia - come altri corsi teorici simili - non hanno sbocchi occupazionali veri al di fuori della ricerca e dell'insegnamento. E chi lo fa per cultura personale - magari dopo aver preso una laurea più spendibile o è ormai in pensione - ha comunque già una base pregressa. Se è così spingerei tutto sulla formazione specialistica, l'attività ''da laboratorio'' (in archivi di stato, biblioteche, fondi archivistici di vario tipo, ecc. - qualsiasi cosa metta a contatto diretto con le varie tipologie di fonti storiche), corsi di scrittura scientifica, ecc. I corsi più generali di storia li lascerei agli studenti di Lettere moderne e classiche, Lingue straniere, Psicologia, Filosofia, ecc.

Chiaro che io sto facendo una riflessione molto legata alla realtà che conosco, mentre andrebbe fatta a livello più generale. Ecco: io valuterei caso per caso.

 

Premetto di non aver seguito più di tanto la vicenda e quindi potrei sbagliarmi, 

Ma credo che l'idea di partenza fosse: poniamo il numero  chiuso ad alcune facoltà umanistiche  sovraffollate in modo da reperire spazi, fondi e ore di insegnamento dei docenti già di ruolo per attivare nuovi corsi di laurea. Fare quindi, come credo dicevi tu, nuovi corsi più specifici, alcuni sperimentali e, si spera, più spendibili sul mercato del lavoro. La diminuzione del numero di posti disponibili a filosofia sarebbe stata compensata dalla creazione di nuovi posti in nuove facoltà e questo avrebbe garantito comunque il diritto allo studio.

Io vedo l'iniziativa della Statale di Milano un tentativo di elevare lo standard formativo, uscire dalla mentalità dell'ente pubblico  che si barcamena per trasformarsi in un centro di formazione propulsivo per la cultura e per l'economia del Paese.

Le iniziative delle singole università finiscono poi bloccate dal TAR come già dimostrato qualche anno fa dal Politecnico di Milano (ricordate quando voleva fare tutti i corsi specialistici in inglese per avere libri di testo ed insegnanti tra i più avanzati possibile?).  Serve una regolamentazione a livello nazionale. Insomma una buona riforma della scuola e dell'università.

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Se anche alla Statale di Milano si è registrato, nel corso di questi anni, un calo degli iscritti rispetto ai precedenti (e non lo so, visto che non ho reperito dati a riguardo), non penso sia un problema di sovraffollamento.

Ufficialmente, l'introduzione del numero chiuso a Milano è stato voluto per sopperire alla scarsità di docenti (che suppongo provenga a sua volta dal mancato turnover, per esiguità dei fondi disponibili a sostituire permanentemente i docenti pensionati - e così è successo nel mio dipartimento). Una soluzione comunque contestata da vari professori e ass.ni studentesche della Statale perché risolvibile, a loro dire, in altri modi (e la sentenza del TAR dà loro ragione). 

Se erano quelle le motivazioni - economiche - non so come faranno.

Edited by Layer
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Aggiorno e correggo quanto scritto più su, avendo trovato questo interessante link: 

Nell’a.a. 2015/16 tutti i CdL di Studi Umanistici presentavano un numero di iscritti al primo anno tale da richiedere, per l’accreditamento, un numero di docenti di riferimento sostenibile. Nel 2016/17 tutti i CdL ad eccezione di Lettere (per effetto dell’introduzione di un test di autovalutazione non selettivo in ingresso) hanno visto un aumento significativo dei propri iscritti. Questo fenomeno è probabilmente da attribuire in gran parte all’introduzione del numero programmato in tutti i CdL della Facoltà di Scienze Politiche e all’introduzione del test autovalutativo a Lettere. Il suddetto aumento ha fatto sì che i dati relativi al 2016/17 siano tali da mettere a rischio la sostenibilità del rapporto tra numerosità degli iscritti e numero dei docenti di riferimento. Ciò significa che, se si calcolano i docenti di riferimento necessari a partire dal numero degli iscritti al primo anno dell’a.a. 2016/17, potrebbe risultare Dtot > disponibilità di docenza da parte dei collegi didattici della Facoltà.
 
Per l’accreditamento dei rispettivi CdL per l’a.a. 2017/18 tutti i collegi didattici tranne quello di Lettere hanno utilizzato i dati relativi agli iscritti all’a.a. 2015/16, che hanno permesso di disporre di una docenza di riferimento sufficiente a coprire l’intero fabbisogno. Lettere è un caso a parte, in quanto il calo delle iscrizioni di 135 unità tra l’a.a. 2015/16 e l’a.a. 2016/17 ha reso possibile l’utilizzo dei dati relativi a quest’ultimo anno accademico, che presenta un miglior rapporto W.

