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Apologia di un momento


Silverselfer

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Floppy 03/28

 

 

L’affetto scaturisce da un ammanco sentimentale. Crea una dipendenza costruttiva che nasce dal bisogno di ritrovarsi necessari alla solitudine degli altri, che contraccambiano alleviando la nostra. Se non ne siamo contagiati da bambini dall’amore genitoriale, questo vincolo relazionale ci sarà difficile crearlo artificiosamente, avendo imparato a trovare in noi stessi quanto dovremmo recuperare dagli altri.

Quello che Panari Felice proprio non riusciva a capire, era la mia anaffettività. Lui diventava progressivamente più apprensivo nei miei riguardi, mentre io non ero mai riuscito a comprendere il suo improvviso interesse per me.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

In fondo c’eravamo sempre stati antipatici, ma dopo quel primo incontro in infermeria, me lo ritrovai nel parcheggio della piscina, dove mi allenavo, a offrirmi un passaggio a casa con la sua Honda 125. Dopo la terza o quarta volta di fila che puntualmente passava per caso da quelle parti, glielo dissi chiaramente che non era “normale” il suo comportamento, ma lui si accigliò e scocciato mi mandò a quel paese. Subito dopo, però, mi raggiunse alla fermata dell’autobus e mi ordinò perentoriamente di salire sulla moto.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Mi era altresì chiarissimo quanto a Panari Felice piacesse farsi menare l’uccello da me. Sulle prime glissai sulle sue timide avance, ad esempio dopo una crisi epilettica, quando mi mostrava orgoglioso la sua erezione, oppure durante le lezioni cercava di provocarmi con citazioni del mio romanzo porno. Fu per questa consapevolezza che alla fine gli accordai delle “prestazioni”. Era un modo per ricambiare le sue attenzioni e, soprattutto, per quelle che mi riservava la sua ragazza.

 

Mi sfuggiva totalmente che da quel gesto potesse scaturire dell’altro. Il sesso per me rientrava tra i giochi che avevo praticato fin da bambino. Lui e Bea avevano semplicemente sostituito Lalla e suo fratello Pino. Fu quel giorno dopo capodanno che mi accorsi di avere a che fare con due persone adulte, il cui sesso era qualcosa di diverso da quello che avevo sempre inteso io. Mi spaventai di quella novità della passione, che trasforma gli individui durante il rapporto sessuale.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Non so fino a che punto Panari Felice sapesse o fosse addirittura premeditato, che la sua ragazza mi riservasse tante premure. Certo è che, quando ci ritrovammo tutti nudi nello stesso letto, nessuno dovette spiegare niente a quell’altro; tuttavia a Panari Felice accadde qualcosa che lo turbò profondamente.

Dopo quei fatti, mi portava spesso a puttane, ma combinava la prestazione solo per me. Lui voleva solo guardarci, ma non so fino a che punto gli piacesse farlo, perché alla fine lo ritrovavo con lo sguardo torvo e mi diceva con sdegno che “io ero nato zoccola” e mi sarei meritato di finire su un marciapiede.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Finirono anche i bei pomeriggi del giovedì con Bea. La madre aveva raccontato tutto al suo padrigno/amante che di conseguenza l’aveva segregata in casa, impedendole anche di frequentare la scuola serale. Almeno quando non era in viaggio con il suo camion, Bea doveva ubbidire alla sua volontà, ma per lo più non c’era mai e allora la madre non riusciva a impedirle di uscire almeno un giorno a settimana. Ci scrivevamo lunghe lettere, in cui io la aiutavo a interpretare la sua vita in modo diverso, mentre lei mi dispensava consigli su come alleviare il dolore di vivere attraverso le benzodiazepine.

 

Il vuoto dentro di me era diventato una voragine e quando mi ritrovavo a fissare il buio in fondo a quel buco nel mio petto, ero fatalmente attratto dall’abisso. Avevo perso la fede non solo in Dio, ma anche in quell’ipocrisia indotta dallo stato di necessità, che ci spinge a cercare conforto negli altri. I sentimenti non erano altro che un baluginio della volontà, con cui si cercava vanamente di nobilitare bisogni ancestrali in miraggi romantici, destinati a dissolversi tra le arsure di speranze puntualmente tradite.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Quel giorno ero rientrato da scuola particolarmente furioso perché Lidia, una compagna di classe acerrima rivale di Giada, mi aveva deriso brutalmente. Io avevo appena riposto il quaderno con gli esercizi di grammatica svolti, sul banco di Giada quando, come da prassi, lei non c’era. Lidia m’irrise spavaldamente davanti a tutti, insinuando che non fossi provvisto di palle.

Se ci fosse stato, Panari Felice certo non avrebbe permesso che mi sbertucciassero in quel modo. Tuttavia, questa consapevolezza rendeva l’umiliazione ancora più cocente, perché mi ero illuso di non essere più il reietto di una volta mentre, invece, era solo per la protezione che mi dava Panari Felice se fingevano di accettarmi. L’offesa mi covò in corpo per tutta la mattinata e al solito finì per diventare un veleno autolesionista. Ero uno stupido invertebrato. Volevo disperatamente morire, ma anche per quello ci volevano le palle e oramai era noto che ne fossi sprovvisto.

 

Il lorazepam ci metteva troppo a fare effetto e oramai gli preferivo l’alprazolam di Bea, che in gocce poteva essere dosato all’abbisogna. Così la chiamai confidandole il bisogno impellente di avere un acconto sul riposo eterno. Lei fu molto comprensiva e mi disse di passare sotto casa sua prima di andare in piscina. Mancavano tre lunghissime ore! Cercai dunque di strascicare la mia attenzione verso pulsioni fisiche. Mi rinchiusi in bagno con qualche numero della mia editoria segreta. Quella volta, però, le immagini non riuscirono a catturare allungo la mia attenzione. Quell’unico blando interesse per il mondo sciamò con qualche schizzo di sperma, lasciando subito il posto a un tremendo gelo postorgasmico.

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Mia sorella aveva lasciato in bagno la sua borsa del corso di taglio e cucito. Ci tirai fuori le grosse forbici da sarta. Volevo morire e se non fosse stato per il pensiero che avrebbero trovato il mio cadavere accanto alle riviste pornografiche, forse lo avrei fatto davvero. Tagliai, invece, i capelli. Quella lussureggiante criniera che da mesi Panari Felice mi costringeva a far crescere, costituiva una volontà di vivere e comunicare con l’esterno. Mi ero quasi convinto di esserci riuscito perché durante l’ora di ginnastica mi sceglievano per giocare a calcio, perché anche Giada aveva detto che mi trovava cambiato … ma era tutto falso e Lidia mi aveva fatto il favore di ricordarmelo. Un attimo dopo mi ritrovai con una zazzera che non riuscii più a pareggiare.

 

- Oddio! Ma che hai combinato?

 

Angela si offrì persino di darmi una sistemata, ma rifiutai. La mamma si preoccupò che avessi preso la mia medicina, perché tanto per lei ero solo un cerebroleso. Le mandai affanculo e, messe le cose nella borsa, presi la strada per la piscina.

Arrivai sotto casa di Bea in anticipo, ma avevo un disperato bisogno delle sue arti stregonesche e suonai al citofono, disposto a litigare persino con quella stronza della madre. Invece, ripose insolitamente lei e mi disse di salire. La madre era tornata per qualche giorno in paese e lei aveva introdotto in casa nottetempo Panari Felice. Entrambi se ne stavano rintanati lì dentro e appena arrivato davanti alla porta, mi ci tirano dentro anche a me.

 

In piscina non ci andai più. Fumammo solo hashish perché Panari Felice odiava il Tavor e lo Xanax, forse perché a lui erano stati prescritti per contenere gli attacchi epilettici. Le canne mi sciolsero la lingua e anche gli occhi. Per la prima volta nella mia vita, confidai a qualcuno l’esistenza di quel buco nel mio petto.

Bea mi confortò dicendomi che avrebbe non solo risistemato la mia zazzera, ma alla fine ci sarei stato benissimo. Panari Felice, invece, borbottò per tutto il tempo, dandomi dell’imbecille e giurando vendette sanguinarie contro tutta la classe.

I capelli furono difficili da risistemare, allora Bea li nascose sotto un baschetto militare nero con una stella e una coda di rondine rossa, poi sfilò la felpa nera a Panari Felice e me la fece indossare. Il risultato fu stupefacente! Quei piccoli dettagli mi avevano miracolosamente trasformato in qualcos’altro. Mi riconobbi nel riflesso nello specchio e non m’importava cosa ne potessero pensare gli altri. Ero io, cazzo! E non ero più neanche grasso …

 

“… particolarmente … particolarmente … particolarmente …”

 

Mi sarebbe piaciuto diventare gothic punk, ma l’istintiva repulsa nel riconoscermi in ogni forma di branco, me ne tenne lontano. Tuttavia, uno spirito dark trasuda dalla pelle e stinge su ogni colore che s’indossa. La mia non era una moda ed era lungi da volersi riconoscere in un gruppo. Essa era un esercizio di volontà, attraverso cui esibivo impudicamente lo sdegno per il mondo. Diventai orgogliosamente malinconico e il sarcasmo del mio cinismo divenne un rasoio affilato. Decisi di non avere più paura e dopo Leopardi e Schopenhauer, iniziai a leggere Nietzsche. Lo spirito libero divenne la mia utopia e il primo passo da compiere per diventarlo, era disimparare. Ovviamente si trattava solo dell’ennesimo embrione metafisico che si formava nella mia testa, che però trapelò in fretta all’esterno, scatenando consensi e contrapposizioni. In entrambi i casi, me ne sentivo gratificato.

 

Secondo mia madre, invece, era tutta colpa del Tavor che non faceva più effetto. Per lei era l’equivalente dello sciroppo calmante che mi rifilava da bambino per farmi riprendere dai miei accessi nervosi. Ora che mi vedeva così scostante e soprattutto fuori di casa tutti i giorni, mi procurò del diazepam. Glielo consigliò sua sorella che lo usava per dormire.

Al contrario delle pastiglie di Tavor, facili da mandare giù anche senz’acqua, le gocce richiedevano un bicchiere. Ne comprai uno di quelli da viaggio che si richiudevano in una scatolina, ma c’era sempre d’aspettare il tempo che le maledette gocce cadessero nell’acqua, troppo per sfuggire agli sguardi indagatori della gente. Bea, che usava esclusivamente l’alprazolam, faceva cadere direttamente le gocce in un sorso d’acqua tenuto in bocca. In quella maniera, l’unico modo di riuscire a contarle, era memorizzarne il tempo di caduta. Bea aveva anni d’esperienza e sapeva farle cadere con un colpetto sul fondo della boccettina. Io cercai invece di trovare una parola che durasse giusto il tempo tra una goccia e l’altra.

 

“Particolarmente …”

 

La parola era: particolarmente.

 

Bea si accorse fin dal primo giorno che avevo iniziato ad usare il Valium. Per chi come lei era avvezza alle benzodiazipine, era facile riconoscerne gli effetti.

Il diazepam contenuto nel Valium mi buttava troppo giù. Tentai anche di calibrare meglio i dosaggi, ma la calma stralunata che mi dava, insospettì presto anche Panari Felice. Un giorno mi perquisì tutte le tasche, ma non trovò nulla perché fortunatamente avevo dimenticato il flaconcino nei bagni dove lo avevo usato.

 

- Figlio di puttana! Se non la smetti con sta mondezza ti fracco di botte.

 

Panari Felice si era auto assurto a ruolo di mio angelo custode. Mi aveva organizzato tutta la settimana di modo che fossi sempre sotto il suo controllo. Il sabato e la domenica li trascorrevo sempre con lui, spesso dormivo anche a casa sua. Per fortuna avevo ancora la piscina tre giorni a settimana, altrimenti non avrei più avuto una vita privata.

 

- Io ho visto come ti fanno diventare ‘ste medicine di merda …

 

Entrare a far parte della squadra di pallanuoto era una roba seria perché la formazione titolare militava nei tornei regionali. Io ci tenevo perché costituiva uno di quei sogni di gloria che mi avrebbe finalmente riscattato agli occhi di tutti.

 

- … ma cos’è che ti rode tanto!

 

Panari Felice e Bea erano legati da dei vincoli occulti fuori da un normale rapporto di coppia. Sapevano sempre quello che succedeva all’altro, anche se non li vedevo mai parlare. Era difficile capire chi dei due avesse un potere totalizzante sull’altro.

 

- Tu ti fai le canne e pure Bea prende lo Xanax …

 

La dipendenza rende la vita del tossico un vero inferno. C’era sempre da inventarsi il modo di trovare quell’attimo per smarcarsi dal mondo. L’allenatore un giorno mi sorprese negli spogliatoi un attimo dopo che avevo preso qualche goccia extra. Mi tenne d’occhio per tutto il tempo, chiedendomi continuamente se stavo bene. Sapevo che quella roba m’incasinava il cervello e non mi faceva rendere al massimo, per questo evitavo di prenderne durante l’allenamento, tuttavia rimanere lucido, mi metteva addosso ansia insopportabile. Fu in seguito a quell’episodio che ebbi il colpo di genio: Portarmi dietro cinquanta gocce già diluite in una boccettina d’acqua, da usare durante l’arco della giornata, senza mai destare sospetti.

 

Fu durante la partita che mi accadde quell’incidente.

 

- … ti senti migliore di me, ma se tiri su la bumba peggio di un aspirapolvere!

 

Quella partita non era un semplice allenamento, la giocavamo con la squadra dei titolari, in cui diversi giocatori stavano per ritirarsi. Tutti volevano mettere in mostra le proprie qualità e a supportarli avevano portato orde di famigliari acclamanti.

Sapevo che potevo farcela perché il Mister aveva molto apprezzato l’impegno e i risultati raggiunti in allenamento, invece, appena udii il clamore del pubblico rimbombare nella palestra, mi sentii così solo e avrei volentieri fatto saltare in aria quel cazzo di posto. Mi convinsi che sarebbe stato un disastro. Fu così che decisi di ingollare il primo sorso dalla mia bottiglietta d’acqua speciale, giusto per tamponare l’ansia di prestazione. Feci un altro sorsetto quando l’allenatore mi disse di scaldarmi prima di entrare in acqua. Poi combinai un disastro, anzi, non combinai nulla. Per tutto il tempo non sfiorai una sola palla. L’allenatore mi tirava addosso dei tali improperi e i compagni di squadra mi guardavano di traverso. Io li odiavo tutti.

 

- Tu sei un bastardo …

 

Ci fu un time-out in cui il Mister mi sostituì. Lo avevo deluso. In quei momenti non capivo cosa mi fosse successo. Quegli schemi di gioco li avevo ripetuti decine di volte in allenamento. Ero solo un incapace, stupido, inetto, imbecille che non valeva l’aria che respirava. Ero furioso con me stesso e d’impulso afferrai la bottiglietta e la bevvi tutta in un solo sorso. Non volevo uccidermi, ma quella volta ci andai veramente vicino. Il mio cuore sollecitato dall’attività fisica e dalla concitazione nervosa, assorbì come una spugna il diazepam. Mi sentii troncare le gambe, ebbi giusto il tempo di sedermi, ma poi scivolai come uno straccio giù dalla panchina.

 

Fortunatamente sugli spalti c’era anche Panari Felice, che era venuto a fare il tifo per me con Bea. Forse fu lei a capire la ragione della mia cattiva prestazione, fatto sta che Panari Felice mi portò via prima che qualcuno si accorgesse del mio mancamento. Mi trascinò fuori dalla palestra e scavalcò il cancello di servizio per andare al bar a prendermi una non definita quantità di caffè in una bottiglia di vetro.

Non so quanto caffè mi somministrarono prima che tornassi a connettere dove mi trovavo, ma era in ogni modo troppo per quanto ne potesse tollerare il mio corpo.

 

- Me senti cugì?

 

Chissà perché quei due se la prendevano tanto per un piantagrane come me. Fu la prima domanda che mi posi, poi allontanai schifato il collo della bottiglia che mi stavano cacciando in bocca contro la mia volontà.

 

- Sono intollerante alla caffeina.

 

Gli dissi, implorandoli di non costringermi ancora a bere quella merda liquida. Avevo la gola ridotta a una carta vetrata e lo stomaco che mi doleva, tanto era gonfio di gas come lo pneumatico di un camion. Poi vomitai peggio che mi avessero praticato una lavanda gastrica. Felice era fuori di sé dallo spavento.

 

- Figlio di puttana. Se non la smetti con quella mondezza di fracco di botte.

 

Non avevo il tempo di starlo a sentire. Dovevo assolutamente riuscire a ruttare l’aria che mi gonfiava lo stomaco.

 

- Ma mi stai a sentire?

 

Eccome no! Giù con il primo mega rutto che li lasciò esterrefatti. Avanti con il secondo in cui alla fine sentii gorgogliare altro vomito. Poi un’altra emissione gassosa precedette un conato di schifosa bile gialloverdastra. Dovevo proprio avere un aspetto impressionante, perché Bea mi porse un pacchetto di fazzoletti per pulirmi la bocca, con un’aria spaventatissima.

 

- Vuoi che ti portiamo al pronto soccorso?

 

Mi sorprese quella domanda, come se realizzassi solo in quel momento di non essere immortale. Scossi la testa e mi rimisi a sedere sul muretto, con il freddo della sera che mi gelava il sudore addosso. Appena Panari Felice comprese che ero tornato in me, diede sfogo alla sua ira.

 

- Ma si può sapere che cazzo ti rode! Il signorino perfettino oggi non è riuscito a essere il primo della classe? Sto Cazzo non è più il cocco dei professori? Non ti puoi più permettere di pisciare intesta a tutti con la tua aria da principe del cazzo?

 

Panari Felice era arrabbiato sul serio, mentre urlava gli si gonfiavano le vene del collo. Ma sì, ora si spiegava tutto quel suo darsi da fare per me. Stava solo aspettando il momento in cui fossi a terra per urlarmi contro il disprezzo che covava nei miei confronti fin da quando eravamo ancora dei ragazzini.

 

- Se pensi questo di me, non capisci proprio un cazzo. Vuoi ammazzarti? Allora fallo, ma non da’ la colpa all’altri. Drogati. Ingozzati de sto schifo. Ma non dare la colpa agli altri. Sei tu che ce l’hai con te stesso … se, se solo la piantassi di pensare solo a te stesso … ti, ti accorgeresti che … ma vaffanculo, cazzo!

 

Ero stanco di sentirmi giudicare da uno che non si poteva certo permettere prediche moraliste.

 

- Mi avete rotto i coglioni tutti quanti. Ma perché tu non ti fai le canne e pure Bea prende lo Xanax …

 

La cosa che mi dava più fastidio è che Bea non dicesse nulla in mia difesa. In fondo era lei che mi aveva insegnato a prendere acconti sulla morte.

 

- Cristo re! Stavi per andartene agli alberi pizzuti. Te ne rendi conto?

 

Morire. Quelli credevano forse di essere eterni? Se fossi morto non ci sarei stato più, tutto qua. In fondo se non mi avessero risvegliato, ci avrei guadagnato una dolce fine. Nessun dolore, nemmeno uno stramazzo. Sarei morto con lo stesso candore di chi si abbandona alle braccia di Morfeo dopo una dura giornata di lavoro.

 

- Lo sai qual è il tuo unico, enorme, gigantesco problema del cazzo? Sei solo un egoista cui non frega un cazzo di nessuno. Ha ragione tu, Bea … con lui è solo tempo perso …

 

Dunque era questo che Bea pensava! Dopo le decine di lettere che c’eravamo scambiati, alla fine mi riteneva un egoista. Ma allora se pensavano questo di me, perché stavano ancora lì? Perché mi avevano persino trascinato nel loro letto? Perché non riuscivo a capire cosa gli altri volessero da me?

 

- Siete solo due grandissimi bastardi …

 

Avevo vomitato tutto il Valium e stavo di nuovo in astinenza. A Panari Felice proprio non veniva bene la parte del buon samaritano ed io ero stufo di starlo a sentire. Intanto l’intossicazione da caffeina era entrata nella fase tre, la più antipatica. Dopo il vomito e il fegato che diventava un groviglio di spine, il caffè arrivava negli intestini, e allora era meglio cercare alla svelta una latrina. Senza replicare a Panari Felice che continuava a insultarmi, mi alzai e me ne andai a cagare, lasciandoli da soli a chiedersi finalmente perché continuavano a ronzarmi intorno.

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Floppy 03/29

 

 

“Prosperina naviga tra languide onde mentre soffio questo malinconico verso tra le vele di una speranza che mi riconduca nel vostro porto. Carissima Milady, seppure lontano da voi mi guidi il pavido cuore e codarda la voce che non sa ripetere quanto esso riesce appena a sussurrare … la mia invisibile mano tiene ancora la vostra, nello stentato gesto dell’ultimo baciamano che ci divise”.

 

Ero stufo anche solo di pronunciare il nome di Panari Felice. Avevo bisogno di cambiare. La noia divenne un crampo nell’anima, indotto da quel dolore che mi faceva ripiegare su me stesso. Decisi anche di darmi una calmata con gli acconti sulla morte. Le benzodiazepine avrebbero reso tutto più sopportabile e un bel giorno sarei finito per accontentarmi di una parvenza di vita, com’era successo a Bea. No, ero stanco di avere paura.

 

“Cos’è un capitano senza il suo cappello? Uno tra i tanti marinai su un naviglio privo dell’indice che gli indichi la rotta. In ogni istante tendo lo sguardo all’orizzonte, nella speranza di vederlo tra le onde, rapito dalle correnti del cuore”.

 

Erano anni che covavo il desiderio di affermare clamorosamente me stesso. Se non riuscivo a espormi, non era certo per mancanza di autostima; al contrario, essa cresceva ipertrofica, inducendomi a confrontarmi con attese spropositate, che alla fine mi trasformavano nel più feroce giudice dei miei errori. Gli altri? Non rappresentavano uno scopo. Spesso suscitavo stima, ma mai amicizia. Li adoravo tutti, ma a debita distanza.

 

“Ogni volta che vi lascio Milady. La carrozza corre via dissipando ogni speme, verso quel veliero che mi condurrà di nuovo in mare aperto … lontano dal solo porto cui vorrei legare la mia cima”.

 

Sicuramente anche Panari Felice stava affrontando un percorso formativo duro. Certo che essersi imbattuto in un individuo come me, non lo doveva aiutare a capire chi era e cosa stava cercando. Io assolvevo puntuale ogni dovere della nostra amicizia, arrivando fin dove nessuno prima lo aveva sfiorato … sia nell’anima e sia nel corpo. Che pretendeva di più? Cos’era quel mugugno che continuava a ruminare?

 

“Il cielo rimbrotta il suo rancore e livido cala la malsana coltre umida della malinconia. La sento gonfiarmi le ossa del cranio scoperto, mentre il mare sopra la mia testa scivola via in goccioline dissennate. Ho pietà per ognuna di queste stelle cadenti e del desiderio che s’infrange con loro sul ponte di Prosperina”.

 

Intanto i rapporti tra i miei famigliari si erano sfilacciati al punto di dissolversi completamente. Il padre di Primo era stato colpito da una serie d’ictus cardiaci che lo avevano paralizzato nel letto. La mamma fece il suo assistendolo eccetera. Questo l’aveva costretta a trasferirsi periodicamente in campagna, lasciando me e Angela da soli in città. Per il vero non sentimmo la sua mancanza. Angela mandava avanti la casa in maniera egregia ed io facevo un po’ come mi pareva.

 

“Piove ancora e sto ancora qui, dinanzi al miraggio vostro che mi condanna alla forsennata ricerca di un’identità perduta. Volgo lo sguardo oltre l’oblò della mia asfittica cabina mentre altre lacrime di cielo scivolano via aggrappandosi alla speranza trasparente del vetro; si cercano tra loro per un estemporaneo abbraccio che le conforti, ma appesantite dalla comune malinconia, precipitano ancor più velocemente verso l’inesorabile destino”.

 

Il nonno calò nella fossa e si portò finalmente via quel suo ghigno mefistofelico, ma non i guai che era solito ispirare in casa nostra. Primo non se la sentì di lasciare la madre sola nel casale di campagna, decise dunque di portarla in città con noi. All’inizio si parlava di un breve periodo, ma era sempre troppo per la pazienza della mamma. Ricominciarono dunque le liti furibonde di un tempo, ma stavolta non fu la mamma che se ne andò sbattendo la porta di casa.

 

“L’astrolabio non conforta più la mia ragione, trafitta dal vostro gelido sguardo. Che senso ha cercare ancora quel cappello? Dove potrebbe più dirigersi Prosperina, se non avesse la sua polena da inseguire?”.

 

Mia madre mise letteralmente alla porta la suocera. Primo se tornò con lei in paese e non si fece più vedere, lasciando in casa il risentimento che Angela aveva sempre covato per nostra madre. Lei, diversamente da me, non era capace di dare stura alla sua collera. Spesso la incitavo a fare qualsiasi cosa, pur di non soffocare in gola i singulti del pianto. Così non potei che essere felice quando, il giorno dopo il suo diciottesimo compleanno, fece la valigia e se ne andò.

 

“ Chi si allontana dalla terra ferma, impara presto a temere la bonaccia più di ogni tempesta. Mille volte preferibile lo sconquasso di onde che trascinano via, piuttosto di questo impercettibile sciabordio che congela l’attimo e affoga nel silenzio”.

 

Di Primo non mi era importato nulla, ma di Angela sì. Lei lasciò un vuoto incolmabile nella mia vita. Era stata la sua mano cui da piccolo mi tenevo stretto per non disperdermi. Mia sorella, suo malgrado, si era sempre occupata di me. Sapevo di non piacerle, ma col tempo avevamo imparato a soccorrerci vicendevolmente. Tornai a casa e quando chiesi di lei, mia madre spaccò tutte le ceramiche della tavola da pranzo e mi cacciò lontano dalla sua vista. Lo aveva fatto! Era finalmente libera … me ne andai in camera e piansi come un imbecille per tutto il pomeriggio. Non mi ero mai sentito così solo.

 

“Ho veduto il sole dopo tanto tempo, era in ogni vostro sguardo. Credevo che il gelo dei mari artici avesse per sempre imprigionato il mio cuore in un iceberg, ma è bastato un attimo perché tutto sfaldasse in un impetuoso torrente di emozioni irresistibili”.

 

Mia madre cercò di alleviare il gravoso peso delle sue colpe votandosi alla santità. La parrocchia divenne la sua seconda casa e il volontariato la sua missione. Del resto non aveva più un cazzo da fare tutto il giorno. C’incontravamo di tanto in tanto. Le bastava sapere che andassi bene a scuola, prendessi le mie medicine e non mancassi alla messa della domenica.

 

“Sono giorni che Prosperina naviga a vista tra una fitta coltre di nebbia. Ho bisogno di un alito di vento che spazzi via i dubbi e ridia vigore alle vele. Ti prego compi un gesto e sarò salvo”.

 

Tutto sommato quella nuova condizione “famigliare” non mi dispiaceva. Potevo gestire la mia giornata come volevo e piuttosto di tornare tardi la sera, era meglio dire che rimanevo a casa di Panari Felice. Mia madre telefonava a quella di Marcello, che anche senza essere avvertita, misteriosamente mi reggeva il gioco, forse credendo che fosse sempre un’idea del figlio. La verità, però, è che Panari Felice si era stancato di me.

 

“Che sia vero! Il Capitano Lost ha dunque ritrovato il suo cappello? Posso dunque credere che egli sia di nuovo degno di tenervi il polso in pubblico? Credere ancora fa paura eppure non posso esimermi da quest’ultimo arrembaggio alla vita. Prego tutti gli dei del mare affinché non mi salvino, nel caso la sorte mi renda a un ennesimo naufragio”.

 

Era successo dopo la festa di compleanno di Giada. Lui non voleva che ci andassi. Figurarsi se mi facevo dare ordini da quell’arrogante. Io che mi ero messo in testa che quella doveva essere la volta buona che Giada mi accettasse pubblicamente. Eravamo alla fine della terza media e l’anno venturo i nostri diversi indirizzi scolastici ci avrebbero diviso … Gli altri compleanni li avevamo festeggiati a pranzo con i suoi, ma quella volta mi aveva invitato alla festa che teneva sempre il sabato pomeriggio. Mi ero illuso che fosse la volta buona e che finalmente non ero più quell’imbarazzante nerd, la cui sola vicinanza le avrebbe attirato lo scherno generale.

 

Ero così felice e lo dissi anche a mia madre. Lei era così orgogliosa di me, che mi comprò persino un maglioncino nuovo per la festa e del profumo in una bella scatola con tre saponette a forma di coccinella da regalare a Giada. Io, però, il mio regalo glielo avevo già dato. Era il diario in cui avevo annotato tutti i bigliettini che per tre anni le avevo lasciato tra le pagine dei quaderni, quando glieli riconsegnavo con i compiti svolti. In quei messaggi le scrivevo quanto non riuscivo a dirle, parafrasandolo in metafore marinaresche, attraverso le vicende di un malinconico Capitano Lost, salpato con il veliero “Prosperina” alla ricerca del suo cappello, al fine di riconquistare il rango che esigeva l’amata Milady.

 

A Milady fece un certo effetto stringere tra le mani quel voluminoso compendio di struggimenti d’animo. Probabile che fu per questo che il venerdì sera mi telefonò a casa, scusandosi perché si vedeva costretta a declinare l’invito per l’indomani, perché nel frattempo la sua festa era diventata per sole ragazze.

 

Che dovevo fare? Era meglio crederci, no? Non me la sentii di dirlo a mia madre e il pomeriggio del giorno dopo, mi vestii lo stesso di tutto punto e walkman nelle orecchie, scatola del profumo sotto il braccio, mi diressi alla festa. Girovagai per un po’, ma non riuscii a gettare il regalo in un cassonetto della spazzatura. Mi dissi che non c’era niente di male se ci andavo solo per darle il profumo. Quando suonai al citofono, mi aprirono senza chiedere chi fossi. Mi accolse la madre che mi fece entrare senza indugi. Lo sapevo, certo che lo sapevo che la storia della festa per sole ragazze era una fottuta balla, ma avrei sempre potuto crederci per convenienza; invece, costatare con i miei occhi che erano stati invitati tutti i verri del circondario, mi umiliò fino alla follia.

 

- … non fare cazzate!

 

La signora chiamò la figlia che divenne seria appena mi vide. Patetico, ero proprio patetico. Le tesi il pacchetto col profumo, lei lo scartò, fingendo di non ricordarsi della balla che mia aveva raccontato. La madre mi portò un piattino di plastica con una fetta di torta. Mi sedetti in un angolo e masticai quel boccone dolciastro, cercando di mandarlo giù a far compagnia alla bile che mi stava incrostando lo stomaco.

 

- … nessuno ti sfotterà per questo … solo tu non ti sei accorto di quanto sia stronza …

 

Avrei voluto ballare e divertirmi come stavano facendo tutti, ma perché non mi riusciva a essere come loro? Eppure non sarebbe stato difficile … almeno avessi avuto la spina dorsale di alzarmi e andarmene. Stavo ancora rivoltando la torta nel piatto, quando mi avvicinarono le ancelle di Milady. Teresa mi disse sul muso che dovevo sparire, rendendomi il diario che avevo regalato il giorno prima a Giada. Sapevo che lo avevano letto … tutti lì dentro lo avevano letto e mi deridevano. Quale altra umiliazione stavo ancora aspettando? Lidia, c’era anche lei. Cacciò quelle altre due con disinvoltura e sedendosi accanto a me, disse che il giorno che mi sarei svegliato sarebbe stato sempre troppo tardi.

 

M’indicò un cicisbeo di poco conto, con i capelli posticci e inguardabile strato adiposo che iniziava a debordare dalla cintola dei pantaloni. Lidia sosteneva che Giada stravedesse per lui da mesi e del resto ci stava ballando insieme dall’inizio della festa. Ma come cazzo poteva preferirlo a me! Cioè, sembravo io qualche anno addietro. Sant’iddio! A stare con quello non si vergognava? Certo si vedeva che a differenza di me, era un tipo estroverso, capace di tessere relazioni sociali.

 

Era meglio togliere il disturbo una volte per tutte?

 

Sì, sarebbe stato il caso di defilarsi con discrezione. Però no, qualcosa la dovevo fare. Qualsiasi cosa pur di scrollarmi di dosso quella puzza d’ignominia. Mi avvicinai al buffet, ben lungi da assaggiare alcun che. Ballavano da Vasco Rossi a Claudio Baglioni e poi ero io quello disadattato. Siccome avevo con me una delle mie cassettine con un compendio dei migliori pezzi dei Depeche Mode, decisi di cacciarla nello stereo di casa che conoscevo benissimo. Chissà, magari avrei trovato persino il coraggio di ballare. Dopo il secondo pezzo, ci fu una sorta di sollevazione da parte di alcune cose che usavano definirsi “ragazze”.

 

Giada tolse la cassettina e rise con quanti si chiedevano cosa fosse quella robaccia. Lei lo sapeva chi fossero i Depeche Mode. Lo sapeva anche un tizio che per chissà quale motivo, mi rivolse carinamente una battuta. Lo afferrai per il collo e lo sdraiai lungo sul buffet … Prima di quel momento non avevo mai aggredito nessuno, soprattutto scoprii di avere nelle braccia la forza di poterlo fare. Solo che quel disgraziato non c’entrava niente.

 

Un attimo dopo era calato il gelo e già qualcuno cercava di riportarmi alla ragione. Tipico di tante risse cui avevo visto protagonista Panari Felice. Giada mi guardava atterrita, forse domandandosi cosa mi aveva fatto quel tizio, che mi mostrava il palmo delle mani in cenno di sottomissione. Raccolsi per terra il diario di bordo del Capitano Lost e salpai di nuovo, ma stavolta sicuro che sarebbe stata l’ultima volta.

 

- In testa c’hai proprio le pigne …

 

Mi bruciava il cervello e una volta giù in strada, infilai la testa sotto l’acqua gelata delle tette della fontana di fronte a Palazzo Spada. Solo dopo mi resi conto che non volevo rinvenire da quello stato di onnipotenza indotto dalla rabbia. Attraversai Piazza Farnese ed entrai in un bar di Campo dei Fiori. Comprai una birra e un pacchetto di sigarette. Terminai la birra sotto casa di Giada … che senso aveva essere tornato lì? Optai per un'altra birra, ma il barista si rifiutò di aprirmela perché non voleva guai. Me la aprì Lidia con il suo accendino … non sapevo che fumasse …

 

Lidia mi era venuta dietro e cercò di consolarmi, ma se c’era una roba che mi mandava in bestia, era proprio la commiserazione della gente. Le dissi di lasciarmi in pace e me ne andai, ma lei mi seguì. Attraversai Ponte Sisto e comprai un’altra birra a Trastevere. Anche quell’avventore si rifiutò di aprirmela. La aprii facilmente con il mio accendino e me ne tornai sul ponte.

 

- … non fare cazzate!

 

Sì, mi ero seduto sul parapetto con le gambe sporgenti all’esterno, ma non volevo mica saltare di sotto; stavo solamente dando l’estremo saluto al fantasma del Capitano Lost. Le pagine strappate volteggiavano come tanti cappelli, prima di toccare le acque del Tevere e finalmente esserne inghiottite.

 

- … adesso arriva anche Marcello …

 

Ma perché Lidia aveva telefonato a Panari Felice? Era forse mio fratello? Perché cazzo lo aveva fatto? Magari quello le aveva confidato che gli facevo pure le seghe! Vaffanculo, stronza pettegola. Si poteva sapere perché non mi lasciava in pace?

 

- Figlio di puttana scendi subito …

 

Figurarsi se stavo facendo una di quelle patetiche scenate di chi minaccia di gettarsi da un ponte dopo una delusione d’amore. Io che all’amore non ci credevo nemmeno. Per chi mi avevano preso quei due stronzi. Ma vaffanculo, ecco …

 

Panari Felice mi strattonò giù dal muretto e poi mi tirò di nuovo in piedi, sbattendomi contro uno dei pali dell’illuminazione, immobilizzandomi. Ero davvero forte! Persino lui faceva fatica a tenermi.

Quel suo bloccaggio si trasformò subito in qualcos’altro. Con il senno di poi, potrei definirlo persino un abbraccio appassionato. In quel momento di tumulto dell’animo, con il fiatone e il cuore che sembrava voler uscire dal petto talmente batteva forte … tutta quella rabbia repressa mi si sciolse in volto e cercai di nascondere pudicamente i singulti del pianto sulla sua spalla.

 

- … tu c’hai proprio le pigne in testa …

 

In realtà non credo che quell’abbraccio si prolungò più di qualche istante, tuttavia durò abbastanza da far detonare qualcosa dentro Panari Felice. Mi allontanò quasi impaurito, però io non ci detti molto peso. Mi sorprendeva di più l’inaspettata e calorosa amicizia di Lidia. Anche lei mi abbracciò e non solo, si appese al mio collo per darmi un casto bacio sulle labbra. Al che Panari Felice si ruppe i coglioni di tutte quelle smancerie e mandò affanculo Lidia. Mi ordinò di seguirlo. Andammo in giro con la sua moto, veleggiando tra il traffico della città.

 

Dopo quella sera Panari Felice non mi cercò più. Nonostante io avessi erroneamente creduto proprio in quel momento che eravamo degli amici fraterni.

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  • 1 month later...

 

Floppy 03/30

 

 

“Dopo aver messo le cose nella lavastoviglie, mamma mi raggiunse in camera. Entrò senza bussare. Si asciugava nervosamente le mani in uno strofinaccio, quando mi chiese se avevo studiato. Le risposi di no e come avrei potuto se avevamo trascorso tutta la serata a cenare?Disse che l’indomani potevo rimanere a casa, così avremmo fatto qualcosa insieme. Insieme? Io e lei non avevamo mai fatto niente senza uno scopo ben preciso, quella volta non avrebbe fatto eccezione. No, grazie.”

 

Erano accaduti troppi fatti in troppo poco tempo. Una dietro l'altra, quelle detonazioni causavano crolli, facevano venire giù valanghe e scatenavano maremoti, finendo per cambiare la geografia del mio mondo.

Il veleno sorbito durante il trapasso della zia Pina, mi aveva tratto via dalle fantasie della fanciullezza, lasciandomi in eredità una verità troppo pesante da sostenere. La parvenza di famiglia in cui ero stato cresciuto, si era dissolta con la definitiva partenza di Primo e il conseguente abbandono di mia sorella Angela. Infine, il lacerante distacco con Giada tirò un fendente mortale a quel poco di rantolante stima che ancora serbavo per i sentimenti umani. Mi ripiegai ancor di più a riccio sul mio dolore e s’innescò quel deleterio istinto che ti fa ascoltare solo le ragioni del tuo disagio. Quasi fosse una medaglia d’appuntarsi al petto, ritenevo tutti gli altri indegni di comprendere l’amarezza che mi affliggeva.

 

“Perché fai così? - mi chiese. Secondo lei non c’era nulla di strano nel farmi trovare Paolo in casa senza dirmi una parola al riguardo - Tu non puoi capire - No, non potevo capire, mi rifiutavo di farlo. Disse che con Primo le cose non erano mai andate bene, che avevano sbagliato a rimettersi insieme, come se me ne importasse qualcosa dei suoi patemi di cuore”.

 

Volevo diventare popolare tra i compagni. Ero stanco di sentirmi un reietto, però non somigliavo a loro, ero diverso, non capivo in cosa, ma ero come un giocatore di football americano in mezzo a un campo di calcio europeo. Nonostante avessi meticolosamente studiato le regole di quello sport alieno, ogni gesto che compivo era ridicolizzato da quel casco e para colpi semplicemente fuori luogo. Non capivo che per giocare con gli altri, avrei dovuto prima tirarmi via quell'armatura di dosso.  Col risultato che il solo modo per dimostrare quanto valevo, era afferrare il pallone e correre verso la porta, atterrando chiunque mi si parasse dinanzi, per poi gridare vittorioso "meta" ... non mi capiva nessuno, ma almeno a modo mio avevo vinto.

 

“ - Perché ti ostini a non voler capire? - Ma che c’era da comprendere? - Primo è un avaro egoista attaccato alle sottane di sua madre - Non li volevo sapere i motivi perché Primo non l’aveva mai appagata - Paolo è un uomo vero, uno che saprà prendersi cura di noi - Noi? Oh, ma che madre premurosa! Immagino che avrei dovuto esserle grato di cambiarmi padre ogni volta che s'infilava un nuovo verro nel letto”.

 

Era sul finire dell’anno scolastico, quando mi fece trovare a cena Paolo. Appena misi piede in casa, capii subito che era una serata speciale, di quelle che la mamma usava riservare a mio padre. Aveva apparecchiato la tavola in sala da pranzo con la solita tovaglia di pizzo San Gallo, quella che da bambino avevo arricchito con una bella macchia prodotta dai succhi gastrici del mio vomito, da allora sapientemente celata sotto un centrotavola d’ipocrisia floreale. Mia madre preparò persino un intero menù vegetariano, solo per me e la mia smania ambientalista. La realtà era che fin da bambino cercava di riempirmi la bocca di cibo, nella speranza di non farmi raccontare la verità che rappresentavo.

Con il senno di poi, credo che sviluppò quella sintomatologia psicotica conosciuta come “Sindrome di Munchausen per procura”. Incapace di amarmi per quello che rappresentavo per lei, cioè una vergogna pubblica, istintivamente cercava delle ricette per “curarmi”. L’ultima medicina che mi voleva somministrare era Paolo.

