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Giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia


OLEG

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Per industria ovviamente (per gli analfabeti funzionali che non capiscono) non s'intendono sviluppo e capitalismo della Seconda rivoluzione industriale. Mi verrebbe da consigliare all'avvocato del forum di studiarsi un po' di libricini, ne cito solo due:

Il Risorgimento italiano - Alberto Mario Banti

Alle origini dell'industria lombarda. Manifatture, tecnologie e cultura economica nell'età della Restaurazione - Maurizio Romano

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@Iron84 Napoli non era scintillante nemmeno sotto i Borbone. Ci sono testimonianze di visitatori europei che hanno documentato perfino l'assenza di fognature.

Non capisco poi qual è l'oggetto della contestazione, nessuno ha mai negato che il capitalismo industriale italiano sia nato nel ventennio 1870-1890. Semmai è @Hinzelmann che ha una conoscenza storica dozzinale, nozionistica e vittima del materialismo storico marxista e gramsciano (che dava ragione indirettamente ai neoborbonici), ignorando che un'Unità industriale non era assolutamente possibile nel depresso Mezzogiorno senza speranza. Le poche industrie napoletano decaddero dopo il 1861 perché il regno borbonico era protezionista e quello sabaudo liberista e non ressero alla competizione internazionale (alla faccia della terza potenza europea!).

Edited by Rotwang
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7 minutes ago, Rotwang said:

Alle origini dell'industria lombarda. Manifatture, tecnologie e cultura economica nell'età della Restaurazione - Maurizio Romano

Ecco, questo mi pare molto interessante (mentre il libro di Banti è meno centrato sulla dinamiche economiche e più su quelle socio-politiche).

Quando vengono applicate le prime innovazioni industriali nel Regno del Lombardo-Veneto? Immagino attorno o dopo il 1820, ma cita qualcosa di specificatamente tratto da quell'opera.

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@Rotwang  Napoli era una capitale europea, tappa imprescindibile, centro culturale di primo ordine se ti faccio l'elenco poi mi dici che sono neoborbonico e te ne vieni con l'immondizia per la strada e la camorra.

Ad ogni modo non era la città provinciale che è poi diventata perdendo il ruolo che aveva, mettila così fosse solo che sia passata da essere capitale di un  Regno a nulla pensi che questo non sia già una differenza, non sia già un declino?

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1 minute ago, Iron84 said:

@Rotwang  Napoli era una capitale europea, tappa imprescindibile, centro culturale di primo ordine se ti faccio l'elenco poi mi dici che sono neoborbonico e te ne vieni con l'immondizia per la strada e la camorra.

Ad ogni modo non era la città provinciale che è poi diventata perdendo il ruolo che aveva, mettila così fosse solo che sia passata da essere capitale di un  Regno a nulla pensi che questo non sia già una differenza, non sia già un declino?

Fuori Napoli c'era il deserto culturale, politico e sociale, questo lo sai, vero? Inoltre era comunque una delle più grandi città europee, ma non certamente socialmente sviluppata, merito del malgoverno spagnolo di secoli (e poi l'indifferenza e l'indecisione italiana) che ha preservato fino ad oggi il suo substrato popolare estraneo al mondo esterno.

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17 minutes ago, Layer said:

Quando vengono applicate le prime innovazioni industriali nel Regno del Lombardo-Veneto?

Lo studioso (e altri) Franco Bonelli ha dato l'interpretazione di onde d'industrializzazione graduali e successive. Nello specifico, colloca la primissima fase d'industrializzazione dell'area lombarda nell'arco temporale tra la fine del XVIII secolo e gli anni Ottanta del XIX secolo, ma come hai detto tu, nei primi dell'Ottocento inizia una seconda fase più intensiva. Nel 1850 nella fascia pianeggiante prealpina c'è una consolidata economica agricola metà mezzadrile e metà capitalistica. Lungi da me considerare l'Italia una nazione pienamente industrializzata (lo siamo diventati negli anni '60 del XX secolo) nel secolo positivista, gli storici parlano di differenti stadi di arretratezza, piuttosto che di sviluppo appunto, gli stadi di arretratezza minore si situano in quella pianura padana fertile ed estesa che è sfruttatissima fin dal Secolo di ferro (XVII). Negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo il regno sabaudo promuove la privatizzazione dei terreni in tutto il suo territorio, imitando la politica britannica di decenni e decenni prima, investe nella costruzione di ferrovie e in nuovi sistemi di coltivazione più intensivi.

Edited by Rotwang
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Il sedicente “revisionismo del Risorgimento” pretende di porsi in contrasto ad una immaginaria “storia ufficiale del Risorgimento”, che però non esiste. Una “storia ufficiale” potrebbe essere soltanto una visione della storia stessa che sia imposta per legge, ciò che in Italia non è mai avvenuto.