Mi sorprende il fatto che un test autovalutativo scoraggi al tal punto da dirottare parte di alcuni iscritti verso corsi ad accesso libero senza test d'ingresso...

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Stavo leggendo il link postato dal Corrado Augias pugliese quando ecco che mi si rizzano i capelli in testa.

Quote

Non è verificato o verificabile che una selezione all’ingresso dei CdL consentirebbe l'iscrizione solo ai più bravi e motivati

Non è verificabile? Certo che è verificabile, basta proporre i test di ingresso (anche di mera autovalutazione) per qualche anno e verificare se c'è correlazione tra esito del test e carriera accademica. Se non c'è o non è sufficientemente stretta si corregge il test di conseguenza.

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i test d’ingresso difficilmente riescono ad operare una selezione non arbitraria tra i richiedenti l’iscrizione

Questa è la tesi mancano le argomentazioni. O, meglio, ve n'è una sola:

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Basti pensare all'esempio, a noi vicino, di Scienze Politiche, che ha introdotto da quest'anno il numero programmato. Terminata la prima sessione di quest'anno, il 38% delle matricole non aveva ancora sostenuto alcun esame

E questo dato buttato lì cosa dovrebbe significare? Nulla, isolato in questo modo. Quant'era questa percentuale negli anni precedenti? È aumentata/diminuita/invariata rispetto a prima dell'introduzione del numero programmato? 

Tra l'altro manca la fonte del dato, complicandone inutilmente la verifica.

E poi si prosegue e si scopre che il numero di iscritti al test di accesso a Scienze Politiche era inferiore al numero di posti disponibili:

Quote

Benché fosse stata fissata per l'anno accademico in corso una soglia di 400 posti, solo 398 hanno sostenuto il test. Di questi, una cinquantina sono stati bocciati e altri hanno poi scelto di non iscriversi al CdL

Se questi sono studenti universitari e non sono in grado di scrivere delle argomentazioni corrette, non hanno delle competenze di base di statistica per comprendere i dati che citano, non sono capaci di evitare comuni falle logiche... be', spero che questi studenti non siano rappresentativi della categoria.

Resta il problema di fondo che la maggioranza degli studenti non frequenta l'università con profitto e sono, di conseguenza, delle sanguisughe che tolgono risorse agli studenti seri, che ne avrebbero disperatamente bisogno. Come spiega il rettore:

Quote

"E poi abbiamo visto che dove non c’è filtro i risultati sulla qualità sono negativi."

"In questi corsi gli abbandoni alla fine del primo anno arrivano al 25 per cento. Nell’area umanistica a nove anni dall’iscrizione a una triennale soltanto tre studenti su dieci si sono laureati."

"I dati dicono di sì, [col numero chiuso] migliora la qualità e si riduce il numero degli abbandoni. A Mediazione linguistica c’è il filtro e il 75% si laurea in corso, quasi come a Medicina dove può entrare uno su dieci."

"[Il test di autovalutazione] non è la soluzione. Lo abbiamo visto a Scienze Politiche, dove [...] era stato introdotto ma poi si è deciso di passare al numero chiuso perché dopo il primo anno le iscrizioni erano salite ancora."

"Le immatricolazioni si spostano su questi corsi perché sono i pochi ad accesso libero, questo spiega un incremento che è stato anche del 30 per cento ma il dato da considerare è quanti sono gli iscritti al secondo anno, dopo gli abbandoni. Continuare ad accogliere tutti non è giusto né dal punto di vista economico, né formativo."

Cioè, mi si perdoni, se, in media, dopo 9 (nove) anni solo il 30% degli iscritti ha conseguito la laurea dove dovrebbe essere il problema a ridurre i posti disponibili di molto meno del 70%? È sufficiente tenere monitorato il test di ingresso al fine di tenerne alta la predittività rispetto alla carriera universitaria.

Edited by paperino
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Ripeto, per chi abbia interessa ad un dibattito serio

Il problema del tasso di abbandono spontaneo dell'Università non è una novità

Nè i corsi professionalizzanti ( lauree brevi ) che avrebbero dovuto sul modello europeo aumentare il numero di iscritti "maturi" e diminuire il numero degli abbandoni spontanei facendo aumentare il numero dei laureati hanno risolto il problema.