 

“ - Paolo è un uomo timorato di Dio ed è ricco, molto ricco - Ecco, ora iniziavo a capire - Primo è sempre stato un uomo senza iniziativa e non ha mai saputo veramente amarmi - E allora? Ci aveva messo vent’anni per capire che non la pagava abbastanza da dormirci assieme? - Io non sono più una ragazzina e quest’occasione non me la lascio sfuggire perché il signorino fa i capricci - Per lei era un capriccio se mi ero affezionato a un uomo che mi aveva fatto da padre da quando serbavo memoria. Primo era bugiardo e inaffidabile e anche egoista come tutti i giocatori d'azzardo, uno che non aveva mai saputo amare più di una notte di seguito, ma anche se un genitore non è all’altezza del suo ruolo, non si può certo cambiarlo come si fa con un paio di calze bucate”.

 

Paolo era un ex generale dell'esercito, uno di quelli che crede in Dio solo in funzione del diavolo. Per lui la battaglia dell’armageddon era già iniziata da un pezzo e aveva lasciato i galloni dell’esercito per combatterla a modo suo, diventando una sorta di braccio armato della filantropia. No, non somigliava per niente a quegli evangelisti che brandiscono la Bibbia mettendo in guardia dal male che insidia le nostre case. Paolo vedeva il male in carne ed ossa e sosteneva di poterlo riconoscere e farlo fuori.

Seppure questa descrizione possa far pensare a una persona dall’aspetto "originale", lui era al contrario un uomo dall'innata autorevolezza, sia quando metteva la cravatta o una delle sue solite tute da ginnastica.  

 

“ - Lui non era tuo padre e non sai cosa ho dovuto passare per costringerlo a darti un cognome - Forse non avrebbe dovuto costringerlo - E’ questo il ringraziamento per non farti essere un figlio di NN? - Un figlio di puttana voleva intendere? - Tu non sai dei rospi che lui e la sua maledetta famiglia mi hanno fatto ingoiare - Era forse colpa mia? - Non mi ha mai voluto sposare davanti a Dio - Oh, ma per favore! - Ho sopportato tutto per te, per darti una famiglia - Mi sa che, visto i risultati, avrebbe potuto risparmiarsi tanta fatica - Sei solo un ingrato che non sa riconoscere la fortuna che ha- Cioè? – Mi sono spezzata la schiena per darti sempre il meglio, se fosse stato per lui, ci avrebbe seppellito in quel buco di casa con i genitori che ci odiavano, lo sai questo? – Oh! Certo che lo sapevo quanto il nonno mi disprezzasse, si dimenticava forse che mi ci aveva spedito ogni volta che rimanevo a casa più di tre giorni?”.

 

Quando quella sera Paolo se ne andò, ci sputammo addosso tutto il rancore di una vita intera. Sarà stato anche vero che Primo non era il mio vero genitore ma, insomma, nella mia testa era ancora “papà”; cioè, la speranza di non far dissolvere il passato nella menzogna che aveva rappresentato.

 

“ - Ora basta, non riuscirai a farmi sentire in colpa per qualcosa che faccio anche per te - Per me? - Certo, per darti un padre - Ma di quanti padri c'è bisogno per sentirsi come tutti gli altri? - Un padre che sappia prendersi cura di te – Primo per me andava ancora bene, in tutti quegli anni aveva recitato perfettamente il ruolo del padre assente, tale e quale a quelli dei miei presunti amici di buona famiglia - Ma sì, sei abbastanza grande da saperlo - Cosa? - Primo non ha mai cacciato un soldo per te, dovevo litigarci ogni volta che spendevo un centesimo anche solo per comprarti una matita - Era patetica, dopo aver trascorso una vita a raccontarmi quanto Primo si sacrificasse per farmi mangiare alla mangiatoia alta, ora che non le tornava più utile, cercava di darmi ad intendere il contrario – Chi credi stia pagando il muto di questa casa, quel taccagno forse? - Dove voleva andare a parare? – Fin quando ci sono stata io a fare la serva gli stava bene vantarsi di abitare in centro, ma quando è arrivato il momento di mettersi le mani in tasca non ha voluto cacciare un centesimo manco per le spese condominiali - Mi stava forse dicendo che da quando non aveva più un lavoro, era andata a battere per permettermi di vivere in un cazzo di casa? – schiaffo.

 

Sì, aveva ragione. Lei era la sola famiglia che potevo permettermi, però all’epoca non volevo ancora accettarlo. Nella concitazione della lite furibonda, venne fuori che era sempre stata la famiglia di mio padre, quello vero, e non Primo a provvedere ai miei bisogni.

 

“ - Non ti permetto di parlarmi così - Ok, avevo esagerato - E’ stato l’ebreo a pagare - Mio padre, il mio unico e indiscutibile padre, era sempre stato lui a occuparsi di me – Ma non farmi ridere. E' quell’aguzzino di tuo nonno che ci sta pagando il mutuo, se era per quella testa matta di tuo padre, saremmo morti di fame da un pezzo - Zitta! Era solo una linguaccia la sua. Mi aveva sempre mentito su tutto. Non era vero che mio padre non voleva saperne niente di me - Mettiti bene in testa che ci pagano per stare lontano da loro – Puttanate - Se fosse viva, la tua cara zietta ebrea ti avrebbe potuto spiegare quanto era brava a estorcergli i soldi. Ora capisci perché non ci voglio più stare in questa casa. Io non li voglio più i soldi sporchi di quella razza infame – Non li voleva o senza la zia non riusciva più a cavargliene abbastanza? - Zitto! - Io ero ebreo. Io ero ebreo come la Zia Pina. Ero ebreo come mio padre, cazzo! – Zitto! – Ma sì, ora che aveva trovato chi le avrebbe pagato i conti, era pronta a scappare di nuovo, a sbattere la porta come sapeva fare solo lei – Tu non lo sai come ci si sente quando nessuno ti ama – Invece no, lo sapevo - Zitto, sta zitto! - Se non voleva ascoltarmi, doveva solo levarsi dalle palle con le sue ipocrisie da borghesuccia baciapile del cazzo.”

 

Stavo assistendo al funerale della mia prima vita, quella che nel bene o nel male ti forma un'identità e dona un riflesso in cui riconoscerti. Avevo perso un nome che si era portato via l'unico affetto cui tenessi: mia sorella. Mi sentivo senza razza perché secondo mia madre, sarei stato bandito anche dalla sua se si fosse venuto a sapere chi ero realmente. Allora a quale realtà sarei dovuto appartenere, se anche gli ebrei non mi consideravano tale?

Di tutto questo non riuscivo ad avere una coscienza chiara. Si confondeva tutto in una vertigine che disorientava. Era dunque tutto vero ... i mostri che mi perseguitavano da bambino esistevano sul serio e alla fine erano riusciti a rapirmi. Strappandomi via la faccia, iniziai a disperdermi in un limbo oscuro, da dove nessuno avrebbe potuto più riconoscermi.

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  • 1 month later...

Floppy 03/31

 

 

       -   E tu che ci fai qui?

 

No, non era la prima volta che lo facevo. Succedeva anche quando al mare decidevo di andare a sedermi al fresco sotto il chiosco, i miei si disperavano ogni volta perché temevano chissà cosa. Figurarsi se mi allontanavo senza la certezza di riuscire a tornare indietro. Secondo loro avrei dovuto sempre avvertire prima di scomparire o che ne so, sentire il bisogno di chiamarli quando stavo fuori di casa eccetera. Io non lo facevo mai e anche quella volta decisi semplicemente di andare.

 

Era la prima settimana di giugno e solitamente mi affrancavano dagli ultimi giorni di scuola spedendomi direttamente in campagna dai nonni. Quell'anno era diverso e non solo per via degli esami di terza media. Forse fu solo per abitudine che quella mattina misi nello zaino qualche paio di mutande, dei jeans e lo spazzolino da denti al posto dei libri e mi recai alla stazione Termini per prendere il treno e andare in campagna.

 

Io non stavo scappando da casa, cercavo solo di aggrapparmi a una consuetudine. Quando arrivai in stazione, il treno pareva essere lì ad aspettarmi. Partì appena ci misi piede sopra e il breve viaggio durò ancora meno perché mi appisolai. Solo quando scesi alla stazione e iniziai a mettere in fila un passo dietro l'altro verso casa di Primo, che i pensieri iniziarono ad assalirmi.

 

Arrivato alle pendici di Colle Camposanto, mi accorsi di quanto tutto fosse cambiato. Era trascorso solo un anno, tuttavia i miei ricordi risalivano ormai a un'era che era ormai trascorsa. Oggi posso dire che non ero più un bambino che vive solo del suo presente, senza preoccuparsi dell'attimo che sopraggiunge e non curandosi di quanto si lascia alle spalle. In quegli attimi mi sentivo perso ed ero sconvolto nel rendermi conto che niente rimane uguale a se stesso.

 

Attraversai quel cimitero che conoscevo a menadito, come un estraneo. Seppure fosse rimasto come me lo ricordavo, non era più lo stesso luogo. Mi fermai dinanzi alla fotografia della signora con la veletta e solo allora mi accorsi che sotto all'immagine in bianco e nero, scritto a caratteri molto grandi, campeggiava la dicitura "MAMMA". Allora mi ricordai che fu proprio mia madre a presentarmi la signora con la veletta; raccontandomi che c'era già quando lei era poco più di una bambina e come me andava a rubare un fiore per il suo vasetto sempre vuoto. Che cosa stava significando tutto questo non lo so. Di certo quella foto era rimasta sempre la stessa, erano gli occhi con cui la guardavo che erano cambiati.

 

Mi sentivo come un fotogramma in cui c'era rimasta impressa un'immagine che non esisteva più.

 

-   Tu qui non ci puoi rimanere.

 

Il cimitero continuava a espandersi su per il colle come una metastasi e il casale dei nonni era stato demolito. Mio padre aveva costruito un cubo di cemento poco più in là, dove ora viveva con Angela. Suonare quel campanello fu come bussare a casa di un estraneo. Aprì mia sorella, sul cui volto appassì immediatamente un sorriso, lasciando posto a un'espressione d'indesiderato stupore. Mi chiese spaventata cosa ci facessi là. Era una domanda difficile cui non seppi dare risposta. Dopo qualche istante di silenzio imbarazzante, mi scese lo zaino dalle spalle e mi tirò dentro casa. Come quando eravamo piccoli, la seguii in silenzio. Ero commosso nel rivedere quella scena, identica a quando i miei si scannavano in cucina e lei mi portava in camera preparandomi per la notte. Ma non era più così, seppure uguale al passato, era tutto diverso e Angela me lo ricordò prima di andare a telefonare a Primo, dicendomi che io là non ci potevo rimanere.

 

Sì, ne avevo combinata un'altra delle mie. Primo chiamò la mamma che al solito mi accusò di volerla svergognare pubblicamente. In realtà si sentiva in colpa nei miei riguardi come pareva fare il resto del mondo. Mi sentii più volte domandare come poter risolvere il mio disagio, ma una soluzione io non l'avevo e allora il mio silenzio li preoccupava ancora di più. Angela era convinta che al solito facessi i capricci e come ogni volta sarebbe stata lei a pagarne le conseguenze.

 

Obiettivamente non saprei dire se alla fine usai il senso di colpa per far saggiare loro l'amarezza che m'impastava la bocca di bile. Di fatto mi misi di traverso ai loro piani che dovettero mutare di conseguenza. Inaspettatamente fu proprio il nuovo compagno di mia madre, Paolo, che prendendo in mano la situazione, vi pose rimedio. Nel senso che decise di rimandare il matrimonio con mia madre e pregò Primo di desistere dall'intenzione di togliermi il suo cognome, almeno fin quando non mi sarei abituato alla nuova situazione. Di tutto questo non seppi nulla, del resto non credevo neanche che fosse Primo a non volere che portassi il nome della sua famiglia. Io pensavo solo agli esami imminenti e a fare la spola tra i gruppi di studio che i prof avevano formato per aiutare chi aveva una media scolastica scarsa. Mi fu dato semplicemente un abbonamento per il treno con cui me ne tornavo a dormire in campagna, lontano da quei mutamenti che mi spaventavano.

 

Quel poco di vita sociale che avevo si dissolse rapidamente. Panari Felice oramai mi rivolgeva a malapena il saluto e ricordo che una volta telefonai a Bea, tanto per sapere sue notizie, e lei mi rispose come se credesse che le mie intenzioni fossero altre. Del tipo che volessi riallacciare i rapporti con Marcello, quindi fu molto evasiva, al limite della scontrosità. Qualsiasi cosa fosse accaduta, me ne guardai bene dal volerlo scoprire. Lasciai semplicemente che le cose andassero per la loro strada.

 

In finale, la sola preoccupazione che avevo era di non voler partire per il campo estivo che organizzava Paolo. Fu per questo motivo che espressi il desiderio di partecipare al ritiro annuale della squadra di pallanuoto. Lo chiesi a Primo che, insolitamente per la sua taccagneria, non fece una piega e accettò subito di parlarne con l'allenatore al Circolo Canottieri. Probabile che tutti si sentirono sollevati da quella richiesta. Avermi in casa non doveva essere facile per loro. Persino mia madre veniva colta dall'imbarazzo ogni volta che le chiedevo di potermi fermare da lei. Nessuno sapeva in che termini rivolgersi a me, tanto avrebbero comunque rimediato una rispostaccia.

 

La sola persona che non si faceva viva era mio padre; intendo quello vero. Sembrerà assurdo ma questa sua assenza finì per alimentare una sorta di mito. Era nella sua mancanza che iniziò a riporsi ogni mia attesa. Lui diventò la mia terra promessa, il mio Israele e quel prepuzio che mi ricordava di non essere abbastanza ebreo, mi gettava nello sconforto di una maledizione che m'impediva di appartenere a qualcosa o a qualcuno. 

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Floppy 03/32

 

 

Con il senno di poi dico che all'epoca davo per scontate molte cose che non lo erano per niente. Decenni dopo, quando Primo era sul letto di morte, compresi quanto in realtà fosse lui, con tutti i suoi difetti, la sola persona che mi aveva voluto bene incondizionatamente. Con mia madre si erano separati quando ero ancora bambino eppure c'era rimasto comunque accanto, a modo suo certo, ma poteva anche non farlo; allo stesso modo di come poteva rispedirmi al mittente anche quando accettò di prendermi in casa dopo il definitivo divorzio con mia madre..

In fondo ero solo un adolescente e come tale mi credevo al centro dell'universo, completamente sordo alle esigenze di chi mi stava attorno. Ero ripiegato sul mio ombelico e non sentivo altro che un profondo disagio esistenziale.

 

A scuola fui promosso neanche con il massimo dei voti, ma nessuno se ne lamentò. Angela aveva ragione nel sostenere che al solito tutti si preoccupavano solo di me, ma io non me ne accorgevo. Fu lei che non senza rancore insistette affinché mi cambiassero indirizzo scolastico. Ma quale liceo classico per damerini, se avevo scelto di stare con loro avrei dovuto accettarne anche le conseguenze. Nel senso che per l'attività di Primo sarebbe stato più proficuo un indirizzo professionale come un istituto tecnico industriale, che dopo i cinque anni di scuola superiore mi avrebbe dato la possibilità di lavorare e finalmente rendermi utile. Ovviamente cercai di ribellarmi a quella decisione, se non altro perché tutti i miei compagni andavano al mitico ed esclusivo Liceo Visconti, com'era prassi per quanti frequentavano le primarie e medie al Sant Eustachio, che usualmente tutti definivano appunto "il viscontino". Ero comunque in una situazione che non mi permetteva di pretendere ancora di più e alla fine mi dissi che tanto studiare una roba o l'altra non faceva alcuna differenza.

 

Oggi posso affermare che scappare da Primo fu un errore gravissimo sia per me sia per quanti coinvolsi nel capriccio di volere rimanere ancorato a un passato che forse non era mai esistito. Si aprì per me un capitolo assolutamente deleterio, inutile; difficile anche da raccontare perché fu semplicemente vuoto. Nella mia memoria vi è rimasta solo una macchia scura, in cui ora cercherò di gettare una luce ricostruendo il momento in cui tutto questo ebbe inizio.

 

***

 

Prima di allora la campagna, o meglio, la vita di provincia, aveva coinciso con i giorni di festa e poi le vacanze estive. Una dimensione sicuramente ben diversa dalla vita quotidiana. C'è da dire che in città vivevo confinato in casa che col tempo si era ristretta tra le mura della mia cameretta. In campagna, invece, c'era Lalla con la sua travolgente vitalità. Eravamo inseparabili e scherzosamente gli adulti ci canzonavano dandoci dei fidanzatini.

 

Nessuno ci trovava qualcosa di male nella nostra amicizia, se non la zia Pina che appena vide Lalla trasferirsi a casa mia, intuì subito che aveva una cattiva influenza su di me. Poi scoprirono i nostri giochi proibiti nei locali serbatoi del palazzo e Lalla fu rispedita in paese. Mai nessuno, però, comprese che dietro a quanto poteva sembrare una fanciullesca curiosità sessuale, si celava qualcosa di più ambiguo.

 

Lalla teneva su un vero e proprio smercio di "giornali zozzi". Li barattava con rossetti o altri cosmetici che tutti i ragazzini del circondario trafugavano in casa. Procurarsi le riviste pornografiche non era complicato. Suo padre ne aveva in gran quantità, senza curarsi di tenerle lontano da occhi indiscreti.

 

Non ricordo il giorno in cui iniziarono i nostri incontri proibiti. So solo che vertevano ossessivamente sulla pipì. Fu quando Lalla si trasferì a casa mia che questi giochi si trasformarono nel mimare un rapporto sessuale. Lalla era di due anni più grande di me e ovviamente il suo corpo raggiunse la maturità prima del mio; tuttavia, questo non bastava a spiegare quel suo incaponirsi nel pretendere da me attenzioni che non potevo darle.

 

L'estate successiva a quando la Zia Pina pretese che lasciasse casa nostra, trovai Lalla profondamente cambiata. In quei mesi di separazione il suo corpo era sbocciato ... solo che, invece di fiorire, era diventato direttamente un frutto maturo. I seni si erano ingigantiti e i fianchi avevano subito addirittura una crescita ipertrofica. Quello che però io trovavo poco attraente, agli altri ragazzi del paese piaceva evidentemente molto, perché le ronzavano tutti attorno e lei era sempre presa nel trovare il modo d'incontrarne qualcuno.

 

Orfano delle sue attenzioni, iniziai a frequentare suo fratello Pino. Lui era più piccolo di me e sua sorella lo aveva già coinvolto nei nostri giochi proibiti. Sostanzialmente si faceva la pipì con Lalla che, sempre affascinata da quella mirabilia, trovava irresistibile toccarla. Io non ci trovavo nulla di strano, poiché Lalla certificava sempre le sue pretese con qualche pagina di rivista pornografica, e se stava su un giornale, era ovvio che si potesse fare, no?

 

Pino era un ragazzino particolare. Non somigliava per niente alla sorella che era mora con la carnagione scura. Lui aveva i capelli arancioni e le lentiggini in faccia, con una pelle così chiara da sembrare anemico. Timido e introverso, suo padre non perdeva occasione per dargli del cretino ed era opinione comune che fosse un po' tardo di comprendonio. Da quando poi al catechismo per la prima comunione, lo prepararono per la confessione dei peccati, Pino si ammutolì per sempre. Non pronunciò più una parola neanche dopo le gran legnate che gli rifilò il padre.

 

Gli adulti la fanno sempre semplice quando si parla di bambini, come se le emozioni di questi siano di una qualità inferiore, o peggio, non possano elaborare un'etica da cui scaturiscono gravi sensi di colpa. Nessuno fu mai sfiorato dal dubbio che Pino avesse lucidamente deciso di diventare muto agli occhi del Signore per evitare di ammettere un peccato inconfessabile.

 

 

***

 

Lalla e Pino chiamavano i nonni “Zii” per un infinitesimo grado di parentela che il padre, Giuseppe detto Peppo, aveva con nonna Méla. Peppo era un tipo rozzo e si esprimeva con un idioma gutturale a me sconosciuto. Lui si era sempre occupato della stalla del nonno, ma da quando il cimitero aveva espropriato tutto, aveva trovato un'occupazione più redditizia facendo piccoli trasporti con la sua Apecar per uno smorzo edile.

La moglie era una signora dimessa e sciatta, non aveva nulla che si possa ricordare per descriverla.  

Peppo discendeva da una dinastia di pastori e sebbene non gli garantisse da che vivere, continuava ad avere il suo piccolo gregge. Tutti loro abitavano in un camper che aveva messo radici in un fondo demaniale. Lì attorno c'erano il recinto per l'ovile e altre baracche per la rimessa di questo e quell'attrezzo.

A casa mia, ogni volta che si comprava una cosa nuova, si metteva via quella vecchia per darla a Peppo.

 

Io che in città non avevo uno straccio di amichetto, in campagna dai nonni ero accolto come un re dalla piccola combriccola di Lalla. Si giocava alla guerra dei sassi, si andava a rubare le ciliegie o d’estate facevamo i tuffi nella chiusa del canale che scorreva nei pressi del loro camper.

Senza Lalla si fecero subito sentire tutte le insicurezze che mi trascinavo dalla città. Rimasi amico con Pino perché era mio cugino e se ne stava sempre solo a pascolare le pecore. Certo non era di gran compagnia. In compenso sembrava gradire tutte le mie elucubrazioni mentali sugli argomenti più disparati.

 

Una volta lo convinsi a venire con me alla chiusa per insegnargli a nuotare, ma ci trovammo gli altri ragazzini. Lui scappò appena li vide e quegli altri, aizzati dalla sua fuga, lo rincorsero prendendolo a sassate. Rimasi gelato da quella scena, al solito mi aspettavo lo stesso trattamento, invece quelli poi mi pigliarono in comitiva come niente fosse.

Lo scacciavano chiamandolo “zappo”, dal nome che si dà al maschio della capra, perché secondo loro puzzava in maniera schifosa. Certo Pino non aveva un buon odore, ma a casa sua il sapone era un lusso. Del resto anche Lalla aveva preso certe "buone abitudini" solo dopo che era stata ospite in casa nostra.

 

Avrei voluto fare qualcosa per Pino, ma come se nemmeno riuscivo a farmi rispondere? Allora gli promisi tutti i numeri vecchi dei giornalini della Marvel che avevo, se avesse ricominciato a parlare almeno con me. Gli brillarono gli occhi verdi, arricciò il naso lentigginoso e poi disse “Grazie”. Quella mi sa che era la prima parola che pronunciava dopo anni di assoluto silenzio.

 

 

***

 

Lalla voleva un bene dell’anima al fratello, ma sembrava non comprendere il limite che ci deve essere tra l’affetto e certe confidenze fisiche. Io non mi sarei mai sognato d’infilare le mani nelle mutandine di Angela. Lei, invece, sbragava il fratello e si gingillava con la sua pipì, come fosse la cosa più naturale e soprattutto divertente del mondo. Io, al contrario, non trovavo neanche più tanto esilarante guardarla con il pube proteso in avanti, mentre con un dito affondato in quella giungla di peli che le erano cresciuti, dirigeva lo zampillo dorato per circa un metro davanti a sé.

 

-          Pisciami sulle mutandine

 

Quel giorno Lalla ci aveva raggiunto nella rimessa degli attrezzi e aveva chiesto al fratello di fornirmi una prova della sua pipì esagerata. Pino aveva diretto il suo poderoso getto fin sopra la rastrelliera, divertendosi a disegnarci sopra ghirigori. Lalla si era “scompisciata” dalle risate nel vedere le pennellate artistiche del fratello, producendosi subito in un altrettanto portentoso arco di pipì salendo in piedi su una panca.

 

Era il mio turno, quando lei mi fermò, chiedendomi di pisciarle sulle mutandine. Possibile che volesse sul serio che facessi quella schifezza? Pareva proprio di sì, perché si era già sfilata la gonna e mi mostrava le mutandine bianche con il bordino ricamato rosa. Il primo schizzo venne fuori timido, ma dopo il getto salì irruente e le sue mutandine si bagnarono fino a diventare trasparenti. Lei girava su stessa a occhi chiusi, quando iniziò a toccarsi, sfregandosi le mutandine bagnate. Involontariamente mi stavo masturbando nella convinzione di voler orinare ulteriormente, perché era lei che me lo stava chiedendo. Si era avvicinata implorandomi di bagnarla ancora e ancora … la bagnai ma non di pipì. Quello fu il mio primo vero orgasmo.

 

A Lalla venne un colpo. Si tirò via le mutandine sporche, come fossero state infettate di peste bubbonica. No, di più. Secondo lei lo sperma era una sorta di cosa viva, capace di muoversi e sopravvivere anche molto tempo dopo essere stata espulsa. Mandò Pino a prendere di corsa un secchio d’acqua e della “varechina”, con cui si fece un energico bidè. Non sapevo da chi avesse imparato quella procedura contraccettiva, certo non doveva essere una cosa gradevole. Lalla era sconvolta e pregava la Madonna in quella lingua ostrogota che parlavano in famiglia.

Quella fu l'ultima volta che Lalla mi sfiorò. Quasi non mi rivolgeva più neanche la parola. Sembrava che avessi attentato volontariamente alla sua persona.

 

Trovai quel gioco con la pipì veramente eccitante e il pomeriggio successivo, quando raggiunsi Pino al pascolo, lo sfidai a chi la faceva più lontano. Lui sapeva che avrebbe vinto e a me non costava niente pagargli un gelato. Si produsse in un getto mirabile e per scherzo cercò di bagnarmi. Sulle prime cercai di scappare, ma poi decisi di no. Quando mi bagnò la gamba dei jeans, trattenne subito il getto. Io presi un grosso respiro e rimasi immobile, non avevo il coraggio di chiederglielo, ma volevo scoprire cosa aveva provato Lalla. Pino si voltò per finire di orinare, allora ruppi gli indugi e gli chiesi di pisciarmi sugli slip.

 

Pino si lamentò perché ci stavo mettendo troppo a sfilarmi i pantaloni e gli scappava di brutto. Alzai la maglietta e aspettai di provare quella mirabilia. Il getto caldo era irruente e schizzava ovunque. Chiusi gli occhi mentre quella calda intensità mi colava lungo le cosce, dopo avermi inzuppato il pisello. Per quanto trovassi sgradevole quella sensazione di bagnato, obiettivamente mi eccitò moltissimo. “Ora tocca a me” Dissi a Pino, lui aggrottò la fronte e scosse la testa.

 

“Non vale quelli me li hai già promessi” Provai a convincerlo ricattandolo con i fumetti che dovevo portargli. “Voglio i Sali profumati” Cosa? “I Sali per fare il bagno profumato, Lalla li frega sempre a tua nonna” Pino alzò la posta di quel mercanteggiare, confidandomi il desiderio di profumare come sua sorella. Era molto importante per lui e fu irremovibile, se volevo pisciargli sulle mutande, avrei prima dovuto portargli quello che mi chiedeva. 

 

Quella sua richiesta mi aveva intenerito e volevo fare qualcosa di speciale per lui. Nel bagno di nonna, oltre alla manciata di Sali profumati, presi anche il flacone di bagno schiuma e il barattolo di talco. Mi lavai in fretta le gambe e poi misi su degli slip asciutti, scolai mezza bottiglia di acqua minerale dal frigo e con lo zainetto in spalla, sgattaiolai via senza essere visto da nessuno. Ci rimasi un po’ male quando gli mostrai quello che speravo lo avesse fatto felice. Era dispiaciuto perché avevo dimenticato la saponetta, che per lui rappresentava il massimo del chic. 

 

Comunque rispettò i patti e mi disse di seguirlo giù al canale. Lì eravamo al riparo da sguardi indiscreti e si spogliò, rimanendo solo con le mutandine. Fu una rivelazione per me. Andando in piscina da quando avevo l’età della ragione, ne avevo già visti a iosa di ragazzini con e senza mutande, ma quella volta era diversa. Pino era davanti a me seminudo e potevo guardarlo senza alcun timore. Mi piaceva il suo corpo magro, senza pancia e con le gambe sottili. Mi piaceva molto più di quello di sua sorella, che era diventato troppo opulento per i miei gusti.

 

“Che non ti scappa?” Mi chiese, quando vide che ancora non mi sbottonavo i pantaloni. Deglutii a fatica e ci volle qualche attimo prima che riuscissi a far zampillare la pipì. Non ne sprecai una sola goccia, lentamente gli bagnai quelle sue mutandine a “Y” rovesciato sul davanti. Gli bagnai le cosce e poi salii fino al piccolo ombelico. Lui allora mi chiese di non salire di più, ed io osai domandargli di voltarsi. Didietro le mutandine calavano un po’, allora gliele sistemai, sentendomi avvampare nel momento che sfiorai la sua pelle calda. Dio se ero eccitato! Una sensazione nuovissima mi flippava il cervello.

 

“Ti vuoi sbrigare!” Mi disse scocciato, ma io dovetti spremermi per riuscire a farla con il pisello diventato duro. Dopo, comunque, uscì un flusso ancora più irruente, forte e gagliardo come non l’avevo mai avuto. Le sue mutandine divennero trasparenti e quel culetto mi regalò un buon umore inaspettato.

 

“Ma che c’avrai tanto da ride?” Mi disse seccato guardandomi di sottecchi, perché temeva che lo stessi prendendo in giro per quello che lo avevo costretto a fare, ma non era così. “Piantala” Disse ancora più infastidito, quando lo spintonai per scherzo.

 

“Tu lo sai come si usa questa roba?” Santo cielo, ma davvero non sapeva come ci si fa un bagno! Pino non lo sapeva. Del resto mi aveva portato in quel posto proprio perché lo aiutassi a togliersi di dosso la puzza di animale. Infatti, quello era, per così dire, il bagno di casa per loro. Il loro camper stava lì vicino e Pino ci tornò con degli asciugamano e biancheria asciutta. Prese con un secchio l’acqua direttamente dal canale e la versò in una tinozza, quindi mi guardò, aspettando che gli dicessi come continuare.

 

Avevo dato per scontato che almeno sapesse che il bagno si fa completamente nudi, ma dovetti dirgli pure questo. Improvvisamente quel gioco m’ispirò uno strano sentimento: tenerezza? Protezione nei suoi riguardi?

Era troppo sporco e usando solo l'acqua nella tinozza non avrei risolto gran che; quindi gli dissi di entrare nel canale e con una tovaglietta di spugna iniziai a sfregargli la pelle. Il sapone fece una gran schiuma e lui rideva estasiato da quel profumo. Dopo lo rimisi a mollo nella tinozza con i Sali. Infine lo asciugai e cosparsi di talco. Percorrevo in lungo e largo ogni centimetro del suo corpo, lui non si sottraeva ai miei gesti ed io ne approfittavo. Da qualsiasi parte cominciassi, le mie mani finivano sui suoi glutei, teneri ed estremamente arrapanti. Feci scivolare il talco tra le natiche e con una mano infilai quel canyon di ciccia dalla consistenza magica. Sprofondai fino in mezzo alle sue gambe, lui trasalì in un fremito che mi raggiunse e percorse in lungo e largo tutto il sistema nervoso.

 

Pino era bello come una statuina di porcellana, peccato allo shampoo che avevo dimenticato. Il bagno schiuma gli aveva reso i capelli ispidi. Mi ripromisi che la prossima volta avrei portato anche balsamo e spazzola. Gli feci indossare un mio vecchio paio di pantaloni che la madre gli aveva ristretto, ristretto parecchio, con una magliettina bianca di cotone. Gli feci il risvolto alle maniche corte e sembrava proprio un teddy boy.

 

Finito, andammo al borgo e gli comprai un gelato al cioccolato, per me il solito frullato di frutta senza zucchero. Ma quanto ero orgoglioso di lui! Ci fermammo al muretto del supermercato, e me lo gustai tutto il suo buon umore, mentre si annusava di tanto in tanto, beandosi del buon profumo che emanava.

 

***

 

Pino, a differenza della sorella, era molto collaborativo. Sondai ogni riflesso dei suoi chakra, insegnandogli i sette bandan per meditare e stimolare la sua energia madre: Kundalini. Mi concentrai soprattutto su mooladhara chakra, il primo chakra, sito nel plesso pelvico, quello della terra, capace di stimolare l’energia sottile che riconcilia nella mitezza dello spirito, rappresentata da Shri Ganesh. Cosa c’entrava tutto questo con il suo odore? Niente, ma dovevo pur trovare una ragione per mettergli le mani tra le cosce.

 

Eravamo quasi alla fine dell’estate e quel pomeriggio piovigginava. Così si stava in silenzio sotto il capanno di paglia che Peppo aveva approntato proprio per i pomeriggi piovosi. Il mondo sgocciolava pronto a imbrunire prematuramente. Era già da un po’ che rimandavamo il momento di riportare il gregge all’ovile.

 

“Che ti va di fare?” Mi disse di punto in bianco. “Boh” Risposi io. “Ti scappa?” Domandò guardandosi la punta delle scarpe. Io strinsi le spalle senza rispondere. “Facciamo quello che pare a te, allora” Che cosa intendeva? Io volevo che si levasse di dosso quegli stracci di vestiti, perché la sua pelle bianca era bella e delicata come il velluto. Non so come trovai il coraggio di dirglielo. Lui trattenne un sorriso. Lui non rideva mai. Disse che ero stato io a fargliela diventare così e da allora suo padre gli diceva sempre che puzzava come una bagascia. Che uomo ignobile! Gli domandai se potevo guardarlo senza vestiti … indugiò un attimo, poi mi sorprese dicendomi che lo avrebbe fatto solo se mi fossi spogliato anch’io. Mi arrabbiai, ma non con lui, gli risposi che ero troppo brutto e flaccido. Cercò di convincermi del contrario, ma quando capì che se avesse insistito ancora, me ne sarei andato, accettò di spogliarsi solo lui.

 

Si tolse i vestiti e poi ci si sdraiò sopra. “Ho la semola dappertutto” Disse sconsolato guardandosi la pelle del corpo. Sì, aveva le lentiggini, ma non era vero che le aveva su tutto il corpo, solo sulle spalle e un po’ sul petto. “Ma davvero sono bello?” Beh, forse non rispettava proprio i canoni della bellezza comunemente intesa, ma aveva due smeraldi per occhi e un corpo acerbo, tenero e voluttuosamente sinuoso nel modo come si poggiava in posture aggraziate. “Tu si proprio scemo” Mi rispose, voltandosi per nascondere un rossore improvviso, porgendomi quel miracolo di culetto che si ritrovava. “Papà dice che sono semoloso come i porci” Che uomo ignobile! “Mi sta sempre addosso” Cioè? “Mi sa che era meglio quando puzzavo, almeno gli facevo schifo” Che stava cercando di dirmi? “Prima se la prendeva solo con Lalla, ma è da quando era venuta a stare in casa tua che ha cominciato pure con me” No, non lo volevo sapere, perché mi stava raccontando quella cosa? Non volevo capire, mi dicevo che stavo fraintendendo, non era possibile che Peppo … “Mi voleva tagliare la lingua per essere certo che non lo avessi confessato al prete” Ma perché stava rovinando tutto? Ora non le vedevo neanche più quelle sue belle chiappette. “Mi fa schifo come mi tocca lui, tu invece no” Perché paragonava i miei gesti a quelli del padre? No, ora che sapevo non lo avrei più sfiorato. “Mi dispiace” Cos’altro potevo dirgli? “Non mi vuoi più toccare adesso?” Ma come potevo dopo che mi aveva confidato che suo padre abusava di lui? “Ti faccio schifo adesso?” Ma che c’entrava? Si rivestì in fretta e furia e se ne andò via. Io non dissi una parola per fermarlo. Insomma, era una situazione così grande, complicata e orribile, ed io avevo solo dodici anni. Sinceramente non ebbi più il coraggio di guardarlo in faccia, né lui né il resto della sua famiglia. Telefonai a casa e pregai mia madre di riportarmi subito a Roma.

 

Il rimorso di non aver fatto nulla per cambiare quella situazione, mi torceva la coscienza. Tuttavia non ebbi mai il coraggio di farne parola con qualcuno.

Presto sarebbe ricominciata la scuola e avrei incontrato Panari Felice Marcello, che mi avrebbe cambiato la vita, facendomi completamente dimenticare Pino prigioniero nel camper di suo padre.

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  • 4 weeks later...

 

Floppy 03/33

 

 

Non che abbia avuto un'infanzia dorata, ma al contrario di quanto possa apparire scritto su una pagina, all'epoca quegli anni me li ricordavo come un paradiso perduto. La realtà è che li avevo trascorsi tra le fantasticherie che m'ispiravano i manga giapponesi e i romanzi di Dumas e desideravo che questo mi potesse bastare per tutta la vita. Invece, la trama del mio mondo iniziò a sfilacciarsi con l'avvento di nuove esigenze. Il cinismo con cui giudicavo gli altri serviva proprio a sminuire le ragioni che mi attiravano fuori dalla mia fortezza. Era una corazza e come tale costituiva solo il carapace di un'anima cagionevole.

 

Fu proprio durante l'inverno successivo a quelle ultime vacanze estive trascorse in provincia che il mio castello iniziò a dirupare. Il primo a cadere fu proprio il bastione più alto: la zia Pina. Le sue macerie mi travolsero e con lei scomparve chi mi aveva fatto a sua immagine e somiglianza. La sua caduta aprì una breccia nelle mura della mia fortezza, attraverso cui la barbara realtà fece scempio di ogni mia illusione fanciullesca.

 

Nel momento in cui è forse normale che il bruco tessa il bozzolo della propria pubertà, ove svilupparsi in crisalide e quindi diventare adulto, io mi addormentai di un sonno chimico, rifiutando quanto non riuscivo ad accettare. Per il vero tutti si dimostrarono comprensivi, ma non me ne facevo niente della loro commiserazione. Scoprire che il mio nome non mi apparteneva, che mio padre non era mio padre, mia sorella non era proprio una sorella e persino Dio non era più lo stesso ... ero a dir poco confuso. Mi avevano strappato la faccia e nessuno si curò di fornirmene una nuova.

 

La vita comunque va sempre avanti. Quant'era accaduto l'estate prima aveva fatto germogliare in me qualcosa che non radicava nella famiglia, ma nasceva e si nutriva di un desiderio che seppure disdegnavo, catturava sempre di più il mio interesse. Il sesso era la sola cosa che mi distoglieva dal dolore di vivere, ma anche quello si profilava ambiguo e invece di chiarire, confondeva ancora di più le torbide acque delle mie incertezze.

 

Quando, il primo giorno di scuola, Panari Felice Marcello entrò in classe, mi osservò come se in qualche  modo cogliesse nel mio sguardo, quello che avevo provato durante l'estate con Pino. Nonostante facesse il duro insieme agli altri bulli, alla fine leggevo anch'io qualcosa in quei suoi occhi sfuggenti. Mi aveva riconosciuto, sapeva chi ero e cosa stavo cercando, ancor prima che lo scoprissi io. Quella volta in infermeria per lui fu solo l’ultimo passo di un percorso di avvicinamento iniziato chissà da quanto tempo addietro.

 

Nonostante Marcello potesse sembrare più forte di me, radicai come un'epifita sul tronco della sua pianta, crebbi a dismisura fino a ricoprire per intero la sua esistenza, acquistandone la forma ma non la sostanza. Affondai le mie radici direttamente nella sua carne. Fui un salasso da cui cercò di proteggersi, quando Bea gli fece comprendere che quel desiderio lo avrebbe trascinato nel ginepraio di un sentimento non corrisposto.

 

 

***

 

 

Marcello era frocio. Sì, potrei definirlo con un inglesismo politicamente corretto o magari usando un appellativo scientifico scevro da qualsiasi infezione omofoba, ma lui si sentiva proprio frocio e per questo che non poteva accettare di diventarlo.

 

Fin da bambini, quando giocavamo a pallone nei giardinetti di Castel Sant'Angelo, aveva annusato il mio disagio esistenziale e in qualche modo se ne sentì attratto. E come succede in questi casi, mi dava addosso proprio perché suscitavo qualcosa in lui che lo spaventava. Io non nego che lo guardavo in modo diverso, ma per me era più facile ignorarlo perché ero ancora abbastanza piccolo per non dover tener a bada certi istinti fisici. Vanni al contrario ci divenne amico, ma lui stesso mi confidò che Marcello nutriva uno strano interesse per ogni cosa che mi riguardasse. Vanni alla fine lo allontanò, precisamente quando divennero abbastanza intimi per accorgersi in qualche modo dell'omosessualità latente di Marcello.

 

Bea, invece, era una vittima del suo passato violento e come spesso capita in questi casi, non aveva la sensibilità necessaria per comprendere il confine che intercorre tra il bene e il male. Usava gli altri allo stesso modo come quelli abusavano di lei.

Marcello e Bea non si amavano e dubito che fossero mai stati intimi prima di conoscermi. Loro due erano uniti dalla comune sofferenza patita da bambini. Si erano riconosciuti nel dolore e probabilmente fu per questo motivo che entrambi furono attratti da me. Bea era convinta che fossi come lei solo perché comprendevo il suo disagio e sapevo dargli una forma con delle parole.

 

Bea si fece promettere da Marcello che un giorno si sarebbero sposati. Un patto in cui riponeva la speranza di recidere finalmente quel perverso odio che la costringeva a rimanere succube della madre. In cambio Marcello poteva sentirsi "normale" con una donna accanto che non gli chiedeva nulla di più di quanto poteva darle. La comune sofferenza li avrebbe tenuti insieme per tutta la vita. Il dolore però è qualcosa che non unisce e non consola, è capace solo di sommarsi, facendo crescere un callo sull'anima che cerca in questo modo di proteggere se stessa.