La storiografia universitaria sul Risorgimento italiano è sempre stata differenziata al suo interno: per area nazionale (storici italiani e di molte altre nazionalità), per epoca, per convinzioni politiche (fascisti, liberali, cattolici, socialisti, ecc.), per metodo ecc. Questo avveniva sin dagli anni immediatamente posteriori all’Unità ed è proseguito senza soluzione di continuità sino ai giorni nostri. Il presunto unanimismo d’una “storia ufficiale” immaginata quale monolitica e “scritta dai vincitori” è un mito: non esiste una storia ufficiale e la storiografia universitaria è stata ed è scritta da storici diversissimi fra loro per tendenze e conclusioni. L’opera monumentale di Walter Maturi, “Interpretazioni del Risorgimento”, riporta dettagliatamente correnti, scuole, categorie interpretative differenti del periodo dell’unificazione italiana. I medesimi libri di testo scolastici presentano al loro interno la medesima differenziazione suddetta riguardo alla storiografia accademica e non hanno quindi neppure essi un carattere unanime.

Non esiste quindi una “storiografia ufficiale” sul Risorgimento. Esistono invece posizioni largamente od unanimemente condivise all’interno della storiografia su quest’epoca, il che è differente. Il fatto stesso che esse esistano, nonostante le grandi diversità di metodo, tematiche, ideologiche ecc. fra i vari studiosi è una conferma della loro attendibilità.

I sedicenti revisionisti contemporanei non dicono in realtà nulla di nuovo, poiché tutti i nuclei fondanti le loro riflessioni sono già stati discussi e dibattuti prima di loro: il brigantaggio; la genesi della questione meridionale e del dualismo economico Nord/Sud; l’ipotesi della conquista regia; l’ipotesi della piemontesizzazione giuridica; il ruolo della massoneria nel Risorgimento; la compresenza di una pluralità di progetti politici fra centralisti, federalisti, autonomisti; il peso delle classi popolari; la natura borghese dell’ordine sociale dominante nello Stato liberale ecc. I loro libri sono scritti attingendo, direttamente od indirettamente, a quanto studiosi di altro livello avevano scritto prima di loro e meglio di loro. In fondo, si ritrova una linea divisoria fra questo tipo di storiografia e quella sedicente “revisionista”: la prima è opera abitualmente di storici di formazione universitaria e si serve dei metodi di ricerca delle scienze umane, la seconda è invece normalmente costituita da dilettanti ed autodidatti in storia, che molto spesso calpestano principi elementari della ricerca storica, a cominciare dalla cura nelle fonti e nella bibliografia.

Un esempio può aiutare a capire. Ricorre con relativa frequenza nella storiografia dilettantesca o nella pubblicistica il richiamo a quanto ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti in un suo saggio pubblicato nell’anno 1900, “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897”, ripubblicato successivamente in “Scritti sulla questione meridionale”. Ciò che asseriva Nitti è noto, cosicché non è necessario riprenderlo per esteso: in pratica egli sosteneva che il Mezzogiorno fosse stato svantaggiato dalle politiche economiche dello Stato italiano per quasi un quarantennio, versando in tasse ed imposte più di quanto ricevesse come investimenti ed in generale risorse. Questa ipotesi era il cardine di quella, più ampia ed articolata, secondo cui la causa principale del dualismo economico Nord/Sud sarebbe stato proprio il drenaggio di risorse finanziarie dal Mezzogiorno al Settentrione.

Il sociologo, economista e statistico Corrado Gini, conosciuto in tutto il mondo per il suo “coefficiente di Gini” ancora oggi utilizzato per misurare le disuguaglianze socio-economiche, analizzò l’ipotesi di Nitti nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1910. Gini esaminò e smontò, pezzo a pezzo e con argomentazioni serrate di ordine matematico, quanto aveva sostenuto Nitti. Questo illustre statistico ebbe modo di provare inoltre che lo scritto dell’importante politico e storico meridionalista era stato viziato da manipolazioni, per non dire falsificazioni. In ogni caso, Gini poteva concludere che, dati statistici alla mano, il Mezzogiorno non aveva ricevuto dallo Stato meno di quanto avesse versato nel periodo 1862-1897, anzi era avvenuto il contrario.

Quanto sostenuto sul punto suddetto ne “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” non ricevette nessuna replica o contestazione, neppure dal Nitti stesso. Di fatto, chiuse la questione per quanto riguardava la distribuzione regionale delle risorse dello Stato italiano nel suo primo quarantennio di vita. A distanza di oltre un secolo, si ritrovano però persone che riprendono i contenuti de “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897”, ignorando del tutto il successivo studio di Gini del 1910.