Ovviamente erano e sono strumenti che mal si adattano ai corsi umanistici, che uno sbocco professionale non lo danno

Ma il problema è che NEL COMPLESSO DOPO 11 ANNI il tasso di abbandono universitario è ancora pari al 38,7% ( comunque meno del 55% dei miei tempi quando all'università ancora si bocciava qualcuno...in alcune facoltà ) ed è uno dei peggiori d'Europa

Ed il 38,7% degli immatricolati è tale anche alla luce dei corsi in cui esiste una legittima programmazione nazionale, o una legittima limitazione di Ateneo giustificata dal carattere tecnico-specialistico dell'insegnamento ( che sicuramente fanno scendere il totale in modo significativo )

Ovviamente si tratta di capire SE l'obiettivo è avere più laureati o meno....perchè è chiaro che chi non entra poi non abbandona, ma neanche si laureerà

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Ovviamente si tratta di capire SE l'obiettivo è avere più laureati o meno..


Bisogna anche capire se il problema nasce dall'università e com'è strutturata o dall'istruzione precedente. Personalmente credo da entrambe le cose.

Il fatto è che non è il numero chiuso il problema. Il problema è far arrivare all'università studenti più preparati (non solo quanto a conoscenze, ma anche quanto a metodo di studio, autonomia, ecc.) e motivati; anche perché finché manca una base di studenti "ricettiva" negli atenei molti degli investimenti per aiutare gli studenti a completare gli studi rischiano di andare sprecati. Bisogna fare in modo che più studenti riescano a superare i test di ingresso e non semplificare questi ultimi (o eliminarli) per far passare più studenti.

Poi resto dell'idea che bisognerebbe avere dei percorsi di studio ad alto livello anche di stampo non accademico (ma non per questo "inferiori" o meno utili), come in Germania. Perché non tutti hanno voglia o interesse di laurearsi e spesso ricevono pressioni dalle famiglie al riguardo, andando ad aumentare la schiera di scalda-sedie negli atenei.
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7 minutes ago, paperino said:

Bisogna anche capire se il problema nasce dall'università e com'è strutturata o dall'istruzione precedente.

La seconda che hai detto. Nel 2015 sul test PISA gli studenti italiani si sono qualificati penultimi, prima solo dei Greci.

http://www.corriere.it/scuola/secondaria/cards/ocse-pisa-2015-italia-palo-scienze-lettura-ma-migliora-matematica/singapore-top-scienze-italia-penultima-alla-grecia_principale.shtml

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E' un fatto noto, di cui l'università è consapevole (ho già riportato i lamenti dei miei professori a riguardo). Tutto inizia alle medie, periodo sciagurato in cui il profitto diminuisce, gli abbandoni scolastici aumentano, ecc.

Chiaro che una riforma universitaria deve essere pensata in modo integrato a una riforma della scuola secondaria di primo e secondo grado, stanziando fondi adeguati e formando una classe docente all'altezza.

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Non si può banalmente partire da dove sappiamo essere più scarsi - la preparazione dei quindicenni -

limitarci a copiare i sistemi usati nei Paesi coi migliori risultati e varare di conseguenza un finanziamento adeguato?

Se anche dopo questa riforma non ci saranno miglioramenti, allora si pensaerà a qualcosa di alternativo.

Noi Italiani siamo come quei contadini che pur di non usare lo stesso concime che usa - con ottimi risultati - il vicino

ci inventiamo che la colpa è del tempo, delle sementi e del trattore.

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Oggi su Repubblica:

MENO laureati e titolo “completo” che arriva sempre dopo i 27 anni. La riforma universitaria Berlinguer/ Zecchino, meglio conosciuta come quella del “3+2”, ha mancato due dei suoi obiettivi principali. Secondo i dati, i giovani che oggi riescono a concludere l’intero percorso quinquennale o quello a ciclo unico sono addirittura meno rispetto ai laureati del 2000, ultimo anno del vecchio ordinamento. E per acquisire i due titoli (quello triennale più quello biennale, detto anche magistrale) si va ancora fuoricorso. Nel 2016, i laureati magistrali o con percorso a ciclo unico (Architettura, Odontoiatria, Medicina, Veterinaria, Giurisprudenza, Farmacia) sono stati 130mila. Sedici anni prima, i laureati quadriennali, quinquennali e dei percorsi di sei anni furono quasi 144mila. Va aggiunto che oggi però abbiamo anche 175mila laureati triennali, che però non sono sovrapponibili per molte ragioni ai vecchi laureati.