 

Seppure ne condividessi il disagio, io non ero come loro. Il disincanto verso la vita non mi era stato indotto in modo violento. Io lottavo contro quell'ipocrisia che mi aveva fatto crescere in una grande, colossale menzogna. Il cinismo serviva solo a ingannare l'irrazionale attrazione che il mio cuore provava per la vita, ma non era in grado d'impedirmi di cadere, di sbagliare e di farmi male. A differenza di loro, io non riuscivo a non soffrire più.

 

 

***

 

 

Marcello si affezionò subito alla mia mano. A scuola continuava a ignorarmi come facevano tutti gli altri, però ne escogitava sempre una per rimanere soli. Per quanto lo trovassi invadente, mi piaceva avere qualcuno al mondo che mi cercava. Tuttavia, avevo imparato a dubitare dell'affetto delle persone, preferendo credere che fosse sempre un interesse pratico a spingerle verso di me. Marcello voleva che gli facessi le seghe, tutto qua.

Io, però, non mi azzardai più a sfiorarlo. La lezione l'avevo imparata al doposcuola del collegio, quanto quel frocione di Rodolfo mi aveva diffamato per qualcosa che aveva voluto fare lui.

Marcello era un bullo rispettato e temuto da tutti, una sua chiacchiera mi avrebbe distrutto. Il solo pensiero mi atterriva e già mi vedevo sull'orlo di un cornicione pronto a gettarmi nel vuoto.

 

 Un giorno me lo ritrovai davanti alla piscina, dove mi allenavo a pallanuoto. Glielo avevo detto io che ci andavo, la usai come scusa per declinare il suo invito a studiare insieme. Così una sera, era tardi perché ci allenavamo dopo l’orario di chiusura al pubblico, me lo vedo a cavallo della sua Honda 125 che mi offre uno strappo a casa. Tornò anche la volta successiva e quella dopo. Insomma, una volta passi, ma non era mica normale che qualcuno si prendesse la briga di aspettare le nove di sera solo per riportarmi a casa. Sia chiaro, a me faceva piacere, sia solo per il fatto di non dover aspettare l’autobus e rincasare mezz’ora dopo. Però era una situazione imbarazzante e glielo dissi, almeno cercai di dirglielo perché ho sempre sofferto di una balbuzie emotiva e, specie quando sono nervoso, il cervello mi si pianta puntualmente su qualche sillaba.

 

Lui tagliò corto il discorso e mi rispose che tanto era sempre in giro a quell’ora. Quella sera stessa, come tutte le altre a seguire, prima di arrivare davanti al portone del mio palazzo, svoltò per la rampa del garage, fermandosi sul vialetto pedonale. Io scesi credendo che lo avesse fatto per facilitarsi l’inversione di marcia, però mi richiamò.

Si era disteso su un gomito, appoggiandosi sul sellino della moto e tenendosi il cavallo dei pantaloni con l’altra mano, mi disse che pensava di meritarsi almeno un ringraziamento.

 

Lo sapevo e non avrei dovuto iniziare quella che divenne subito una consuetudine, perché indubbiamente piaceva farlo anche a me. Gli aprii la patta dei pantaloni mentre lui si accomodava poggiandosi su entrambi i gomiti.

La mia mano scivolava fin tra le sue cosce, mentre con l’altra sentivo la sua pancia irrigidirsi. I suoi muscoli si contraevano e nonostante il buio e il maglione, avrei potuto descrivere fin nei minimi dettagli quel corpo che vibrava al contatto della mia mano. Il suo affanno che si faceva sempre più sofferto, mi coinvolgeva empaticamente e quando si mozzava di colpo, il cuore mi collassava per qualche istante.

Ogni volta, dopo, mi divertiva strizzarglielo solo per vederlo torcersi e darmi del matto. Rideva e per lui non era una cosa così usuale.

 

Rimanevo a guardarlo mentre si puliva con quella spugnetta lorda che teneva infilata nel parabrezza della moto. Prima di andarsene usava salutarmi stringendomi la testa nell’avambraccio. Mi diceva che ci saremmo rivisti la mattina dopo in classe e a me bastava.

Quello che facevo non mi lasciava strascichi, sensi di colpa o altro. Mi piaceva e basta, iniziava e finiva esattamente quando iniziava e finiva, proprio com'era già accaduto l'estate prima con Pino. Nemmeno la mano sporca m’infastidiva e l’odore che Marcello ci lasciava sopra, mi piaceva mischiarlo col mio, quando a casa m’infilavo nel bagno, con mia madre che si lagnava per il piatto di pasta che si raffreddava sul tavolo della cucina.

 

 

***

 

Marcello per me era un corpo e sarei stato ben lieto se, invece di parlare, si fosse limitato a gemere. Io non riuscivo a comprendere il motivo per cui pensava di essere entrato a far parte della mia vita. Al contrario, però, non mi accorgevo che le mie curiosità, sia fisiche sia esistenziali, erano un vomero con cui dissodavo un terreno arso, sotto di cui Marcello aveva celato ricordi tenebrosi e soprattutto un'identità che lo spaventava ammettere.

 

Ero un ragazzino le cui vicissitudini avevano insegnato a maneggiare un bisturi, che usavo senza alcuna remora per squarciare quel velo d'ipocrisia che le persone usano per celare la verità. Lo adoperavo con l'incoscienza di un bambino che modella del pongo fatto di bugie. Un gioco senza dubbio malizioso, con cui indagavo le debolezze di Marcello e Bea, lasciandogli credere di poter condividere ogni loro scelta, anche la più scellerata. 

 

Se magari mi fossi accontentato del contatto fisico, forse non li avrei illusi di poter trovare un possibile equilibrio coinvolgendomi nel loro atipico rapporto. L'incontro che avemmo durante le feste natalizie fu determinante in questo senso.

Io avevo incontrato per l'ultima volta Vanni, capendo che quel capitolo della mia vita si era definitivamente concluso. Rendermene conto mi gettava nello sconforto perché senza più un passato non riuscivo a intuire quale fosse il mio futuro. Avevo bisogno di sentirmi necessario a qualcuno e Marcello con Bea mi si offrirono su un piatto d'argento.

 

Quel pomeriggio si svelarono completamente ai miei occhi. Vidi fino a che punto la loro esistenza si era spinta sui confini dell'illegalità. Io mi lasciai sedurre dall'idea che la nostra atipicità ci potesse unire in una sorta di famiglia. Gli mostrai, dunque, per la prima volta quello che ero. E pare assurdo che due come loro si spaventassero di me, eppure è quello che accadde.

Sorbii le loro droghe che esaltarono maggiormente la mia fame d'amore. Quello che per loro era solo un espediente con cui ingannare la realtà, io lo trasformai in un'orgia di sangue. Morsi la loro polpa e travolsi ogni loro remora ad argine del cuore. Gli dimostrai che erano ancora vivi e fragili nel desiderio di potersi donare a qualcuno che lì amasse.

 

Questo che sto facendo è un ragionamento a posteriori e ovviamente non premeditai nulla di quanto ho appena spiegato. Si trattava dell'istinto di una fiera affamata e forse loro si spaventarono nel costatare che dentro la pelle dell'agnello si nascondeva un lupo. Dopo aver fatto all'amore, calò il gelo nella stanza di Bea. Lei mi aveva accolto tra le cosce e si spaventò di quanto strinse fra le braccia. Marcello, invece, accettò per la prima volta il desiderio di trovarsi al posto della sua ragazza e forse comprese che il loro utopico sogno di vita in comune era irrealizzabile.

 

Dopo quel pomeriggio, Marcello chiese espressamente a Bea di non toccarmi più. Io non lo sapevo, ma lo fece. Lei mi tenne a distanza e c'incontravamo solo qualche ora il sabato sera.

Al contrario, la mia vita iniziò a coincidere con quella di Marcello, anche perché la mia quotidianità famigliare si era dissolta insieme a quell'ipocrisia che per tanti anni era servita a tenermi all'oscuro della mia natura bastarda.  

 

Marcello cominciò a portarmi a mignotte, ma a me non piacevano. Il sesso mercenario mi lasciava completamente frigido ... non mi si alzava. Del resto provavo profondo disgusto per quelle signore insaccate come cotechini in guaine dai colori pacchiani. Il loro trucco pesante era una maschera grottesca che mi respingeva. Non ci trovavo nulla di attraente in quei genitali ostentati come carne nella vetrina di un macellaio. Quelle troie non facevano all'amore, erano solo delle latrine in cui i maschi schizzavano il loro bisogno.

 

Come l'ape che vola sulla corolla di un fiore, ero attratto sì dalla forma e dal colore, ma d'istinto e per natura ero attratto dal nettare zuccherino che si stilla dal fondo buio che sta tra i petali. Marcello non capiva e tanto meno quelle zoccole, che mi schernivano dicendo che ero solo un bambinetto che si dava arie da gran signore e avevo "la puzza sotto il pisello". Solo per questo che un paio di volte accettai di fare sesso, ma solo insieme con Marcello che insisteva più delle puttane stesse. Però dopo mi sentivo malissimo, e mi ripromettevo che mai e poi mai sarebbe accaduto ancora.

Credo che neanche a Marcello piacesse più di tanto, perché ben presto gli bastai solo io.

 

Stando vicino a Marcello anche gli altri iniziarono a considerarmi in modo diverso. Il sesso è il linguaggio del corpo e il mio aveva imparato a parlare repentinamente. Iniziai a non temere gli allenamenti in piscina, quando uno scappellotto o qualsiasi altro gesto scherzoso istaurava un contatto fisico. Attraverso gli occhi di Marcello imparai anche ad accettare i limiti di un fisico, che poteva essere bello anche senza coincidere con quegli archetipi della bellezza comunemente intesa. Essere più indulgente con me stesso, metteva a proprio agio gli altri, che improvvisamente iniziarono a volersi far amare da me.

 

 

***

 

 

Il sabato pomeriggio Marcello mi passava a prendere per portarmi a casa sua. Dove mi aspettava da basso mentre salivo giusto il tempo di lasciare lo zaino e dire “sì” alla madre, che mi chiedeva cosa volessi per cena. Poi mi parcheggiava con Bea al Bulli e Pupe, apertura pomeridiana per bambocci, e non si rivedeva prima delle otto, orario di chiusura della pista per bambocci. Nonostante Bea fosse più grande persino di Marcello, che nel frattempo aveva compiuto diciassette anni a febbraio, non sembrava dispiaciuta di trascorrere quelle ore con me. Mi faceva bere alcolici e continuava a istruirmi sulle variabili delle benzodiazepine.  Quando ero abbastanza stordito, iniziava a chiedermi di come trascorrevo il tempo con Marcello, che oramai le riservava sempre meno attenzioni.

 

Da lì prendevo l’autobus per arrivare alla sala biliardi, dove c’era la combriccola di Marcello che organizzava la notte brava, che per lo più consisteva in tavolate di poker nella bisca del retrobottega. Verso le dieci ricompariva Marcello, aveva riaccompagnato Bea a casa e mi diceva di sparire perché era l’ora delle ninne per i cocchi di mamma. La sua di mamma, perché era lì che tornavo.

 

Rosa, la madre di Marcello, mi adorava; il padre, boh, perché se stava in casa, era a guardare la televisione in camera. Rosa era una donna molto provata dalla vita e minata nella salute, sulla spalla sinistra esibiva un orribile gotta. Mi preparava quelli che per lei erano manicaretti di cucina calabrese, ma sapevano tutti di peperoncino e aglio bruciato. Si sedeva e mi guardava mangiare con grande soddisfazione. Rosa si diceva convinta che Marcello mi avesse preso a ben volere perché gli ricordavo il fratello gemello morto prematuramente. Secondo lei esercitavo un’influenza positiva su di lui, se non altro perché da quando ero lì tutti i fine settimana, aveva smesso di sparire da casa.

 

Dormivo nel letto di Marcello che aveva sempre lenzuola fresche di bucato. Il pigiama lo portavo solo per far contenta mia madre, ma non lo mettevo perché Marcello diceva che era roba per frocetti. Marcello rincasava verso le quattro del mattino. Accendeva lo stereo e il padre bestemmiava perché la sua casa non era un albergo. Soddisfatto di aver rotto le palle allo "sciupafemmine", abbassava il volume dei The Doors e s’infilava sotto le coperte. Aveva addosso l’odore tipico di bisca, un misto di sigaretta e alcool. Mi afferrava la testa come fosse una sorta di orsetto di peluche e si stringeva a me. Poi, come quei cagnolini che si attaccano alla gamba del padrone, lo sentivo premere con il bacino, ma non era un rito d’accoppiamento. Forse quel gesto gli conciliava il sonno, perché dopo qualche attimo il suo respiro si faceva greve e finalmente potevo sgusciare via dalla sua presa.

 

Chiudevo la porta a chiave e tiravo su le tapparelle. Appannavo la finestra per far entrare l’aria fresca dell’alba. Poi accendevo dell’incenso, ma non uno di quei banali bastoncini indiani, era incenso vero che compravo in un negozio per arredi clericali. Bastava una piccola crosta di resina, che ardeva nella ciotola d’argento trafugata dalla vetrinetta delle bomboniere di casa, per impregnare l’aria di sacralità. Di olio di mandorla ne portavo sempre un flacone nuovo perché non avanzava mai. Lo mischiavo con dell’olio essenziale di “Jasmin di Java”. Era una meraviglia sentire quell’aroma mischiarsi all’incenso, mentre l’aria si colorava di aurora.

 

Solo la prima volta Marcello oppose qualche dubbio a quanto combinavo. L’ora del mattino, pregno di alcool e quant’altro, lo rendeva accondiscendente a ogni genere di premura.

Scoprivo totalmente il letto e ogni volta era una piccola sorpresa guardare il suo corpo teneramente preso nell’abbraccio di Morfeo. La sua vulnerabilità m’ispirava tenerezza. Generalmente dormiva sul fianco sinistro, allora lo spingevo per farlo coricare sulla pancia e avere le sue belle spalle a disposizione.

Con le mani spargevo l’olio di mandorla, sentendo sotto i polpastrelli la sua carne tendersi e poi rilassarsi. I pollici premevano intensamente su ogni vertebra, fino alla cervice, per poi saggiare la nervatura del collo, che rilassandosi lo faceva istintivamente gemere.

Risalivo energicamente su per le gambe, palpando la consistenza di ogni coscia. Osando sempre di più, quei sentieri mi conducevano verso il suo misterioso anfratto, celato da quei tremendi slip che gli comprava la madre. Non osavo tirarglieli via, ma presto o tardi le mani s’insinuavano sotto l’elastico per abbracciare le sode rotondità che velavano.

 

La prima fase del massaggio non doveva superare i venti minuti, perché altrimenti avrebbe rubato tempo alla seconda parte, che non si poteva certo lasciare incompiuta. Per il vero mi pesava sempre molto pormi quel limite, ma il giorno avanzava inesorabile, e se la vita diurna si fosse messa ad andare in giro per casa, non sarei stato più in grado di proseguire.

 

Marcello continuava a sonnecchiare per tutto il tempo. Di tanto in tanto si lamentava se premevo troppo o sistemava la postura per stare più comodo. Giunto il momento, mi bastava sussurrargli di voltarsi perché si ribaltasse solerte, tirandosi via gli slip da solo. Gli divaricavo un po’ le gambe. Il ginocchio sinistro lo poggiavo alla parete, sotto il destro sistemavo il cuscino che gli avevo già sfilato da sotto la testa. A questo punto levavo un laccio dalle scarpe da ginnastica, lo piegavo in due parti uguali e lo cingevo alla base del suo pube, facendo passare i due capi nella parte doppia, di modo da formare un cappio che si stringeva facilmente. Ripetevo la stessa operazione due volte per mantenere la pressione della stretta. La lunghezza rimanente dei due capi, la avvolgevo alla base del pene, per consentirne un ultimo fiocco facilmente slegabile. Tutto questo serviva a impedire ai testicoli di retrocedere prima dell’orgasmo e nel frattempo tenere una certa pressione sul perineo nella prossimità dello scroto, mentre il legaccio superiore serviva a impedire al sangue di defluire dall’erezione. Conoscevo anche una seconda legatura, quella che si praticava direttamente sullo scroto, che aveva sempre le stesse funzioni dell’altra, ma era più costrittiva sui testicoli e a Marcello non piaceva.

 

Iniziavo con il massaggio dello sfioramento, quello cui le leggende narrano che le donne orientali eseguivano con i loro lunghi capelli. Per il vero, questo si pratica con il dorso delle mani, facendo scivolare le unghie sulla pelle, calibrando la pressione affinché non provochi il solletico. Ci vuole un pizzico di talento per saperlo praticare, modestamente riuscivo a stimolare la sua cute al punto da risvegliare tutte quelle parti che sul davanti del corpo fungono da ricettori sensoriali. Qualche volta mi dedicavo anche ai piedi, e quelli di Marcello non erano certo dei campioni di estetica feticista, ma è certo che tutto quanto si racconta dei riflessi fisici contenuti nella pianta del piede, sono veri.

 

Tuttavia questi erano dei preliminari e lasciavano il tempo che trovavano. Era difficile trattenere la voglia di sentire la passione che iniziava a torcersi nei suoi muscoli. La sentivo attraverso la sua pelle trasferirsi come elettricità sui miei polpastrelli. Il battito del mio cuore iniziava a salire di tono e un desiderio ancora senza nome mi offuscava la ragione.

 

Per asciugarmi le mani usavo una piccola salvietta di spugna bianca. Era pregna di profumo aromatico e la usavo per detergere le sue parti intime. Gli piaceva molto sentire la pressione della mia mano, che accompagnava con sinuosi movimenti pelvici. Era il preludio di un montare dei sensi che non poteva più fermarsi. La mia ossessione era nella sua rosellina, quella contenuta in quel seducente anfratto alla base del perineo gonfio di passione.

 

Individuare la sua ghiandola prostatica non fu semplice, specie perché, almeno le prime volte, avevo dovuto vincere certe sue resistenze. La mia era posta molto in basso, mentre la sua era piuttosto all’interno. Per raggiungerla dovevo affondare quasi per intero il dito indice. Era piccola come una nocciola, difficile anche da sentire al tatto. Solo dopo carezze a volte estenuanti, prendeva una certa consistenza.

Inutile dire quanto fosse eccitante sentire il suo pertugio intenerirsi, pur sempre capace di stringersi fino a bloccarmi il dito in una morsa molto intensa. Ogni volta che lo penetravo, lo sentivo tirare un grugnito stentato. Un verso che diventando sempre più sofferto, gli accorciava il fiato.

 

Intanto con l’altra mano saggiavo la consistenza del pene. Quella che aveva non era una vera erezione. Il suo cazzo era piuttosto sottile, con una punta di piccola dimensione. L’aumento del sangue che il legaccio imprigionava nei corpi cavernosi, faceva aumentare di volume la parte spugnosa del gambo, rendendo il pene particolarmente grosso. Nel suo glande, diventato esageratamente gonfio, pulsava la passione; la quale gemmava in gocciole di rugiada vischiosa, che il mio pollice rapiva per meglio scivolare intorno alla corona del glande, soffermandosi con un massaggio rotatorio sul delizioso frenulo.

 

Sapevo che la sensibilità se stimolata troppo, fa tracimare il piacere ai livelli di percezione del dolore, quindi cercavo di rimanere in equilibrio su quel filo invisibile, come un funambolo in bilico sul baratro.

Quando le mie carezze diventavano appena degli accenni, tanto che bastava uno sfioramento, a volte appena un soffio, perché il suo tirso si tendesse allo spasimo, fino a gonfiare la testa da cui stillava l’ennesima lacrima di passione; a quel punto il frutto era pronto per essere colto.

 

Marcello teneva il capo sollevato per mirare egli stesso, quel suo corpo che avevo sapientemente reso febbricitante. Mi sedevo sul ciglio del letto. Prima di iniziare mi concedevo il piacere di carezzargli il volto, mentre con lo sguardo m’implorava di sciogliere quel sortilegio, in cui si torceva in un piacere troppo grande, per essere trattenuto ancora ...

 

Dandogli le spalle, mi appoggiavo di peso sul suo corpo ancorandomi alla sua coscia sinistra, per impedirgli movimenti eccessivi. La mano destra scivolava lungo il perineo e con l’indice gli trafiggevo con decisione la rosellina, resa soffice dal lungo massaggio. Le falangi piegate a uncino premevano con fermezza la sua nocciolina ormai bella gonfia. Iniziava quindi un massaggio energico con il palmo della mano che premeva il perineo alla base delle gonadi. Compivo movimenti rotatori molto veloci, questo contemporaneamente a un movimento a gancio, tendente verso l’alto, del dito piantato nel suo ano. Il massaggio montava quasi a divenire violento. Marcello digrignava i denti dallo sforzo con cui cercava di spingere fuori la sua passione. Tendeva le reni verso l’alto facilitandomi ancora di più il compito di esaltare ciò che stava provando.

 

Durava non più di mezzo minuto l’acme di quello spasmo orgasmico. In cui lo sperma colava come cera bollente dal suo moccolo, senza neanche uno zampillo. Era semplicemente il travaso di un piacere durato circa un’ora.

Mi accorgevo dell’eiaculazione solo perché la nocciolina si gonfiava come un palloncino, allora tiravo via il dito e mi sbrigavo a sciogliere il fiocchetto alla base del pene, perché non c’è nulla di più desolante di una sborrata a cazzo moscio (!).

Bastava tendergli il membro una al massimo due volte, perché quell’eiaculazione lasciasse spazio a una notevole erezione. Seguiva un altro vero e proprio secondo orgasmo, questa volta con gli spasmi e tutto, solo che era asciutto. Le labbra del suo glande sembravano boccheggiare come quelle di un pesce nel canestro del suo pescatore …

 

Marcello nel frattempo mi si era avvinghiato alle spalle e masticando bestemmie, cercava di mordermi la schiena, a volte menando anche pugni. Lo mollavo sul letto che ancora gemeva imprecando come un demonio. Al riparo dalla sua violenta passionalità, cercavo anch’io di trattenere una tachicardia folle che mi rapiva il cuore.

Titubante, aspettavo che la trance orgasmica defluisse dal suo corpo, prima di tornare a sfiorarlo. Detergevo con la salvietta di spugna quei muscoli, su cui quella sensuale domenica mattina aveva lasciato la sua brina. 

 

Dopo averlo liberato dal legaccio, mi saltava addosso per farmi una di quelle sue prese di lotta del cavolo. Imparai presto che opporre resistenza, non solo era inutile, ma lo divertiva spronandolo a continuare. Solo con il senno di poi compresi che quello era l’abbraccio di un naufrago che arrancava nei flutti del gelo postorgasmico. Il fastidio che provavo scaturiva dalla volontà di non esserne coinvolto. A tredici anni si può imparare qualsiasi cosa sul sesso, ma su nessun testo potevo apprendere come dipanare il ginepraio in cui era avvolto il mio cuore di adolescente.

La mia freddezza indispettiva Marcello al punto che mi scacciava. Se ne andava a pisciare senza manco rimettersi le mutande. Quando tornava, si era ristabilita la normale rassicurante distanza che era giusto che ci fosse tra due ragazzi.

 

 

***

 

 

“La prossima volta però, mi fai pure una bella pompa” Me lo diceva ogni volta prima di rimettersi a letto. Me lo diceva perché gli scottava essersi arreso di nuovo alla mia carezza. Io non avrei avuto nulla in contrario a prenderglielo in bocca, se non fosse che avrei immediatamente perso il suo rispetto. Marcello detestava i ciuccia cazzi, per lui era il peggior epiteto che potesse affibbiare a qualcuno. Tant’è che alla fine me lo proponeva solo per colpirmi e non lo pretese mai veramente. Di mio non c’era neanche il desiderio, perché se c’era una parte del suo corpo che mi attraeva meno, era proprio il suo pene. Pareva la radica di un albero, con quel glande piccolo e il suo forellino che rimaneva aperto, dando l’idea di una tana di chissà quale insetto.

 

Prima di riaddormentarsi m'intimava di non sparire come il solito. Io non sparivo, era solo che la domenica a casa mia si andava a messa insieme. La funzione delle undici era una liturgia famigliare inviolabile, e Marcello in genere a quell’ora dormiva della grossa.

In ogni modo, quando Rosa veniva a portarci la colazione, avevo il pretesto per ridestarlo. Altrimenti, se al risveglio non mi trovava, era capace di menarmela per tutta la settimana.

Rosa bussava timidamente alla porta verso le nove. Ci portava cappuccino e cornetti caldi, che il marito andava a prendere al bar sottocasa. La madre mi parlava con un filo di voce nel timore di provocare qualche accesso d’ira del figlio. Mi diceva “Sveglialo tu, a te dà retta”, cuore di mamma il suo che si preoccupava che il figlio mangiasse abbastanza.

 

Per svegliarlo gli turavo il naso. Era troppo comico! Non era capace di respirare con la bocca. Lo guardavo trattenere il fiato e, quando diventava paonazzo, esplodeva in un “vaffanculo”. Dandomi dello scemo, mi rifilava l’ennesimo cazzotto, spesso sulla coscia, dove faceva un male boia. Sapendolo, cercavo di anticiparlo, ma era inutile. Marcello si svegliava con il motore a manetta. Scattava in piedi sul letto e prima che potessi aprire bocca, mi aveva già rifilato il cazzotto, tracannato il suo cappuccino, divorato tutti i cornetti, bevuto anche il mio cappuccino e contemporaneamente aveva acceso l'Atari 2000 e, accomodato di nuovo sul letto con il joystick in mano, era pronto a partire per qualche combattimento spaziale.

 

A questo punto mi chiedeva di mettergli la fialetta contro la caduta dei capelli. Avrebbe dovuto applicarla a giorni alterni, ma lui diceva che bastava quella della domenica mattina. Almeno mi aveva dato ascolto e si era tagliato i capelli cortissimi. Ci stava meglio, mi piaceva di più. La zazzera che portava prima lo faceva sembrare una scopa spennacchiata. Così, invece, scopriva la sua bella fronte e metteva in risalto lo sguardo strafottente, il bel naso dritto e anche le labbra sottili che di per sé non avrebbero avuto alcuna attrattiva, ora, invece, si piegavano beffarde, completando quel quadro di faccia da schiaffi che si ritrovava.

 

“Aoh, bada che se mi s’ingrilla, sta volta me la fai davvero la pompa” Sì, mi piaceva provocarlo. Mi piaceva avere il potere di muovere le fila della sua passione. Mentre frizionavo il cuoio capelluto, m’insinuavo dietro le sue orecchie. Allora lui si ribellava, perché quella era una cosa che lo eccitava particolarmente.

“Che fai, già hai finito?” Prima mi costringeva a rincorrere la sua testa per questo e quell’altro motivo, poi, quando dovevo andar via, si lagnava.  “Corri, corri se no mamma mena” mi canzonava con la voce da bamboccio. La verità era che gli dava fastidio di non poter disporre completamente del mio tempo. Tutto quello che non potevo condividere con lui, diventava sciocco, stupido o da frocetti. Gli dava fastidio pure se mi mettevo a leggere in sua presenza, quando lui magari erano ore che stava appiccicato a un videogame. Appena aprivo il libro, iniziava a richiamare la mia attenzione “Guarda, lo sfondo a sto bastardo … Guarda, batto di nuovo il record …” Mi rompeva le palle fino a quando non rinunciavo alla mia lettura.

 

“Ciao boccia” Gli dicevo, quando, zaino in spalla, prendevo la via di casa. Prima che mi richiudessi la porta della sua stanza alle spalle, mi richiamava di nuovo “Aoh …” ed io “Che c’è?” e lui “Tutto apposto, ok?”. Sinceramente non sapevo cosa intendesse dire con quell’affermazione sotto forma di domanda. Io annuivo semplicemente, accennando un sorriso che lo tranquillizzava.

 

Dovevo prendere due autobus per tornare indietro. Quando arrivavo, la funzione era già iniziata, allora mentivo, dicendo ai miei che non li avevo trovati e mi ero seduto altrove. “Non hai fatto la comunione” subito mi aggrediva mamma. Lei non digeriva il fatto che, dopo la morte della Zia Pina, non servissi più messa da chierichetto. “Lo dice anche Don Vincenzo che eri un lettore eccellente” e aveva ragione, dopo la cresima ero stato nominato lettore ufficiale. “E’ solo un ragazzino” Primo cercava di difendermi dall’isteria di mamma, che continuava ancora a starmi addosso durante il pranzo alla trattoria “Il Fico”. “Tu stanne fuori” lo bacchettava subito. “Voglio diventare ebreo” Le dicevo per zittirla. Ci aveva perso non so quanto fiato a spiegarmi che io non ero israelita come il mio vero padre genetico, perché è la madre che trasmette il sangue e bla bla, ma bastava che le dicessi “Voglio diventare ebreo” che già mi vedeva con la valigia in mano e la kippah in testa, pronto a trasferirmi da mio padre.

 

La domenica terminava nel momento che varcavo la soglia di camera mia. Quella che Marcello definiva “la tana del sorcio”: decine di chili di carta di pessima qualità, divorata da frotte di minuscoli acari bianchicci che la riducevano lentamente in polvere. Lungo la parete affianco al letto, c’erano accatastati i libri che dovevo ancora leggere, che però finivano sempre per cedere il passo all’ultimo testo che compravo. Sulle mensole e sull’armadio, in misura nettamente inferiore, c’erano i libri già letti. Quelli erano tutti sottolineati e consunti, nel tentativo di trattenerne il più possibile il sapere che, invece, inesorabilmente si perdeva nello scolapasta che avevo per testa.

Fino al giorno che Marcello non ci irruppe in mezzo, quell’eremo era stato il mio mare dei sargassi. Lì vivevo la mia non esistenza, sognando di diventare colto e romantico come Leopardi e cinicamente spietato alla Edmond Dantes. Ora mi ritrovavo sempre più spesso dinanzi al mio riflesso nello specchio interno dell’anta dell’armadio, perché volevo essere diverso, volevo diventare come lui ... bello come Marcello.

 

 

***

 

 

Quell'anno l'inverno giunse a primavera con la morte del nonno. Successivamente la mamma non volle prendersi in casa nonna Méla e Primo si trasferì definitivamente in provincia. Angela compì diciotto anni e raggiunse suo padre. Era un assolato pomeriggio di aprile quando iniziò a nevicare sulle rovine della mia famiglia. Rimasi definitivamente solo con mia madre, che nel frattempo aveva trovato la fede nella canonica del cavallo dei pantaloni di Paolo.

 

Nel giro di pochi mesi avevo perso tutti i miei affetti più cari, cominciando da Dio e arrivando fino a me stesso. Quel poco che mi era rimasto erano i sottili legami sentimentali germogliati nella breve adolescenza appena iniziata. In quel deserto di ghiaccio in cui ero finito, Giada rappresentava un punto fermo su cui contare per ritrovarmi. Era la persona che conoscevo meglio e che, seppure a modo suo, diceva di volermi bene, ma era solo una ragazzina. Lei viveva nel suo tempo come faceva Vanni, tra problematiche tipiche di un'età che ancora conserva una certa leggerezza infantile. Io, invece, ero una cosa nata storta che il destino continuava a far crescere in modo ipertrofico e strambo. Essere rifiutato da Giada mi umiliò a tal punto da farmi desiderare la morte.

 

Stavo male ma nello stesso tempo l'orgoglio mi costringeva a credere di essere più forte di ogni avversità. Mi chiusi di nuovo nel mio dolore e sprangai porte e finestre affinché quella primavera che mi aveva tradito non m'ingannasse più.

Le sole persone che avrebbero potuto capirmi erano Marcello e Bea, avendo avuto un passato ancor più tremendo del mio. Per assurdo, però, Marcello attraverso la mia follia aveva ritrovato la forza di credere nella propria felicità e Bea, invece, mi detestava per averlo fatto.

 

Era da un po' che alla sala bigliardi si faceva vedere Giacomo. Era un ragazzo molto bello sulla ventina, sempre abbronzato, palestrato e vestito alla moda. Veniva a comprare cocaina e Marcello faceva il galoppino a Brusco, il pusher della bisca, per pagarsi le sniffate. Quei due si misero in affari insieme diventando inseparabili.

Finii per rimanere parcheggiato tra i biliardi per interi sabati sera. Fumavo hascisc e ingurgitavo psicofarmaci per stordirmi pur di rendermi sopportabili le interminabili attese, ma cosa aspettavo poi? Non lo sapevo. Ero un ragazzino tranquillo, come mi diceva sempre Brusco, che di tanto in tanto mi lasciava svolgere qualche commissione per lui. Era un po' come quando la Zia Pina mi chiedeva di aiutarla in qualche affare segreto. Brusco le somigliava e per un po' divenne lui la mia famiglia.

 

Marcello si era accorto della china pericolosa che avevo imboccato, ma oramai aveva il suo amico fighetto che lo affascinava con la prospettiva di un futuro tra feste d'alto bordo con gente famosa. Però non si era dimenticato di me, almeno fino al giorno che combinai quel disastro in piscina, quando mi scolai un'intera bottiglietta d'acqua al valium. Lui sembrava non capire il mio smarrimento e lo scacciai.

Scoprii, invece, che era già da un po' che Bea cercava di mettermi in cattiva luce con Marcello e con il senno di poi, credo che mi stesse iniziando alle droghe per sbarazzarsi definitivamente di me. Povera disgraziata, le aveva detto male perché con il sopraggiungere di Giacomo, non aveva più a che fare con un ingenuo ragazzino e i rospi da ingoiare divennero ben più grossi.

 

Alla fine ci fu la sera in cui Giada mi tirò quel brutto tiro alla festa del suo compleanno. Proprio quando sentivo finalmente di aver toccato il fondo, mi accorsi di Lidia. La conoscevo poco, anche se eravamo cresciuti insieme nella stessa classe scolastica. La verità è che ero sempre stato troppo preso da me stesso per accorgermi di quanti mi osservavano da lontano. Fu lei che quella sera chiamò Marcello per tirarmi giù dal parapetto di Ponte Sisto.

Lidia era una ragazza tanto bella quanto sveglia. Era una dalla risposta sempre pronta e che non abbassava mai lo sguardo davanti a nessuno. Andava là dove le altre ragazze avevano paura d'entrare e l'avevo vista anche alla sala bigliardi in compagnia di ragazzi più grandi di lei. Tuttavia, mi accorsi che esisteva solo da quella sera, quando decise di abbandonare la festa per seguirmi fin sul ponte.

 

Quella volta Marcello riuscì a guardarmi dall'esterno ed ebbe una spaventosa vertigine sul ciglio dell'abisso che rappresentavo per lui. "E' solo un ragazzino viziato", gli sussurrava all'orecchio Bea. "Lascialo stare, è troppo piccolo perché capisca cosa provi per lui", lo consigliava Giacomo per convincerlo a dimenticarsi di me. "Che cazzo me ne frega", mi dicevo io, deciso a liberarmi di lui. Ma quella sera no. Quella sera avrei accettato dell'affetto da qualsiasi parte mi fosse arrivato, però era ormai tropo tardi. Dopo avermi fatto passare la sbornia, Marcello mi riaccompagnò sottocasa e mi salutò deciso a non volermi più tra i piedi.

 

Gli ultimi giorni di scuola media sembravano l'epilogo perfetto alla fine di un'era. In questo periodo conobbi Paolo, che in qualità di padre numero tre, si presentò con la sua pacata fermezza per riordinare il mio presente. Fin dal primo momento che incontrai il suo sguardo, capii che avevo dinanzi un uomo dalla cui volontà non mi sarei potuto proteggere. Persone così hanno la verità in pugno e sono intolleranti verso le debolezze dell'animo umano. Dunque feci quello che avevo visto fare a mia madre da quando ero nato: scappai via. Un errore che oggi posso dire di aver commesso innumerevoli volte, rivolgendo verso me stesso l'accusa che spesso mi sono trovato a muovere contro di lei. 

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  • 4 weeks later...
Silverselfer

 

 

Floppy 03/34

 

 

In cuor mio un po' speravo che qualcuno m'impedisse di restare in provincia con Primo; invece, credo che suggerii a tutti una soluzione sul come sbarazzarsi di me senza imbarazzo. Sì perché Primo non è che avesse cambiato le sue abitudini e in casa ci stava il meno possibile; quindi, in realtà fu di nuovo Angela a doversi occupare di me.

 

La campagna dei nonni non esisteva più già da un pezzo, al suo posto vi era fiorita della muffa metropolitana fatta di cemento e asfalto; periferia estrema della città in virtù o maledizione di un ottimo collegamento ferroviario con Roma. Con l'incremento dei vivi anche la popolazione cimiteriale cresceva in modo esponenziale; come una metastasi, il camposanto si era già mangiato quasi tutto il colle a forza di espropri forzosi. Il casale dei nonni che era una sorta di agglomerato rurale come si usava un tempo, era stato raso al suolo per far posto ai morti, e tutti i suoi abitanti si erano solamente spostati un po' più in là; costruendo nuove case di moderno cemento armato, tale a quale a quello delle tombe.

 

Tornandoci mi ero illuso di poterci trovare qualche ricordo delle vacanze estive, ma non c'era più nulla del tempo perduto. Persino Lalla non era più la stessa.

Da quando il municipio era riuscito a far spostare il camper della sua famiglia dal suolo demaniale che occupavano abusivamente, offrendogli un altro spazio in una cava abbandonata ai piedi della montagna, molto distante da noi; Lalla si era trasferita a casa di nonna Méla, di cui si occupava a tempo pieno, e fingeva che quanto avevamo combinato fino all'estate prima non era mai accaduto.

 

Pino, invece, stava sempre dietro al gregge di famiglia e in paese era opinione ormai diffusa che fosse un po' tardo di cervello.

Lo rincontrai quando accompagnò Peppo a prendere tutte le mie cose in città. Lui pareva proprio avercela con me. Sulle prime credevo che la mia colpa fosse stata quella di non averlo aiutato a risolvere la sua vicenda con il padre; ma qualche giorno a venire scoprii che in realtà se l'era presa perché mi ero dimenticato della promessa fatta di regalargli tutti i miei fumetti Marvel. Destino volle che mia madre non avesse ritenuto necessario impacchettare anche quelli con i chili di carta che mi trascinavo dietro.

 

Ci feci pace quando con Angela ci accorgemmo che gran parte dei vestiti che avevo non mi entravano più. Lei decise dunque di risistemarli per regalarli a Pino. Fu così che iniziarono dei tagli e cuci quotidiani con Lalla, e Pino fu costretto a fermarsi a dormire dalla sorella per provarsi i vestiti da modificare.

 

Pino era ormai anche lui un adolescente "maturo" ed era da un po' che era preoccupato perché, a differenza di tutti i suoi coetanei, non riusciva a farsi le seghe. Era una roba che certo non poteva raccontare a chiunque. Fu per questo che mi chiese se mi andava di trascorrere qualche giorno al pascolo con lui. Angela però rispose per me, dicendo che avevo da studiare. Aveva ragione perché tutto questo accadeva prima degli esami di terza media. Tuttavia, il suo diniego era ispirato da altri timori. In un paese si fa presto a dire male delle persone e se avessi riallacciato l'amicizia con Pino, qualcuno avrebbe presto pensato che fossi "strano" come lui, se non proprio scemo alla stessa maniera.

 

Fu così che un mattino ci ritrovammo in garage per controllare se negli scatoloni del mio trasloco, ci fosse finito dentro anche qualche fumetto della Marvel. Aprimmo, invece, la scatola con i libri delle avventure scritte da Salgari. Erano libri illustrati e mi commossi nel vedere gli occhi di Pino illuminarsi mentre si perdevano tra le immagini delle avventure corsare. Per quanto di nulla al mondo fossi geloso come dei miei libri, glieli regalai tutti. Fu quando stavo raccontandogli la trama di ogni storia, senza tralasciare di dare qualche cenno storico sulla colonizzazione dell'Indocina ... e forse per questo che probabilmente annoiato dal mio bla bla, m'interruppe chiedendomi se mi ricordavo quello che facevamo l'anno prima.

 

Quando glissai su quella domanda, lui arrossì e tirò via dalla scatola un altro libro, affrettandosi a chiedermi cosa c'era scritto. Io non volevo pensasse che lo ritenessi "strambo" come faceva anche Angela. Allora sottolineai che sì, mi ricordavo di quando lo avevo lavato e profumato, tralasciando però il resto di certi dettagli.

 

Quella familiarità che gli avevo di nuovo accordato, bastò per spingerlo a confidarmi il problema che lo affliggeva. Tergiversò parecchio, ma alla fine ci arrivò a dirmi che non riusciva a masturbarsi e probabilmente succedeva perché era senza palle. Pino era convinto che avessi sempre una risposta per tutto, in effetti, quello che non sapevo, solitamente lo evincevo da qualche ragionamento. Quella volta fu proprio uno di quei casi.

 

Ci chiudemmo in lavanderia e tra il forte profumo di detersivi, mi mostrò un pene che sicuramente si stava sviluppando in modo normale, ma aveva uno scroto curiosamente sgonfio.

Chiesi a Pino di masturbarsi per accertarmi che lo facesse nel modo giusto ... costatai così che aveva comunque un'erezione, solo che a lui faceva talmente male che non poteva arrivare fino in fondo. Era visivamente evidente la causa di quel dolore: aveva un glande molto grosso e il pertugio del prepuzio stretto non lo faceva uscire. Provai a tirargli indietro il prepuzio, allora mi accorsi che era ancora ben saldato sul frenulo. Gli dissi che probabilmente era quello la causa del suo problema e che doveva farsi vedere da un medico per reciderlo. Lui non mi sembrò tanto spaventato dal bisturi, quanto dall'idea di dover dire in famiglia che aveva bisogno di un medico.