Zitara ad esempio, che è stato il tramite fra divulgatori puri e semplice quale Aprile o Del Boca ed il dibattito fra Nitti e Gini, si limita ad osservare in modo sibillino (in “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia”) che gli è difficile stabilire chi fra i due avesse ragione, perché l’argomento non è più stato ripreso da specialisti di storia delle finanze. Questo pubblicista gramsciano non si rendeva conto, o fingeva di non rendersi conto, che nessuno aveva più esaminato di nuovo la questione poiché Gini aveva detto la parola definitiva, giacché i dati ed i calcoli da egli presentati erano incontestabili e difatti sono rimasti da allora incontestati.

Gini, nonostante sia pochissimo conosciuto al di fuori delle università, è stato un personaggio di rilievo internazionale ed uno dei più importanti, se non il principale in assoluto, fra tutti gli studiosi italiani di statistica. Sono rilevanti anche i suoi contributi alla sociologia ed alla demografia.

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  • 2 weeks later...
On 8/8/2017 at 1:23 PM, Mario1944 said:

omissis...

Certo la formazione di grandi Stati ai confini non favoriva il sopravvivere di piccoli Stati all'interno della penisola:

più o meno quello che accadeva nel medesimo periodo in Germania.

In ogni caso, quello che è difficile da legittimare è che il diritto d'aggregare ed unire sia stato proprio dei Savoia e dei Piemontesi e non d'altri, ad esempio dei Borboni e dei Napoletani o addirittura, secondo le proposte neoguelfe, del Pontefice e dei suoi Romani, che del resto almeno formalmente erano eredi di quella Roma che dominò l'Italia duemila anni prima.

 

Nessuno stato preunitario era legittimato ad inglobare gli altri stati, ne esisteva uno stato più legittimato di altri.

 

Ciò che ha fatto la differenza è stato il comportamento delle classi dirigenti. Mentre il Regno di Napoli sentendosi riparato dall'acqua salata (mare) e dall'acqua santa (stato della chiesa) si godeva un dorato isolamento, la corte sabauda ha cercato in ogni modo di tessere alleanze internazionali e di ottenere l'appoggio di tutti i sostenitori dell'unità d'Italia.  Il sentimento nazionalista-romantico, i cambiamenti economici e sociali ed altri fattori avevano reso maturo il momento dell'unificazione nazionale sia in Italia che in Germania. I Savoia hanno saputo interpretare questi cambiamenti e si sono resi protagonisti del risorgimento i Borbone no. Possiamo poi discutere se, dopo l'unità d'Italia, siano stati o meno una buona dinastia regnante ma quello è un altro discorso.

 

I valori della rivoluzione francese, arrivati in Italia con le baionette degli eserciti napoleonici, rendevano l'idea neo guelfa di un Italia unita sotto la guida papale anacronistica e irrealizzabile.

Il Gran Ducato di Toscana e gli altri piccoli ducati padani non avevano la forza propulsiva per porsi come soggetto aggregante nel processo di unificazione nazionale

Edited by OLEG
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58 minutes ago, OLEG said:

I Savoia hanno saputo interpretare questi cambiamenti e si sono resi protagonisti del risorgimento i Borbone no.

Be', questo è pacifico.... d'altronde i Borboni nella prima metà dell'800 avevano già problemi con l'indipendentismo siculo oltre che con certi filoni rivoluzionari partenopei emersi alla fine del '700 e riemersi dopo la Restaurazione e quindi difficilmente si sarebbero potuti mettere a capo d'un movimento di unificazione della penisola, tanto più che il loro solo confine terrestre era il Patrimonium Petri e quindi per espandersi in un certo senso avrebbero dovuto impugnare le armi prima di tutto contro il cattolicesimo italiano, anzi europeo:

una cosa che del resto fu alquanto indigesta anche per i Savoia, che pure v'erano arrivati  "sfogliando il carciofo" delle Legazioni e solo dopo aver conquistato tutto il resto, tanto che si risolse solo nel 1929.

 

1 hour ago, OLEG said:

I valori della rivoluzione francese, arrivati in Italia con le baionette degli eserciti napoleonici, rendevano l'idea neo guelfa di un Italia unita sotto la guida papale anacronistica e irrealizzabile.

Sì, senza dubbio, ma è anche vero che i "valori della rivoluzione francese" non è che si conciliassero meglio con il principio d'una dinastia regnante motrice e promotrice dell'unità della nazione:

infatti quella rivoluzione aveva soppresso la monarchia e decapitato il re e, già che c'era, anche la regina....