L’altra criticità riguarda la durata dei percorsi di studio: chi ha pensato che con l’introduzione della laurea triennale e di quella specialistica nei nostri atenei i tempi d’uscita si sarebbero accorciati ha sbagliato i suoi calcoli. Perché nel 2000, ai tempi del cosiddetto “vecchio ordinamento”, ci si laureava in media a 27,6 anni, sedici anni dopo siamo scesi a 27,1. Un piccolo passo avanti che, per molti, non giustifica la rivoluzione del “3+2”. Anche perché, per completare il percorso triennale occorre mediamente studiare 4,9 anni: a fare più fatica i ragazzi che frequentano le facoltà del gruppo letterario (Filosofia, Storia, Lettere), che mediamente impiegano 5,2 anni. Anni che diventano 7,4 anni per i percorsi a ciclo unico di cinque anni e oltre.

Il Rettore :

"Al momento - ha aggiunto Vago - è come se fossimo commissariati perché da un lato il Tar ci dice di prendere tutti gli studenti che fanno domanda, dall'altro dobbiamo rispondere a una legge che impone di prendere un certo numero di docenti per far partire quel corso". La "situazione paradossale" in cui ci si potrebbe trovare è che "o non facciamo partire il corso" perché non si possono garantire le assunzioni necessarie oppure "non potremo attivare altri corsi di laurea perché la normativa ci dice che se siamo fuori dal criterio di accreditamento per un solo corso non possiamo aprirne altri". I sei corsi di laurea per i quali è stato introdotto il numero programmato hanno avuto 4200 domande, di cui il 15% sono domande multiple su più corsi. I posti a disposizione sono 3050, "per cui probabilmente non sarebbe rimasto fuori nessuno", ha commentato Vago

Non ho capito bene il discorso sulle domande multiple, che suppongo sia un fenomeno legato al numero chiuso: nel dubbio di non superare la prova faccio più domande ma al netto del 15% indicato mi pare che gli studenti scenderebbero a 3.500 su 3.050 posti, cioè il problema si risolverebbe con il tasso di abbandono fisiologico entro un paio di mesi...mi pare che la posizione del Rettore sia ideologica e di principio più che ispirata a reale esigenza di buon andamento degli studi.

Per come la vedo io ( se capisco bene ) è giusto prevedere dei criteri di efficienza nell'accreditamento di corsi, soprattutto alla luce del noto malvezzo di attivare corsi di studio per creare cattedre e sistemare insegnanti ( abuso dell'autonomia universitaria : da qui il riferimento al divieto di attivare nuovi corsi se non c'è efficienza nei vecchi ) piuttosto che per soddisfare reali esigenze degli studenti. Tuttavia la norma non è stata certo pensata per un caso come questo.

 

 

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10 minutes ago, Hinzelmann said:

ma al netto del 15% indicato mi pare che gli studenti scenderebbero a 3.500 su 3.050 posti

Brutta roba non avere nozioni di matematica, logica e statistica e non saper fare i conti, no? :)): Giusto per ricollegarsi alla discussione sul liceo classico...

13 minutes ago, Bloodstar said:

Articolo scritto davvero male! Innanzitutto comincia dicendo:

Quote

La riforma universitaria Berlinguer/ Zecchino, meglio conosciuta come quella del “3+2”, ha mancato due dei suoi obiettivi principali. Secondo i dati, i giovani che oggi riescono a concludere l’intero percorso quinquennale o quello a ciclo unico sono addirittura meno rispetto ai laureati del 2000, ultimo anno del vecchio ordinamento.

Ma se la riforma era stata fatta per (cito dallo stesso articolo) "una base molto larga di laureati triennali [...] e una fascia minore di laureati magistrali" è evidente che il confronto è sbagliato: non si possono mischiare le mele con le pere! Infatti, se è vero che "il 79/80 per cento dei triennalisti prosegue e consegue la laurea magistrale", cui bisognerà aggiungere una percentuale di laureati triennali che proseguono e non completano la magistrale, si può immaginare di togliere il 20% ai laureati nel 2000 del vecchio ordinamento: 144.000 - 20% = 115.200. L'operazione non è propriamente lecita, quindi non si può comunque fare un confronto diretto con i 130.000 laureati magistrali del 2016, ma ci aiuta a intuire la scorrettezza dell'argomentazione dell'autore dell'articolo...