 

Rimaneva da spiegare il motivo per cui aveva lo scroto vuoto. Lo tastai e davvero sembrava non esserci nulla! Ripensando al gioco erotico del lagaccio che praticavo a Marcello, ragionai sul fatto che i testicoli si possono ritrarre per mezzo di apposite nervature. In particolare mi ricordai di quando capitava che il testicolo sinistro di Marcello sfuggisse al legaccio, scomparendo, e lui se lo faceva riuscire premendosi lungo l'incavo sull'inguine. Feci lo stesso con Pino e sentii le due palline scendere nello scroto, ma ritornavano su appena rilasciavo la pressione sull'inguine. Risolsi infiocchettandogli le palle, imprigionandogli i testicoli nel sacco scrotale. A lui non faceva male e anzi, era convinto di poterci trascorrere il resto della vita con quel laccio.

 

La sera stessa Pino passò di nuovo per casa e mi chiamò da basso. Schiacciando un pisolino dopo pranzo, aveva avuto la sua prima polluzione. Era strafelice e questo lo convinse che le mie diagnosi erano giuste, quindi mi chiese di tagliargli il filetto. Ovviamente mi rifiutai, ma il giorno dopo si ripresentò di nuovo a casa, deciso a fare da sé; quindi mi chiese di mostrargli il mio cazzo, così da spiegargli dove avrebbe dovuto incidere il suo pisello. Allora gli mostrai la piccola macchiolina scura che indicava la cicatrice dove i medici da bambino avevano reciso il mio filetto.

Nel tentativo di dissuaderlo dal suo intento, gli spiegai che da qualche parte avevo letto che il filetto si può rompere anche in modo naturale. Mi chiese come, e ovviamente non poteva essere in altro modo che tirando all'indietro il prepuzio ... non se lo fece ripetere due volte.

 

Tirò giù le braghe e tentò di fare da solo, ma evidentemente armeggiare con il mio cazzo lo aveva "emozionato" e le proporzioni del suo glande si erano già raddoppiate, rimanendo così bloccato nel suo prepuzio stretto. Faceva troppo male per riuscire ad auto-infliggersi un tale dolore ... allora ci provai io, ma quasi non mollò un urlo da risvegliare anche i morti del vicino cimitero! Quindi chiusi bene la porta della lavanderia e gli misi una mano sulla bocca prima di ricominciare. Gli afferrai il cazzetto nel pugno e strattonai due o tre volte, forse anche quattro ... temo che ci stessi prendendo un certo gusto e non escludo che in realtà andai avanti per un bel po'.

 

Quando mi fermai, Pino piangeva e cercava di trattenere i singulti in una brutta smorfia del viso, ma non era stato questo a bloccare gli affondi del mio pugno. Lui si era sciolto nella mia stretta e un afrore acre e nauseabondo mi era immediatamente salito su per le nari, disgustandomi fino al vomito. Il suo pisello si era aperto, col prepuzio rimasto strozzato dietro la grossa corona del glande. Ne era venuta fuori della ributtante poltiglia dal colore indefinito tra il giallo e il verdognolo che colava mischiato a dello sperma semitrasparente. In quel momento compresi da dove proveniva il suo tipico cattivo odore ...

 

-   Lu ammazzo ... se ce riprova lu taio ...

 

Senza curarmi di lui, pensai bene di lavarmi subito la mano. Mi accorsi solo dopo dei suoi farfugliamenti in quel grottesco idioma famigliare. Pino era rimasto con le spalle contro il muro della lavanderia, ancora travolto dal dolore, e farfugliava delle frasi sconnesse annegate in un pianto convulso.

Aveva bisogno di abbracciare qualcuno perché mi si aggrappò e stringendomi con tutte le sue forze, ripeté quel mantra liberatorio fatto di parole piene di odio.

Il risentimento che stava digrignando tra i denti era sicuramente rivolto verso suo padre e gli abusi che gli aveva inflitto fin da tenera età. In qualche modo avevo creato una falla nella cataratta omertosa che la sua famiglia gli aveva imposto. La stessa che Lalla aveva calato sul nostro passato di giochi proibiti.

 

Presto il mio abbraccio riuscì a riportare la quiete nel suo animo in tumulto. Mi vergognai di essere irrotto nella sua intimità, sia fisica sia mentale, e non pronunciai una parola al riguardo. Sì, forse era il modo più comodo per non lasciarmi coinvolgere, ma davvero non avrei potuto fare altro.

 

Lo feci avvicinare alla vasca per lavare i panni e gli pulii il pisello con tanta acqua e sapone di Marsiglia, stando attento a che non gli si richiudesse. Gli raccomandai di tirarselo fuori spesso e lavarselo bene dentro, se non voleva continuare a puzzare come uno "zappo". Lui mi sorrise imbarazzato, probabilmente stupendosi di quanto era riuscito a confidarmi, mentre io, invece, lo salutavo come nulla fosse accaduto ...

 

L'indomani Peppo venne a riprendersi il figlio per portarlo al camper parcheggiato nella cava abbandonata. Una scena degna di un film horror ... col padre nelle vesti di Freddy Krueger di Nightmare. Quella fu l'ultima volta che ci vedemmo. Avrebbero dovuto passare decenni prima di ricontrarci in circostanze a dir poco incredibili ... ma quella è tutta un'altra storia.

 

 

 

***

 

 

 

Superai gli esami di terza media senza alcuna difficoltà e, anche se non portai a casa un risultato eccelso, i miei volevano regalarmi persino uno scooter per il quattordicesimo compleanno, praticamente la versione aggiornata della bicicletta ricevuta mio malgrado in quinta elementare. Angela, che al contrario di me uno scooter lo aveva sempre desiderato, fece il diavolo a quattro perché continuavano a usare due pesi e due misure diverse nei nostri riguardi, così alla fine non se ne fece più nulla.

 

Quello di cui avevo bisogno era di ritrovarmi in qualcosa che si potesse definire casa. Mentre ancora studiavo per gli esami di terza media, mi era stato dato un abbonamento ferroviario con il quale potevo tornare a Roma ogni volta che volevo. Fu dopo la promozione, quando l'abbonamento non mi fu rinnovato e dovevo sempre avere un motivo valido per chiedere i soldi del biglietto del treno, che iniziai a sentire il peso di una decisione presa troppo avventatamente.

 

Fu soprattutto per mantenere un legame con le persone con cui ero cresciuto al Circolo Canottieri, che espressi il desiderio di partecipare al ritiro organizzato dalla squadra di pallanuoto. La piscina pubblica che frequentavo fin da bambino non faceva parte del Circolo, che ne aveva una tutta sua, ma siccome non era grande come l'altra, per ragioni che non saprei ben spiegare, l'amministrazione del Circolo la riteneva una sua dependance.

 

Il ritiro era riservato alla rosa dei giovani atleti della sezione agonistica. Era una roba molo "esclusiva" e tutti i genitori si vantavano quando i propri pargoli ricevevano la convocazione. Insomma, non bastava tirare fuori il portafogli per andarci.

Io alla fine non ero riuscito a entrare nella rosa dei riservisti della squadra, quindi non avevo titolo per parteciparvi; tuttavia la pallanuoto era la disciplina sportiva che poteva portare più ragazzi in ritiro ed io avevo avuto modo di distinguermi. Mi giocava contro la giovane età che sminuiva i successi conseguiti nelle categorie "pulcini", ma dalla mia avevo una medaglia conquistata già tra i "cadetti" del canottaggio.  Insomma, l'allenatore della squadra mi aveva sempre tenuto in considerazione, quindi non era escluso che rispondesse "sì" a qualche amico di Primo capace di perorare la mia causa.

 

Del ritiro in sé, della stessa squadra di pallanuoto, a me non importava nulla. In piscina poi iniziai ad andarci solo perché la psichiatra infantile a suo tempo la propose a mia madre per aiutarmi a uscire dall'autismo indotto dai problemi di salute. Ora, però, la situazione era radicalmente cambiata e lo sport divenne l'unico modo per rimanere in contatto con la mia vecchia esistenza.

 

Il ritiro iniziava dopo il campo estivo, a fine giugno, quando il Circolo Canottieri sospendeva tutte le sue attività sportive fino a settembre. Ogni anno il ritiro si faceva in un posto diverso e questa scelta diventava puntualmente argomento di discussione nei salottini del belvedere. Solitamente i soci la commentavano con sufficienza, quando non proprio con astio, proprio perché la partecipazione era riservata ai ragazzi dell'agonistico, i cui genitori guardavano gli altri dall'alto in basso.

 

I ragazzi dell'agonistico erano dei semidei e ogni genitore era convinto che suo figlio avesse il diritto di far parte di quell'olimpo. Primo mi aveva sempre spronato a diventare un piccolo atleta e non nascondo che anch'io ci tenevo, non sia altro per dimostrare l'indiscutibile superiorità del mio ... egocentrismo. Nonostante, però, mi allenassi con indefessa lena e riuscissi a dare del filo da torcere a chiunque mi si parasse dinanzi, alla fine a vincere erano sempre gli altri.

 

Forse, però, ero un giudice troppo severo con me stesso e, nonostante accadde quel che accadde quando per poco non ci rimisi la pelle scolandomi la boccetta d'acqua al valium, sentenziai troppo presto la fine della mi carriera atletica.

L'allenatore, al contrario, dette a quella cattiva prestazione il giusto peso. Nel senso che ero solo un ragazzino e poi, in quel pollaio che era il Circolo Canottieri, Primo raccontava ai suoi amici ogni dettaglio della sua vita, compresa la parte che mi riguardava; quindi anche l'allenatore sapeva della difficile situazione famigliare che stavo attraversando. Per farla breve, alla fine accettò di convocarmi come riservista.

 

Primo sostanzialmente era inaffidabile come tutti i giocatori d'azzardo, con l'aggravante di essere un gran puttaniere e quindi anche bugiardo, ma allo stesso tempo, tale e quale a quelli della sua risma, era amato da tutti perché indulgente rispetto alle debolezze altrui.

Fino a quel giorno mi aveva promesso  mari e monti, senza poi mantenere neanche la più piccola e banale delle promesse ... non so, tipo "domenica ti porterò al mare": mi ci portò solo una volta, ma poi mi ricondussero a casa dei suoi amici cui mi aveva scaricato in spiaggia.

Un sacco di altre volte mi aveva messo in imbarazzo con le sue assurde bugie. Per esempio, usava raccontare in giro che ero un ragazzino cui piaceva azzuffarsi e quindi non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Così la reazione di chi veniva a sapere che ero io quel famigerato figlio, era di farsi una "grassa" risata.

Per questo motivo non mi aspettavo nulla di buono da lui, tantomeno che riuscisse a convincere l'allenatore a convocarmi. Invece mi lasciò di stucco e solo a cose fatte, mi cominciò a salire la paura di affrontare quell'esperienza.  

 

 

 

***

 

 

 

Le settimane che mi dividevano dalla partenza per il ritiro furono un assaggio del tedio che mi aspettava in provincia.

Trascorsi quei giorni a spararmi seghe dalla mattina alla sera, qualche volta anche di notte; mi alzavo per pisciare e, visto che c’ero, al pisello gli tiravo pure il collo.

 

Trascorrevo i pomeriggi a fumare i toscanelli che Primo conservava come una sacra reliquia del nonno. Lessi un vecchio libro di narrativa che era stato di Angela: “Il treno del sole”, carino, ma era buono solo per conciliare la pennichella. Rimanevo per ore a godere dell’orizzonte piatto, oltre il quale sapevo esserci il mare. Aspettavo che i grilli cominciassero a cantare per sedermi sul davanzale della finestra. Il cielo stellato m’ispirava i ragionamenti che mi accompagnavano fino a notte inoltrata.

 

I nostalgici patimenti per un'età dell'oro perduta si mischiavano all'angoscia ispirata da un passato infranto contro una scogliera fatta di menzogne.  Qualsiasi cosa io fossi stato, non era mai esistito realmente e comunque non mi riguardava più.

Mi dissi che il passato in fondo è fatto della stessa materia dei sogni. La memoria si lasciava abbindolare da miraggi mai accaduti veramente. Del resto quante versioni si sarebbero potute raccontare di ogni singolo fatto? No, il passato in sé non esisteva e cercare di conservare il presente era come tentare di trattenere l'acqua in un pugno.

 

L’adolescenza inizia proprio quando si diventa consci dell’istante che muore folgorato dal presente, pietrificando in un simulacro d'ingannevoli ricordi. La nuova dimensione del tempo perduto ci condiziona al punto, che tutto il resto lentamente perde valore ... e il ricordo soppianterà il sogno. 

 

Il presente iniziò così a gocciolare nell’iride della mia coscienza. Milioni di bilioni di miliardi di volatili granelli di realtà fittizia che si sarebbero depositati in fondo alla clessidra della memoria. Pronti a sollevarsi in tempeste emotive ogni volta che la mia volontà sarebbe andata alla ricerca di conferme. Miraggi. Fragili castelli di sabbia costruiti sulla battigia della vita, là dove batte la risacca della realtà.

 

Guardando quel cielo stellato compresi che la vita è una fiamma che brucia e noi non siamo altro che delle sue estemporanee scintille: materia incandescente che rapidamente consuma se stessa. La fiamma scaturisce dal colore e il calore è generato dal movimento. La vita è dunque energia in movimento. Un cuore che pulsa, una mente che pensa, delle mani che costruiscono, dei piedi che ti spostano da un punto all’altro ... nient'altro ... la vita per quello che ci riguarda, sciama nel momento che cristallizza in un fugace attimo di realtà.  Tutto il reso non esiste.

Mi dissi che solo uccidendo il ricordo, avrei potuto conservare la sana incoscienza del fanciullo, capace di brillare libero come una scintilla nel falò dell’esistenza.

 

Quando la mia mente resa febbricitante dalle sue elucubrazioni, sfiancata, rimaneva muta, mi abbandonavo a un sonno senza sogni.

 

Credo proprio che fu in quei giorni che elaborai la filosofia da cui scaturì gran parte delle mie decisioni future.  Avrei lasciato che il flusso della vita mi riempisse fino a travasare e scorrere via. Non mi sarei mai lasciato ingannare dall'intento di trattenere l’acqua in un pugno. Nessun presente si genera senza il ricordo di se stesso, e senza presente non si ricerca un futuro in grado di confermare l’illusione di noi che ci proietta il passato. Questo postulato magico mi avrebbe fatto raggiungere l’equilibrio, dove tutto si bilancia annullando ogni effetto degli eventi sulla nostra esistenza.

 

- fine terzo floppy

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  • 1 month later...
Silverselfer

 

Floppy 04/35

 

 

Il sole era allo zenit e il fresco della pineta conciliava la pennichella pomeridiana. C’era poca gente in giro e al piccolo bar prefabbricato eletto a nostro covo segreto, il gestore se ne stava con i piedi poggiati su un tavolo della veranda di legno a sonnecchiare. Neanche il vecchio juke-box riusciva a turbare la sua flemma unta di fritto. “Head over Heels” dei Tears for Fears stava terminando per l'ennesima volta e l'eco di "Time fly" si perdeva ancora tra le chiome dei pini marittimi, quando realizzai che quello sarebbe stato l’ultimo giorno d'estate.

 

Tornai a Roma il giorno prima della partenza per il ritiro sportivo organizzato dal Circolo Canottieri. Nonostante fossimo all'inizio di Luglio, la casa era fredda come un cadavere. I rumori annegavano nel silenzio che imputridiva ricordi stantii. L'armadio di camera mia era vuoto ... compreso l'ultimo cassetto in basso, quello dei maglioni vecchi ... in fondo al quale avevo sempre tenuto le riviste porno ... mi chiesi come mai non scatenò l'ira di mia madre avercele trovate.

 

Mamma si era trasferita sull'Aventino, nel bell'appartamento di Paolo. Probabilmente era tornata a casa solo per non turbare la mia "normalità". La sera cenammo con le stoviglie di plastica e la mancanza del televisore sull'angolo della credenza, ci  costrinse a scambiare qualche parola. Per lo più raccomandazioni per la mia salute e minacce se avessi fatto come nell'ultimo mese, che non le avevo telefonato neanche una volta.

 

La mattina dopo mi accorsi subito della presenza di Paolo in casa dalla scia aromatica che lasciava il suo sigaro. Non ricordo se lo salutai, mi urtò molto che mia madre gli avesse concesso di prendere la mia valigia e di metterla nella sua auto.

Lungo il tragitto verso il punto di raccolta, la mamma non smise un attimo di decantare le qualità del campo estivo che Paolo organizzava per i ragazzi delle parrocchie nei quartieri più disagiati della capitale ... che palle!

 

Arrivammo così puntuali sul piazzale antistante alla piscina, che non c'era ancora nemmeno il torpedone. Quando sopraggiunse, si era già formato un capannello di gente che lamentava il cattivo gusto di arrivare con un ritardo più grande del proprio ...

Io me ne rimanevo parcheggiato accanto alle mie cose, terrorizzato da quei ragazzini che facevano comunella. Per lo più provenivano dal mio circolo sportivo, quindi ci conoscevamo. Io però ero uno che in palestra arrivava puntuale, andava dritto a cambiarsi e faceva i suoi esercizi come una macchina da guerra con la missione di riconquistare al più presto gli spogliatoi.

Come scudo per proteggermi da tutti loro, mi ero portato lo Zibaldone di Leopardi. Cacciai il naso in quel voluminoso tomo, snobbando la scherzosa compagnia che si organizzava per la partenza. In realtà cercavo solo di tenere sotto controllo un'ansia crescente per quella situazione che sapevo di non poter gestire.

 

Le cose non andarono meglio quando sopraggiunse la signora Dionisi con suo figlio Marco.

 

-   Ciao Momo ... Ti siedi accanto a Marcolino vero?

 

Età: Quasi coetanei.

Altezza: Più basso di me.

Capelli: Portava un casco di banane in testa.

Fisico: Minuto.

Carattere: Dolce.

Segni particolari: Beh, il soprannome "fiatella" non gli era stato messo a caso ...

 

Prima che arrivassi io, Marco era stato il più giovane degli atleti dell'agonistico. Nonostante lui fosse un tuffatore, al circolo eravamo insieme nei corsi di canottaggio. Lui era un buon atleta, ma aveva un'indole troppo dimessa e finiva per essere preso di mira dal gruppo. Quando mi si avvicinò, mi si rizzarono i capelli in testa nel timore che qualcuno mi potesse immaginare amico suo.

Ci pensò mamma a completare il disastro, presentando il mio supposto nuovo padre alla Signora Dionisi, che colse l'occasione al volo per appiopparmi suo figlio. Dulcis in fundo, mia madre fece scivolare una lauta mancia nella tasca dell'autista, affinché ci facesse sedere avanti nel torpedone per scongiurare il fantomatico mal d'auto ... seduto accanto a Fiatella nei posti riservati ai portatori di coglioni disabili - poteva forse andare peggio?

 

 

***

 

 

 

Ci accompagnavano due ragazzi dell'ISEF che, al solito, d'estate venivano a sfangare uno stipendio al Circolo. Uno dei due sembrava essere stato reclutato in un penitenziario: completamente rasato a zero, aveva la pelle del viso butterata dai travagliati trascorsi di un'acne giovanile. Dal colletto della polo bianca del circolo canottieri, spuntava un tatuaggio che risaliva il collo fino a lambire l'orecchio sinistro crivellato da una serie non definita d'orecchini. Parlava poco e quell'altro lo presentò come "Zeno", che era l'anagramma del suo vero nome: "Enzo". Il suo sguardo era pacato come quello di un leone consapevole della propria forza ... sì, faceva proprio paura, ma io non avrei dovuto temerlo perché la sua funzione era di tenere a bada i ragazzi più irrequieti.  

 

Il suo compare si credeva probabilmente il figlio di Apollo e parlava al microfono del torpedone con il piglio di un presentatore televisivo. Aveva i capelli fonati della doratura giusta per far risaltare l'abbronzatura di un volto sempre illuminato dal sorriso abbagliante. Solitamente indossava pantaloncini da surfista per evidenziare glutei sodi e cosce ben depilate ... ma quanto mi poteva stare sulle palle quel paraculo di Mirco!

 

Il torpedone partì con due ore di ritardo ... ma nessuno sembrò accorgersene. Quell'affabulatore di Mirco iniziò a raccontarci quanto esclusivo fosse il camping dove ci stavano portando. Io notai dalla mappa disegnata sulla broche informativa, che Baia Domizia era molto lontana ed io, che ero sveglio dalle sei del mattino, dovevo già pisciare ...

Come se non bastasse, ci fu un ulteriore contrattempo. Un mega ritardatario ci rincorse su per la consolare Flaminia con il padre che, strombazzando, costrinse l'autista a un parcheggio d'emergenza. Si trattava di D'Ambrogio Mattia ...

 

-   E tu che cazzo ci fai qui?

 

Età: Un paio d’anni più grande di me.

Altezza: Nella media.

Capelli: Neri come gli occhi.

Fisico: Da ginnasta.

Carattere: Fin troppo espansivo.

Segni particolari: Il culo in faccia.

 

Mattia era uno cui riusciva tutto bene. Brillante studente, piroettava agile come una scimmia grazie ai trascorsi da ginnasta ed era anche una delle punte della squadra di pallanuoto; come se tutto questo non bastasse, il meglio di sé lo dava in società, infatti, era molto popolare e le ragazze sdilinquivano per lui. Questa consapevolezza gli conferiva una spavalderia importuna che insieme a un particolare gusto per lo sberleffo, me lo trasformava come il più temibile antropomorfo cui tenermi alla larga.

 

Ben presto Mirco e Zeno presero a confabulare tra loro, così la ciurma ruppe le righe e si formarono gruppetti sparsi tra i sedili, ma era dal fondo che proveniva una vera cagnara. Era la corte di Pontesilli Giorgio ...

 

-   A ragazzi' vedi di sciacquarti dai coglioni ...

 

Età: Quasi diciotto anni!

Altezza: Esagerata.

Capelli: Molto crespi.

Fisico: Da Troll.

Carattere: Prepotente.

Segni particolari: Un gran pezzo di merda.

 

Giorgio era un veterano e l'anno successivo avrebbe lasciato la squadra per andare non so dove a laurearsi in trollagine. Si dava grand'arie da duro solo perché con una sberla era capace di mischiarti a vita i punti cardinali. In realtà cercava solo d'imitare Mattia, che lo sbertucciava senza che lui se ne accorgesse.

 

Io cercavo disperatamente di estraniarmi con qualche ragionamento che mi desse compagnia lungo il viaggio, ma la preoccupazione di dovermi relazionare con loro, mi stringeva la bocca dello stomaco ... senza contare che dovevo ancora pisciare!

 

Per fortuna Marco vomitò ...  solo uno scatto felino mi salvò dal fruscio di spaghetti ancora interi che sparse "in ogni dove". Che avesse fatto colazione con della pasta asciutta? Il mistero rimase irrisolto.

Ci mancò tanto così che l'autista inchiodasse in mezzo all'autostrada. Quando arrivammo alla stazione di servizio più vicina, per poco non si mangiava Marco che prese addirittura a frignare. Ci volle l'intervento di Zeno per far tornare alla ragione l'autista, che però ci cacciò tutti via dall'autobus, intimandoci di non tornare prima che avesse finito di ripulire quello schifo.

 

Ma chi se ne frega di quello che poteva pensare di noi l'autista. Io dovevo pisciare e quel vomito mi arrivò come manna dal cielo. Il guaio era però sempre lo stesso: il cesso continuava a essere il regno degli stronzi. Avevo sperato che gli antropomorfi maschi avessero pascolato più allungo nell'autogrill, invece sostarono fin da subito davanti ai bagni ... probabile che fossero attratti dagli effluvi di feromone rilasciati dalle umanoidi starnazzanti, sempre prese a rincorrere qualche maschio impertinente o a scappare da qualcun altro che le interessava particolarmente.

 

Tentai di concentrarmi per sviluppare abbastanza energia telecinetica da nuclearizzare il pianeta terra ... dovevo pisciare cazzo!

 

Presi un Tè al bar solo per usufruire del bagno, ma al solito quei bastardi appena videro l'orda di ragazzini, appesero il cartellino fuori servizio al cesso. Intanto il Tè aveva peggiorato ulteriormente la mia incombenza fisiologica.

Mi aggirai tra le auto e i tir in sosta come un cane in cerca della ruota da benedire, ma il pudore non mi permetteva di osare tanto ... quel cazzo di area di servizio era così striminzita da non offrire alcun riparo discreto ... poi notai che il grande cartellone pubblicitario, posto sull'accesso della pompa di benzina, arrivava a meno di un metro dal muretto sottostante ... era pur sempre un riparo e io ormai non la trattenevo più ...

 

-   ... ma allora anche i principi pisciano!

 

Nome: Amanuense Lidia

Età: Un anno più grande di me.

Altezza: Abbastanza alta.

Capelli: lunghi e dritti come spaghetti al nero di seppia

Fisico: Da panico.

Carattere: Decisamente irriverente.

Segni particolari: Pericolosamente zoccola.

 

Dietro al muretto c'erano delle sterpaglie che non mi destarono il giusto interesse. Con la faccia coperta dal cartellone pubblicitario e Mr Wigly appena al di sotto del muretto di cemento, iniziai a pisciare, però ... mi affrettai a ritirare su la zip dei pantaloni appena mi accorsi che tra quelle inospitali sterpaglie, all'ombra discreta del cartellone, si stava tenendo una seduta di donne apache che si passavano un calumet di maria. La boss delle ragazze era Lidia che aspettò il momento giusto per farmi fare proprio una figura di merda.

 

Lidia era una delle figlie di un poco di buono proprietario di alcuni locali notturni in giro per Roma. La sua numerosissima famiglia viveva dalle parti di casa mia. Frequentavamo la stessa parrocchia e suo padre era socio del Circolo Canottieri, dove spesso giocava a carte con Primo. Non eravamo certo amici, ma ci conoscevamo per forza di cose, specie da quando la bocciarono in seconda media e me la ritrovai in classe. Quell'anno aveva schiaffeggiato la professoressa d'Italiano, rea di averle pronosticato un futuro mediocre come il suo rendimento scolastico.  

 

Quando mi chiamò principe, come usavano fare sarcasticamente i vicini di casa per via dei miei trascorsi dalla Principessa Della Torre, sotterrai lo sguardo tra le scarpe e con le guance a meletta che avvampavano di vergogna fino all'autocombustione, filai via a testa bassa con quelle streghe che mi ridevano dietro, ma come dar loro torto? Mi sarei preso a schiaffi, avrei voluto sputarmi in faccia da solo, strapparmi le unghie pur di sentire un dolore abbastanza forte in qui annegare la vergogna ... invece dovevo ancora pisciare e ora più di prima.

 

Tanto peggio di così ... mi dissi, e presi la via dei gabinetti, pronto ad affrontare anche il diavolo in persona ... invece non ci trovai più nessuno. Nel frattempo la mandria antropoide era stata richiamata verso il torpedone ... Grazie Dio!

 

Che ci faceva Agostinelli Carmelo arrampicato sui lavandini?

 

Nome: Agostinelli Carmelo

Età: Sedici o diciassette.

Altezza: Basso.

Capelli: Irrilevanti.

Fisico: Super dotato (in ogni senso).

Carattere: Timido ma non introverso.

Segni particolari: Narcisista fino all'esibizionismo.

 

-   E tu che cazzo ci fai qui?

 

Mi chiese Mattia che con Giorgio stava tenendo Carmelo per gli stinchi, aiutandolo a tenersi in equilibrio davanti agli specchi dei lavandini.

 

-   Io nei cessi ci vado solo per pisciare ...

 

E ma basta! Mi avevano proprio rotto i coglioni con le loro stupide dinamiche sociali. Qualsiasi cosa stessero combinando, a me non importava niente ...

 

-   Ragazzi' vedi da sciacquarti dai coglioni ...

 

Tuttavia, la mia irriverenza punse sul vivo re Giorgio che mi sentenziò l'ostracismo dal suo regno delle chiaviche. Il mio sarcasmo ovviamente non fu colto da quel troll e Mattia prontamente ci aggiunse uno sberleffo definendolo "Il re degli stronzi". A Giorgio non importava nulla di me, era invece molto suscettibile agli sfottò di Mattia che lo mettevano in ridicolo con tutto il gruppo; quindi cercò di difendersi e, visto le sue tare intellettive, non poté usare altro che le mani. Mattia schizzò via come uno scoiattolo, deridendolo ulteriormente; intanto Carmelo, sceso dal lavandino e riallacciandosi la cinghia dei jeans, disse che se ne andava via e che tanto con loro finiva sempre in cagnara.

 

Me ne fregai altamente di quello che potevano dire o fare quei tre. Li lasciai alle loro brighe e finalmente conquistai un gabinetto: sporco e con lo sciacquone intasato, ma aveva pur sempre un buco per pisciare e una porta da richiudersi alle spalle. Già, il problema però è quando le porte non si riaprono.

Non si riapriva! L'avevo sbattuta troppo forte ed era forse rimasta bloccata? Eppure la serratura girava ...

 

-          E ora chi è il re degli stronzi?

 

E chi altri se non Pontesilli Giorgio, unico re incontrastato di tutti gli stronzi del mondo ... maledetto, mi aveva sbarrato la porta.

Tentai di togliermi da quella situazione a dir poco imbarazzante, arrampicandomi sulla parete divisoria dei gabinetti. Salii sul bordo della tazza e stavo quasi per arrivare al ciglio del muro. Ce la potevo fare, ero a un palmo di mano dalla rivalsa. Tra non molto sarei tornato sull'autobus scoreggiando tronfio della mia inopinabile grandezza ... ma il bordo di un water è già per sua natura scivoloso, figurarsi quando c’è spalmato sopra ogni sorta di liquame fisiologico ...

Fu questione di un attimo ... a un millimetro dal successo il piede affogò nella schifezza più nera. Gli schizzi arrivarono ovunque … la puzza pure. Ero sul punto di vomitare quando tirai via il piede da lì dentro. La scarpa aveva imbarcato liquame e non avevo il coraggio di toccarla ... a quel punto ... d’incanto la porta si riaprì.

 

-          Eccolo, l’ho trovato. L’avevano chiuso nel cesso.

 

Che situazione di cacca ...

 

-          Tutto apposto ragazzino?

 

Mai fidarsi delle apparenze. Zeno sarà pure stato più delinquente del compare, ma almeno mi chiese se stavo bene. Invece, quell’altro mi rise sguaiatamente dietro mentre camminando, facevo “ciaf ciaf” con la merda liquida che mi schizzava fuori dalla scarpa.

 

 

 

***

 

 

 

Quando tornai sul torpedone, l'autista al soldo di mia madre la buttò giù dura, ma io tenni la bocca chiusa. Neanche per un attimo mi sfiorò l'idea di cantarmela. Ero stato così imbecille da farmi fregare? Beh, mi sarebbe rimasta di lezione ... diceva sempre così la Zia Pina.

 

Sì, certo, re Giorgio mi aveva ridicolizzato, ma a quanti su quel torpedone era già spettato un simile trattamento? Quella disavventura fu considerata da tutti come una sorta di "battezzo del fuoco", in cui espiavo la mia insopportabile spocchia.

Dopo un po' che eravamo ripartiti, Mastrilli venne a chiedermi se avevo tra le musicassette che mi ero registrato per l'estate, qualche compilation con Raf e Sandy Marton ... ma io avevo solo il live in Hamburg dei Depeche Mode e quando mi tirò via le cuffiette dalla testa per ascoltare cos'era quella roba, mi fece una faccia strana e se ne tornò indietro con gli altri.

 

Non ascoltavo la musica del momento, mi vestivo come piaceva a me e non capivo quel loro umorismo giocato tutto su slogan pubblicitari o tormentoni umoristici passati al Drive In di Canale 5. L'omologazione su certi stereotipi sociali rendeva le relazioni più semplici e intuitive, questo lo capivo, tuttavia non mi riusciva d'interpretarne uno perché nessuno di essi mi permetteva di esprimere quello che desideravo essere.

Incapace di trovare simboli da appuntarmi addosso, di modo che chiunque avrebbe capito subito cosa ero, mi autoescludevo dal gruppo e cercavo di rimanermene nel mio angolino, senza pensare che questo potesse urtare la sensibilità di chicchessia. Non capivo la necessità che le persone avevano di essere accettate da me. Se rifiutavo il mondo, non ritenevo che quanti lo adorassero se ne dovessero sentire offesi.  

 

-   Vuoi una gomma da masticare?

 

Persino Fiatella ... ops, volevo intendere Marco, anche lui si sentì in dovere di tirarmi via qualche parola di bocca.

 

-   No, grazie.

 

Oggi posso dire che la serie di eventi vissuti in quell'ultimo anno, mi aveva spinto su dei limiti esistenziali fuori dalle comuni esperienze di vita di un adolescente. Esasperazioni tali che se non avessi trovato il modo d'imbrigliarle con la ragione, mi avrebbero travolto. Cercavo quindi di trovare in me stesso tutto quanto mi serviva. Lo spazio esterno era troppo insidioso per uno che si sentiva un equilibrista in bilico sul nulla.

Eppure ci stavo male perché desideravo moltissimo farmi conoscere da loro, più o meno come quando da fanciullo guardavo attraverso le persiane di casa i ragazzini del rione giocare in strada.

 

Alla fine rimasi da solo perché anche Marco si alzò per avvicinarsi al gruppetto delle ragazze, che chiocciavano eccitate dal testosterone emanato dai due tutor palestrati. Quel sedile vuoto ora era identico alla sedia del mio banco scolastico ... Beh, almeno riuscii a farmi prendere dal ritmo ipnotico di "Photografic" dei Depeche Mode. Guardando il monotono paesaggio autostradale, scivolai presto in una deliziosa morte apparente.

 

-   Sveglia! Si fa sosta per mangiare e poi dritti fino alla meta ...

 

Abbandonata l'autostrada del sole, ci fermammo in una trattoria nel casertano, dove ci aspettavano già da qualche ora per il pranzo. Il posto era proprio brutto ma a giudizio degli altri il cibo era ottimo. Io fino a quel giorno ero stato un vegetariano a fasi alterne, nel senso che molto dipendeva se a mia madre andava o no di cucinarmi cose diverse dalle sue. Al ristorante non avevo mai trovato il coraggio di dichiararmi tale e quella mi sembrò l'occasione giusta per affermare me stesso.

 

Il cameriere mi guardò sbigottito e temo che non comprendesse neanche bene cosa significava quel termine alieno. Ne nacque un piccolo caso con il cameriere che chiamò il padrone della trattoria che a sua volta fece arrivare addirittura il cuoco dalle cucine. Quando poi gli spiegai che anche il pesce rientra nel mondo animale e le uova sono dei feti, stavano quasi per mettersi a ridere.

Mirco e Zeno mi chiesero se anche i miei genitori fossero vegetariani, convinti forse che si trattasse del precetto di una sorta di setta religiosa, e quando risposi di no, ritennero necessaria una speciale autorizzazione per quella pratica che consideravano pericolosa per la salute.

 

Potevano certo impedirmi di ordinare insalata senza tonno e pasta condita solo con della margarina, ma non mi potevano costringere a nutrirmi di carcasse d'animali. Del resto non sarei morto saltando un pasto ...

L'autista allora chiamò mia madre, ma certamente lei si sentì sollevata dal fatto che si trattava solo di una questione di sedani e lattuga, piuttosto di quando, al tempo della prima comunione, si sentì accusare dal catechista di inculcarmi teorie blasfeme sulla vita di Gesù ...

 

Tuttavia, la mia originalità alimentare tenne banco per tutto il pranzo. Sì, ma non mi dispiaceva essere al centro dell'attenzione, specie perché le ragazze si mostrarono particolarmente interessate all'argomento, e tornati sull'autobus continuai a rispondere alle loro domande sulle insidie dei grassi idrogenati e le virtù "anti-age"degli antiossidanti.

 

L'aver monopolizzato l'interesse femminile indispettì presto il resto della ciurma.

 

-   E ma se non te piace il rosicarello ...

 

Inutile aspettarsi da quel troll di Giorgio un pensiero di senso compiuto ... Per "rosicarello" s'intende il nervetto della carne, lo stesso è assimilato nella metafora popolare capitolina al clitoride. Quella era una palese dichiarazione di guerra, mi aveva appena dato del finocchio. Avrei dovuto reagire in qualche modo ... dire o fare qualsiasi cosa ... ma c'era solo l'orgoglio che m'impediva di abbassare lo sguardo davanti a quel prepotente.

 

-   Ma che te litighi pure coi bambocci ... questo manco lo sa dove lo tiene il cazzo.

 

"Il cazzo" L'intero creato avrebbe perso ogni importanza, se privato di questa nostra appendice fisica. Nei discorsi, nel parlato o nella gestualità dei ragazzi, tutto ruotava intorno al batacchio che gli penzolava tra le cosce. Non c'era altro interesse dal mattino dell'alzabandiera alla pippa della buona notte.  

 

-   ... com'è lo sburro ebreo?

 

Mattia irruppe fisicamente tra me e Giorgio, saltandogli addosso e sfottendolo perché si stava bisticciando con un bamboccio come me.

 

Attirando l'attenzione delle ragazze, m'inserii involontariamente nelle dinamiche sociali del gruppo, finendo per urtare la sensibilità da gorilla capobranco di Giorgio.

Il consenso sessuale tra gli antropoidi era la cifra attraverso cui si stabilivano gli equilibri di casta sociale. Fino a quel giorno io mi ero sempre considerato alla stregua di Marco: un maschio "fuori casta"; cioè, uno di quei ragazzi asessuati con cui le femmine non si accoppierebbero mai.

La realtà è che non avevo coscienza della metamorfosi che mi stava cambiando l'aspetto fisico. Nella mia testa ero ancora quel ragazzino nerd dalle guanciotte a meletta che Giada si vergognava di frequentare pubblicamente.

Fu proprio con Giada che avevo trasgredito la regola fondamentale per essere considerato fuori casta: avevo conteso pubblicamente il suo affetto. Lidia lo sapeva e c’era da scommetterci che lo aveva già raccontato a tutti.

 

-   ... allora tu non sburri ...

 

Rapportarsi con le ragazze era sicuramente più semplice ... non perché loro fossero più buone o disponibili, piuttosto perché nel loro ordinamento sociale la figura del maschio fuori casta è tollerata. Lo usano come eunuco incensiere in quello spietato gioco di fighe e sfigate, determinato da quanto interesse maschile riescono ad attrarre su di sé.

 

In realtà ci rosicavo troppo a rimanere confinato in quel ruolo asessuato. Solo che la società maschile mi spaventava con le sue ruvidezze verbali e soprattutto fisiche. Se la sessualità delle femmine si manifestava nel come impacchettare meglio quanto avevano da mettere in mostra, quella dei maschi verteva tutta nel  manifestare le proprie spavalde capacità nel contendersi le virtù femminili. Insomma, era parecchio rischioso relazionarsi in un gruppo di maschi ...

Su quell'autobus, però, ero in un contesto completamente diverso. Io non dovevo farmi accettare dal gruppo, la situazione mi ci poneva già in mezzo, facendomi bypassare quello step iniziale che non ero mai stato in grado di compiere da solo.

 

-   ... ma lasciatelo sta, dai ... e tu però piantala di fare l'incazzoso …

 

L'intrusione di Giorgio e Mattia scatenò la scocciata reazione delle femmine, determinando a loro volta le rimostranze assai sboccate dei due maschi. Il risultato fu che le piccioncine volarono via su un altro cornicione dell'autobus, lasciandomi solo con i due galli. Che cosa volessero da me, non riuscivo proprio a immaginarlo.

 

Mattia si fece cadere sul sedile accanto al mio, mentre Giorgio chiamò il resto della ciurma che si assiepò tutta intorno. Sostanzialmente volevano che m'identificassi. I miei comportamenti non erano codificabili nel loro modo di rapportarsi. Ero un po' come uno straniero proveniente da qualche altra cultura, tant'è che la prima domanda fu proprio se fossi italiano.

Ovviamente mi conoscevano tutti di vista, ma nessuno sapeva che Primo era mio padre o pseudo tale. Mia madre, per esempio, al circolo non ci aveva mai messo piede; al contrario delle altre dame che facevano di quel luogo il volano della loro vita sociale. Mi avevano visto sempre e solo in compagnia di Vanni, che scoprii essere antipatico a tutti.

Io non ero abituato a essere oggetto di tanto interesse e reagivo come se uno stormo di corvi mi stesse beccando nell'intimità. Ero evasivo nelle risposte anche perché spesso si trattava di domande che non mi ero mai posto. Crescere insieme con altri ragazzini determina una condivisione di esperienze, il cui insieme forma un bagaglio formativo comune che io non potevo avere.

 

-   Sono ebreo ...

 

Assecondare il più possibile le loro intuizioni mi sembrò la cosa più facile da fare. Infatti, quando dissi loro di essere ebreo, ci fu una sorta di esclamazione del tipo "ecco vedi che c'era una ragione". Quella "ragione" mi piacque parecchio: ero diverso da loro perché mio padre era ebreo. Era la prima volta che riuscivo a dare a questa realtà un senso positivo.

 

Ogni domanda o considerazione faceva partire una discussione separata che si evolveva contemporaneamente ad altre che nascevano e morivano come meteore, ma facendo tutte una gran gazzarra prima di estinguersi. Tanto che alla fine a parlare con me ci rimase solo Mattia e Carmelo.