D'altronde è un fatto che per circa un millennio il solo signore spirituale, oltre che in gran parte anche feudale, dell'Italia fu il pontefice romano:

perciò il sogno neoguelfo non era in sé così peregrino.

Il problema è che il papato, sia politicamente sia economicamente, non era più quello medioevale di Bonifacio VIII e neppure quello rinascimentale di Giulio II:

il papa, pur volendo conservare i suoi Stati tradizionali a garanzia dell'indipendenza della Chiesa, tendeva ormai a porsi come il capo spirituale della Cristianità, non solo al di sopra, ma anche al di fuori delle contese politiche tra i vari potentati cristiani.

 

1 hour ago, OLEG said:

Nessuno stato preunitario era legittimato ad inglobare gli altri stati, ne esisteva uno stato più legittimato di altri.

Questo è certo, ma d'altronde la legittimazione ad impadronirsi degli Stati altrui non ha nessun'altra fonte coonestante, se non l'azione stessa d'impadronirsene ;-)

e questo vale in ogni tempo ed in ogni luogo.

 

 

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  • 1 month later...

Sono d’accordo, c’è bisogno di chiarezza storica affinché un Paese sia forte. Negare la realtà esacerba gli animi e rafforza leghismo e borbonismo.

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  • 8 months later...

Fonte e diritti riservati: Limes

Marcello Anselmo

I risultati elettorali del 4 marzo 2018 hanno ridisegnato la cartografia politica del paese, segnando una netta cesura tra Mezzogiorno e Settentrione. Il primo sembra essere diventato roccaforte del M5S che ha eletto la maggior parte dei suoi deputati e senatori nei collegi meridionali. Una delle principali ragioni del successo è stata ascritta al progetto di istituire un «reddito di cittadinanza» che avrebbe spinto gli elettori meridionali a premiare il movimento di Grillo.

Un’attenta analisi delle realtà territoriali meridionali evidenzia un panorama ben più complesso nel quale il M5S ha dimostrato una notevole capacità di radicamento territoriale facendo leva non solo sulle innegabili difficoltà economiche del Sud Italia, ma soprattutto su elementi identitari e culturali diffusi, negli ultimi vent’anni, nelle diverse anime regionali del Mezzogiorno.

Nel settembre 2017 il gruppo consiliare pentastellato alla Regione Puglia ha proposto una «giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia e i paesi rasi al suolo» per il 13 febbraio, data in cui nel 1861 la fortezza borbonica di Gaeta capitolò all’assedio garibaldino e sabaudo. La medesima iniziativa è stata riproposta nei mesi seguenti anche nei Consigli regionali di Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia e Campania. A eccezione dell’esperienza secessionista dell’EVIS (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia), per la prima volta nel secondo dopoguerra una forza politica di massa si è fatta portatrice di istanze identitarie meridionali maturate all’interno di una minoranza (politica, culturale e storiografica) autodefinitasi neoborbonica.

Il risultato elettorale, tuttavia, ha messo in luce un ulteriore dato: l’affermazione della Lega in versione lepenista perfino nelle periferie popolari della capitale del Mezzogiorno, Napoli. A ben vedere è forse quest’ultimo il risultato più sorprendente considerando la matrice «regionalista» e antimeridionale del movimento fondato da Umberto Bossi. Quasi un milione di elettori (per la precisione 987.406) di Lazio, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Campania, Calabria e Sicilia si sono convertiti al leghismo primatista. Elettori chiamati per decenni terroni hanno eletto 23 tra senatori e deputati del Carroccio al Sud, per la gran parte con un passato di militanza nel MSI o in altre formazioni del neofascismo extraparlamentare. Il successo elettorale è basato su parole d’ordine che si richiamano all’identità meridionale sebbene, stavolta, declinata come argine a una supposta invasione di migranti extraeuropei.

Ciò che accomuna i due risultati elettorali è la loro distribuzione cartografica che ricalca (più o meno esattamente) i confini del regno borbonico delle Due Sicilie. Un bipolarismo territoriale come lo definisce una delle principali testate neoborboniche fondata dall’intellettuale ed economista Nicola Zitara, che può esser considerato tra i principali ispiratori di un pensiero politico meridionalista radicale in cui sono confluiti elementi socialisti e separatisti, questi ultimi diventati la matrice originaria dei movimenti neoborbonici. Zitara rappresenta senza dubbio la figura di riferimento intorno alla quale hanno preso forma diverse organizzazioni di matrice neoborbonica o autonomista sorte a partire dal principio degli anni Novanta.