Poi continua:

Quote

chi ha pensato che con l’introduzione della laurea triennale e di quella specialistica nei nostri atenei i tempi d’uscita si sarebbero accorciati ha sbagliato i suoi calcoli [...] ai tempi del cosiddetto “vecchio ordinamento”, ci si laureava in media a 27,6 anni, sedici anni dopo siamo scesi a 27,1. Un piccolo passo avanti

Peccato che nell'ultimo paragrafo ci venga fatto sapere che:

Quote

nel vecchio ordinamento si laureava in regola il 9 per cento degli iscritti, oggi siamo a quota 35 per cento

Qualcosa non torna. Questo è il tipico esempio di come sia facile manipolare i numeri per sostenere la propria tesi, scegliendo un dato piuttosto che un altro o facendo cherry picking dei dati. L'età media di laurea non prende in considerazione l'età di immatricolazione, né ci dice molto sulla regolarità della carriera accademica; inoltre, non tiene conto del fatto che dopo la riforma chi era già iscritto a un corso di laurea del vecchio ordinamento ha potuto proseguire gli studi con quello, le statistiche dicono che gli iscritti del vecchio ordinamento in questi anni si laureavano con un ritardo maggiore degli altri e che erano in numero sufficiente (pur calando nel tempo) a modificare i valori delle statistiche stesse in modo significativo.

Per fortuna sono state fatte analisi più serie e rigorose al riguardo. Non vi sto a riportare i ragionamenti e i dati completi, che potete visionare a questo link, ma vi riporto giusto qualche conclusione:

Quote

Il principale responsabile dell’elevata età alla laurea di cui ha sofferto – e tuttora soffre – il nostro sistema universitario è, di gran lunga, il ritardo negli studi universitari. Da questo punto di vista il miglioramento che si è verificato fra il 2002 e il 2014 è in ogni caso netto: i laureati in corso sono quasi quadruplicati (dal 13 al 45%), mentre i laureati al terzo anno fuori corso e oltre sono scesi dal 51 al 19% (Graf. 6.4). In media il ritardo alla laurea si è più che dimezzato, passando da 2,9 anni a 1,3.

Quote

Se i laureati nel 2002 avevano accumulato un ritardo corrispondente in media a quasi il 70% dell’intera durata del corso, nel 2014 l’indice è sceso al 40%, con evidenti differenze per tipo di corso di laurea (42% tra i triennali e 28% tra i magistrali e magistrali a ciclo unico). [...]

Inoltre, l’analisi del ritardo per area disciplinare mostra un quadro molto eterogeneo (Graf. 6.7), che vede sfavorito in particolare il gruppo giuridico e molto in regola nella conclusione degli studi l’area medica.

Complimenti a Repubblica per la bassissima qualità del suo articolo...

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9 minutes ago, paperino said:

Brutta roba non avere nozioni di matematica, logica e statistica e non saper fare i conti, no? :)): Giusto per ricollegarsi alla discussione sul liceo classico...

Spiegami, correggimi, no?

Mica mi offendo, ho premesso pure che forse non ho capito bene...

 

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On 1/9/2017 at 1:46 PM, paperino said:

Attenzione, però, che gli studenti fuori corso, includendo nella definizione anche quello non ammessi al secondo anno per criteri interni dell'ateneo (crediti insufficienti, determinati esami non superati, ecc.), non vengono conteggiati nel totale degli studenti di cui i finanziamenti sono calcolati.

In altre parole, avere 100 iscritti di cui 30 fuori corso fa ricevere all'università gli stessi finanziamenti che riceverebbe se avesse solo 70 iscritti, tutti in corso. Con la differenza che i fuori corso sono un costo.

In che misura gli studenti fuori corso costituiscono un costo? Non so che Ateneo tu abbia in mente, ma uno studente fuori corso iscritto ad una laurea umanistica qui a Padova per l'amministrazione dell'Università è più che redditizio :D

Io sono ideologicamente contrario al numero chiuso prima dell'iscrizione all'Uni, in particolare per corsi che non richiedono la fruizione di laboratori. Sono favorevole a degli esami di "sbarramento", per i quali si riceva idonea preparazione, che permettano di fare maggior selezione. Non sottovaluterei poi il fatto che molti studenti si laureano in ritardo perché iniziano ad auto-mantenersi, e troverei davvero scorretto penalizzarli ulteriormente.

On 1/9/2017 at 8:53 PM, Almadel said:

La seconda che hai detto. Nel 2015 sul test PISA gli studenti italiani si sono qualificati penultimi, prima solo dei Greci.

http://www.corriere.it/scuola/secondaria/cards/ocse-pisa-2015-italia-palo-scienze-lettura-ma-migliora-matematica/singapore-top-scienze-italia-penultima-alla-grecia_principale.shtml

Darei rilevanza a quella "cronica mancanza di laboratori"...

Credo che anche un'organizzazione più efficiente del reclutamento degli insegnanti aiuterebbe molto, oltre a retribuzioni più interessanti, che permettano di guardare alla professione appunto come ad un impiego auspicabile e non, come spesso accade, un ripiego.

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