 

-   ... com'è lo sburro ebreo?

 

Mattia e Carmelo erano come me e Vanni, almeno fin quando durò la nostra amicizia. Loro si erano incontrati alle scuole medie, da allora avevano condiviso tutti gli interessi.

Carmelo era timido e quindi più riservato, rimaneva in silenzio mentre Mattia era così logorroico, che a volte rispondeva da sé alle proprie domande. Parlava, parlava e parlava ... squittendo di tanto in tanto una risatina finta, quando faceva pungere il suo sarcasmo importuno.

 

-   ... allora tu non sburri ...

 

Ascoltare Mattia era come mettere l'audio diretto alla sua sinapsi esagitata ... e perversa. Mi chiese com'era lo sburro ebreo! Questo dopo aver calato tuta e slip per mostrarmi che era circonciso, anche se lui non era mica ebreo ... Tutti trovavano esilarante la sua sfacciata mancanza di filtri, a me lasciava semplicemente esterrefatto. Dopo aver contemplato le sue pudende, mi rimase difficile afferrare la declinazione di "sborra" in "sburro". Pensai a del burro che non associai allo sperma e rimasi confuso senza capire che volesse intendere.

Risposi di sì quando Carmelo mi chiese malignamente se allora io non "sburravo". Ci stavo facendo proprio la figura del pivellino. Avrei voluto dirglielo sul muso a quegli illustri maestri di pugnette, che probabilmente lì in mezzo ero l'unico che aveva già avuto rapporti sessuali.

 

-   ... ma lasciatelo sta, dai ... e tu però piantala di fare l'incazzoso …

 

 Il mio presunto "non sburro" catalizzò immediatamente l'attenzione di tutta la ciurma. Gli sfottò si sprecarono, per non parlare di certi dettagli fisiologici sapientemente descritti, che tutti sapevano fare dello sburro altrui ...

Sì, c'ero rimasto male e soprattutto era colpa mia che avevo commesso quell'imperdonabile gaffe. In ogni modo, parlare di certe cose con quell'ostentata famigliarità m'intimidiva. Per me le mutande erano qualcosa di estremamente privato, tra quei ragazzi, invece, c'era proprio il gusto di traviare quell'intimità. Era un sacrilegio da consumare in una sorta di goliardica liturgia dei più osceni termini possibili.

Fu proprio Mattia a far rientrare quell'orgia dialettica che si era scatenata intorno allo sberleffo di Carmelo. Probabile che lesse il disappunto sul banner che al solito mi si accese in fronte, e quindi disse di lasciarmi stare, sottolineando però che dovevo piantarla di fare "l'incazzoso".

 

Insomma, arrivammo al camping a pomeriggio inoltrato, impiegando quasi otto ore per compiere neanche duecento chilometri ... una perfetta media "romana". Comunque fu un viaggio interessante e, specie nella parte finale, volò via in un baleno. Tutto sommato scesi da quel torpedone assai meno preoccupato di quando ci salii sopra.

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  • 4 weeks later...
Silverselfer

Floppy 04/36

 

 

Quel pomeriggio il carro di Apollo sembrava essere trainato da lumache. La noia ci soffocava più dell'arsura pomeridiana. La voglia di correre ci rallentava le giornate. Il futuro era la leggenda che avrebbe parlato di noi e non poteva certo sgocciolare in quei giorni apparentemente così ordinari.

 

La sistemazione nel lussuoso camping finì per somigliare all'organizzazione del viaggio in torpedone, solo che quello era stato in pieno stile romanesco, mentre l'altro fu decisamente più di gusto partenopeo. Nel senso che c'erano stati promessi degli alloggi nei miniappartamenti che risultarono essere appena la metà di quanti ne sarebbero serviti per ospitarci tutti. "... E mettemm' ca brandina e checcevò". I posti letto bastavano appena per la rappresentanza femminile, che non si fece certo ripetere due volte l'offerta cavalleresca di prendere loro la comoda sistemazione nel residence. A noi virili maschi spettò un'ex stalla ristrutturata ... beh, diciamo che almeno le bufale non c'erano più da pezzo. Ci sistemammo in due file di brande da campeggio a ridosso delle pareti, mentre le nostre cose le sistemammo in degli armadietti di fortuna, cioè in qualunque cosa avesse uno sportello o un coperchio.

 

Questa stalla si trovava all'estremo confine del grandissimo campeggio, proprio accanto a un canale di cemento armato, sul cui fondo scorreva un rivolo di acqua scura. Il luogo era infestato da tafani giganti e la sera bisognava ricoverarsi al sicuro dietro le zanzariere. Soprattutto, codesto luogo era privo di servizi igienici ... gli avrei dato fuoco a quel “Uè Uè” che fece pure dell'ironia sul fatto che tanto noi maschietti avremmo piasciato comunque per terra.

 

Quella notte non chiusi occhio. Verso una certa ora vidi Marco accostare la sua branda alla mia, anche se mi domandai il perché di quella manovra, preferii fingere di dormire.

Non avevo con me né orologi né sveglie, così appena vidi il cielo rischiarare decisi che era ora di alzarsi.

 

-          “Scusa … non volevo scocciarti … scusa …”

 

Mi disse Marco, quando si accorse che mi stavo alzando. Per quanto mi riguardava, poteva pure rimanere dov'era, ma spinse via la sua brandina e con gli occhi ancora chiusi, zampettando in mutande, si rinfilò sotto le lenzuola ... strano ragazzo ...

 

La camerata ronfava della grossa, nessuno si accorse quando uscii con il necessaire da viaggio alla ricerca del cesso. Il campeggio era percorso da comodissime strade asfaltate a doppia corsia, ma per ragioni che non saprei spiegare, io preferii infrattarmi in dei sentieri che si dipanavano per una fitta macchia mediterranea, tra tende e parcheggi dei camper; dove ovviamente non trovai cartelli che m'indicassero la direzione dei bagni comuni.

 

Ma certo che li trovai quei maledetti cessi. Bagni comodi, eh! Puliti e con box docce ampi e tutti con porte che si aprivano e richiudevano ... no, no ... valsero bene la fatica di avere sfrattato mezzo camping col machete in pugno. Così, dopo una rilassante e meditativa seduta su una linda tazza del cesso, mi feci una gran bella doccia e quindi mi preparai in totale e completa intimità.

 

Uscii dai bagni avendo ritrovato il buon umore. Annusando l'aria tiepida del mattino farcita di resina di pino e insaporita dallo iodio, sentii forte il richiamo della spiaggia ...

 

Gli accessi alla spiaggia erano tutti coperti da alte siepi che formavano barriere naturali contro la sabbia trasportata dal vento, ma per chi come me non conosceva i varchi, era come muoversi in un fottuto labirinto. Rimasi senza fiato, quando finalmente superata l’ultima siepe, mi ritrovai in mezzo ad una distesa di gabbiani che dormiva con la testa nascosta sotto un’ala. Il loro piumaggio immacolato risplendeva della luce di un mattino ancora senza sole. Evidentemente si trattava di gabbiani “partenopeus uè uè” e col cavolo ebbero paura di me, se ne rimasero sfacciatamente su una zampa e mi costrinsero a fare una lunga gincana per raggiungere la battigia.

Mi sedetti ad aspettare l’aurora, ma i gabbiani poco a poco si alzarono in volo prendendo il vento con le ali come fossero tanti aquiloni, e non mi ricordai che il sole sorge a oriente ed io stavo guardando l'orizzonte dell'occidente, così rimasi a fissare il nulla fin oltre le sette del mattino.

 

Tornai alla nostra stalla con ancora negli occhi l'incanto appena vissuto. Tuttavia, lì trovai un tale subbuglio con tutti i villeggianti assiepati contro la staccionata che dava sugli argini di cemento del canale. Mi avvicinai e intorno a me ascoltavo opinioni veramente allarmate, parlavano di un ragazzino e sabbie mobili e qualcuno si scandalizzava per il ritardo dei soccorsi.

 

Zeno si era coraggiosamente calato con una fune e stava imprudentemente sondando a braccia nude il fondo limaccioso di quella fogna a cielo aperto. In quel momento mi sembrò chiaro che a cadere nel canale era stato uno della nostra comitiva. Vidi il testone giallo di Marco e mi feci largo tra i curiosi ammassati sulle palizzate per raggiungerlo. Bussai alla sua spalla. Lui si voltò guardandomi come se avesse davanti uno spettro e quindi corse via. Si scatenò poi una bagarre che mi lasciò disorientato.

 

Improvvisamente mi sentii sollevare per i capelli. Mirco lasciò la presa solo dopo che gli rifilai un calcio negli stinchi. Però mi riafferrò subito per un orecchio facendomi ancora più male.

Quando sopraggiunse anche Zeno temetti il peggio. Iniziò a inveire contro ogni santo del calendario, ma si capiva che era solo spaventato e la paura doveva avere del tempo per defluire dal suo sistema nervoso. Alla fine si accoccolò sulle ginocchia con la testa tra le mani, quasi a cercare un attimo d’intimità per realizzare che tutto era finito bene.

 

Mirco mi lasciò per andare verso di lui e rassicurarlo. Il paraculo però si preoccupava solo che tra qualche ora sarebbe arrivato lo staff tecnico del circolo e dovevano far sembrare che tutto filava per il meglio. Si vedeva che per Zeno le cose stavano in modo diverso e non era disposto a farla passare liscia a un testa di cazzo di ragazzino viziato, che per chissà quale motivo lo aveva costretto a ravanare nella merda di quel canale.

Zeno, non ancora del tutto lucido, mi piombò addosso. Su quella testa pelata si erano gonfiate una miriade di venuzze che si diramavano e pulsavano minacciosamente. Per fortuna non mi voleva spaccare la faccia.

 

-          Dove “ca-zzo” sei stato?

 

L’apprensione di quel giovane uomo mi commosse. Avrei voluto dargli una pacca sulla spalla e rassicurarlo, ma non era questo che si aspettava da me.

 

-          Sono andato a vedere il mare...

 

Sì, il mare, i gabbiani e poi l’aurora. Ero stato uno stupido a non capire che la spiaggia era rivolta a ovest, così ho aspettato troppo e non mi sono reso conto che qualcuno si sarebbe potuto preoccupare. Non riuscii a dirgli tutto questo, al solito le parole s’impicciarono alla lingua e poi c’era Mirco che m'interrompeva continuamente con le sue frasette di circostanza. Alla fine mi arresi e aprendo le braccia gli chiesi semplicemente scusa.

 

-          Mi creda! Non volevo creare un tale scompiglio. E la ringrazio di essersi preso tanta pena per me. Davvero, le sarò riconoscente tutta la vita per questo.

 

Zeno, ormai rinsavito, gettò uno sguardo per aria e dopo un grosso sospiro, mi guardò quasi divertito.

 

-          Sua maestà, visto che è abituata a sbrandare presto, da domani e per il resto dell’estate verrà con me a correre tutte le mattine… d’accordo?

-          Oh, Grazie! Io adoro correre.

 

Beh, che c’era di strano? Era vero. Io adoravo correre sulla battigia il mattino presto. Non volevo certo fare dell’ironia.

 

 

Seconda parte

 

 

Io non sono mai stato una persona irrequieta e tantomeno scavezzacollo, facevo semplicemente quello che pensavo.

 

-          Mi scusi ...

 

Io dormo poco. Ho sempre dormito poco, specie quando avevo qualcosa da fare al mattino, e quella mattina dovevo andare a correre con Zeno.

 

-          Dorme ancora?

 

Mi svegliai di nuovo con Marco che aveva accostato la sua branda alla mia ... non che mi desse fastidio, ma trovavo comunque inopportuno il suo "attaccamento".

 

-          Che c’è?

 

Misi con calma la tuta cerata e le scarpette da footing ma Zeno continuava a ronfare nella sua brandina. Si erano fatte ormai le sei e se ci attardavamo, avremmo dovuto correre sotto il sole. Alle sei e mezzo decisi di svegliarlo "discretamente".

 

-          Fuori è già giorno, non crede che sarebbe il caso di andare. Non vorrà correre sotto il sol leone.

-          Ma che ore sono?

-          Le sette.

 

No! Non avevo propriamente mentito. Avevo solo calcolato che dovessimo andare prima in bagno; invece, Zeno si alzò, si diede una stiracchiata e, appena usciti, pisciò dietro un cespuglio ... quindi corremmo verso il bar.

 

-          Aoh!  A Mimmo. Perché quell'orologio sul muro segna ancora un quarto alle sette?

 

No, mi ricordo perfettamente che segnava le sette meno venti …

 

-          Appunto ... mi hai svegliato alle cinque come minimo!

 

Suvvia, saranno state le sei mezzo … sei e venticinque al massimo …

 

-          Però mi hai detto che erano le sette.

-          Beh, pensavo che prima di andare si desse almeno una lavata ai denti e si facessero le sette.

-          Mi scusi maestà, ma i denti me li sono lavati ieri sera.

-          Non lo sa che il fegato deposita le sue tossine sulla lingua durante le ore della notte, e adesso lei se le ingoierà di nuovo facendo colazione.

-          E ma a me piace fare colazione inzuppando le mie tossine nel cappuccino. Peccato perché avevo intenzione di offrirti la colazione ma...

 

Figurarsi se volevo fare colazione con caffèlatte! E’ da quando eravamo entrati in quel bar che trattenevo il respiro per non sentire la puzza del caffè.

 

-          L'istruttore ci fa mangiare solo dopo l'allenamento. Lo sa che sotto sforzo il corpo ha difficoltà a far affluire il sangue all’apparato digerente. Lo sa che potrebbe andare incontro a un brutto mal di stomaco? Lo sa ...

 

Mia sorella Angela sosteneva che nelle discussioni volevo sempre averla vinta, ma non era così, io stavo semplicemente dalla parte del buonsenso. Comunque Zeno mi zittì dicendomi chiaramente che se non la piantavo, gli avrei fatto venire io un gran brutto mal di pancia. Quindi chiusi il becco perché usò un tono di voce decisamente convincente.

 

Corremmo fino al pontile costruito sulla foce del canale artificiale. Saliti sui frangiflutti, facemmo un po’ di stretching. Si stava proprio bene e ci sedemmo sugli scogli di cemento, peccato alla brezza che mi stava gelando il sudore addosso, così sollecitai Zeno a tornare indietro.

 

-          Non solleciti un bel niente ... ma si può sapere dove cazzo devi andare?

 

Mi chiese spazientito Zeno, che non ne poteva più delle mie "osservazioni".

 

-          Questa brezza mi sta gelando il sudore addosso.

-          E lo credo! Mancava solo che ti mettessi il cappotto.

-          Bisogna sudare per spurgare il sistema linfatico, è basilare per una buona…

-          Aoh! Non ti ho mica chiesto una lezione di biologia. Stiamo al mare, cazzo! Non ti piace sentire il vento sulla pelle?

-          Mi piace di meno prendermi un torcicollo.

-          Aah, ma va … Vattene, tanto quelli come te è meglio lasciarli perdere.

 

Chi erano quelli come me? Tornai a sedermi accanto a lui per andare a fondo alla questione.

 

-          Chi sono quelli come me?

 

Gli chiesi lasciandolo un po’ perplesso. Lui ci pensò prima di snocciolare la sua profonda meditazione.

 

-          Damerini, mister perfettini, signor so tutto io e tu non conti un cazzo, gran rompiballe. Goditi la vita, cazzo! Ti sei appena fatto un chilometro di corsa tirando come un cavallo e ora riprendi fiato. Respira. Senti quest'aria fresca è… è fantastica.

-          Sfido io. E’ nelle ore del mattino che c’è più iodio nell’aria.

-          Ecco, adesso ricominci.

-          Beh, però se non l’avessi svegliata, ora non troverebbe quest’aria altrettanto buona.

-          E va bene. Hai ragione. Contento? Ma a che serve esserci svegliati presto se ora non ce lo godiamo lo iodio? Andiamo va, che tanto sei un caso disperato.

 

Il guru della Garbatella si alzò e prese a correre senza curarsi di me. C’ero rimasto male, sia per quello che mi aveva detto, sia per il fatto che mi aveva piantato lì come uno stronzo ...

 

Decisi di dargli una lezione e lo rincorsi. Io non avevo scatto, ma sulla lunga distanza sapevo tenere un ritmo logorante e lui, invece, correva d’istinto senza parcellizzare il fiato. Io correvo sulla battigia soffice, ma abbastanza solida da rendere la presa dei miei passi più efficace. Lui preferiva sentire l’acqua sui piedi, però lì la sabbia franava appesantendo la corsa. Lo sentivo respirare affannato e dopo cinquecento metri non compensava più bene. Io invece ero un metronomo: uno, due, tre, inspirare, uno, due, tre, espirare.  

 

Approssimandoci al chilometro, iniziò a correre scomposto, ero certo che il cappuccino stava cominciando a fargli fare dei gran rutti acidi. La cosa che non capivo era perché ancora non mollava? Certo era più alto di me, ma ormai il suo passo si era fatto breve e contratto, mentre io mantenevo una buona falcata. Eppure spingeva, spingeva ancora. Era come per quelle stramaledette gare di canottaggio, io non sbagliavo niente, ma vincevano sempre gli altri. Mi sentivo il cuore rimbalzare in gola e quando arrivammo alla nostra caletta, caddi a terra ingollando aria disperatamente. Anche lui era ansante, e piegato si teneva lo stomaco irrigidito dallo sforzo, ma ebbe ancora la forza di spirito di venirmi incontro e facendomi il gesto dell’ombrello mi disse:

 

-          Tiè, ti ho fregato piccolo bastardo.

 

Che modi! Avrei voluto chiedergli in quale galera gli avessero dato il patentino per badare a dei minorenni, ma non ce la facevo manco a respirare figurasi rispondergli per le rime.

 

Raggiunsi la stalla con le gambe molli, temendo di cadere da un momento all’altro. Dormivano ancora tutti. Zeno non c’era, era andato direttamente a fare la doccia. Presi il necessaire da viaggio e appena entrai nei bagni riconobbi subito l'odore di acido gastrico. Zeno aveva sicuramente vomitato e gongolai per quella mia piccola rivalsa. Lui stava sotto la doccia, meglio perché temevo mi spernacchiasse di nuovo. Mi lavai con comodo, ma quando finii, lui era ancora sotto l’acqua, immobile con le mani appoggiate alle maioliche. Il modo migliore per beccarsi una verruca, pensai, mentre mi lavavo il viso con l’antisettico per i brufoli che non ho mai avuto.  Mi stavo pettinando quando lo vidi davanti ad un lavandino ancora nudo. Io ero impeccabile con i miei bermuda e la T-shirt dal logo prestigioso in bella vista. Stavo per andarmene, quando mi chiamò.

 

-          Aoh, n’do vai. Guarda che mi devi una colazione.

 

Ma come! Aveva appena vomitato e già pensava a mangiare di nuovo?

 

-          A bello, il sottoscritto va a mangiare proprio perché ha appena vomitato e gli è tornata fame.

 

Io non mi ricordavo di aver scommesso la colazione, ma solo ad azzardare un’obiezione, mi avrebbe dato pure dello “spilorcio del cazzo”. Lui fece presto a prepararsi, si rinfilò il costume e con il “mio” telo sì diede un’asciugata approssimativa. Passammo prima alla stalla, dove io riposi con cura le mie cose e lui diede una strigliata a tutti, intimandogli che al ritorno li voleva trovare in pantaloncini pronti per la ginnastica.

Al bar ci sedemmo comodamente a un tavolo. Lui prese un altro cappuccino con una brioche piena di crema, io un tè senza zucchero e tanto limone.

 

-          Allora vediamo. Stai a dieta o hai la cacarella?

 

Mi disse mentre masticava un boccone di brioche alla crema inzuppato al caffèlatte. Io non risposi perché stavo a dieta permanente e soffrivo di colite emotiva.

 

-          Cos’è? Sei incazzato perché ti ho battuto o perché devi pagarmi la colazione?

-          Lei mi ha battuto perché è più grande e grosso. Solo per questo.

-          Allora ti rode! Mi fa piacere, almeno in qualcosa sei umano.

 

Mi sembrava il capitano Kirk quando rintuzzava Spock in Star Track, inutile dire che io ho sempre parteggiato per il dottor Spock.

 

-          Io non vinco mai. Faccio tutto bene ma poi vincono sempre gli altri.

-          Succede perché tu non ci metti il cuore. Senza quello non vai da nessuna parte.

-          Ah, sì! E io che credevo ci volesse più massa muscolare.

-          E tu credi di fartela venire bevendo tè al limone ... senza zucchero? Avere cuore significa avere piacere di vivere. Io ho corso e ora mi godo il maritozzo con la crema. E’ buono sai? Lo mastico che è una delizia, lo mastico e lo ingoio come se stessi baciando una bella donna. Questo mi dà piacere, e il mio corpo lo assorbe trasformandolo in forza. Così quando sto correndo, e mi piace correre, godo di nuovo nel bruciarne le calorie. E quando un cazzone come te cercherà di suonarmele, io chiederò al mio cuore di spingermi qualche passo più in là per fregarlo.

 

Il guru della Garbatella mi stava dando un altro saggio di filosofia di borgata? Dovevo ammetterlo: C'era una certa logica in quello che diceva.

 

-          Allora? Ti vado a prendere un maritozzo alla crema?

-          No grazie.

 

Accidenti! Non volevo offenderlo, era solo che quella crema mi avrebbe fatto stare in bagno tutto il giorno se ...

 

-          Senza crema, il maritozzo lo voglio senza crema.

 

Gli dissi svelto, perché già aveva fatto la stessa faccia di prima al molo.

 

Tornati indietro, Zeno non ebbe pietà di me e mi fece fare venti minuti di corsa insieme agli altri, quindi esercizi a terra e tutto il resto, poi per fortuna la piscina non ce la fecero usare per la partitella perché era già stata aperta al pubblico. Meno male! Ero semplicemente a pezzi e quello stronzo ebbe pure la faccia tosta di venirmi a dire: "A Mimmo, mo stamo pari".

 

 

 

Terza parte

 

 

 

La brezza del mattino giungeva in un fruscio di lenzuola. Nella stalla i vitelli si agitavano in sogni tormentati dalla tempesta ormonale tipica dell'età. Avevamo gonadi gonfie come mammelle di vacca che pretendevano di essere munte spesso e volentieri. I più scafati non si facevano remore nel dimostrare il loro bisogno, anzi, lo condividevano goliardicamente. Tuttavia, era un gesto intimo che ognuno preferiva consumare in compagnia di se stesso o, comunque, in confidenza.

 

La convivenza forzata rendeva la privacy inesistente. Io soffrivo parecchio e se mi ammazzavo di fatica negli allenamenti, era anche per tenere lontano questa necessità. Dopo la prima settimana, però, arrivarono le fastidiose polluzioni notturne. Fu solo per questo che mi arrischiai a usare anch'io lo "sboratoio"; cioè, i bagni. Un'operazione che comunque per me rimaneva sempre assai complicata.

 

La mattina continuavo a fare footing con Zeno, mi piaceva e dopotutto si risolveva con una colazione al bar e dieci minuti di corsetta sulla spiaggia. Il guru della Garbatella aveva sempre da raccontarmi qualcosa e a me piaceva starlo ad ascoltare, solo che tale confidenza si rivelò un'ulteriore incombenza. Per tutto il giorno Zeno, ma anche Mirco e poi persino il nostro Mister per non dire di ogni altro dello staff tecnico, usavano affidarmi compiti di fiducia. Tutti mi chiamavano con la stessa familiarità che usava Zeno: Mimmo per favore ... Mimmo ti dispiacerebbe ... Mimmo pensaci tu ... Dov'è Mimmo? Qualcuno ha visto Mimmo? Mimmo un cazzo! Se mi appartavo solo cinque minuti, sentivo qualcuno che mi chiamava e c'era da scommetterci che aveva qualche compito da affidarmi.

 

Sì, è vero che me l'ero cercata. Per tutta la vita mi era stato insegnato a guadagnarmi la fiducia di chi comanda, per essere delegato poi di qualche autorità. Io non lo facevo per darmi delle arie, piuttosto per gestire "il potere" in modo magnanimo, di modo che i compagni mi trattassero con rispetto. La situazione però divenne insostenibile e appunto, non avevo neanche cinque minuti per rimanere solo a farmi una sega.

 

Tecnicamente c'erano solo le docce, dove potevo trattenermi con "giusta causa" dietro a una porta chiusa. Tuttavia, quel luogo era fin troppo ambito per masturbarsi e appena si udiva l'acqua scorrere un minuto più del necessario, partivano gli sfottò. Mattia era il peggiore. Quel matto ti faceva i versi dietro la porta e tutti giù a ridere, togliendoti la concentrazione necessaria per avere un orgasmo come Dio comanda ...

 

Non mi accorgevo che per gli altri quello non era solo un bisogno fisiologico. Io credevo che per ovviare all'impellente spremitura delle gonadi bastasse una o più manovelle al giorno, proporzionalmente al chiodo fisso che ti si piantava nella testa. Non pensavo che quel continuo scherzarci sopra, quel parlare solo e sempre di figa e di come se la sarebbero sbattuta, nascondesse un altro tipo di bisogno, cioè la condivisione dello stesso.

 

-   ... tu non hai paura di morire?

 

Alla fine glielo domandai. Marco continuava ad accostare la sua branda alla mia, togliendomi così anche quell'estremo lembo di privacy in cui potevo provare a lucidarmi il piffero. Fu per questo che una notte mi voltai dalla sua parte e gli domandai il motivo di quel suo gesto.

 

-   ... quando dormi che ne sai se poi non ti risvegli?

 

Lui tentò di scusarsi e si sbrigò ad allontanare la brandina come il solito, ma io a quel punto pretesi una risposta. Fu così che dopo qualche istante di silenzio, mi sussurrò le sue ragioni. Disse che aveva paura di addormentarsi e non risvegliarsi più. Dormire accanto a una persona lo rassicurava perché ne sentiva la presenza anche al buio, attraverso il calore e all'odore stesso del corpo.

Trovai plausibile il suo timore, ma quando mi chiese se avessi anch'io paura di morire, gli risposi di no. Lui tacque ed io mi stupii di quella risposta sgorgata sincera e schietta senza alcun tentennamento.

La sera dopo Marco non accostò la sua branda alla mia. Non so se mi dispiacque, però mi sentii in un certo senso rifiutato. Lo avevo spaventato? Avevo in qualche modo offeso la sua sensibilità? Chi se ne frega, poteva pure andare all'inferno per quanto me ne importava.

 

Fu verso le cinque del mattino che Marfori Luca, ala destra della squadra e brandina a sinistra della mia ... accostò il suo lettino. Che avesse anche lui paura del buio? No, ero io il solito tardo di comprendonio e non mi ero accorto del traffico di brande che c'era in giro per la stalla.

Marfori aveva qualche anno più di me. Aveva in sé la serenità dell'idiota. Eravamo amici solo in piscina perché stavo nella sua squadra durante le partitelle di allenamento. Per il resto avevamo il cervello sintonizzato su due lunghezze d'onda diverse ... e non c'era verso di giustificare la confidenza di accostare la sua branda alla mia. Compresi cosa stesse succedendo, quando si distese supino e iniziò a toccarsi ... mi voltai istintivamente verso Marco e lo sorpresi a sbirciare ... altro che paura di morire, lo stronzetto per tutte quelle sere aveva aspettato che iniziassi a toccarmi come stava facendo Marfori.

 

A quel punto non sapevo cosa fare. Dovevo allungare la mano o se lo avessi fatto, mi avrebbe deriso dandomi del frocio? Era un gran dilemma. Mi domandai perché Marco aveva aspettato per tutte quelle sere che fossi io il primo a toccarmi, era chiaro che temesse una mia reazione violenta ... allora chi mi garantiva che non avesse fatto lo stesso Marfori? Che stupido! Certo che se non voleva che allungassi la mano, se ne sarebbe rimasto dov'era.

 

-   Aspetta ...

 

Mi sussurrò con un filo di voce di pazientare un attimo. Quando lo ebbe duro, lo fece scivolare dentro a un calzino di spugna, quindi fu lui che mi prese per il polso e adagiò la mia amano sul suo cazzo. Quella pratica era nota come "la Manola" ... la mano che ti consola. Era una pratica molto diffusa, anche se nessuno si vantava di praticarla; anzi, era motivo di scherno e i ragazzini stessi che si sceglievano in silenzio per farsela, subito dopo fingevano che nulla fosse accaduto ed evitavano assolutamente di parlarne con chicchessia.

 

-   ... non stringere troppo ... mi fa male così ... più lento, più lento!

 

A me pareva una stronzata. Stringere quel calzettone di spugna puzzolente non era per niente eccitante. Per sentire il suo cazzo duro dovevo stringere forte, ma lui si lamentava ... allora cercavo di dargli più piacere coinvolgendolo come avevo sempre fatto con Marcello, ma anche allora Marfori aveva da ridire. Ne dedussi che anche per la Manola bisognava che ci fosse qualche compatibilità caratteriale, perché quel coglione mi fece perdere la pazienza e lo vaffanculai invitandolo a tornarsene da dov'era venuto.

 

-   No, dai che cominciavi a imparare ... avvicinati pure tu dai ... dai ...

 

Io ... imparare? Mi credeva forse un pivellino? Si mise a piagnucolare per convincermi a continuare. Sarei un ipocrita se dicessi che anch'io non avessi avuto una gran voglia che mi pulsava nelle mutande, così quando m'invitò ad accostarmi al bordo della brandina, accolsi volentieri l'invito. Sentii la sua mano pesante che tentava di essere lieve, sfiorami il pacco. Lui sghignazzò sussurrando che "mado' se stai bello carico". Da cosa lo deducesse non lo sapevo, ma aveva sicuramente ragione.

Quello che mi stupì è che lui non aspettò mica che lo mettessi nel calzettone; no, infilò direttamente la mano sotto l'elastico e iniziò a ravanare nel mio slippino. Al che, gli sfilai anch'io quell'affare dal cazzo e andò subito meglio quando iniziai a manovrare sentendo la sua carne calda nel palmo della mano.

 

Sì, non mi era mai piaciuto che mi toccasse neanche Marcello e pure Pino ci aveva provato a farlo, ma io lo avevo sempre fermato prima. Normalmente trovavo fastidioso affidarmi alle cure di qualcun altro, specie poi se era maldestro come Marfori. Provai pure a tirarlo via dalle mie mutande, ma evidentemente era entrato nel trip orgiastico e mi chiedeva addirittura di sporcarlo con la mia sborra …

 

La situazione mi era "sfuggita di mano". Forse fu colpa mia che lo sollecitai troppo, non lo so. Lui però prima si coricò accanto a me e poi tentò di abbracciarmi, promettendo che poi avrebbe permesso anche a me di farlo. Ma fare cosa? Voleva stringermi sotto di lui e premermi con le sue natiche fino a venirmi addosso. Non se ne parlava proprio. Lo respinsi, ma Luca era più robusto di me e non voleva proprio capire. Mi mancò il respiro a sentirmelo sopra e reagii andando nel panico. Lo spinsi con tutte le forze facendolo rovinare a terra, cappottandolo insieme alla sua branda.

 

La mattina seguente nessuno parve essersi accorto di nulla, neanche Marfori che prese a comportarsi in modo alquanto originale. Si rivolgeva a me con una confidenza particolare. Per esempio, mi veniva ad avvertire quando si accingeva a fare qualcosa, del tipo "io vado al bar con tizio" o "torno tra cinque minuti ... " e chi se ne frega, mi veniva di rispondergli.

 

-   ... magari pensa che dopo esservi lustrati il piffero a vicenda, siate diventati amici; sai, roba tipo affezionarsi o stare particolarmente bene con qualcuno ...

 

Chiesi un parere a Marco, tanto era inutile che facesse il finto tonto, ero certo che si era accorto di tutto. Lui mi rispose con il suo solito sarcasmo. Mi parve addirittura che prendesse le parti di quello sozzone di Marfori, al che gli proposi di scambiarci di branda. Lui accettò con fare di sfida, che tanto Marfori a lui non si sarebbe di certo accostato. Che cosa voleva intendere quel damerino puzza fiato?! E soprattutto, perché Marfori Luca non ci provò nemmeno ad accostare la sua branda a quella di Dionisi Marcantonio? Questi umanoidi più li conoscevo e meno li capivo ...

 

 

Quarta parte

 

 

Chi ero Io? Perché non mi riusciva naturale vivere istintivamente come facevano tutti gli altri? Insomma, perché mi ritrovavo a cinguettare sforzandomi sempre d'imitare il verso di qualche altra razza? Qual era il verso che mi avrebbe fatto comunicare istintivamente con quelli della mia specie? E chi erano quelli della mia specie?

 

-   ... a te piace sentirti speciale ...

 

Marfori Luca la prese come un'offesa personale quella di aver ceduto la mia branda a Marco. Chiese addirittura al Mister di cambiare squadra durante la partitella di allenamento. Fu così che mi ritrovai a giocare con Agostinelli Carmelo. Lui fece un sacco di storie perché voleva restare nella squadra con Mattia e soprattutto non voleva giocare contro quel pezzo di merda di Giorgio, che ci godeva a farti i lividi. Tuttavia, non poteva sapere le ragioni per cui Marfori aveva chiesto di cambiare campo di gioco ... allora perché mi guardava in cagnesco? Ah, già! Il Mister lo delegò di tutte le incombenze che aveva affidato a Marfori, compresa quella d’insegnarmi a servire sull'ala sinistra ...

 

Chi era Carmelo Agostinelli?

 

Carmelo era qualcosa che mi prendeva nella pancia. Avevo paura anche solo di guardarlo perché continuavo a raccontarmi che non era così. Magari mi sarebbe piaciuto diventare suo amico, conoscerlo ... del resto io amavo indubbiamente le ragazze, quindi doveva per forza trattarsi dell'effetto di qualche frustrazione per non essere mai stato capace di coltivare uno straccio di amicizia ... Sì, vabbe' ...

 

Carmelo aveva degli occhi viola irresistibili, rimarcati da una pigmentazione assolutamente strana per un italiano. Oddio, lui era siciliano di origine, era probabile che portasse nelle vene una qualche eredità tuareg dalla dominazione moresca dell’isola. Fatto sta che quegli occhi li trovavo troppo, troppo, troppo, troppo ... troppo.
Io non mi spiegavo proprio come una donna dinanzi a uno sguardo così non rimanesse preda di orgasmi multipli. Invece, le ragazze lo snobbavano dandogli del nanetto montato. Certo non era proprio altissimo e tantomeno si ritrovava un buon carattere, pronto com'era sempre a risponderti con cattiveria, specie poi se si trattava di rintuzzare l'impertinenza di qualche femmina. Carmelo era soprattutto innamorato del proprio corpo, forse era questo che dava maggiormente fastidio alle ragazze.

Fisicamente era ben proporzionato. La cosa che mi attraeva di più erano i suoi pettorali. Aveva una cassa toracica esagerata che, forse a causa della statura, sovrastava una circonferenza vita da calabrone. Aveva un bacino piccolissimo con degli addominali che si torcevano come su una colonna gotica a sostenere quel capitello cesellato da supereroe della Marvel.

Le estremità del corpo, invece, tradivano la sua statura. I piedi e le mani erano piccoli, quest’ultime specialmente facevano anche un po’ impressione, sembravano quelle di un bambino. La testa, al contrario, era leggermente grande per le proporzioni del corpo. Carmelo poi portava i capelli rasati sui lati e usava pettinarseli dritti in testa, accentuando la forma rettangolare del cranio.

 

-   ... sei solo un nano che si dà arie da gigante ...

 

L'atmosfera che c'era in squadra era comunque amicale e alla fine prevaleva sempre lo spirito cameratesco. Carmelo accettò il ruolo che era di Marfori, anche nell'aspetto di mio mentore, nonostante questo lo costringesse a fermarsi in piscina dopo l'allenamento. Certo che glielo aveva chiesto il Mister, quindi era difficile rifiutare, ma poteva sempre dire sì e poi nei fatti mollarmi in acqua cinque minuti dopo; invece prese molto sul serio il suo ruolo e mi spiegò tutte le furbizie che si usano in gara ed era anche simpatico!

 

Io che ero notoriamente parecchio riservato e mi si cavavano due sillabe appiccicate ogni morte di papa, con lui diventavo un fiume in piena. Mi sembrava essere tornato ai tempi di Vanni. Capii che anche per lui la mia compagnia era piacevole, quando si fermò con me a dare una mano a Zeno e Mirco per risistemare le attrezzature dopo gli allenamenti.

 

-   Tu va pure con lui, tanto in quel buco di discoteca è impossibile che Mirco e Zeno non ti vedano ... e dopo non venire a piangere da me, capito!

 

Il sabato sera rimanevo in giro con Marco e dopo aver visto qualche vecchissimo film al cinema all'aperto del camping, ci sedevamo sulla staccionata prospiciente il piano bar e la discoteca dov'erano tutti gli altri. Bisognava avere almeno sedici anni per entrarci, così ci accontentavamo di guardare da lontano la gente divertirsi.

 

Avevo parlato a Carmelo della staccionata e il sabato successivo si presentò con due birre. Figurarsi se Marco beveva birra, del resto meglio così perché avevo notato che il suo alito cattivo era una questione di digestione lenta e certo l'alcol non lo avrebbe aiutato; ma insomma, pur considerando quanto Carmelo gli stesse antipatico, si comportò in modo veramente scortese, usando le stesse battutine sarcastiche che avevo già sentito uscire di bocca alle sue molteplici amiche.

 

La birra mi salì subito alla testa e mi fece venire voglia di ridere. Carmelo allora mi fece notare che se volevo andare a ballare, dovevo solo scendere quella piccola scarpata e oltrepassare una stupida siepe ... parole sante!

Una volta dentro proposi a Carmelo di andare a prendere altre due bottiglie di birra dal frigo del bar. Lui di birre ne prese tre, perché tornò insieme a Mattia che mi ringraziò per la "bumba" che gli avevo appena pagato. Ma sì, ero felice di essere lì con loro. Mattia chiamava per nome tutte le ragazze del camping, mentre quelle fingevano di infastidirsi quando le andava a disturbare per presentarmi. Mi stavo proprio divertendo.

 

Naturalmente c'era anche Lidia. Quella sera fu come vederla per la prima volta. Si stava dimenando su un palchetto che poi in realtà era solo una sorta di gradino gigante. Non riuscivo a capire se erano le luci o si era veramente tinto i capelli di biondo ... Dio se era bella! Ai piedi aveva delle ballerine e indossava dei leggings fucsia che sembrava metallizzato tanto luccicava. Che gambe che aveva Lidia! Caviglie sottili e coscia luuuuunghissima. Sopra indossava un cavolo di casacca di raso molto ampia che copriva tutto quel ben di Dio che aveva per carrozzeria, ma io sapevo bene cosa ci stava ballonzolando sotto: due tette rotonde e sode come meloni maturi ... e le sue labbra turgide? Ti facevano venire in mente le oscenità più irrepetibili …

 

-   Aoh, stai a fa schifo persino  a me …

 

Forse era per la birra o non so, però mi sentivo zampillare gli ormoni fuori dagli occhi e figurarsi se non se ne accorse pure Mattia.

 

-   … rinfodera l’uccello che ci cacciano per atti osceni in luogo pubblico …    

 

Era la prima volta che mi stavo divertendo, peccato a Mirco che mi pizzicò con la birra in mano. Minacciò di cantarsela con il Mister. Per fortuna che Zeno gli ghignò sul muso di farsi i cazzi suoi, ma non per questo era meno incavolato di lui.

Zeno mi accompagnò fuori e il giorno dopo mi sparò uno di quei pistolotti su quanto sia pericoloso bere eccetera ... io avrei voluto solo dimostrargli che non ero quel pivellino che credeva. Io ne sapevo certamente più di lui, visto che con Marcello avevo già provato tutto, uffa!

 

Carmelo, invece, dopo quella serata mi arruolò come suo scudiero. Gli portavo il borsone da palestra, la mattina gli rifacevo persino la branda ed ero a disposizione per ogni altra cosa che gli servisse. Marco mi prendeva per culo continuamente per questo, lo sopportavo ancora solo perché era pappa e ciccia con Lidia, di cui mi ero follemente innamorato ...

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  • 4 weeks later...
Silverselfer

Floppy 04/37

 

 

Small town boy dei Broskie Beat era il tormentone brit-pop dell'estate, ma pur non conoscendo una parola d'inglese, avevamo visto tutti il video in cui c'era il tipo che scappava in città per andare a guardare un ragazzo che si tuffava dal trampolino ... quindi lo ascoltavamo senza fare commenti.

 

-   E lui che cazzo ci fa qui!

 

Mi ero innamorato, non c'era altra spiegazione. Il mio corpo reagiva in modo strano in presenza di Lidia: occhi da triglia, tremore alle ginocchia, cardiospasmo ... se solo mi posava lo sguardo addosso, rischiavo di perdere il controllo degli sfinteri. Cioè, io avevo paura di quanto mi stava accadendo. Marco mi prendeva in giro dicendo che mi venivano le stelline agli occhi come Candy Candy ... ed era vero cazzo! Ero diventato lo zimbello di tutti. Senza contare che bastava passasse anche solo nei paragi, che a me succedeva qualche accidenti: scivolare a bordo piscina, far cadere il vassoio a mensa o camminare e prendere in pieno un palo ... e questi sono solo alcuni esempi delle grezze che combinai.