Secondo la storica Gabriella Gribaudi l’emersione dei movimenti neoborbonici ha radici proprio in quel periodo di ridefinizione degli equilibri politici che porteranno alla cosiddetta Seconda Repubblica. Il movimento neoborbonico tout court fu fondato infatti nel 1993, lo stesso anno in cui – grazie alla nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci delle grandi città – vennero eletti Antonio Bassolino a Napoli e Leoluca Orlando a Palermo. Entrambi furono i promotori di un «rinascimento» culturale e urbano delle due principali città del Mezzogiorno. In quel particolare clima di rinascita meridionale presero corpo anche le pulsioni neoborboniche incentrate su una «controstoria» del Risorgimento e dell’unificazione italiana, considerati processi di colonizzazione e rapina delle risorse e delle infrastrutture del Sud da parte degli interessi sabaudi e settentrionali.

L’emersione della galassia neoborbonica è in certa misura speculare all’affermazione della Lega Lombarda e dei diversi autonomismi settentrionali. Entrambe si basano su una cartografia del paese di tipo nuovo, dove le spinte centrifughe agevolano lo sviluppo di identità territoriali sostanzialmente inventate.

Riscrivere il passato
Se nel discorso legato alla fondazione del mito padano il fattore aggregante sembra esser stato principalmente la pretesa di salvaguardare una condizione economica (e industriale) legata al presente, al contrario il patriottismo neoborbonico e meridionale ha fatto leva su una revisione del passato: un vero e proprio revisionismo storico. Si tratta di un insieme di pubblicazioni e iniziative culturali orientate a costruire l’immagine di un territorio omogeneo, circoscritto nei confini dell’ottocentesco Regno delle Due Sicilie abitato da una comunità (nazional-popolare) uscita sconfitta dalla guerra civile combattuta nell’Italia meridionale tra il Risorgimento e la prima fase post-unitaria. Una visione che trasforma il brigantaggio in una guerriglia popolare contro l’invasione straniera, il regno dei Borbone in una monarchia illuminata e votata al benessere popolare, l’isolazionismo di Francesco II nella prima metà del XIX secolo in una gagliarda opposizione alle grandi potenze egemoni del tempo (Francia e Gran Bretagna). Per i neoborbonici il paternalismo autocratico delle tre F (Feste Farina Forca) non è l’emblema della Restaurazione borbonica (1815) ma la sintesi di un progresso ordinato delle classi popolari. Su queste basi fiorisce una pubblicistica dalle pretese storiografiche volta alla narrazione della comunità popolare meridionale uscita sconfitta e umiliata dal periodo risorgimentale.

Dalla metà degli anni Duemila fino alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità, i giornalisti Lorenzo del Boca, Gigi Di Fiore e Pino Aprile pubblicano dei saggi che diventano riferimento per una narrazione revisionista della storia italiana, non di rado segnata da caratteri ambigui e tesi scarsamente documentate ma dal forte impatto emotivo soprattutto per la piccola borghesia locale.

Si tratta di letture storiche di corto respiro, ben lontane dal patrimonio disciplinare quanto politico che caratterizza gli studi meridionalisti a partire dai lavori di Giustino Fortunato, Antonio Gramsci, Manlio Rossi-Doria, Ernesto De Martino, che hanno indirizzato i migliori studi storico-sociali sul Mezzogiorno contemporaneo. La diffusione del revisionismo risorgimentale ha tuttavia stimolato un vivace dibattito storiografico sul Meridione preunitario che ha restituito la complessità storica e sfatato molti dei miti fondativi del pensiero neoborbonico.

La revisione del discorso sul passato è dunque l’architrave di quella che oggi, parafrasando l’antropologo statunitense Benedict Anderson, potrebbe configurarsi come una comunità immaginata fondata su un’idea di orgoglio nazionale sudista e neoborbonico. Una forma di patriottismo anomalo perché riferito a confini geografici decisamente poco definiti.

Le principali associazioni neoborboniche sono radicate soprattutto a Napoli, in Campania e in Calabria. Per quanto riguarda la Sicilia – considerato anche il rapporto contraddittorio che in diversi periodi ne ha caratterizzato le relazioni con il continente – la diffusione dell’idea neoborbonica sembra essere residuale. Piuttosto, si assiste a una ripresa del discorso autonomista, per altro legato a una visione «postmoderna» dell’indipendentismo e del regionalismo progressista e radicale. È forse la Puglia la regione in cui lo sviluppo del neoborbonismo va di pari passo con l’ascesa postideologica del M5S radicandosi soprattutto nelle città di Bari e Lecce.