 

Meno male che da quando era arrivata Barbie, le ragazze non si allenavano più con noi. Barbie era la preparatrice atletica di origini teutoniche del nuoto sincronizzato: alta, bionda, occhi azzurri, tette e culo e cosce nutrite a crauti e kartoffein; era la prova vivente che mischiare gli ingredienti giusti non significa cucinare una buona ricetta. Barbie, come sosteneva Mattia, faceva schifo al cazzo e nonostante la popolazione maschile la ignorasse, lei era convinta che tutti gli uomini italiani la volessero stuprare. Fu per questo che ci fu un acceso diverbio con Mirco, accusato pubblicamente di spogliarla con gli occhi. Ora che Mirco avesse come unico scopo nella vita chiavarsi l'intero genere femminile era assodato, in ogni modo non era un villano come lo accusava Barbie ... insomma, alla fine volarono parole grosse e il risultato fu che le ragazze non si allenenarono più con noi.   

 

“ Il piacere possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro”.

 

Quel giorno il vento agitava i pensieri di Leopardi mentre guardavo gli altri giocare a calcio sulla spiaggia. Ascoltavo il rumore delle pagine del libro sbattere come un frullo di ali troppo debole per far decollare dei ragionamenti, che poi raggrumavano in frasi sconnesse. Mi tormentavo tra le dotte rimembranze del poeta, e languivo al pensiero del delicato profumo che doveva avere quel sospiro della rosa innamorata di Byron. Petali rossi e voluttuosi, accartocciati sinuosamente al centro di labbra appena schiuse al pari di un bocciolo. Rovi uncinati di un futuro avverso mi celavano quelle grazie, aizzando la canizza di desideri che mi spingevano nel ginepraio della passione.                                  

Avrei compiuto quattordici anni tra poche settimane e il mio cuore era ancora troppo giovane per sopportare il peso di una voluttà di spirito cresciuta anzitempo. Digrignando i denti a una ragione che mi voleva ancora ragazzino, pretendevo di cavalcare la furia veemente dei sensi, che galoppavano incontro ai patimenti più feroci dell’animo umano.

 

-   Che cazzo fai?

 

Era Carmelo che interruppe le mie masturbazioni mentali da giovane Werther con la sua solita ruvidezza di spirito.

 

-   Cazzi miei.

-   A volte mi pari proprio strano eh!

-   E allora perché non te ne vai affanculo?

-   A testa di cazzo! Poi non ti lamentare se non ti caga nessuno.

-   Io non mi lamento.

-   Ma piantala ... piuttosto le hai cinque piotte per la bici?

 

Le avevo cinque piotte per affittare la bicicletta. Carmelo mi disse di seguirlo mentre pedalava come un forsennato. Niente di strano, ogni cosa che facevamo diventava sempre una gara. Al solito a me era toccata un'ignobile Graziella che cigolava, mentre Carmelo aveva inforcato una mini bicicletta ma, siccome era nano, si rivelò perfetta per lui e mi precedette alla meta anche quella volta.

 

-   Ti faccio provare il mio ventiquattro pollici e poi vediamo chi è il nano ...

 

Come no! Ventiquattro pollici gli sarebbero serviti di più in altezza.

 

-   Aoh, ma che hai oggi eh! Se lo sapevo, ti lasciavo in spiaggia a fare il soggetto ...

 

Seguii Carmelo che mi condusse dal lato opposto del campeggio. Poi imboccammo una stradina cementata piena di buche che conduceva a un piazzale in cui c'erano ammassati camper e roulotte. Carmelo conosceva bene quel sentiero che si snodava tra un dedalo di pareti metalliche fino alla porta di un camper ... la sola che incontrammo aperta.

 

-   E lui che cazzo ci fa qui?

 

Braaam ... manco il gradino per salire e finisco lungo per terra ... c'era da domandarsi perché? In quel camper c'era anche Lidia. La quale si sbrigò a chiedere chiarimenti sui motivi che avevano spinto i suoi compari a portarmi nel loro covo segreto.

 

-   E che cazzo! Lo sapete che mi abita dietro casa e quella stronza della madre la odio.

 

Sì, era tutto vero. Io a Roma abitavo poco distante da lei, ma soprattutto mia madre aveva preso di mira il padre di Lidia. Lui era un poco di buono eccetera ... uno di quegli arricchiti che non si sa come hanno fatto i soldi, che poi esibiscono continuamente per non sentirsi ancora dei pezzenti. I locali che apriva il padre di Lidia in giro per Roma avevano una gran brutta nomea, quindi figurarsi quando ne spuntò uno nei paragi di casa nostra.

 

-   E il signore farà un fischio alle mosche che verranno ad annunciar sventura.

 

Mattia si mise a recitare versetti della Bibbia. Lo faceva sempre quando non gli andava di ingaggiare una discussione, allora iniziava a declamare con fare profetico qualche passo biblico, come uno di quegli evangelisti invasati che si vedevano sulle televisioni locali.

 

-   A Mattia e piantala ... e tu fa meno la stronza, se l'ho portato un motivo ci sta, fidate.

 

Il mio sguardo cadde in un tonfo nel suo cuore ... che tette Lidia! Una bellezza sconvolgente che non faceva respirare o pensare ma solo sudare e arrossire. Eppure ci conoscevamo dalla prima elementare e non mi ero mai accorto di lei. Ora si vestiva come Madonna e ti guardava sempre con sguardo provocatorio ... e poi quella volta alla festa di compleanno di Giada era stata così gentile con me. Non avrei mai osato credere che le potessi piacere ... non l'avevo deciso io se la amavo follemente.

 

Quando la sua mano lunga e affusolata si protese verso di me, persi completamente il controllo delle mie facoltà motorie.

 

-   Coglione, ma mi stai ascoltando?

 

Chi? Cosa?

 

-   Allora ci aiuterai?

 

Carmelo e Mattia mi avevano appena finito di esporre un certo piano ...

 

-   Sì, sì. Certo che vi aiuto.

 

Eccome no! Ma cos’era che avrei dovuto fare? Ormai era troppo tardi per certe domande e non volevo che lei mi credesse scemo ...

Mentre mi recavo alla mensa, raccontai tutto a Marco che, al solito, arricciò il suo naso snob.

 

-   Guarda che stai sbavando per una che lo prende in bocca pure ai cani.

 

Era utile avere un amico senza peli sulla lingua?

 

-   Cosa?

-   Quella femmina ti ha mandato a pallino il cervello.

 

Lei era prigioniera nella torre di quell’arpia della Barbie. Oddio! Oramai mi bastava pensarla per sdilinquire in stadi di romanticismo allucinogeno. Dovevo rinsavire. Ma accidenti quanta roba che c’era, incespicai su ogni oggetto, urtai ogni angolo prima di raggiungere il mio tavolo della mensa.

 

-   E’ bellissima, proprio da infarto, vero?

-   Come no! Se me la trovassi davanti di notte, un infarto non me lo toglierebbe nessuno.

 

Avevo sempre creduto che l’amore non esistesse, almeno non in quel modo così repentino e travolgente. Più che una sensazione, quel sentimento era una reazione chimica. Il corpo sfuggiva al mio controllo e mi faceva paura.

 

-   Ti caccerai nei guai.

 

La mefistofelica coppia "Mattia & Carmelo" mi aveva proposto un piano per mettere K.O. Barbie con il collaudato espediente dello “stoppolacessi”. Consisteva in una massiccia somministrazione di purgante che l’avrebbe spedita al pronto soccorso con le emorroidi a grappolo.

Oh, Lidia ... Lidia ... Lidia. Avrei combattuto quella battaglia con il suo stemma sul gagliardetto. Dopo aver giostrato, mi sarei avvicinato al palchetto della principessa e le avrei fatto dono delle emorroidi dell'amazzone teutonica. Stringevo in mano quel Guttalax come fosse un pegno d'amore. La boccettina di plastica era scivolata nel mio palmo direttamente dalle sue affusolate dita, regalandomi un brivido intenso di orgiastico piacere. Beh, avevo manco quattordici anni, bastava poco per farmi bagnare le mutande.

 

-   Non lo fare ... ti prego non lo fare ...

 

Quel fifone di Marco mi ruppe le scatole fino all'ultimo momento per convincermi a non farlo. Temevo che stesse addirittura per minacciare di cantarsela pur di dissuadermi ... ma bastò un ultimo sguardo assassino per ammutolirlo e lasciarmi andare.

Io non mangiavo insieme con gli altri della squadra, quei tavoli erano sempre una bolgia e a me infastidiva. Fin dal primo giorno avevo preferito mangiare accanto a Marco, che essendo il solo tuffatore del Circolo, sedeva insieme con quelli del nuoto. Con loro era più tranquillo, anche se non potevo certo pretendere un silenzio sepolcrale, ma almeno non m'infastidivano cercando sempre di tirarmi dentro a qualche situazione a loro dire comica. Sì, ero un gran rompiballe e solo Marco poteva avere la pazienza di sopportarmi.

 

Nessuno s'insospettì quando mi avvicinai al tavolo dello staff tecnico. Mi rivolsi a Zeno per dirgli che non mi sentivo bene di stomaco e l'indomani chiedevo l'esonero dagli allenamenti. Non lo avevo mai chiesto e la cosa allarmò anche il mister, ricordandosi dell'anno prima quando ci fu un'epidemia di salmonellosi e quindi bisognava sempre diffidare dei campeggi ...

 

EPIDEMIA! Ero un genio, il più grande, la mia mente diabolica non conosceva pari ... io ero il re dell'universo.

 

Al centro del tavolo c'era la brocca dell'acqua quasi vuota ... cosa c'è di meglio del latte della terra per infettarsi? Allungai il braccio e la afferrai per andarla a riempire dal rubinetto. Nessuno se ne stupì, gliele facevo sempre di queste leccate di culo.

Mentre facevo scorrere un po' l'acqua, pensai che mettendo il lassativo nella brocca, avrei "scacacciato" solo le persone sedute a quel tavolo. Sarebbe stato troppo poco per simulare una pandemia ... Mi guardai attorno e me li guardai tutti i miei compagni ... le vittime sacrificali ... come potevo somministrare a tutti quanti una sola boccettina di Guttalax? Tagliai un limone e lo strizzai nella brocca e poi ... l'illuminazione! Il Ghiaccio. Mezza boccetta nella brocca e mezzo nel cestello del ghiaccio ... perfetto.

 

Passai con il cestello del ghiaccio a metterne in tutte le brocche sui tavoli, ma feci cenno di no con la testa a Carmelo e lui capì al volo schizzando via dal tavolo e avvertendo sia Mattia, sia Lidia. Io lo dissi solo a Marco, ma solo perché era possibile che con la cacarella gli sarebbe tornato l'alito pesante. Prima di sera l'intero staff tecnico si teneva ben saldo alla tazza del cesso, ma sorprendentemente proprio Barbie se la passò peggio di tutti. Dall'infermeria del campeggio la portarono in ospedale e il mattino dopo scattò l'allarme cacarella. I ragazzi invece non stettero tutti male, il che giocava a mio favore. La pandemia sembrava così ancora più naturale.

 

-   Evvai, sei un mito!

 

Com'è delizioso il dolce calice del successo! Il pomeriggio dopo corremmo in bici al camper segreto con birre e patatine fritte per festeggiare alla faccia di tutti. Lidia mi abbracciò e mi disse che ero un mito ... no, ero Dio. In quel momento, mezzo ubriaco di birra e tra quanti mi celebravano, avrei potuto pisciare in testa pure al padreterno.

 

Seconda parte

 

In fondo eravamo solo dei ragazzi materiali che vivevano in un mondo materialista, non volevamo fare nessuna rivoluzione, desideravamo solo prenderci tutto e subito.

 

-   Attento alle caccole di fumo ...

 

In fine giunse sul serio una pandemia, ma di parotite epidemica altrimenti nota come orecchioni. I maschi che non l'avevano già contratta in infanzia, fuggirono via a gambe levate. Mirco fu il primo a togliere le tende, anche Marco fu ritirato dal programma estivo; invece, Mattia era stato vaccinato e Carmelo li aveva presi quando ancora andava all'asilo. Io non li avevo presi e tantomeno ero stato vaccinato ... però mia madre decise che era meglio li prendessi prima che completassi lo sviluppo ... altrimenti si sa che gli orecchioni fanno diventare froci.

 

-   Ma va a cagare ...

 

I programmi di allenamento saltarono e da quando uno sciame di danesi in estro giunse nel camping, Zeno non ci filava più. Facevamo quello che ci pareva, ma la noia così ci morse in modo letale. Io, dopo aver visto infoltirsi in modo esponenziale la popolazione omosessuale del globo, decisi di rifugiarmi nel parcheggio dei camper per tutto il giorno. A mensa non toccavo manco le posate e mi nutrivo solo con patatine, hascisc e birra dello zozzone.

 

-   Caz-zo abbiamo finito la ... come si chiama?

 

Ci rifornivamo dallo zozzone ... ovunque nel mondo esiste uno "zozzone". Il nostro aveva un chiosco pre-fabbricato nella pineta dall'altra parte del piazzale. Come tutti gli zozzoni, aveva i capelli unti di grasso, la pelle sudaticcia e puzzava di fritto. Nonostante ci trattasse come fastidiose zecche, credo che un po' si affezionò a noi. Il caldo nel camper ci costringeva a riparare all'ombra della pineta, dove lasciavamo scorrere il tempo ascoltando musica dal vecchio jukebox sulla veranda del bar. Dopo cena ci tornavamo per guardarci le Olimpiadi in diretta da Los Angeles. Lo zozzone non chiudeva mai ... mi sa che manco la possedeva una casa.

 

-   Odio questo cesso di posto ... cazzo!

 

Lamentarsi era un po’ la prassi. Lo facevamo tutti. Anch’io, ma nessuno era bravo a farlo quanto Carmelo.

 

-   Secondo me moriremo per aver mangiato il catarro dello zozzone.

 

Al solito Mattia preferiva concentrarsi sulle presunte schifezze che lo zozzone faceva mentre cucinava.

 

-   Non sono cazzate! L'ho visto farlo ...

 

Mattia era noto per il suo particolare gusto per le schifezze. Una volta al circolo per disinfettarsi una sbucciatura al ginocchio, ci pisciò sopra e per tutto il tempo esibì orgogliosamente la crosta verde giallognola che si formò. Ma era fatto così ... quando tornava dal cesso, si sentiva in dovere d'informarti che "aveva cagato uno stronzo talmente grosso e duro che lo sciacquone non riusciva a portarselo via" ... e se non ci credevi "Aoh, ti dico che mi ha sverginato, quando stava mezzo dentro e mezzo fuori, me veniva da piagne, fidate".

 

-   Uno scaracchio grosso come una noce, l'ha sputato proprio nella padella in cui stava friggendo. Sfrigolava come una frittella. Ma il peggio è che un filo di bava gli era rimasto appiccicato in gola e …

-   Ah ma basta ... smettila.

-   Nella padella delle patate fritte!

-   E Zitti! Fatelo finire. Continua dai.

-   Ha preso a succhiare il filo di bava e “gnam” si è ritirato su la frittella di catarro. L’ha masticata di gusto e …

 

Il boss del bar non diceva nulla sulla musica ad alto volume del juke-box, ma appena sentiva noi ragazzi ridere, si alzava e minacciava di cacciarci via se non consumavamo qualcosa.

 

-   Rolla una canna ...

 

Lidia sapeva rollare magnificamente ed era molto gelosa del suo ruolo.

 

-   Caccia i soldi bello .. io questo l'ho pagato ...

-   Allora li devi fare proprio bene i bocchini.

 

Carmelo con le femmine ci sapeva solo litigare. Comunque la canna alla fine si rollava sempre.

 

-   Non mi va di fumare ...

 

Carmelo si preoccupava sempre che prendessi la mia parte di ogni cosa, perché spesso e volentieri passavo la mano pur di non sputare una sillaba. Ma quella volta ero saturo e non mi andava più di fumare.

 

-   Come mai il principino oggi fa lo snob?

 

Lidia quel giorno era in vena di attaccar briga. Sapeva quanto la storia del principe non mi era mai andata giù.

 

-   Ma come mai un principe come te sta seduto dallo zozzone?

 

Lo sapeva della mia balbuzie emotiva e sapeva anche che niente mi emozionava più della sua voce e quindi sapeva che non le avrei risposto.

 

-   Mi sa che è per questo se Giadina tua ti ha schifato. Matti te la ricordi lady ce l’ho solo io?

-   Ah, quella proprio non la sopporto! Miss ce l’ho profumata.

 

Ma come potevano parlare così di Giada!

 

-   Giada è a Stettino ...

 

Dissi sillabando con attenzione le parole. Solo per dare ad intendere che non mi aveva schifato e sapevo perfettamente dov'era.

 

-   In Costa Smeralda a casa dei nonni, hanno una casetta per l’estate e devo proprio andarci; ma uffa … che noia!

 

Sì, Mattia la imitò bene. Diceva sempre così quando raccontava le sue vacanze in Sardegna.

 

-   E il tuo spasimante? Cazzo Matti, te lo ricordi Vanni?

-   Ah, quello poi mi stava proprio sulle palle ... te lo ricordi Carme'? Era quello stronzetto che quella volta ...

 

Credo che quella fosse la prima volta che stessi provando vero odio. Mi formicolavano le dita dalla voglia di menarli a tutti.

 

-   Lui n ... lu ... non era ... era il miglior amico (cazzo!)

-   Ma se faceva a botte con Marcello perché era geloso di voi due.

 

Ma che calunniatrice figlia di zoccola! Mi odiava fino a questo punto?

 

-   Secondo me dovresti startene con quelli che andranno in quella fabbrica di stronzi del Visconti.

 

Sì, quello era il mio posto. Il Liceo Classico Visconti mi sarebbe spettato di diritto. Fin dalle elementari mi era stato promesso. Del Nazzareno non m'importava, ma al Visconti ci sarebbero andati tutti quelli con cui ero cresciuto, compreso Giada e a me spettava più che a tutti loro messi insieme. In quel momento mi resi conto della cazzata che avevo commesso ad andarmene in paese da Primo.

 

-   Allora pure mammina alla fine ti ha scaricato giù nella tazza del cesso.

 

L'espressione assai colorita che usò Lidia, mi arrivò come uno schiaffo in faccia. Mi alzai e me ne andai. Andavo dove nessuno poteva vedere il mio dolore sciogliersi in lacrime. Ero stanco, e volevo solo cadere in silenzio.

 

Terza parte

 

"Fare spogliatoio" era il mio incubo. Giocare in squadra è diverso dal praticare un qualsiasi altro sport. I giocatori devono per forza conoscersi, avere un feeling tra loro ... magari negativo, ma assolutamente deve istaurasi un contatto. Per questo l'allenatore e tutti gli altri ci spingevano a vivere in comitiva. L'espediente usato era il divertimento, lo scherzo, l'euforia dello stare insieme ... tutte cose cui ero allergico.

 

Il primo giorno che misi piede nello spogliatoio, ci mancava poco che mi venisse un colpo! Gente che urlava, si rincorreva con le chiappe al vento, risa che tutte insieme mi parevano stridere come urla di scimmie e poi, con tutta quella gente, un odore "umano" che non sto a raccontare. Certo c'era anche chi si docciava tranquillamente o si rivestiva in silenzio, tuttavia erano nel gruppo e venivano punzecchiati dagli altri continuamente, allora rispondevano esibendosi anche loro in pantomime comiche. Il massimo era mettersi il pisello tra le cosce e mimare la venere del Botticelli ... diciamo che l'effetto era quello, ma l'intento era parodiare le femmine.

 

Io che avevo sempre fatto sport da singolo o al limite in coppia, non avevo mai avuto problemi negli spogliatoi che trovavo sempre semideserti ... del resto ero bravissimo a evitare di incontrarci qualcuno. La doccia, per esempio, l'avevo sempre fatta con le mutande ... ma non ero mica il solo! Nessuno ci faceva caso ... la prima volta che misi piede nello spogliatoio della squadra di pallanuoto, mi strapparono via le mutante e giù tutti a ridere, compresi quelli dello staff tecnico.

 

Era normale che succedesse, dovevo entrare nel gruppo e lo scherno è un passaggio inevitabile, una sorta di rito d'iniziazione ... che però a me non andava proprio giù, fu così che architettai l'escamotage di fermarmi dopo gli allenamenti a rimettere apposto gli attrezzi.

 

Lasciavo il gruppo appena finiti gli allenamenti e me ne tornavo da Marco. Lui non si esprimeva con quel linguaggio violento fatto di parolacce e bestemmie, con lui potevo usare il congiuntivo senza per questo sentirmi "strano". Tuttavia, era loro che invidiavo e, invece, Marco lo trovavo insopportabile con la sua spocchia nel sentirsi migliore degli altri.

 

In ogni modo, il gioco di squadra dà uno scopo per lavorare insieme e almeno in quello ero bravo. Fu così che iniziai a comunicare singolarmente con tutti. A quel punto, però, in me c'era qualcosa che si spingeva oltre. L'amicizia ha dei paletti che io sistematicamente oltrepassavo. Quell'ingombrante carapace d'intransigente severità che mostravo orgogliosamente per difendermi, scompariva appena qualcuno mi avvicinava, rivelandomi privo anche del più sottile strato di pelle. Alcuni si schifavano al cospetto delle mie membra molli e allora mi vergognavo tanto di essere com'ero. A quanti, però, mi accordavano la loro fiducia, io davo tutto sconfinando nell'amore.

 

Io amavo Zeno, amavo Mattia e amavo Carmelo. Gli amici condividono la vita, mentre gli amanti si danno asilo dalle asprezze della solitudine. Io li lasciavo andare quando si divertivano, ma quando l'effimera gioia scemava, era da me che tornavano.

 

Zeno veniva a sedersi sul ciglio della mia branda, quando rientrava all'alba dopo una notte di sesso con le danesi. "Ma tu non dormi mai?" mi diceva scocciato, poi magari mi prometteva che nel pomeriggio saremmo andati a correre insieme. Io gli sorridevo e lui si toccava la faccia, quasi si vergognasse di quanto ero capace di leggerci sopra.

 

Mattia, invece, si disperava perché non gli permettevo di usare con me quegli espedienti che lo rendevano popolare con il resto del mondo. La sua risatina da gallina affogava nel mio silenzio, allora il suo sguardo pareva arrendersi in un languore che nascondeva una fragilità disarmante.

 

Con Carmelo era diverso, ero io che cercavo di nascondergli qualcosa che intuiva comunque. Tirava la bocca di un lato, facendomi un sorriso malizioso quando, narciso com'era, si specchiava nei miei occhi. Sentivo quanto trepidante fosse in lui il desiderio di prendermi a parte di qualcosa che nascondeva nell'intimo, ma che temeva di mostrarmi (Doppi sensi a parte).

 

Poi c'era Lidia. Lei faceva parte di qualcosa di misterioso e inquietante. Solo la morte della Zia Pina aveva saputo suscitare in me uno smottamento d'animo di eguale intensità. Quel tipo di amore somigliava tanto al dolore che saliva dal fondo come una marea ... fino a tracimare dagli occhi. Non c'era ragione, non aveva bisogno di alcun tipo di affetto, esisteva nel corpo che sapeva stravolgere.

 

Ero una pianta che si accingeva alla sua prima fioritura. Ingenuamente gemmavano i primi bocci su un confuso roveto. Solo l'impavido coraggio di qualche folle avrebbe potuto sfidarne le irte spine. Era così che le mie variopinte bacche finivano per essere beccate solo dai corvi. 

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  • 1 month later...
Silverselfer

Floppy 04/38

 

 

Quando ci siamo alzati per andar via ... improvvisamente quel misero bar prefabbricato divenne un melanconico simulacro di ricordi che sarebbero sbiaditi nel tempo. L'estate del mio quattordicesimo compleanno, con la sua musica, le Olimpiadi e tutto il resto, si era consumata attimo dopo attimo, lentissimamente, anche se in quel momento mi sembrò essere scivolata via in un lampo, come quello che squarciò il cielo della sera annunciando l'autunno e rovinandoci il previsto falò in spiaggia.

 

Qualche tempo prima che la zia Pina morisse, noi di casa andammo a trovarla a seguito dell'intervento chirurgico che la rese ufficialmente un malato terminale. Fingevano tutti che le cose andassero bene, convinti che lei non avesse già capito come stavano le cose. Alla zia non sfuggiva mai niente, si era certamente accorta anche di quel suo catalogo per corrispondenza, cui avevo trafugato le pagine di biancheria intima maschile.

Quel giorno la zia mi trattenne per una mano nel momento che tutti gli altri sfilavano via dalla porta. Io ero la sua piccola opera d'arte e in quel momento aveva bisogno di me. Tra le altre cose, mi esortò a non essere triste se non sarei mai stato come tutti gli altri. In quel momento compresi il senso di alcuni suoi sarcasmi, come quando commentò una mia foto domandandomi chi era quella "deliziosa bambina". Probabile che quelle pagine mancanti del suo Postalmarket, le avessero fatto trarre delle conclusioni da cui provava a mettermi in guardia: cosa voleva significare che non sarei mai stato come tutti gli altri?

 

-   Aoh, aspettate un attimo che mi scappa di sborrare ...

 

Io ero innamorato di Lidia, ma allora perché il protagonista delle mie fantasie erotiche era Mattia con la sua esuberanza sessuale? Io non lo desideravo, semmai era Carmelo che mi turbava i sensi ... eppure era lui con le sue storie di ragazze a farmelo venire duro, mentre me lo immaginavo in scopate estreme.

Mattia era un campione cui tutti volevano somigliare. Tuttavia quando andavamo in bicicletta, sosteneva che la sella glielo faceva venire duro e spesso scendeva in fretta per correre dietro a un cespuglio perché "gli scappava di sborrare". Tutti ridevamo mentre lo sentivamo gemere ostentatamente il suo orgasmo. Insomma, perché sarei dovuto essere diverso da quanti una sella di bicicletta sotto il culo glielo faceva drizzare?

 

-   ... geloso di culo frocio di sicuro ...

 

Al termine degli allenamenti, fare nudo la doccia non fu più un problema, nel senso che il mio non era un senso di pudicizia, quanto piuttosto imbarazzo per la nudità altrui. Io proprio non ci riuscivo ad avere quello scambio d'intimità come se nulla fosse. Quelli stavano sempre a gingillarsi col proprio pene, chi lo faceva roteare, altri fingevano di sfidarsi a singolar tenzone a colpi di bacino ... perché io non riuscivo a fare quelle cose? Era veramente timidezza?

Quello stronzo di Giorgio si divertiva sotto le docce a farti scivolare il dito tra le chiappe fino a sfiorarti il buco del culo. Lo fece anche a me ed ebbi un soprassalto ... esattamente come succedeva con tutti gli altri e il responso fu anche quella volta: "geloso di culo frocio di sicuro". Perché io m'incazzai di brutto e lo spintonai a terra? Nessuno comprese quel mio gesto fuori luogo e poi Carmelo se la prese persino con me, dicendomi davanti a tutti che la dovevo piantare con la mia spocchia da testa di cazzo. Insomma, ero riuscito a essere anche più antipatico di Giorgio che, in fondo, aveva solo tentato di tirarmi dentro il gruppo.

 

-   No, a lui no ...

 

In una di quelle noiosissime serate che trascorrevamo nel camper, dove c'eravamo intrufolati abusivamente, Mattia aveva iniziato a rompere le scatole a Lidia perché gli facesse una sega. In realtà non dovette neanche insistere tanto. Del resto Mattia non mancava occasione per calarsi i pantaloncini e dar aria ai gioielli di famiglia. Un sabato sera aveva addirittura posato per delle turiste spagnole che, una per una, si fecero una foto ricordo con le sue palle.

Il motto di Lidia, invece, era: Con la figa ti sposi ma col culo ti diverti. In realtà, anche se non lo dicevano con altrettanta sfacciataggine, era una regola praticata da parecchie ragazze. Marco me le aveva indicate tutte quelle che, come diceva Carmelo, se lo mandavano su per la vena cacatoria.

 

Era gelosia quell'accesso di moralismo che mi faceva guardare Lidia mentre lo prendeva in mano? Non credo, visto che ero arrapato come un picchio. Io mi arrabbiavo perché non riuscivo ad avere la stessa sfacciataggine di Mattia che glielo aveva messo in mano, o di Carmelo che si tirò fuori il cazzo adagiandoselo sull'avambraccio, carezzandolo come si farebbe con un gatto. Io no, ero impietrito e c'era da scommetterci che mi si leggeva in faccia la voglia di scappare via.

 

Dopo aver fatto godere Mattia, Carmelo disse a Lidia qualcosa che non ricordo, ma doveva essere una delle sue cattiverie, perché lei gli rispose che poteva schiaffarseli nel culo i suoi ben noti ventiquattro pollici. Ovvio che il pene di Carmelo non fosse come quello di un mulo, ma era una roba comunque impressionante. Indubbiamente era difficile resistere alla tentazione di gingillarci e Lidia alla fine cedette ... come credo che facessero anche le altre ragazze, perché non c'era davvero altra ragione plausibile per soprassedere alla spavalderia con cui Carmelo le trattava.

 

-   No, a lui no ...

 

Io non me ne potevo andare perché lo sapevo che gli altri mi avrebbero dato di nuovo del bacchettone. Rimasi immobile cercando di trattenere un'eiaculazione che inesorabile arrivò lo stesso. La mia unica preoccupazione era che l'umido trapelasse dai pantaloncini. Così, quando Carmelo ordinò a Lidia di fare il servizietto anche a me, figurarsi se volevo fare la figura del pivellino che se n'era venuto nelle mutande. Comunque, lei rispose perentoria di no, con una serietà che spazzò via l'atmosfera goliardica che aveva accompagnato quelle ostentate esibizioni sessuali. Era impossibile non offendersi per quel suo rifiuto. Aveva accettato di divertirsi con quei due che non le risparmiarono ogni sorta di volgarità ... allora perché con me no? Che cosa avevo di diverso da loro? Le facevo forse schifo?

 

-   ... e allora fagliela tu la sega ...

 

Quello cui avevo assistito era lo stesso gioco proibito che avevo sempre fatto con Lalla. Se solo fossi stato capace di comunicare in maniera "normale", quella sera avrei giocato anch'io ... come? Magari ammettendo di essermene venuto solo a guardarli. Avrebbero riso di me, ma io con loro e certamente la cosa sarebbe finita là. Invece, si risolse tutto con un'umiliazione tale che sarei voluto morire.

 

Parte seconda

 

 

Il fine settimana prima che quell'estate finisse, era opinione comune di dover compiere qualcosa di memorabile. Tutti proposero qualcosa che ovviamente non mise d'accordo nessuno, col risultato di una baraonda con annessi atti vandalici.

Io ancora non me ne rendevo conto, ma ero cresciuto ben oltre venti centimetri nel giro di poche settimane. Le persone smisero ti trattarmi per il ragazzino che ero, anche se non avevo i sedici anni che servivano per entrare in discoteca, per fumare e meno che mai comprare una birra ...

 

-   Quelli dicono che saresti abbastanza matto da buttarti ...

 

Non c'era da stupirsi se nessuno mi coinvolse in qualche comitiva. Io ero notoriamente il kapot di Zeno e poi chi si sarebbe accollato un debito come me? Me ne andai al cinema all'aperto come facevo sempre quando c'era ancora Marco. Quella sera davano "I cinque matti vanno in guerra", un film comico francese stravecchio che nessuno aveva voglia di rivedere. La gente faceva un po' quello che le pareva e quando davanti allo schermo comparirono le ombre di alcuni ragazzi che mimavano scene hard, scoppiò una sorta di sollevazione popolare ... ridevano per lo più, ma qualcuno lanciava anche oggetti contro gli intrusi ... non saprei dire chi erano quei ragazzi, ma c'era da scommetterci che si trattava di qualcuno dei miei compagni con la missione di rendere memorabile quella sera.

 

-   Ti ricordi di Nando il figlio del falegname? Ma era vero che riusciva a intrufolarsi in casa tua?

 

In fine la proiezione fu sospesa, ma la gente rimase seduta a continuare quello che stavano facendo anche durante il film. Io me ne andai perché senza il buio non potevo più nascondere quella solitudine che mi umiliava. Di rientrare prima delle dieci in quella che per tutti gli altri sarebbe stata una notte brava, proprio non mi andava ... C'era un posto in cui non avevo mai avuto il coraggio di andare, decisi allora che era giunto il momento di farlo. Si trattava della terrazza sopra il ristorante. Mentre si faceva allenamento in piscina, tutti avevamo notato quella pensilina che, almeno dal basso, sembrava fatta apposta per tuffarsi.

 

-   No, perché si raccontavano un sacco di storie sul misterioso bambino che non usciva mai di casa ... io ti ho intravisto la prima volta quando ti portarono in ospedale mezzo morto ...

 

Sganciai la catenella che teneva il cartello di metallo su cui c'era scritto"vietato l'acceso", e mi arrampicai per le scale di sicurezza di metallo che conducevano alla terrazza. Sorpresa delle sorprese, qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea ... C'erano le ragazze del nuoto sincronizzato e quindi c'era da scommetterci che almeno qualcuno di quei ragazzi con loro era della squadra di pallanuoto. Se me ne andavo chissà cosa avrebbero pensato che ero andato a fare ... in fondo non avevo di che aver paura ... mi diressi quindi verso il muretto perimetrale che spavaldamente saltai per andarmi a sedere sul ciglio della pensilina. Sembrava proprio un trampolino per i tuffi! Mi accesi una sigaretta ...

 

-   La gente ne raccontava tante su di te ... la storia del principe poi ... tu te la sei sempre tirata di brutto ...

 

Il cielo rimbrottava e dal mare giungevano certi lampi che non lasciavano presagire niente di buono. Tanto meglio se pioveva, almeno sarebbero dovuti tornare tutti e non ci avrei fatto la figura del pirla a rientrare prima della mezzanotte. Alle mie spalle sentivo le ragazze della combriccola arrabbiarsi ai soliti dispetti che facevano i maschi. Io non sarei mai stato come loro, ma perché?

L'ultima zaffata di fumo si disperdeva a fatica in quell'aria ormai satura d'ozono, mentre mi guardavo la punta dei piedi nudi che facevo dondolare sopra il bell'azzurro dell'acqua invisibile della piscina; poi il cuore m'iniziò a fare la tarantella ... Lidia. Un attimo dopo, lei era seduta accanto a me, mi offriva un tiro di canna e m'informava che quegli sfigati la dietro temevano che fossi così matto da buttarmi ... non le risposi, anche per evitare di balbettare ...

 

-   .. e bada che non gli ho mica detto che l'ultima volta ti ho raccattato sul parapetto di Ponte Sisto ...

 

Feci due bei tiri di canna. Non era hascisc ma marijuana, ecco spiegata la ridarella di Lidia. Io me ne stavo zitto e lei paralava, parlava ... Si mise a raccontare di quanto dicevano di me da piccoli ... sul fatto che mia madre non mi faceva uscire mai e non permetteva a nessuno di venire in casa ... se era vero che Nando ci veniva regolarmente perché secondo lei era sempre stato un racconta balle. Un sacco di cose ... e faceva strano ascoltarla, era come se mi stessi guardando dall'esterno.

 

-   ... ti ricordi quando ti hanno ricoverato? Siamo scappati tutti fuori per vederti ... la gente diceva che tua madre era esaurita e ti aveva quasi ammazzato di botte.

 

Quanto conta la verità rispetto all’opinione che la gente si fa di essa? Mi sentivo così mortificato dal mio passato. Lei rideva ma non per quanto stava raccontando eppure sembrava che si prendesse ancora gioco di me.

 

-   Mia madre non c'entra niente. Sono io che sono un fottuto malato del cazzo.

 

Sì, era sempre stata colpa mia. Io con i miei acciacchi e gli specialisti da pagare e Primo che s'incazzava sempre e le crisi nervose e poi l'ospedale e la psichiatra col suo autismo emotivo e zia Pina che muore ... il Tavor e Marcello con quella schizzata di Bea e vaffanculo. Ero matto, c'era ancora da domandarselo? Avevano ragione quelli là ...

 

-   Ma lascia stare quello che dicono quegli sfigati ...

 

Cos'era? Che il banner che mi scorreva in fronte si leggeva pure al buio?

 

-   Tu mi piaci perché te ne sbatti di tutti ... non te ne frega un cazzo ...

 

Just a moment, rewind please! Aveva detto che le piacevo?

 

-   Mio padre ci odia a noi figlie femmine ... forse perché siamo troppe ... nove figlie femmine per avere tre maschi ... quella poveraccia di mia madre l'ha sciancata ...

 

Parlava, parlava ... ma chi la sentiva più! Aveva detto che le piacevo ... non potevo essermi sbagliato a sentire ... magari se l'avesse ripetuto di nuovo, ne sarei stato più certo. Parlava ancora e ancora ma non lo ripeteva. Parlava del padre e della sua numerosissima famiglia e che non erano sempre stati ricchi e che lei e le sue due sorelle più piccole erano state fortunate a nascere nella bambagia ... ma l'aveva detto che le piacevo sì o no?

 

-   La pianti di guardarmi così?

 

Non potevo fare a meno di guardarla e di emozionarmi per averla accanto. Improvvisamente un pensiero le corrugò la fronte e voltandosi verso di me, mi sorprese a fissarla. Fuggii fulmineo il suo sguardo affilato per non farmi troppo male ... no, sicuramente avevo capito male, non aveva detto che le piacevo.

 

-   Vorrei solo scoprire che ci sta passando per quella tua testa matta ...

 

Maledetta balbuzie. Tanto era inutile cercare di parlarle. Quando dovevo dire le cose importanti, quelle serie ... quelle che mi emozionavano ... le parole non uscivano manco a cavarle con l'uncino. Rimanevano in quella palude, in fondo ... potevano solo trasudare i loro nefasti miasmi e appannarmi gli occhi ... cazzo, non potevo piangere proprio ora ... come uno stupido frocetto.

Mi alzai, buttai prima le scarpe che mi ero già tolto ... forse lei mi stava guardando, ma non disse niente ... gettai di sotto anche la maglietta ... credeva forse che non l'avrei fatto? Via pure i pantaloni ... io potevo fare tutto ... giù pure le mutande ... cadere è sempre un po' come volare.

 

Un attimo dopo ero nell'acqua ... neppure il tempo di percepire quel brivido che arrivò solo dopo ... con quella pazza di Lidia ... si buttò pure lei! Allora l'aveva detto su serio che le piacevo perché mi venne incontro e mi abbracciò ... ci baciammo anche ... forse ... è che affondavamo e riemergevamo continuamente ... poi iniziarono a cadere anche altri e allora ci tirammo sul bordo ... che bolgia! Ma che entusiasmo! Quindi il fuggifuggi generale perché tanta gioia che esplodeva in tuffi pirotecnici non poteva passare inosservata ... lei scomparve insieme agli altri ...

 

-   Sua maestà vuole uscire o dopo la ramanzina che mi sono ciccato per colpa tua, mi devo pure fracica' sotto il diluvio?

 

Io non me la sentii di scappare a chiappe al vento ... Sul bordo della piscina mi aspettava l'inquisizione ma non me ne importava niente ...  raccattai lentamente le mie cose, comprese le scarpe che non riuscivo a trovare ... Zeno aveva in qualche modo rassicurato tutti, congedandoli ... mi aspettava mentre il cielo prese a venire giù con un acquazzone da panico ... ma era troppo bello e non volevo che finisse un attimo dopo aver messo piede fuori dalla piscina.

 

Parte terza

 

Il giorno dopo Lidia mi salutò con un bacino sulla guancia. Non che mi aspettassi chissà cosa, ma ci rimasi male lo stesso.

 

-   Cazzo, perché non ci hai detto niente?

 

Saltare già dalla pensilina mi fece guadagnare punti agli occhi di tutti. Mattia si lamentò perché non avevo coinvolto "i miei amici" in quella fantastica impresa. Carmelo addirittura insinuò che li avevo tenuti fuori per meglio mettermi in mostra. Scoprii così che nessuno mi aveva preso a parte della propria comitiva, solo perché non glielo chiesi. Erano tutti convinti che non volessi contravvenire alle regole fissate da Zeno.

 

-   Riccioli d'oro, lo sai che con la tua bravata mi hai fatto perdere il lavoro?

 

No, Zeno non perse il lavoro. Mi voleva far sentire una merda e, infatti, il senso di colpa mi si lesse subito in faccia, tanto che lui non se la sentì di rovinarmi quegli ultimi giorni di vacanza e mi disse la verità.

La sola che mi trattò peggio dopo la mia bravata fu proprio Lidia. Era come se fosse infastidita dal mio improvviso successo sociale. Forse se l'era presa perché nessuno parlava del fatto che anche lei si era tuffata?

 

-   Ma chi se ne frega ... sei proprio un ragazzino ... ora ti senti un gran figo, ma non ci credere troppo ...

 

Beh, obiettivamente Lidia aveva ragione, mi sentivo proprio figo. Era come se tutti si fossero accorti che esistevo, compreso io. Nella mia testa rimanevo il bambino grassottello e malaticcio, ma non era più così. Dio padre si era ricordato dei miei fioretti e di tutte le invocazioni affinché mi togliesse da quella condizione di sfigato ... e l'aveva fatto senza che me n'accorgessi. Ero diventato un ragazzo altissimo, snello e i capelli che mi si erano allungati, si erano scoloriti con la salsedine al punto da diventare biondicci ... Dopo quel salto dalla pensilina, presi coscienza di essere diventato bellissimo!

 

-   Ma sentilo come ci crede! Tanto col carattere di merda che ti ritrovi, presto non ti cagherà più nessuno ...

 

Tutti mi salutavano e le ragazze sghignazzavano appena si sentivano sfiorare dal mio sguardo ... ero forse in paradiso? Confidai a Carmelo il disorientamento per la mia improvvisa popolarità, dovuta essenzialmente al grande gnocco che ero diventato eccetera ... Lui seppe trovare le parole giuste per demoralizzarmi. Aveva ragione, sarebbe durata poco la pacchia perché ero incapace di condividere qualsiasi cosa, compreso il successo sociale.

 

Gli ultimi giorni trascorsero con la voglia di tornare alle rispettive vite, rivedere amici, ricominciare con un bagaglio di nuove esperienze e tanta voglia di futuro. Loro, io no. Quell'ultimo pomeriggio sulla veranda del bar dello zozzone non passava mai. Sarei voluto scappare da qualche parte piuttosto che tornare a ... già, tornare dove? Ci si mise anche un altro temporale che ci rovinò il previsto falò sulla spiaggia ... dove speravo potesse ancora accadere qualcosa ... del tipo che Lidia mi avesse detto di nuovo che le piacevo ...

 

Ricordo esattamente quegli ultimi scampoli di vacanza che si consumavano troppo rapidamente sul torpedone di ritorno in città. Io sedevo con Mattia, Carmelo, Lidia e pochi altri che si potevano permettere di stare nel sedile lungo in fondo all’autobus. Il piccolo e insicuro Momo si era trasformato in Super Mimmo e le ragazze facevano la fila per andarsi a sedere sulle sue gambe.  

Ero completamente ebbro della mia nuova forma e mi convinsi che forse no, la zia si era sbagliata sul mio conto, io sarei stato come tutti gli altri.

 

L’istante esatto in cui sentii la realtà squarciare l'incanto della vacanza, fu al casello dell'autostrada di Roma. Il giorno imbruniva anzitempo sotto le nubi di un cielo già autunnale. Le luci della città cominciavano a brillare e una leggera pioggerellina si appiccicava ai vetri dei finestrini; alla radio del pullman stavano passando “Love of the common people” di Poul Young. Carmelo si era appena svegliato chiedendomi se eravamo arrivati. Le ragazze già erano tutte in piedi a distribuire saluti e baci. Io trattenevo l’urlo di una desolante solitudine che mi assaliva d’improvviso.

 

Arrivati al parcheggio del circolo, c'erano i famigliari che aspettavano l’arrivo dell’autobus naturalmente in ritardo.

C’erano anche quelli cui i genitori evidentemente avevano avuto impegni inderogabili, e allora si assiepavano ai telefoni pubblici nel tentativo di ricordargli che esistevano. Tra questi c’ero sorprendentemente anch’io. Sarebbe dovuto esserci Primo a prendermi per riportarmi in provincia, ma per chissà quale contrattempo non c’era e la mamma montò su tutte le furie. Mi disse di tornare a casa, ma quella dell'Aventino ed io le risposi di no ... quella non era casa mia. Avevo le chiavi e quindi me ne sarei tornato nella mia casa, quello dov'ero cresciuto.

 

-   ... andiamo va, ti do io un passaggio con l'autobus ...

 

Lidia aveva ascoltato tutta la discussione, e senza bisogno d’ulteriori spiegazioni, mi invitò a tornare assieme con i mezzi pubblici. Fu stranamente loquace per tutto il tragitto. Io la ascoltavo godendomi quel bonus sulle vacanze che il destino mi stava regalando. Alla Stazione Termini decidemmo di prendere la metro, anche se il sessantaquattro ci avrebbe sceso a due passi da casa. Quando uscimmo dalla metropolitana, ci mettemmo ad aspettare l'ottantasette per Largo Argentina. L’ombra del Colosseo incombeva su di noi. La risacca acustica del traffico con i riverberi dei lampioni sull’asfalto lucido di pioggia, mi calò in una strana agitazione interiore che poteva ben definirsi "fottutissima paura". Lidia se ne accorse e mi prese sottobraccio.

 

-   ... bada che gliene ho combinate tante ai miei eppure non mi hanno mai ammazzata  ... alla fine abbaiano solamente ... quella è casa tua e loro sono dei grandissimi stronzi ...

 

Prendemmo l’autobus che ci lasciò a Largo Argentina. Avremmo potuto aspettarne un altro che ci avrebbe portato più vicino a casa, ma nonostante le borse da viaggio fossero appesantite dai ricordi che ci trascinavamo dietro, andammo a piedi, sotto la pioggia. Una miriade di goccioline leggere come fiocchi di neve rendevano l’aria densa, difficile da penetrare.

 

Lidia m'invitò a entrare con lei nel locale del padre per prendere qualcosa da mangiare. Conobbi così la sorella maggiore: Patrizia, nota come "la Patty". Una ragazza robusta, quasi grassa. Era vestita con una palandrana di lino nera. Aveva una capigliatura folta, scura e lunghissima. Agli occhi portava una spessa linea di mascara che si allungava fin sulle tempie. Guardandola capii perché mia madre ritenesse la famiglia di Lidia "strana".

 

Al Dark Angel ci restai più di un’ora. Il tempo volò via tra i ricordi snocciolati con enfasi da Lidia, che raccontò anche dello “stoppolacessi” praticato all’antipatica Barbie. La Patty mi diede il cinque a confermò che ero un mito. Salutai tutti perché si era fatto tardi e se mia madre avesse scoperto dove mi trovavo, mi avrebbe ucciso seduta stante. Lidia contraccambiò i miei tre bacini di rito, ma a quello dispari unì un sussurro: “Arrivederci principe”.

 

Le scarpe da ginnastica mi facevano male anche al campeggio, ma non essendo costretto a portarle allungo non ci avevo mai dato peso. Ora invece acuivano ancora di più la sofferenza del ritorno a casa. Mi cacciai gli auricolari del walkman negli orecchi e premendo il tasto play suonò “The sun & the rainfall” dei Depeche.

Si era fatto tardi e mi stupii di trovare Primo davanti al portone del palazzo. Sicuramente, piuttosto di stare a sentire la mamma, aveva preferito aspettarmi giù in strada.

 

Non volevo tornare in provincia. Volevo restare a casa mia. Volevo rimanere a vivere la mia nuova realtà appena cominciata ... Lidia ...

 

Il nasone all’angolo con il vicolo dell’Avila lanciava gagliardo il suo getto d’acqua e decisi di salutarlo bevendone un sorso.

 

Mi aspettavo che Primo mi venisse incontro; invece, non fece un gesto fin quando non stetti a pochi passi da lui. Poi esclamò: “Santa Madonna, Momo sei proprio tu!”.  Mi abbracciò e non faceva che dire: “Fatti guardare”. Lui si era rimpicciolito come le mie scarpe.

Entrati in casa, mi annunciò come se fossi un ospite: “Venite a vedere chi c’è” disse. La mamma rimase impietrita con le mani giunte sulla bocca quasi a trattenere un’emozione troppo forte. Andai io da lei. Mi chinai leggermente per abbracciarla. Mamma rimase contratta in quel suo gesto, poi muta mi prese il volto tra le mani e piangendo continuò a far scorrere nervosamente gli occhi sul mio nuovo volto di ragazzo. Scorsi Angela seduta al tavolo della cucina, alzai la mano in un cenno di saluto e lei mi sorrise timidamente, come se non fossi più quel fratello che segretamente detestava.

 

L’imbarazzo delle donne di casa fu rotto dall’entusiasmo di Primo, che mi chiamò munito di metro a stecca accanto allo stipite della porta della sala da pranzo. Si celebrò così il rito dell’intacca. Tutti ridevano, persino Angela, non sembrava neanche di essere a casa mia.

 

Mamma mi spinse letteralmente sotto la doccia calda per scongiurare un malanno a causa della pioggia. Dopo mi avrebbe fatto trovare un bel piatto di pasta asciutta, altro che minestrina già pronta per il Momo piccolo, grassoccio e malaticcio.

In bagno mi specchiai completamente nudo, cercando di guardarmi con i loro occhi. Effettivamente ero cresciuto tantissimo. Le guance a meletta erano finalmente sparite e il mio corpo era miracolosamente atletico e abbronzato. Mi toccai i capelli un po’ lunghi, umidi di pioggia e schiariti dalla salsedine del mare, e decisi che li avrei tenuti così. Santo cielo, pensai, ma allora i miracoli accadono veramente! Dio padre mi aveva ascoltato e guarda che grande gnocco che mi aveva fatto diventare. Sorrisi per tanta spavalderia e chiesi scusa al padreterno.

 

Uscii dal bagno in accappatoio e aspettai che la mamma raccattasse il necessario per una pasta asciutta. Mi fecero tante domande. Io mangiai di gusto perché ero affamato e alla mamma stavano per venire le lacrime agli occhi nel vedermi finalmente felice di nutrirmi.

Fu Angela a ricordare a tutti che si era fatto tardi ... tardi per cosa?

 

-   Primo è venuto per portarti a casa ...

 

Quale casa? Io non mi sarei mosso da lì.

 

-   Mo ora non ricominciare ... lo sai che qui ormai non ci vive più nessuno.

 

Casa mia ... quella era casa mia ... era stata comprata con i cazzo di soldi del mio ebreissimo padre, chiaro?

 

-   Perché fai così? Vuoi vedermi morta, vero?

 

Era lei che mi aveva quasi ammazzato da piccolo, lei che si vergognava del figlio di puttana che aveva partorito ... era colpa sua, sua e solo sua e ora non scomparivo perché la signora doveva fare la gran dama del cazzo.

 

-   Vuoi restare? Restaci ... sono stufa di sentirmi in colpa per te, hai capito? Ti ho dato tutto e questa è la moneta con cui mi ripaghi, vero? Va, chiama pure lo sporco ebreo ... tanto sei come loro, ora lo so ... con me hai chiuso, capito ... chiuso.

 

Diciamoci la verità, fa sempre un certo effetto quando tua madre ti rinnega. La mia era come me ed era capace di accoltellarti e poi chiederti scusa. Anche quella volta se ne andò facendo rimbombare il tuono del portoncino di casa ... poi il solito silenzio ... niente che non conoscessi già.

 

-   Non lo possiamo lasciare qua da solo ...

 

E perché no? Io ero sempre stato solo. Quando sentii Angela sussurrare quelle parole a Primo ... impazzii di rabbia.  Li cacciai via da casa mia ... quella era casa di mio padre cazzo ... io ero sempre stato a casa mia e loro non c'entravano un cazzo ... erano stati loro ospiti in qualcosa di mio e non il contrario ... io stavo in casa mia ... casa mia ... casa ... mia ... ed era là che sarei rimasto.

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  • 2 weeks later...
Silverselfer

Floppy 04/39

 

 

Insieme a quell'estate sembrava essere trascorsa anche un'intera stagione della mia vita. Roma era cambiata. Il mondo non era più lo stesso. L’Aids era finita sulle prime pagine dei giornali che la definivano "la peste del nuovo millennio". La salvezza del corpo e la condanna dell’anima sembravano vincolate a un'unica parola: preservativo. I preti gongolavano perché finalmente potevano ridare un senso alla loro castità. Qualcuno pensava addirittura di proibire per legge i rapporti occasionali o più semplicemente riaprire dei lazzaretti dove rinchiudere puttane, drogati e omosessuali, ma la maggior parte delle persone confondeva ancora l’HIV con il nuovo virus influenzale in arrivo con l’inverno.

 

Il mattino seguente al mio ritorno a casa, fui svegliato dalla dolce nenia dei rumori con cui ero cresciuto: il netturbino che cantava stornelli romani mentre ritirava la mondezza dai condomini, il rumore della serranda della bottega del falegname e poi i rintocchi dell'orologio della piazza. Spalancai le imposte della finestra e respirai l’aria pregna dell’odore di pioggia caduta per tutta la notte. Ero a casa, ma non capivo se ne fossi veramente felice.

 

Sprofondai sul divano davanti al televisore, con le repliche degli stessi cartoni animati di anni addietro, quando Loro popolavano gli angoli bui e fuori c’era l’Uomo nero pronto a rapirmi.

Trascorsi l'intera mattinata senza pensare, fino a quando mi venne fame e decisi di scendere a comprare un pacchetto di patatine. Feci lo stesso quando arrivò l'ora di cena. Il vuoto di quella casa mi stava di nuovo entrando nella testa.

Era notte fonda quando decisi di cambiare finalmente la lampadina fulminata del corridoio ... scoprii così che ci doveva essere un altro problema, perché la lampadina che presi dal lampadario della sala da pranzo non si accendeva lo stesso. Mi armai di giraviti e trascorsi buona parte della notte a compenetrare il mistero di un'accensione deviata ... ma appena la lampadina si accese, trascorso l'attimo di orgoglio per esserci riuscito ... capii che anche quello era un segno. La luce disperse il fantasma del bambino che correva spaventato dal buio per andar a far pipì.

 

La mattina dopo mi svegliai sul divano con il televisore ancora acceso, perché mi ero addormentato guardando le repliche del meglio del “Maurizio Costanzo Show”. Feci colazione con Paolo Bonolis e il pupazzo Uan di Italia uno. Stavo spazzolando le ultime briciole di patatine in fondo ai sacchetti di alluminio, quando sentii il portone di casa aprirsi.

 

-   Almeno potresti darmi una mano con le buste ...

 

Chissà perché rimasi paralizzato dal terrore ... ma era solo mia madre. Arrivò con due buste di vettovaglie e mi ordinò di andarle a prendere la valigia in macchina. La macchina era ovviamente di Paolo ... un enorme Land Rover verde, con enormi gomme ed enormi sportelli ... Lui non mi disse niente e manco io gli rivolsi la parola. Mi prese la valigia dal portabagagli e me la lanciò come fosse un fuscello ... risalì in macchina e stop. Sulla porta di casa incrociai la mamma che si lamentò perché Paolo non mi aveva dato anche la busta con le lenzuola. Senza farmi aprire bocca, mi ordinò di sistemare la spesa e di riaccendere il frigorifero ...

 

Il frigorifero puzzava peggio di una fogna. Lo lavai con il mio doccia schiuma e devo dire che presto il cattivo odore sciamò. Il problema vero era che non si riavviava. L'intera casa sembrava un motore ingolfato: rubinetti che perdevano, imposte che non si aprivano ...

Mamma mi trovò dietro al frigorifero e apriti cielo, non ci provò neanche a capire cosa stessi facendo, per lei ero ancora il bambino che smontava qualsiasi cosa per curiosità. Poi, però, quando capii che era colpa della molla del relè che era rimasta bloccata e feci riavviare il frigorifero, fu molto orgogliosa di me ... e giù a raccontarmi di quando ancora poppante smontai il televisore eccetera.

 

Le passavo le cose nelle buste quando rabbrividii nel vedere il tipico sacchetto bianco da farmacia. Non lo toccai, ma sapevo perfettamente cosa c'era dentro ... la medicina contro il dolore di vivere.

 

-   ... ah no? Ti pare normale come ci hai trattato? Ti avranno sentito tutti ... dopo che quel povero Cristo si è scapicollato qui per portarti in casa sua, capito? Si meritava questo da te ...

 

Io glielo dissi che avevo trascorso l'intera estate senza quelle pillole e quindi non ne avevo più bisogno, ma lei era sempre stata brava a rigirare le cose in modo da farmi sentire in colpa. Sicuramente aveva ragione e con un paio di Tavor in corpo quelle scenate non le avrei fatte più. E ma io avevo sempre sofferto di accessi nervosi, sicuramente ereditati da quel folle di mio padre ... lo sporco ebreo intendo. E ma ci avrebbe pensato lei ... mi ci voleva una bella curetta di un paio di settimane per farmi tornare in me ... rincoglionito e felice di togliermi dalle balle.

 

Beh, che avessi qualche rotella fuori posto l'avevo capito anch'io. Però se ero matto, mi dicevo, non sarei stato in grado di ponderare la mia follia. Cercavo continuamente di aggiustare la mia testa attraverso il giravite del ragionamento, ma per quanto riuscissi chiaramente a individuare i guasti, questo non bastava a ripararli. La consapevolezza finiva per complicare ancora di più gli effetti della realtà, che aveva bisogno di essere vissuta istintivamente per diventare anche la mia visione dei fatti.

La pazzia sta negli occhi. Io vedevo il mondo diversamente e questo era colpa di una mente che continuava a crescere a modo suo. Sarebbe stato tutto più semplice se invece di essere matto, fossi stato semplicemente stupido. Gli idioti almeno sono felici. Loro non hanno il problema di vedere le cose come stanno.

 

Cominciai a prendere il Tavor e quell'insana stanchezza riprese a intontirmi. Dormire non fu più un problema e incazzarmi diventò troppo faticoso ... rimandare a domani era più facile. Ogni dilemma, dubbio o qualsiasi altra complicazione divenne solo una sensazione da dover seppellire in fondo ... affogata tra quei miasmi nefasti della palude dell'inconscio, da cui un sobrio ragionamento non poteva che farmi domandare perché ... perché insistere invece di cadere definitivamente.

 

Parte seconda

 

Mi ero di nuovo addormentato sul divano guardando un talk show, ma quella volta era su Tele Roma 56. Parlavano ancora di Aids ma a proposito di un'aggressione nei giardini del Campidoglio a scapito di alcuni ragazzi gay da parte di un gruppo di estrema destra. Dicevano che quel posto era un luogo di "battuage" per gli omosessuali e gli opinionisti si accapigliavano tra chi sosteneva che era uno scandalo e quanti lo giustificavano con la mancanza di luoghi preposti ... arrivando inevitabilmente al pericolo della diffusione dell'HIV.

 

Il pensiero che fossi frocio mi atterriva. Fino a quel giorno avevo vissuto la mia sessualità con l'innocente curiosità di un bambino. Ora, invece, quei gesti proibiti che avevo compiuto con Pino e Marcello mi condannavano. Il pudore mi faceva ancora arrossire al pensiero della Zia Pina che si accorgeva di quelle pagine mancanti del suo Postalmarket. M'interrogavo sui perché avevo trafugato quelle immagini di slip belli gonfi ... erano belli ... li guardavo perché erano belli ... ma allora perché non avevo preso anche le pagine di slip femminili? Erano assai belle anche quelle. Risposta: Semplicemente perché non c'era niente da immaginare tra quei pizzi e merletti.

 

Mi svegliai a un'ora indefinita del giorno senza avere nessunissima memoria dei ragionamenti con cui mi ero addormentato.

 

Strascicai i miei passi fino alla cucina, dove fui tentato di prendermi un’altra pastiglia e morire fino a sera, quando tutto sarebbe definitivamente passato. Avevo la scatola bianca in mano, quando il campanello del portone di casa gridò.  Aspettai in silenzio che lo scocciatore desistesse, ma poi pensai che potesse essere qualcuno mandato dalla mamma a controllare che mi sentissi bene.

Cacciai un occhio nello spioncino, nella pupilla conica del portone c’era un tizio vestito di nero ... feci scattare la serratura e scorrere via la catenella. Avevo indosso solo i pantaloni del pigiama estivo e una T-shirt ... l’imbarazzo fu davvero grande, quando riconobbi dietro quegli occhiali da sole scuri Lidia. D’istinto mi portai una mano ai capelli cercando di dargli una raddrizzata, ma le dita rimasero impigliate nella zazzera incolta.

 

Lei aveva di nuovo cambiato look. Era in forma smagliante in quel completo da uomo stile Michael Jackson; sembrava uscita dalla copertina di una rivista New Wave.

 

-          Ciao.

 

Disse, piegando in un sorriso le labbra rese rosse sangue da un qualche rossetto stregonesco. Io ebbi un tonfo al cuore. Era passato diverso tempo e onestamente non avevo più pensato a lei, eppure in un attimo tutto fu come se non ci fossimo mai lasciati. Non era cambiato niente, tant’è che le stavo davanti in completo da notte con ancora il cuscino tatuato in faccia, totalmente incapace di articolare un qualsiasi pensiero, praticamente come il solito imbecille.

 

-          Quelle è meglio che le lasci stare.

 

Si riferiva alla scatola di Tavor che continuavo a girare nervosamente in mano.

 

-           Se mi fai entrare, ti offro qualcosa di meglio.

 

Ma certo! Ero rimasto impalato sulla porta con la testa gonfia di nulla. La guidai in salotto, ma lei mi fece notare che sarebbe stato meglio andare a fumare in un luogo più appartato. La mia camera sarebbe stata perfetta. Lei rollò con la solita perizia il tabacco mischiato all’hascisc, io accostai le imposte e aprii la finestra. Mi sedetti sul letto e la guardai ancora incredulo di averla lì accanto.

 

-          Quella è la maglietta che ti ho regalato io, vero?

 

Sì, era quella con sopra scritto “Bitter Fruit”, l’avevo scelta per la notte proprio perché costituiva un ricordo troppo intimo da esibire in pubblico.

 

-          Hai freddo?

 

Non proprio, ma inspiegabilmente tremavo come se sentissi freddo. Senza accorgermene avevo stretto le mani tra le cosce e nascosto il collo tra le spalle.

 

-          Se vuoi, mettiti pure sotto le lenzuola.

 

Mi disse, tirandosi finalmente via quegli assurdi occhiali da sole. Teneva lo spinello stretto tra le labbra quando cominciò a spogliarsi. Si godeva il mio imbarazzo mentre si sfilava quei pantaloni in cui era inguainata, poi tolse la camicia che la lasciò solo con una canotta da uomo attraverso cui i suoi seni si stagliavano puntuti. Mi colpirono particolarmente le sue mutandine di cotone con i bordi ricamati come quelle che usava Lalla ... da lei mi sarei aspettato almeno un tanga.

 

-          Non ti piacciono, vero? Io le adoro, ne ho anche con gli elefantini rosa e le fragoline rosse.

 

Disse con una tale malizia che m'infiammò il cervello. Elefantini, fragoline, succulenti lamponi ... Le mutandine le formavano un delizioso bozzetto sul davanti, con in mezzo una piegolina estremamente sexy che si andava timidamente a nascondere tra l'incavo delle cosce.

 

Lidia s’infilò nel mio giaciglio scavandosi una tana sotto il braccio, facendo il nido proprio sul mio petto.

Mi lasciò l’onore di accendere lo spinello e il sapore dolce dell’hascisc pervase subitaneamente un corpo già pregno di benzodiazepine. Una vertigine d’irrazionale amore verso l’intero creato mi precipitò in un sonno profondissimo.

 

Quando mi risvegliai era già buio e dalla finestra chiusa filtrava l’illuminazione stradale. Lidia non c’era. Pensai addirittura che quei ricordi fossero solamente frutto di un'allucinazione. Avevo solo un buco allo stomaco che rivendicava immediatamente cibo ipocalorico. Mi alzai e aprii le imposte della finestra, avevo bisogno di una boccata d’aria fresca che mi diradasse le nebbie mentali. Giù in strada stava passando un’allegra combriccola di turisti tedeschi.

 

Il ciabattare di mia madre in giro per casa mi fece realizzare di essere veramente sveglio e non come mi accadeva a volte di sognare solamente di esserlo.

 

Parte terza

 

Per lo più me ne stavo tutto il giorno sul divano a guardare cartoni animati già visti … c’era una domestica che veniva a rassettare e per prepararmi il pranzo … verso l’ora di cena arrivava mia madre, ma capitava che poi se ne andasse dopo aver lavato i piatti … non me ne importava. Rimanere solo era uno stato naturale per me.

Succedeva che il mio corpo si ribellasse a quello stato d’inerzia prolungato, allora giravo canale al televisore per mettere “Video Music” e con il volume a manetta tenevo concerti in stadi pieni di fan acclamanti.

 

Oramai mi ero abituato all’idea di lasciare tutto per andare a ricominciare in provincia. In fondo avrebbe potuto anche essere la scelta giusta da fare, visto quanto la mia seppur breve vita mi apparisse un completo fallimento. Avrei ricominciato da zero e finalmente ora avrei saputo come comportarmi in maniera normale. Sì, sarei stato come tutti gli altri, basta stravaganze intellettuali … avrei accettato le scelte degli altri, senza mai discuterle così sarei stato finalmente felice.

 

-          …

 

Mancavano solo pochi giorni prima che la mia nuova vita iniziasse, quando il citofono bestemmiò facendomi rinvenire da uno dei tanti sogni di gloria che mi portavano a scambiare opinioni con le più grandi personalità dello star system. Chi era che suonava a quell’ora? Non tanto per l’ora in sé, quanto piuttosto di chi si ricordava di venirmi a rompere i coglioni … ma poi che ora era? Sì, era giorno … questo me lo ricordo … magari era solo il postino e quindi apro senza chiedere chi sia …

 

-          …

 

Me n’ero dimenticato subito dopo del citofono e del postino, quando il campanello del portone urlò di nuovo … che fosse di nuovo lo spettro di Lidia? Ci sperai al punto che non guardai neanche dallo spioncino, aprii direttamente ma non era lei. Panari Felice Marcello. Era proprio lui! Che ci faceva sulla soglia della porta di casa che mi fissava senza proferire parola?

 

-          …

 

Gli era accaduto sicuramente qualcosa … qualcosa che gli aveva fatto far pace col mondo … non che fosse cambiato fisicamente … era qualcosa nel suo carattere … nel senso che non era da lui vestirsi in quel modo … quale modo? Beh, sembrava uscito da una rivista di moda. Non indossava un dettaglio che non fosse coordinato all’altro e … e aveva anche rasato i capelli come gli avevo sempre consigliato di fare, ma che poi non mi aveva mai dato retta … insomma, avevo davanti un ragazzo così tirato a lucido che avrei potuto scambiarlo per un fighetto pariolino.

 

-          …

 

Mi sorrise … no, non era come rideva abitualmente. Nel senso che, sì, sapeva sorridere anche così, ma di solito lui ti ghignava sul muso il suo sdegno. Quel sorriso lì, che gli illuminava lo sguardo, lo riservava a pochi intimi e in occasioni veramente speciali … bah, basta sragionare, mi dissi, e ricambiai il suo "ciao" con un: come va? Lui non sembrò neanche avermi ascoltato. Stavo per sbatter la porta in faccia a quella noiosa allucinazione, quando disse che era stata Lidia a informarlo che ero tornato e anche a consigliargli l’ora giusta per trovarmi da solo … ma allora Lidia c’era stata veramente a casa mia. Più che allucinazioni le mie erano dei puzzle fatti di brandelli di memoria che finivano per andarsi a incastrare in ordine sparso nel continuo rimugino che c'era nella mia testa … ma dov’ero rimasto? Ah, già … Marcello mi aveva portato un regalo dal suo viaggio in Thailandia.

 

-          ... quando l’ho viste ho pensato a te …

 

Sì, sapevo della sua fantomatica vacanza che doveva fare con Giacomo e compagnia bella. La stessa per cui mi aveva palesemente scaricato … ma ora perché era tornato? Le parole forse non me le ricordavo bene, ma sentivo ancora vivo il tono affilato con cui mi ferì dicendomi di sparire. Allora perché ora era tornato con quello stupido regalo di merda?

Si trattava di due marionette del teatro delle ombre … appena le aveva viste si era detto che a me sarebbero piaciute quelle stramberie. Bastardo, mi stava dando anche lui dell’invertito, originale, frocio … cazzo però se erano belle quelle marionette! Mentre mi raccontava cose sul quel tipo di teatro, mi chiedevo se era proprio lui quel caprone ignorante che ricordavo io …

 

-          ... si chiama Nang yai ...

 

Ridemmo … dopo, però iniziò a tergiversare su qualcosa che dovevo assolutamente sapere e rovinò tutto, perché io volevo ancora ascoltare altre storie di quelle marionette. E lui insisteva con sta cosa che aveva scoperto e si arrabbiò perché non lo volevo ascoltare, alzò la voce e a me dispiaceva … succedeva spesso che quando ridevo troppo poi mi sentissi triste fino alle lacrime, ogni smottamento dell’animo mi provocava di questi squilibri emotivi. Lui si arrabbiò ancora di più perché si accorse che continuavo a impasticcarmi, ma non era vero cazzo! Era solo una curetta per rimettermi in sesto e ricominciare una nuova vita, in cui avrei ben saputo guardarmi dalle stramberie che mettono in testa troppi libri.

 

-          … ma come fai a non rendertene conto …

 

Ma perché poi se la prendeva così tanto? Io proprio non ce la facevo più a starlo ad ascoltare ... e insisteva ancora e ancora … mi prese per le spalle e mi chiese cos’era che mi faceva stare sempre così male ... perché secondo lui non avevo niente di che lamentarmi e che ero diventato bello come avevo sempre desiderato essere … ma è strano perché non serve a un cazzo diventare belli. La storia del brutto anatroccolo è solo una fregatura … i belli si chiamavano Mattia e Carmelo ... perché se non ci nasci, se non ci sei nella testa … non potrai mai avere quella consapevolezza che ti permette di pisciare in testa a tutti …

 

E stavolta meno male che il citofono ragliò di nuovo. Marcello continuava a dirmi di aspettare ad andare ad aprire perché doveva per forza raccontarmi cosa aveva scoperto di così clamoroso in vacanza con quello stronzo di Giacomo. Apro la porta ormai sicuro di poterci incontrare persino il fantasma della Zia Pina che mi salutava dandomi del frocio …

 

-          Auguriii …

 

No, c’erano tutti … ma erano tutti in carne e ossa e mi urlarono contro “Buon compleanno” … ma non era il mio compleanno. Lidia, Carmelo e Mattia volevano festeggiarmi perché al campeggio non glielo avevo detto che era il mio compleanno eccetera … Lidia se la prese con Marcello perché al solito aveva rovinato tutto salendo prima … Ma non era il mio compleanno e poi ho sempre detestato gli auguri per qualcosa che non esisteva nemmeno.

Io sarei venuto al mondo troppo presto e per evitare che Primo si accorgesse dell’inganno, cioè che non era stato lui a mettere in cinta mia madre, mi fecero nascere in un paesino sperduto della Ciociaria, dove le levatrici ti facevano nascere in casa e solo dopo si procedeva all’iscrizione all’anagrafe … io non ero nato il quindici agosto e lo avevo sempre saputo … Angela me lo bisbigliava in punta di labbra quando scartavo i regali perché tanto non valevano … non valevano ... non valevano ... io un compleanno non l'avevo mai avuto ... lo sapevo anche senza saperlo … è che i bambini credono di vivere in una favola del cazzo, ma non si può sempre vivere di fantasie ... e poi sfido chiunque a vivere in una favola e non esserne atterrito …

 

-          … perché è un bravo ragazzo e nessuno lo può negar …

 

Desideravo avere un compleanno ed ero felice che i miei amici avessero pensato di regalarmene uno. Era bello avere degli amici … purtroppo non ero in grado di ringraziarli … non so, magari Lidia rollò una canna, forse bevvi anche una birra … ma non mi ricordo niente di quanto accadde. Mi ritrovai nel mio letto direttamente all’ora di cena. Mia madre mi svegliava dicendomi che la pasta asciutta era in tavola e dovevo sbrigarmi se non volevo che diventasse colla per i muri.

 

Mi guardai attorno per vedere se c’erano le marionette di Marcello ... c'erano! E c'era anche la maglietta che mi aveva regalato Lidia, quella con su scritto "Bitter Fruit". Ebbi un deja-vu ... cosa mi stavano combinando quelle dannate pillole? Quella volta mi spaventai sul serio e dissi alla mamma che non le volevo più. Ero guarito e mi sentivo meglio. Le dissi che volevo raggiungere Angela per prepararmi all’inizio della scuola … che volevo ripassare qualche lezione per partire bene negli studi e altre cavolate che sapevo essere le cose che voleva sentirsi dire. L’indomani stesso partii per la provincia.

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  • 2 weeks later...
Silverselfer

Floppy 04/40

 

 

Una grande città genera diversi tipi di periferie che si spingono fino a svariati chilometri oltre la cinta urbana. In quell'immenso hinterland non cresce niente oltre a villette per i cittadini in cerca di tranquillità o palazzoni dormitorio per la manovalanza che non si può permettere di vivere in centro. I pullman, i treni e le tangenziali a scorrimento veloce si muovono tutti verso la metropoli, da cui si dipende in tutto e per tutto. 

In questo spazio di mezzo tra la provincia e la città ci si trova a malapena qualche cinema, in cui però non va nessuno perché le sale sono fatiscenti. Ogni attività ricreativa soccombe alla concorrenza che gli fa la metropoli, col risultato che proliferano solo i Bar. So che molti hanno a cuore questo genere di realtà, pregno di un certo romanticismo goliardico, ma io non riesco a darne un'impressione positiva. Il Bar concepisce la sua cultura nel becero qualunquismo populista, lo stesso in cui i miei nuovi compagni di classe si erano forgiati.  

 

L'impatto con quel mondo fu disastroso.

 

Speravo che le scuole superiori somigliassero a quelle dei telefilm americani, si rivelarono invece come una riedizione esasperata delle scuole medie. Il primo giorno era di per sé molto difficile d'affrontare, ma al solito a me aspettava un inizio ancora più traumatico.

Un istituto tecnico industriale ha solitamente la fama di essere una sorta di penitenziario minorile e il mio non faceva eccezione. Tanto che quell'anno il preside creò ufficiosamente una sezione "lager" dove relegare i soggetti più turbolenti. Volete forse che io non finissi nella famigerata sezione "I"?

 

Ci finii perché ero uno dei fuori sede arrivati dalla città, solitamente in cerca di un istituto scolastico che se li accolli, in effetti, l'altro romano che c'era in classe era stato già bocciato due volte al Nautico. Si chiamava Bianchini e scoprii solo parecchio tempo dopo che il diminutivo Lele non stava per Emanuele ma per Eleazar. Al contrario di me, aveva la madre israelita e il padre italiano e non faceva mistero del suo rancore per ogni cosa riguardasse gli ebrei. Oltre a Lele nella mia classe c'erano altri dodici ripetenti.

 

Molti degli alunni arrivavano dai quartieri definiti "167", perché costruiti con il finanziamento pubblico all'edilizia popolare della legge, appunto, 167. Questi ragazzi erano particolarmente feroci e si trascinavano dietro storie sempre difficili, come Lepe che era cileno e i suoi avevano chiesto asilo politico all'Italia. C'erano anche diversi ragazzi provenienti dalle campagne. Questi parlavano un dialetto stretto che a Roma si sarebbe definito "burino"; di cui molti ne avevano anche l'aspetto.

 

Nella sezione "I" c'erano finite anche due ragazze. Quell'anno era la prima volta che si erano iscritte delle ragazze. Un fatto di cui la segreteria non si avvide per tempo ma, appena si accorsero della svista, si sbrigarono a metterle in salvo spostandole tutte nella sezione "A", che era l'aula più vicino all'ingresso della scuola. Le ragazze la mattina entravano dieci minuti prima per anticipare l'uscita di altri dieci, di modo da limitare il contatto con la masnada dei maschi fuori controllo. Mi dispiacque molto salutare Perciballi che mi pareva essere l'unica a parlare la mia lingua. L'altra si chiamava Ludovica e proveniva dalla campagna. Era una montagna di femmina, alta quanto me ma tre volte tanta, in pratica un armadio semovente. Lei non mi mancò molto specie per la sua assurda voce stridula.

 

In quella scuola un ragazzo parlava sostanzialmente di tre argomenti: figa, calcio e motori. Anche in città era così, ma la cultura da bar esigeva di escludere ogni "originalità", sempre che non si volesse diventare l'argomento alternativo a tutto ciò: il diverso. Lo strano diventava subito un bersaglio, l'oggetto di una curiosità morbosa, l'ispirazione di tanta arte goliardica.

Siccome la sessualità era il solo talento con cui nascevano tutti, in quel posto era il metro con cui si misurava la normalità. Io non dovetti più preoccuparmi di cos'ero veramente, perché le mie originalità caratteriali erano tali da rendermi comunque anomalo.

 

Mi resi subito conto del rischio che correvo perché non riuscivo a combaciare con quel cliché di ragazzo. Ogni mattina entravo in classe con la paura addosso di essere preso di mira. Feci, dunque, quello che mi riusciva meglio: scomparire. Non parlavo con nessuno e tracciai sentieri su cui spostarmi anonimamente. Divenni invisibile al punto che persino i professori si dimenticavano di me, stupendosi quando mi materializzavo alla chiama del mio nome per essere interrogato.

 

Alle scuole secondarie corrispondevo alla figura di un bravo studente e la mia media scolastica non suscitava particolare attenzione, permettendomi di rimanere nell'ombra. Qui era diverso e seppure in alcune materie mi barcamenassi a malapena con una sufficienza, in altre ottenevo risultati che destavano meraviglia e stupore.  Anche il mio nuovo aitante aspetto fisico mi era d'impaccio perché non giustificava tutta quella mia ritrosia.

Accadeva come nelle ore di ginnastica in cui il prof mi doveva obbligare a giocare, ma quando lo facevo, la mia preparazione atletica era nettamente superiore a quella degli altri, facendomi primeggiare e quindi uscire dal cono d'ombra in cui cercavo disperatamente di nascondermi.

 

Nella mia testa sapevo di essere diverso da loro e questo mi faceva emarginare preventivamente.

 

Ricordo quella volta che, rientrando dalla ricreazione, il cileno mi tese un agguato spingendomi violentemente su un banco. Lo scopo era provocare una mia reazione. Tutti risero e lo spronarono a continuare mentre mi sbertucciava ... io ero paralizzato dal panico. Il cileno prese le mie cose dal banco e le gettò nel cestino ... io tentai di andarmele a raccogliere tra il ludibrio generale, ma appena mi piegai il cileno mi afferrò per i fianchi mimando una sodomizzazione. Appena reagii, lui tentò di scappar via. D'istinto lo trattenni per il maglione e ricordo esattamente quando lo stavo per colpire con la cartellina da disegno tecnico ... lui continuava a prendermi in giro "oddio ha reagito!" diceva, cercando con lo sguardo il consenso degli altri, che però avevano smesso di ridere. Avrei dovuto colpirlo, mi sarei certo guadagnato il rispetto di tutti, ma non ci riuscii. Abbassai il braccio pronto a sferrare il colpo e gli feci pure un mezzo sorriso, cercando di dargli a intendere che lo scherzo aveva divertito anche me. Nessuno capì quella mia passività, tantomeno io che continuavo a essere il più intransigente giudice di me stesso.

 

Un'altra volta, un tizio di cui non ricordo il nome, lo stesso che mi aveva rubato il costoso libro di Fisica, aveva sgraffignato uno dei nuovi lettori cd nel laboratorio d'informatica. L'imbecille non aveva tenuto conto che, quel giorno, solo due classi usarono i computer e quella dopo di noi si accorse dell'ammanco, quindi i sospetti caddero immediatamente sulla tristemente nota sezione "I". Il mattino dopo preside venne in classe e minacciò un giorno di sospensione, se prima della campanella d'uscita non fosse stato riconsegnato il lettore cd. A nulla valsero anche le successive paternali dei professori e all'ultima ora si scomodò persino il vice preside che ci venne ad avvertire quanto il direttore fosse incazzato nero ... si rivolse particolarmente a quelli che sapevano e a causa di un imbecille stavano per rischiare un sette in condotta.

Inutile dire del fermento che si scatenò in classe, ma personalmente trovavo giusto chi ne faceva una questione d'orgoglio perché, in fondo, potevano essere stati anche gli alunni di quell'altra sezione a rubare. Era fortemente discriminatorio prendersela solo con noi.

 

Il lettore cd non uscì fuori e il giorno seguente il preside ci mandò due carabinieri, i quali ci mostrarono il verbale della denuncia. Ci dissero che il preside era fin troppo magnanimo perché ci dava un altro giorno per restituire il mal tolto, altrimenti la denuncia, in quanto minorenni, sarebbe ricaduta sui nostri genitori che avrebbero dovuto risarcire il danno.

A quel punto scattò il panico. Durante le ore di ginnastica ci fu una sorta di sollevazione popolare ... tutti erano certi che fosse stato il solito lesto di mano a rubare il lettore cd, ma quello non confessò fin quando volarono degli schiaffoni, anche allora, però, non voleva saperne di riconsegnare la refurtiva perché non si fidava del preside e temeva che lo consegnasse ai carabinieri.

Nessuno aveva il coraggio di andare a prendere questo accidenti di lettore cd dove era stato "appizzato" per riportarlo al preside. Decisi dunque di risolvere la questione e dissi "ci vado io". Beh, speravo di suscitare almeno della gratitudine, invece, ci rimediai solo degli sguardi increduli nel constatare quanto fossi coglione.

 

Durante la ricreazione il ladro mi accompagnò fin davanti ai bagni dei laboratori e mi disse che la refurtiva stava nascosta sopra il controsoffitto ... certo che un posto più complicato non lo poteva trovare. Lui mi diede la dritta di andarci durante le ore di lezione. Obiettivamente chiedere di andare in bagno fu la cosa più complicata della faccenda, perché quel insonne del professore di fisica sonnecchiava in classe e al solito non c'era verso di fargli notare una semplice mano alzata. Furono gli altri a dirgli che dovevo andare in bagno ... e quello manco si accorse che con me uscirono anche il ladro e persino il suo compare.

Presero loro la refurtiva e si sbrigarono a mettermela in mano, dicendomi di non andare dal preside perché mi avrebbe torchiato di brutto. Bastava che la nascondessi dove la potevano ritrovare e insieme pensammo che il cassetto della guardiola del custode fosse un posto ideale. Da quel punto in poi mi osservarono da lontano mentre facevo quello che loro non avevano il coraggio di compiere. Quando tornai, mi guardarono con ammirazione e il ladro mi confessò persino che gli dispiaceva di avermi "solato" il libro di Fisica e s'impegnò a procurarmene un altro ... chissà a scapito di chi. In ogni modo, quando rientrammo in classe, io me ne tornai nel mio cono d'ombra.