L’invenzione del mito borbonico
Quello neoborbonico, dunque, è un fenomeno che riguarda la diffusione di un immaginario più che un reale progetto di trasformazione territoriale o geopolitica. Trovandosi a far i conti con una realtà socioeconomica complessa, priva di una solida struttura economico-produttiva e segnata da forti diseguaglianze sociali, i neoborbonici tendono a «risignificare» con contenuti propri i più diversi ambiti della vita sociale. Così gli stendardi delle Due Sicilie sono comparsi nelle curve degli stadi meridionali di tutte le categorie, anzitutto in quelle di Napoli. Le vicende del campionato di calcio, l’antagonismo sportivo tra il Napoli e la sabauda Juventus sono diventate un terreno fertile per propagare il patriottismo neoborbonico.

Il recente boom turistico che ha investito Napoli ha visto la diffusione del vessillo neoborbonico in decine di bar e ristoranti che si richiamano a una supposta tradizione gastronomica borbonica. Il vessillo dell’antico regno viene venduto come souvenir alla pari della maschera di Pulcinella e delle vedute del Vesuvio. La riproduzione della carta geografica del Regno delle Due Sicilie così come quelle di ordinanze pittoresche del governo borbonico sono diventate oggettistica turistica assai richiesta. Parallelamente si sono moltiplicate le associazioni culturali votate alla riscoperta degli elementi pittoreschi del Regno delle Due Sicilie.

La comunità immaginata, inoltre, si autorappresenta come vera e propria entità statale. Il movimento neoborbonico si presenta come struttura parastatale articolata in sovrintendenze, intendenze e consolati. Le sovrintendenze sarebbero organi di governo responsabili di diverse aree geografiche le cui dimensioni spaziano dalla scala regionale (ad esempio sovrintendenza per le Calabrie, per le Puglie ma anche della Toscana, del Veneto o della Liguria) a quella provinciale (sovrintendenza delle isole campane o della costiera amalfitana ecc.). A esse rispondono le intendenze attive su scala comunale (Pomigliano, Caserta, Latina eccetera). Le sovrintendenze, però, sono presenti anche su scala più ampia, addirittura internazionale (Francia, Argentina, Brasile, Stati Uniti, Australia), nei paesi di approdo dell’emigrazione di massa meridionale. 

I consolati, invece, sono le rappresentanze diplomatiche del parlamento delle Due Sicilie-parlamento del Sud. Quest’ultimo, con sede nella centrale piazza Dante di Napoli, ha riunito i suoi 150 rappresentanti, per la prima volta, nel 2015, e si propone l’obiettivo di rappresentare la popolazione del Regno delle Due Sicilie tanto nel Mezzogiorno quanto nei territori della diaspora migratoria meridionale.

L’attività parlamentare è suddivisa in 14 ministeri o commissioni composte ognuna da 20 rappresentanti. La loro missione è amministrare le attività curricolari di un organismo statale (ad esempio Sanità e Ricerca, Istruzione, Esteri) ma anche specificità neoborboniche: l’amministrazione dei Sedili di Napoli, la difesa del Regno e le pari opportunità tra Nord e Sud.

L’istituzione di quest’organo rappresentativo della comunità neoborbonica si basa sui «riferimenti storici delle istituzioni del Regno (le antiche province), della città di Napoli (i Sedili) e delle antiche corporazioni (attuali categorie produttive); nelle province e nelle regioni [viene] eletto un numero proporzionale di deputati in base alla percentuale di abitanti». A oggi non è stato possibile reperire notizie certe sul funzionamento del meccanismo elettorale né tantomeno sulle modalità di identificazione di collegi elettorali di riferimento.

Il parlamento delle Due Sicilie può essere considerato la proiezione simbolica attraverso cui la comunità neoborbonica riesce a dotarsi di una struttura di rappresentanza e (auto)rappresentazione territoriale. Un elemento «tangibile» in grado di «reificare» un passato assurto a modello politico, sociale e, soprattutto, culturale. Ed è proprio nell’ambito identitario che, in fin dei conti, si concentra l’attività neoborbonica. E lo fa proponendo un uso situato del folklore, inteso come insieme complesso di elementi che costituiscono l’unità di una comunità nazionale. Quindi, oltre all’attività di riscrittura della storia, assume notevole importanza la riproposizione in chiave contemporanea di usi e costumi dell’antico regno.

Esempio recente e concreto di tale pratica, il Festival delle Due Sicilie organizzato dal parlamento del Sud e dall’Associazione neoborbonica tra il 1° e il 3 aprile 2018 a Napoli. Nei tre giorni si è avuto modo di assistere a dibattiti, presentazioni di libri e delle attività di associazioni impegnate nel sociale dalle denominazioni evocative: I Sedili di Napoli, I Lazzari, Gli Scugnizzi. L’attività di quest’ultima associazione è particolarmente esemplificativa della sovrapposizione che il movimento neoborbonico prova a esercitare tra elementi di folklore e reali tentativi di penetrazione nel sottoproletariato urbano: «Finché c’è pizza c’è speranza» è la denominazione di un progetto dedicato al recupero di minori detenuti.

L’immancabile cornice di tutte le iniziative è stata delineata da un «percorso enogastronomico che parte dall’Abruzzo, passa dalla Campania e il Gargano, prosegue in Sila e finisce in Sicilia».

Il momento culminante del Festival è stata la giornata di «rievocazione storica Settecento-Ottocento» organizzata la domenica di Pasqua nel Real Parco di Capodimonte. All’interno dell’antica riserva di caccia di Carlo III di Borbone è stata messa in scena una sfilata in costume di soldati e cittadini seguita da uno spettacolo equestre di «eroi e briganti» del Regno borbonico. Il tutto circondato da gazebo informativi ed enogastronomici su cui sventolavano le bandiere neoborboniche. Si è trattato di una «rievocazione» basata su elementi storico-iconografici alquanto dubbi, forse più adatti a uno sceneggiato televisivo in costume. Tuttavia, attraversando la folla di visitatori improvvisamente ritrovatisi nel bel mezzo del folklore neoborbonico si è avuto modo di registrare un’adesione a un confuso patriottismo meridionale.

Ecco. È proprio trovandosi a partecipare a una simile iniziativa che si è palesata, in tutte le sue sfumature, la crepa all’interno della quale il pensiero neoborbonico, sorprendentemente, è riuscito a diventare argomento comune nell’immaginario politico e sociale del Mezzogiorno contemporaneo. Il regno neoborbonico fatto di folklore, territorio di una comunità immaginata, (auto)rappresentato da pseudo-istituzioni, raccontato attraverso la retorica dei «vinti» e della guerra civile risorgimentale, è diventato il detonatore forse inconsapevole per deflagrazioni identitarie i cui effetti restano territori ancora poco frequentati. Il patriottismo neoborbonico, per quanto minoritario e pittoresco, ha tuttavia sedimentato un armamentario discorsivo condiviso non più esclusivamente da minoranze nostalgiche, ma anche da settori più ampi della società e della politica meridionale. Tanto da contribuire all’arsenale utilizzato per la costruzione del consenso di componenti politiche tradizionalmente distanti dalle rivendicazioni neoborboniche.

L’efficacia delle suggestioni neoborboniche risiede, probabilmente, nell’audacia di proporre non tanto rivendicazioni specifiche, quanto piuttosto concetti rarefatti, rievocazioni, territori immaginati. Se si vuole, quella neoborbonica è stata una sorta di avanguardia (politica ma anche culturale) che – così come la Lega Lombarda alla metà degli anni Ottanta – ha anticipato la comprensione «delle parole e delle cose» che oggi si rivelano gli strumenti più efficaci per colonizzare l’immaginario di larghi strati della popolazione.

Sdoganamento
Sintomatica, in tal senso, è stata l’iniziativa realizzata nei pressi del museo ferroviario di Pietrarsa (Portici) il 1° maggio 2018. In occasione della festa dei lavoratori un centinaio di persone hanno ricordato l’eccidio di decine di operai dell’Opificio di Pietrarsa avvenuto per mano dei bersaglieri il 6 agosto 1863. Episodio rilevante nella storia del Mezzogiorno e dell’intero paese, decisamente poco studiato dalla storiografia. Nella stessa giornata, per altro, ai martiri di Pietrarsa è stata intitolata una piazza dall’amministrazione comunale di Portici. Il dato rilevante è che alla commemorazione hanno preso parte tanto esponenti neoborbonici quanto militanti della sinistra antagonista. I vessilli gigliati delle Due Sicilie sventolavano affianco alle bandiere con un Meridione colorato di rosso. I toni erano di denunzia dell’eccidio sabaudo perpetrato a danno dei meridionali, identificato come espressione della colonizzazione settentrionale del Sud. Anche se con sfumature diverse il discorso neoborbonico ha trovato un’eco, una declinazione politica fino a pochi anni fa inimmaginabile: in pezzi della sinistra meridionale si è affermata la denunzia della «retorica unitarista». Anche in quest’ambito è comparsa una comunità immaginata che reinterpreta elementi propri del patriottismo neoborbonico.

Nell’affermazione di un regionalismo di sinistra, di un patriottismo meridionale un ruolo centrale è stato giocato dal «movimento arancione» che ha portato all’elezione dell’attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Una novità nel panorama partenopeo (e nazionale) in grado di costruire uno spazio politico all’interno del quale si è realizzata una negoziazione originale tra pulsioni progressiste e spinte conservative. Ha preso forma un populismo orientato a sinistra, legittimato da una variegata area di consenso che spazia dai centri sociali alla locale borghesia commerciale capace di arginare potenziali derive primatiste e razziste enfatizzando la potenzialità dell’autonomia locale. Tuttavia, la retorica utilizzata, fin dal principio, dal sindaco di Napoli, si è incentrata sull’orgoglio del popolo napoletano. Anche se le argomentazioni e i riferimenti del movimento arancione sono ben diversi e distanti da qualsiasi sirena primatista o identitaria, il richiamo a una sorta di patriottismo dagli echi neoborbonici può essere considerato indizio di una mutazione irreversibile.

Le stesse mobilitazioni avvenute nel corso del 2017 contro le visite dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e del segretario federale della Lega Matteo Salvini hanno avuto come terreno narrativo l’opposizione tanto allo Stato centrale usurpatore dei diritti del Sud quanto al nemico razzista e settentrionale. Argomenti che si sono decisamente diffusi in diversi strati della popolazione locale trovando riscontri anche in alcuni settori intellettuali e della classe dirigente. In maniera probabilmente inaspettata la comunità immaginata neoborbonica è stata di fatto sdoganata, ha oltrepassato i confini di una minoranza nostalgica contribuendo a dar linfa a un autonomismo meridionale dai caratteri originali benché populisti. Quest’ultimo, a differenza della nostalgia neoborbonica, propone una macroregione meridionale attuale dai confini definiti da proporre come territorio geografico, produttivo e sociale dove sperimentare un’alternativa politica incentrata sulla valorizzazione delle risorse locali, considerate oggi mortificate dalle politiche centraliste.

La diffusione sia della nostalgia neoborbonica sia di una visione politica autonomistica ha probabilmente contribuito all’affermazione elettorale del M5S non solo a Napoli ma in tutto il Mezzogiorno. L’ambiguità politica del M5S rappresenta la cerniera capace di unire settori politici estremamente distanti attraverso l’uso della retorica del riscatto meridionale. 

D’altra parte, sia la sinistra radicale, i movimenti neoborbonici e il M5S, seppur con diversi gradi di coinvolgimento ed efficacia, sono stati protagonisti delle diverse mobilitazioni che si sono susseguite in territori diversi del Mezzogiorno: la crisi dei rifiuti nel Napoletano e la creazione del movimento Biocidio; le lotte contro la costruzione del deposito nazionale di scorie nucleari a Scanzano; la mobilitazione contro la trivellazione petrolifera in Lucania o nel Mar Adriatico.

La perennemente irrisolta questione meridionale viene riproposta tentando di sviluppare un senso di appartenenza territoriale specifico, immaginando una comunità meridionale dai tratti omogenei in un territorio segnato da una profonda disomogeinetà. Una comunità geografica in cui si confondono piani politici, sociali e storici in nome di un progetto di unità meridionale strumentale quanto confuso ma evidentemente capace di rispondere a una domanda identitaria proveniente dal Mezzogiorno italiano.

Il lavorio silenzioso, oscuro, dai tratti eccessivamente pittoreschi ma, in ogni caso, costante, sembra aver dato i suoi frutti, contribuendo alla decostruzione del discorso di solidarietà sociale tra le diverse regioni italiane. Un’ennesima vittoria del particulare sull’interesse generale.

Note:

1. Si vedano le considerazioni dell’economista Gianfranco Viesti, goo.gl/osQ6Ei

2. Cfr. eleaml.org/index.html

3. L. del Boca, E.F. Di Savoia, Savoia maledetti. Benedetti Savoia. Storia e controstoria dell’Unità d’Italia, Milano 2010, Piemme; G. Di Fiore, I vinti del risorgimento, Torino 2004, Utet; P. Aprile, Terroni, Milano 2010, Piemme.

4. In particolare le pubblicazioni dell’associazione e casa editrice napoletana Controcorrente, di matrice neofascista, controcorrentedizioni.eu

5. R. De Lorenzo, Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma 2013, Salerno Editrice. Vedere anche i numeri della rivista di storia e scienze sociali Meridiana: «Guerre civili», 76/2013; «Unificazione e Mezzogiorno», 78/2013; «Crolli borbonici», 81/2014.

6. B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, Roma 2009, Manifestolibri.

7. Cfr. L. Caminiti, Perché non possiamo non dirci indipendentisti, Roma 2017, Derive/Approdi.

8. goo.gl/eUiqFY

Edited by Rotwang
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