 

Aveva ragione la zia Pina, io ero diverso e non potendo essere come loro, mi autoescludevo attirandomi addosso più di qualche sfottò. L'annullamento personale divenne una sorta di chemioterapia con cui cercavo di stroncare il cancro della difformità, ma quel veleno divenne presto una situazione insostenibile. Il terrore offuscò la mia capacità di giudizio e una sorta di autolesionismo iniziò a recitarmi in testa che ero un fallito e sarei rimasto un reietto per tutta la vita. Fino a quando una mattina persi l'autobus e a scuola non ci andai.

 

Parte seconda

 

Marinare la scuola un giorno o due si poteva fare tornando la mattina dopo chiudendosi nei bagni aspettando la seconda ora, poi si entrava in classe e il professore che arrivava ti segnava il ritardo senza chiederti la giustificazione, dando per scontato che ti aveva fatto entrare la presidenza. Il giochino funzionava fin quando non diventavi un "segaiolo" seriale, allora i prof diventavano più accorti, anche se poi non gliene importava nulla, specie se eri uno scocciatore e non averti fra i piedi gli facilitava il lavoro. Comunque, se finivi nel libro nero dei segaioli, ti conveniva entrare in classe nel cambio dei professori e mettere da solo una "R" sopra il tuo nome nel registro delle presenze. Seppure semplice da fare, questa cosa ti metteva addosso una tale ansia che finiva per tenerti lontano da scuola sempre più allungo.

 

Iniziai a marinare la scuola verso gli inizi di novembre. Girovagavo senza meta per ore, sempre attento a non incontrare nessuno che mi potesse riconoscere. Il tempo non passava mai e non riuscivo a concentrarmi neanche su una lettura, finiva quindi che m'inventavo una scusa per rientrare a casa prima; dove per lo più dormivo per sopravvivere all'ansia di affrontare l'attesa nei cessi della mattina dopo.

 

Un giorno tira l'altro fino a quando si arriva fatalmente a commettere un errore, come una giustificazione che viene segnalata sul registro da portare il giorno seguente, magari quella volta riesci pure a farla franca, ma poi se ne aggiungerà anche un'altra e alla fine sarai costretto ad aspettare sempre più allungo nei cessi, perché dopo la ricreazione i prof manco li guardano più i registri delle presenze.

Il segaiolo nascosto nel cesso era una condizione assai disgraziata. Lì dentro il tempo congelava nella tensione di essere scoperti dai bidelli, che ti stavano addosso come dei cacciatori di taglie.

 

A tutto questo si aggiunga che inevitabilmente ci si scolla dal ritmo di studi. Si perdono spiegazioni, non si fanno più i compiti a casa, si rimane indietro con i programmi e studiare per una sufficienza diventa uno slalom tra altre interrogazioni e verifiche scritte da evitare. Presto non si arriva più a fare una settimana di fila a scuola e il tuo problema principale non è più la sufficienza, ma fare in modo che a casa non si accorgano di nulla.

Si cominciano a raccontare bugie a tutti, compreso a se stessi. Tanti buoni propositi che inevitabilmente devono essere rimandati alla settimana successiva. Intanto si accumulano le emergenze la cui risposta è sempre la stessa, marinare la scuola e rimandare tutto a un domani che non arriva più.

 

Certo che tutta questa consapevolezza non l'avevo in quei momenti. La mia vita era diventata una grossa macchia nera. Quel continuo girovagare mi costringeva a rimuginare continuamente su ogni dettaglio della mia sciagurata esistenza. Avevo un disperato bisogno di aggrapparmi a qualcuno che mi potesse capire, che mi tirasse via da quella condizione di claustrofobica solitudine. Fu così che decisi di cercare Panari Felice Marcello.

 

Il sabato avevo un allenamento serale con la pallanuoto, così solitamente poi me ne andavo a dormire a casa mia, a Roma intendo. Quel giorno costituiva una parentesi di pace, una tregua nella vita di trincea quotidiana.

Sperare di trovare a casa Marcello di sabato sera era assurdo, quindi telefonai a casa sua per vedere se potevo trovarlo di pomeriggio. Mi rispose sua madre che si stupì molto nel risentirmi, ma al solito fu anche molto gentile e m'invitò ad andare a casa sua.

 

Rosa quasi non mi riconosceva e mi fece tanti complimenti per quanto ero cresciuto eccetera. Oramai le lusinghe mi davano anche un po’ fastidio, quindi tagliai corto e le chiesi se Marcello era in casa. Lei fu molto evasiva e m’invitò a sedermi per prendere un caffè, poi si ricordò che io il caffè non lo prendevo e mi chiese perché non le avessi mai detto che non mi piaceva neanche il cappuccino a colazione. Chi gli aveva riferito tutte quelle cose su di me? Si comportava in modo davvero strano. Mi preparò del pessimo tè, quindi si sedette aspettando che lo bevessi. Era nervosa e si sistemava continuamente i capelli. Tanto per rompere quel silenzio imbarazzante, le chiesi se Marcello studiava o avesse preso a lavorare nell’officina del padre. I suoi occhi iniziarono ad andare a destra e sinistra, si alzò trascinandosi dietro la sedia che poi afferrò per la spalliera e mi disse: “Allora tu non lo sai dove sta?”.

 

Rosa uscì dalla cucina e vi rientrò con delle mie cose: un paio di calzoncini da jogging e qualche maglietta che avevo usato quando correvo con Marcello. M’imbarazzai un po’ a vederci poggiato sopra un flacone quasi vuoto di olio di mandorla ... ma Rosa non poteva certo sapere a cosa fosse servito. “Marcello se n’è andato” mi disse mettendomi le mie cose davanti. Che dovevo risponderle? “Mi ha detto tutto … lo so … so cosa facevate … facevate l’amore” Ehilà che parolone! “E io che ti preparavo pure da mangiare” Disse battendosi il petto con le lacrime agli occhi.

 

Era una situazione davvero molto imbarazzante, non c’era da stupirsi che mi fosse tornata la balbuzie “I … I … Io …”. Rosa mi schiaffeggiò, dovetti bloccarle i polsi per farla smettere, allora mi sputò in faccia. “Ricchione” Mi disse “Me lo hai rovinato”. Questa poi, con un padre che era un avanzo di galera, una madre che non era stata capace di badare a lui affidandolo a collegi e case famiglia, lo avevo rovinato io a suo figlio. Se solo fossi riuscito a spiccicare una sillaba intera, gliele avrei certo cantate, invece mi pulii il suo sputo e presi le mie cose. Lei non la smetteva e mi venne dietro fino alla porta, vomitandomi addosso i peggiori epiteti sui froci. Stavo aspettando l’ascensore quando iniziò a urlare come una pazza “Ricchione … ricchione … guardate o ricchione”. Prima che si affacciasse qualcuno, presi le scale cercando di non svenire dalla vergogna.

 

Parte terza

 

Le vacanze di Natale mi sembravano un'oasi di salvezza. Quel ricordo dorato di crosta fritta in padella, luminarie e balocchi da scartare, mi appariva come un affrancamento dalla realtà, però non fu così. Per il vero le cose erano cambiate già da un pezzo, ma in quel momento avevo un disperato bisogno di ritrovare l'innocenza che sta nello sguardo di un fanciullo. Avevo nostalgia di Vanni e della nostra doccia a schizzo e di Lalla ... anche se Lalla c'era ancora.

 

Lalla era innamorata di un tizio che il padre Beppo riteneva un delinquente e quindi non voleva che si frequentassero. La vigilia di Natale lei mi venne a raccontare la sua pena nel non poterlo incontrare eccetera ... Si era inventata che doveva andare a comprare delle calze ma Beppo non era così coglione da credere a una sciocchezza simile, tuttavia se l'avessi accompagnata io, lei si diceva certa che il padre non avrebbe potuto obiettare nulla. Non chiedetemi perché, ma fu così.

 

Andammo in scooter fino in paese e lei s'infilò nella macchina del suo amoroso ... si doveva trattare solo di un saluto ... qualche bacio ... invece quelli misero in moto e scomparvero per ore. Lalla mi lasciò all'addiaccio ad aspettarla. Io ero uscito così com'ero in casa, cioè con la solita tuta e una giacca da camera ... lo so che non sembrerebbe una tragedia, ma per uno come me che la mattina si preoccupava di sistemare ogni capello nel timore di apparire "fuori posto", quei momenti furono da panico.

 

Al rientro fu pure peggio perché Beppo m'inveì contro dandomi del frocio ruffiano, ovviamente usò quell'epiteto solo con l'intento di offendermi, allo stesso modo come si darebbe della puttana a una donna. Questo non importava molto perché quell'appellativo ruppe la cataratta che fino a quel momento aveva tenuto fuori il mondo esterno dalla mia realtà domestica. Fu tutto così deleterio e mi gettò di nuovo in uno stato di profonda prostrazione.

 

La voce di Beppo si aggiunse a quella di Rosa ed entrambi si unirono al coro di ricordi che avevo nella testa a spiegarmi quanto fossi schifoso. I ricordi erano come tanti tasselli di un puzzle che formavano un'immagine grottesca cui non volevo somigliare. Marcello che da bambini al parco di Castel Sant'Angelo mi chiamava "inutile frocetto", Rinaldo che in collegio mi trascinò nel cesso e poi raccontò in giro che glielo avevo preso in bocca, la zia Pina che prima di morire mi rivelò cosa non sarei mai stato ... e poi ancora Giada che sì divertì a far leggere a tutti le intimità che le avevo scritto nel diario regalatole per il suo compleanno ... ero un figlio di nessuno, mezzo ebreo e pure frocio ... ma quanta tristezza può contenere un solo cuore umano?

 

A gennaio tentai di cavarmi via la vita ... sì, ma con della "Novalgina". Lo so che fa ridere, ma non avevo altro a portata di mano quella sera. Le Tavor erano razionate e durante le vacanze di Natale avevo dato fondo a ogni scorta ... L'indomani sarei dovuto rientrare a scuola per forza perché ero mancato l'ultimo giorno prima delle vacanze, quindi rischiavo un certificato medico ... dovevo morire quella sera e nello stipetto dei medicinali ci trovai solo quella fottuta Novalgina.

 

Sulle controindicazioni avevo letto che la Novalgina poteva causare tachicardie anche gravi, quindi pensai che scolandomene una boccetta quasi intera, mi avrebbe procurato un arresto cardiaco.  Insomma, mettendo da parte la fattibilità del suicidio, io lo affrontai con lo stesso spirito di chi si sta per gettare di sotto da un cornicione. La paura della morte era tantissima, ma allo stesso tempo la prospettiva di continuare a vivere in quel modo era ancora più spaventosa. Mi dicevo che tanto a me la vita non era mai piaciuta e la morte poteva essere un sollievo come per chi si va a coricare dopo una dura giornata di lavoro ... ed io mi sentivo così stanco.

 

Feci la doccia e misi su la biancheria buona, cambiai anche le lenzuola e dopo aver ingollato il bicchiere di Novalgina, mi stesi sul letto con una postura dignitosa. Cercai di tenere lontani i pensieri dalla testa recitando un rosario ... ma i sudori freddi mi vennero lo stesso perché stavo per morire! Feci gli esercizi di respirazione per tenere sotto controllo il panico e non correre da Angela a chiederle aiuto per la cazzata che avevo fatto ... ma poi pensavo anche al pagellino scolastico che avrei dovuto far firmare ... il disastro della mia esistenza allora mi convinceva di nuovo a credere che quella fosse l'unica soluzione possibile. Nelle orecchie avevo la voce di Rosa che mi sputava in faccia "Ricchione" e se solo l'avessero scoperto anche gli altri! Il cileno mi avrebbe chiamato anche lui "Ricchione" ... morire a volte è la cosa giusta da fare ... del resto dal frutto del peccato non c'è da aspettarsi niente di buono ... io non sarei mai dovuto nascere e quindi stavo solo rimediando a un errore commesso da altri.

 

Riuscii persino ad addormentarmi e al mattino mi risvegliai peggio di prima. Ma quale coglione tenterebbe di togliersi la vita con della Novalgina? Neanche come fallito valevo gran che. Quel gennaio fu il più brutto della mia vita, almeno di quella vissuta fino a quel momento. Ogni giorno cominciava con un sospiro di ansia che mi premeva il petto e giungevo a sera implorando il padreterno di rimediare lui all'obbrobrio esistenziale che ero diventato.

 

Talmente mi facevo schifo che non riuscivo più neanche a guardarmi allo specchio.

 

L'incombenza del pagellino che avrei ricevuto per riportarlo firmato entro il trenta gennaio, divenne un limite invalicabile. Dovevo assolutamente morire, ma la prossima scatola di Tavor mi sarebbe stata data solo il mese dopo ed io non ce la facevo più. Certo che avrei potuto gettarmi sotto un treno o impiccarmi, ma l'idea del post mortem prevaleva e non mi andava di lasciare un cadavere disgustoso. Cercai dunque di provocarmi un'embolia con una siringa ... ma vi pare facile farsi una pera d'aria? Non lo è per niente. Ci armeggiai un intero pomeriggio, senza riuscire neanche a pungermi con l'ago.

 

Fin quando avevo avuto la possibilità di farla finita pigiando il bottone rosso dell'autodistruzione, potevo sperare di avere comunque una via d'uscita. Dopo lo spavento del tentato suicidio con la Novalgina, non ero manco riuscito a pungermi con la siringa dell'embolia che volevo provocarmi. Io non avrei mai avuto le palle di ammazzarmi, questo era chiaro. Tentai quindi di razionalizzare il più possibile quell'impiccio psicologico che mi strangolava. Io non ero frocio, mi dicevo, perché quelli non s'innamorano mica delle ragazze, no? Ma allora perché continuavo a trastullarmi con l'avvenenza del corpo di Carmelo? Non lo dovevo fare più ... quindi avrei chiesto aiuto a Dio Padre, lui mi aveva già ascoltato una volta e non c'era ombra di dubbio che si trattava di un miracolo la trasformazione che aveva avuto il mio corpo ... quindi se il Padreterno non voleva che i maschi se lo facessero venire duro tra loro, avrebbe ben potuto aiutarmi nella redenzione dei miei gesti peccaminosi.

 

Iniziai dunque a pregare notte e giorno. Camminavo con un rosario da dito e contavo a ripetizione i misteri gloriosi. M'infliggevo pene corporali, digiuni e mi sottoponevo ad abluzioni di acqua gelida. Trascorrevo intere mattinate in chiesa fino al punto che le preghiere mi uscivano di bocca come fossero un respiro liberatorio. Pare strano a dirsi ma quella tensione mistica alla fine mi condusse fuori dall'oscurità in cui ero finito.

Non lo so se fu un miracolo del Padreterno, ma su quel pagellino alla fine le insufficienze erano solo due: matematica e fisica. L'ecatombe che mi aspettavo si risolse con un paio di quattro da recuperare.

 

Allontanati i problemi scolastici e il riposo nella preghiera che ridiede forza alle mie meningi, mi permise di acquistare quel metro necessario per guardare dall'esterno i fatti che mi stavano accadendo.

Compresi che era stato qualcosa dentro di me che quasi mi aveva ucciso. C'entravano poco i ragazzi della mia classe, che molto semplicemente ragionavano per similitudine d'insiemi e non capivano la mia refrattarietà a ogni logica di gruppo. Ero io il giudice severo che aveva accolto le accuse di Rosa, confermato la sentenza della zia Pina e infine decretato il verdetto di morte.

Se il pensiero origina nel logos, le parole possono diventare il veleno in cui il diverso leggerà la propria condanna sociale. Dovevo svincolarmi da quella figura retorica della "normalità" che c'è instillata fin da bambini insieme al linguaggio ...

Riposi la Bibbia sullo scaffale e imbracciai di nuovo l'opera completa di Nietzsche, andandomi a rileggere i passi che avevo già sottolineato riguardanti l'importanza del disimparare per incamminarsi sugli impervi sentieri dello spirito libero.  

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  • 3 weeks later...

Floppy 04/41

 

Conservo una memoria rarefatta di quei giorni perché, se i ricordi sono il sedimento lasciato dal proprio sguardo sugli eventi, io rifiutavo quella stramba angolazione che mi condannava a vivere in modo diverso. Bramavo la visione dell'esistenza condivisa dal resto del genere umano, dunque mi accecavo, usando la ragione come dei paraocchi per non vedere quello che inseguivo. Era una volontà nefasta che sovrastava l'intelletto, castrando l'entusiasmo di ogni pulsione dell'animo. Una situazione che si risolveva nel nostalgico ritorno all'età dell'infanzia: quando i sogni per essere vissuti non avevano bisogno di diventare desideri.

 

Parlare di soldi pare sempre meschino eppure un adolescente dipende economicamente dalla propria famiglia; averne una ti mette al riparo dall'indigenza, donandoti la tipica spensieratezza della giovinezza.

Io ero "ospite" a casa di Primo, il quale mi passava generosamente vitto, alloggio e provvedeva alle spese scolastiche, ma non potevo certo chiedere un centesimo di più. Considerando che Primo non c'era mai e le finanze di casa erano tenute da mia sorella, la quale era molto risentita nei confronti di nostra madre, lei mi faceva pesare la cosa come se mi stessi appropriando di un bene che le apparteneva di diritto.

 

Io cercavo di chiedere il meno possibile, ma avevo comunque bisogno di soldi. Accadeva come per la pallanuoto, Primo m'iscrisse al circolo senza bisogno che qualcuno glielo chiedesse, ma darmi i soldi per fare l'abbonamento del treno, che mi serviva per andare a Roma, era competenza di mia sorella e lei ogni volta si scocciava, dicendo che almeno quelli me li avrebbe dovuti dare nostra madre. Questa cosa succedeva anche per una matita o qualunque altra spesa che riguardava il quotidiano. D'altra parte i soldi di mia madre erano di Paolo e chiederli a lei mi faceva sentire ugualmente inopportuno.

A scuola trovai il coraggio per andare a recuperare il prezioso lettore cd trafugato nei laboratori, perché se quella denuncia avesse avuto corso e le famiglie sarebbero state costrette a risarcire il danno, a casa mia sarebbe scoppiato un caso diplomatico ... e non tanto per i soldi, ma sulla discussione di chi fosse "il genitore o chi ne fa le veci".

 

In quel periodo la piscina era il solo posto dove la mia vita aveva ancora un sapore.

 

Precisamente non ricordo quando, ma la prima partita del campionato di pallanuoto si sarebbe disputata molto presto e più di qualche ragazzo non era ancora rientrato in città per allenarsi. Fu così che il coach mi convocò per gli incontri amichevoli di precampionato, ed è per questo motivo che Primo si era sbrigato a pagarmi la retta del nuovo anno del circolo canottieri, orgoglioso com'era di mettersi al collo il pass che veniva dato ai genitori per gli incontri ufficiali.

Probabile che fu anche per aver partecipato al ritiro estivo, ma in ogni modo, dopo quelle partite l'allenatore decise d'investire su di me e mi permise di partecipare gratuitamente a tutte le ore di allenamento della squadra.

 

Questo comportava avere in tasca quell'accidenti di abbonamento per il treno, senza contare il biglietto dell'autobus. Sull'autobus cittadino era facile fare il portoghese con un piede sempre pronto a scappare verso la porta. In treno, invece, quei trentacinque o anche quaranta minuti di viaggio erano interminabili, sempre con l'orecchio teso ad ascoltare il "Biglietto?" pronunciato dal controllore. Nascondersi nel cesso puzzolente non garantiva niente, perché alcuni controllori si attaccavano a quella dannata maniglia fino a quando non rispondevi. La soluzione era riuscire a individuare il controllore quando il treno si fermava in stazione, allora si doveva essere lesti a salire nella parte di treno in cui era già passato.

 

Beccai una sola multa e non fu sul treno. Un controllore dell'ATAC m'intercettò mentre tentavo di sgattaiolare via dalla porta, cercai di scappare, ma quello si aggrappò al borsone della piscina e solo dopo mi resi conto che sarebbe stato meglio lasciarglielo in mano. Io non avevo i documenti e non che li avessi dimenticati o altro, non mi era mai servita una carta d'identità prima di quel momento e perciò non l'avevo. Tantomeno avevo i soldi per pagare la multa e quindi fui portato addirittura in caserma per essere identificato. Potevo forse chiamare Angela che stava decine di chilometri distante? Detti il numero di mia madre, solo che a rispondere fu la domestica filippina; accidenti a lei e a quanti non pretendono che questi immigrati imparino l'italiano prima di lavorare in Italia. Quella non capì niente di quanto le stessi raccontando e risolse la situazione avvertendo Paolo. Che potevo farci più?

 

Paolo, un estraneo, mi venne a recuperare. Non spiccicai una parola per tutto il tragitto verso casa sua ... apriti cielo quando mia madre seppe la cosa. Quale umiliazione! Il figlio era finito in gendarmeria ... cioè, contava poco la sciocchezza della faccenda, per lei avevo comunque infangato il nome della famiglia ... restava sempre da capire quale nome e di quale famiglia, ma questi non erano dettagli che le importavano. Le ci vollero i sali per non svenire dalla vergogna e poi si attaccò al telefono e ne disse di tutti i colori a Primo ...

Io raccontai che Angela aveva dimenticato di darmi i soldi, tanto ormai di balle ne sparavo a pacchi, però mia sorella non mentiva quando sosteneva che i quattrini dell'abbonamento me li aveva scuciti tutti ... era così ... ero stato io che li avevo spesi per delle sciocchezze. Del resto le mattinate trascorse in giro invece che a scuola finivano sempre per costarmi qualche soldo: la sala giochi ... una pizza ... e poi non si trattava certo di una gran cifra di denaro.

 

-   Ragazzino va tutto bene?

 

Al termine di quella buriana, come il solito mia madre ebbe di che piangere amaramente la sua disgraziata condizione umana. Per telefono Angela le aveva snocciolato con cura le mille ragioni del profondo rancore che provava verso di lei. Forse era una vita che mia sorella aspettava quell'occasione. Io assistevo muto alla scena del solito "vomitato" con cui celebravo ogni mio dissenso. In fondo ero rimasto il bambino cattivo di sempre.

 

-   Se vuoi, puoi rimanere qua ...

 

Ovvio che mi sentissi una merda mentre quelli si stavano scannando sui centesimi che mi mangiavo. Mi tornò quell'orribile sensazione di trasparenza, quando da bambino i miei litigavano sulle spese domestiche e inevitabilmente finivano per parlare di me in modo orribile, come se non avessi orecchi per ascoltarli. Con il senno di poi, mi rendo conto che fin da allora imparai l'arte dell'annichilirsi dinanzi a dolori troppo violenti.

Il sale delle lacrime che si trattengono negli occhi non fa male, ma impedisce a qualunque seme di radicarti nel cuore.  Tanto che a sconvolgermi non fu quello spettacolo penoso, ma la mano di Paolo che si strinse energicamente sulla mia spalla, richiamando il mio sguardo per offrirmi la sua disponibilità a prendermi in casa sua. Ma come si permetteva a intromettersi! Ma chi cazzo lo aveva chiamato nella nostra vita? Non ricordo come, ma gli risposi in modo assai scortese.

 

Se ne risolse che Paolo dovette contribuire al mio mantenimento per conto di mia madre. Soprattutto fu stabilito che il sabato e la domenica li avrei trascorsi a Roma per alleggerire il compito di Angela, che mi doveva sopportare per l'intera settimana. Ovviamente, dopo la scenata che avevo fatto al rientro dal campeggio, fu scontato che a casa di Paolo non ci avrei messo piede. Mi furono così date le chiavi di casa mia, dove sarei tornato dopo l'allenamento del sabato, poi mi avrebbe raggiunto la mia deliziosa mammina, con cui avrei trascorso la domenica.

 

Un antico adagio popolare recita: Sotto un fico non ci crescerà mai una quercia. La mia famiglia era una macchia di fichi, cioè alberi senza fusto. Infestanti arboree tra cui il vento sibila note inquietanti. Ero io che non so se fossi propriamente una quercia, ma non appartenevo alla loro razza e quindi non potevano capire le mie necessità.

 

Parte seconda

 

Lo sport è qualcosa che ti libera la mente e la fatica ti lascia nel corpo un appagante senso di sazietà. Quando ero in acqua vigevano le regole dello sport, chiare e ripetitive. Sapevo chi era il mio avversario e mi ero allenato proprio per batterlo. Non c'era troppo da lambiccarsi il cervello, quello che dovevo fare era mettere in pratica lo schema di gioco. Nessuna complicazione ... almeno fino a quando il fischietto dell'arbitro a bordo piscina m'indicava per un cambio ... appena sentivo la ceramica sotto il palmo dei piedi ... tutto tornava a essere estremamente scivoloso.

 

-   ... certo che non è normale dormire a casa da soli ...

 

Primo si dava da fare moltissimo affinché riuscissi a entrare nella squadra ufficiale. Del resto aveva sempre cercato di farmi diventare un buon atleta. Del premio "Tiber" per la migliore composizione poetica, che mi ero aggiudicato per ben due vote, non gliene aveva mai potuto fregare di meno. Solo con un figlio che indossava i colori del circolo, sarebbe potuto entrare nel gota di quei soci che pisciavano in testa a tutti gli altri, quindi mi spalleggiava contro mia madre, che al circolo non ci mise mai piede e quegli allenamenti costituivano un'assurda complicazione per la sua vita.

 

Per mia madre tornare nel nostro vecchio appartamento significava ripiombare in una realtà spiacevole. Casa mia era stata il suo esilio da quando abbandonò il tetto coniugale. Restarci l'aveva costretta a lavorare da portinaia, compiacendo per anni i capricci di ogni abitante del palazzo, compresa la zia Pina. Senza contare che quella sistemazione gliela aveva trovata il mio vero padre, dalla cui famiglia si sentì sempre accusare di arrivismo. Insomma, più di una casa per lei era sempre stata una fortezza assediata dal pregiudizio.

Ora viveva nel quartiere più blasonato della città e la chiamavano finalmente con il cognome di suo marito. Se solo non ci fossi stato io: la risultate vettoriale di tutte le sue sconfitte, avrebbe potuto dimenticarsi di ogni tristezza del passato. Forse era per volontà del karma se il destino mi aveva ficcato in corpo ogni sua fragilità, di modo che saggiasse lei stessa la pena di chiunque abbia tentato di volerle bene.

 

-   ... se quel nano fosse veramente tuo amico, ti avrebbe già invitato a casa sua ...

 

La squadra si allenava a giorni alterni, compreso i festivi. Si scendeva in acqua solo quando la piscina era chiusa al pubblico, quindi c'erano delle sessioni anche dopo l'ora di cena e il mercoledì i giocatori titolari ne avevano una persino alle sei del mattino, perché di sera la piscina era occupata dalle ragazze del nuoto sincronizzato.

 

Io ero solo una riserva che non è propriamente un ruolo ufficiale quindi non ero tenuto a stare in acqua le stesse ore dei ragazzi dell'agonistico. Tuttavia, stare lì con loro mi faceva sentire parte di qualcosa, mentre fuori non riuscivo ad appartenere a niente e a nessuno.

Stare dietro agli allenamenti mi comportava fare i salti mortali con gli orari dei mezzi pubblici per tornare in provincia. Sempre più spesso mi fermavo a dormire a Roma e allora prendevo il treno delle sette meno venti da Termini che mi portava direttamente a scuola. Quando succedeva, oramai, avvertivo solo Angela, senza rompere le scatole a mia madre che altrimenti si sarebbe sentita in dovere di raggiungermi, facendomela poi scontare con le solite lamentele perché non si poteva andare avanti in quel modo eccetera ...

Starmene per conto mio era piacevole, solo che trascorrere delle settimane intere senza scambiare un buongiorno iniziò presto a farmi sentire in colpa. Dal mio punto di vista pareva che fosse stato il mondo a togliermi il saluto.

 

-   ... non c'è niente da discutere, mamma sarà felice di ospitarti ...

 

Rincontrai Marco per caso ... insomma, diciamo per un caso strano. Lui si allenava poche ore nella nostra piscina perché i trampolini non erano in regola con delle norme sulla sicurezza, quindi per lo più si preparava nel complesso sportivo dell'Olimpico. C'incontrammo nella palestra dei pesi, dove manco saremmo dovuti essere perché entrambi non avevamo l'età per usare le macchine. Lui stava facendo degli esercizi per delineare i muscoli, roba che serviva per sembrare più fighi sul trampolino. Io, invece, stavo lì semplicemente perché continuavo a essere l'ombra di Carmelo.

 

Marco aveva deciso di farsi chiamare con il diminutivo del suo secondo nome, cioè Antonio e quindi Toni. Ci teneva moltissimo a questa cosa, per lui significava voltare pagina. Sì, perché l'adolescenza non era tenera per nessuno e la storia dell'alitosi lo perseguitava.

Marco s'inventò Toni, una sorta di alter ego dalla faccia di bronzo. Era davvero bravo a interpretare quel personaggio e, nonostante nessuno lo amasse, tutti impararono presto a temere la sua lingua tagliente. Noi due eravamo diversi in tutto, ma ridevamo dello stesso tipo di sarcasmo. Anche quel giorno nella palestra dei pesi, ci mettemmo subito a ridere dei versi che Carmelo emetteva mentre contraeva i suoi poderosi addominali su una panca.

 

Toni possedeva quel dono che era stato un tempo della zia Pina. Da piccolo cercavo la zia per confidarle i miei dubbi, le preoccupazioni ma anche per rivelare le mie elucubrazioni mentali ... lei mi parlava sempre seriamente, non come a un bambino e non rise mai di me. Allo stesso modo Marco, cioè Toni, sapeva ascoltarmi e poi dirmi quelle due parole che chissà perché mi facevano star meglio. Parole banali, come "andrà tutto bene" o "vedrai che si risolverà tutto", eppure avevano la capacità di alleggerirmi l'animo.  

 

Toni disse che dormire in casa da soli fa paura a tutti, per questo gli amici t'invitano a stare da loro e siccome lui non era maleducato come quel nano di Carmelo, pretese che ogni volta non mi andasse di chiamare mia madre, invece di starmene a casa da solo, andassi a dormire da lui. Il giorno in cui ci siamo rincontrati era giovedì, me lo ricordo perché tutti i giovedì a seguito andai a dormire a casa sua. Con lui vivevo una sorta di regressione fanciullesca.

Suo padre faceva il pilota di linea e la madre era stata una hostess di volo, fino a quando non decise di lasciare tutto per dedicarsi al suo pargolo. Lei era asfissiante con tutte le sue attenzioni, ma mai invasiva, per esempio non entrava mai in camera prima che Toni gli accordasse il permesso ... per dire, mia madre tollerava appena che ci si chiudesse in bagno.

 

Marco era un accanito collezionista e il suo passatempo principale era riordinare tutte le sue robe. Era orgogliosissimo della collezione di soldatini di piombo ereditata dal nonno, ma la mia preferita era quella dei campioncini di quarzo colorati. Aveva le videocassette di tutti i cartoni animati giapponesi e di ognuno aveva completato persino l'album delle figurine.

Trascorrevamo le serate a contare le stelle sul soffitto di camera sua, mentre gli raccontavo le mie discettazioni sull'universo.

 

Parte terza

 

Sicuramente mi mancavano i fondamentali di una sana educazione sentimentale. Io non capivo come funzionavano i rapporti umani. Seppure li analizzassi con la lente d'ingrandimento, non riuscivo a praticarli in maniera ortodossa. Era un po' come il dritto nel tennis, ci perdi un sacco di tempo per costruirlo, ma al momento di giocarlo finirai per tirare il tuo solito colpo fuori misura.

 

La mia amicizia con Carmelo era qualcosa di molto particolare. Era nata in piscina ma tra noi c'era stata da subito una certa affinità elettiva. Fin dal campeggio eravamo diventati culo e camicia. Lui mi cercava ed io non mi sentivo in imbarazzo quando lo salutavo. Carmelo era immune ai miei aculei da istrice, che sapeva neutralizzare con una certa cattiveria insita nel suo carattere. Soprattutto mi strigliava quando inspiegabilmente mi rifiutavo di prendere quanto la vita mi elargiva.

 

-   Aoh, bada che una testa di cazzo come te io non l'ho mai conosciuta ...

 

Se Carmelo dimenticava lo sciampo o magari non aveva la salvietta di spugna per la doccia o per qualsiasi altra cosa ... se la prendeva da solo nella mia borsa e a me faceva tanto piacere. Non so, era un gesto che non si faceva con tutti. I ragazzi magari si tiravano le seghe insieme, ma certe intimità erano qualcosa che si concedevano tra pochi eletti.

A me lui piaceva troppo, intendo fisicamente. Carmelo era una fantasia erotica in carne, sangue e osso. Seppure non avessi l'audacia di dirglielo direttamente, lo capiva da sé quanto fossi turbato dalla sua avvenenza. Anzi, credo che se ne compiacesse.

 

-   ... ti dico che c'è rimasta di merda ...

 

"Hai due chiappe sode che farebbero invidia a una puttana" Gli dicevo quando stava davanti agli specchi della palestra in pose da culturista. "Te piacerebbero? Beh, brutto frocione ti dovresti beccare anche sto mega clitoride" mi rispondeva mostrandomi il pacco stretto tra le mano. Si stava solo scherzando, ma attraverso quelle battute almeno io dicevo cose che pensavo veramente. Carmelo si eccitava talmente guardandosi allo specchio, che i miei occhi per lui erano diventati un personale specchio magico, cui chiedeva ogni volta chi era il più "manzo" del reame.

 

-   Ma dai che lo sanno tutti che Lidia ti sbava appresso ...

 

La cosa che mi sorprese era l'astio con cui Carmelo mi parlava del suo miglior amico Mattia. Lui era troppo orgoglioso e non perdonava a Mattia di tenerlo per le palle con la storia che spesso gli pagava le serate insieme. Carmelo non poteva rispondergli per le rime, altrimenti quell'altro non avrebbe esitato a usare le sue doti istrioniche per metterlo alla berlina davanti a tutti. Ecco, questa era una delle cose che non capivo dell'amicizia. Carmelo perché stava sempre assieme a Mattia se aveva una così brutta opinione di lui?

Toni anche parlava malissimo di tutti, dicendo che erano dei falsoni e non meritavano il suo rispetto eccetera, ma poi ci andava lo stesso assieme per questa o quell'altra ragione.

Io, che facevo fatica a distinguere il confine oltre cui l'amicizia diventava affetto amoroso, arrivai alla conclusione che il loro senso amicale non era altro che uno scambio di convenienze sociali.

 

-   La più figa di tutte te la vuol dare e tu non ci vai ... sei strano, strano forte a bello.

 

Carmelo non era ricco, lui alla piscina c'era arrivato attraverso le liste municipali. Sia chiaro che non era indigente, ma proveniva da una famiglia monoreddito con tre figli e quindi non se la poteva permettere la vita degli altri ragazzi della squadra.

I soci del circolo canottieri avevano la possibilità di chiedere dei pass per far entrare gli amici. Carmelo usava andare nella nostra attrezzatissima palestra utilizzando il pass che gli dava Mattia. Così un giorno mi chiese se anch'io avessi l'opportunità di chiederne uno. Io non lo avevo mai fatto prima di allora, però avevo visto come si faceva e del resto c'era solo da domandarlo in portineria. A quel punto Mattia ci rimase di merda e con la sua solita disarmante schiettezza gli disse - perché non l'hai chiesto a me il pass?

Incredibile, assistetti a una vera e propria scenata di gelosia! Mattia sosteneva che ora certo Carmelo non avrebbe più avuto bisogno di lui e noi due avremmo fatto comunella escludendolo e alla fine per colpa mia lui non l'avrebbe più neanche cercato. Mattia era proprio sconvolto e Carmelo lo dovette rassicurare che erano ancora amici eccetera ...

Io non mi sarei mai azzardato a esternare pubblicamente certi sentimenti per un ragazzo, ma tra amici poteva accadere senza che questo si chiamasse amore? Non capivo.

 

Carmelo e Mattia condividevano un hobby segreto: le porcate. Quando li incontrai nel bagno dell'autogrill sulla via per il campeggio, ne stavano compiendo una con la complicità di Giorgio. In genere si trattava di sborrare sui vetri delle toilette pubbliche, ma anche nei camerini dei negozi o su quelli degli ascensori. Il gioco era più eccitante quanto più il posto prescelto era affollato. Si trattava di esibizionismo punto e basta, c'entrava poco il gesto goliardico.

Carmelo adorava farselo venire duro quando portava la tuta, così che la gente si stupiva nel riconoscere la mazza da baseball che portava a spasso. Poi però era timidissimo quando negli spogliatoi tutti ironizzavano sulla sua terza gamba ... era fatto così, gli piaceva stuzzicare ma era troppo timido per non temere di essere preso in giro. Mattia, al contrario, era talmente sicuro di sé che il suo esibizionismo diventava plateale, talmente riconosciuto da tutti che nessuno se ne stupiva più.

 

Io tra quei due cosa ci stavo a fare? Beh, se ci volevo rimanere, dovevo trovare dentro di me un po' di esibizionismo. A me piaceva provocare scandalo ... magari non andando in giro nudo aprendo il cappotto davanti alle signore, ma allo stesso tempo amavo esibire spavaldamente quanto le persone ritenevano "disdicevole".

Il tutto si risolse col fare da palo agli altri due mentre ne combinavano una delle loro.

Ricordo con affetto una porcata memorabile: prime luci dell'alba, stavamo tutti e tre in piedi sulla pettorina del Pincio, sotto avevamo Piazza del Popolo e davanti a noi tutta Roma ... mentre ci segavamo in un nostro personalissimo saluto al sole.

 

-   ... mi sa che non ce l'hanno tutti i torti quelli che dicono che sei un po' de recchia ...

 

Tutti invidiavano le nostre fantomatiche incursioni nei pornoshop vietati ai minori ed era pensiero comune che fossimo inseparabili. Eppure non era così. Mattia trascorreva maggior parte del suo tempo tra i pariolini di Ponte Milvio, Carmelo non pensava ad altro che pompare il suo fisico ed io mi dilettavo a coltivare un mondo immaginario insieme con Toni.

Noi tre eravamo amici? Non saprei dirlo. C'incontravamo in piscina e la serata nasceva così per caso. Con Mattia poi ci frequentavamo solo tramite Carmelo. Io non riuscivo a capire la misura di quel bisogno che si sarebbe dovuto delineare in un giusto rapporto amicale.

 

 

Parte quarta

 

 

Amare è una questione di " fotosensibilità". Funziona come con una carnagione troppo delicata che si ustiona appena il sole la sfiora. Paradossalmente, più si è sensibili e meno si ama, perché si vive al riparo dalla luce, all'ombra della vita ... si cerca di sopravvivere senza beccarsi scottature tali da sfregiarti la pelle, rendendoti un mostro repellente agli occhi della "fotogenica" società dei giusti.

 

Fu per questo motivo che al compleanno di Lidia non ci andai.

 

Sì, non era vero che l'invito speditomi per posta non mi era arrivato e poi lo sapevano tutti della festa che avrebbe tenuto all'Alcatraz. Carmelo aveva ragione su tutta la linea, non avevo scuse per essermi andato a nascondere in periferia. Che ci potevo fare se preferivo starmene per fatti miei, piuttosto che andare in un posto dove rischiavo al solito di essere preso per quello strano che non si sa cosa ci sta facendo. Alla festa di Lidia, però, lo sapevano tutti che la festeggiata stava aspettando me ... tutti tranne il coglione del sottoscritto, ovvio.

Lidia si domandava perché dopo quanto sembrava stesse per accadere tra noi, improvvisamente non l'avevo più cercata. Il dolore per la confusione generata dalla mia complicata esistenza era stato tale da sopire ogni romanticismo legato all'immagine di Lidia. Lei semplicemente era uscita dal mio campo visivo e seppure il suo ricordo mi emozionasse ancora, preferivo non aggiungere complicazioni alla mia già difficile quotidianità.

 

Era ancora troppo vivo il ricordo dell'umiliazione infertami da Giada durante la sua festa di compleanno, un trauma che mi spingeva a tenermi fuori da certi giochi. Eppure fu proprio in quell'occasione che Lidia s'invaghì di me. Quelle stesse parole che avevano fatto tanto ridere gli altri, a lei erano parse belle e fu l'unica a non vederci un patetico tentativo di mendicare attenzione. Solo che io di tutto questo non me ne ero accorto! Lidia era una super figa che si vantava di frequentare uomini adulti, ma come potevo anche solo osare immaginare che volesse mettersi con me ... magari si voleva solo togliere "lo sfizio" come diceva quando le passava davanti un "bell'angioletto", ma allora io non ci stavo perché mi sarei fatto male, mi conoscevo e nonostante esibissi un inossidabile cinismo sentimentale, ero ben consocio di quanto paurose fossero le mie cadute verticali, da cui in quel momento mi dovevo assolutamente tutelare.

 

-   ... mi sa che non ce l'hanno tutti i torti quelli che dicono che sei un po' de recchia ...

 

Quando tornai in palestra, mi accorsi subito che si era parlato di me. Mi guardavano tutti ripensando a chissà cosa si erano detti. Poi vidi Carmelo in un capannello di ragazzi che dovevano ancora andarsi a cambiare. Lo raggiunsi ma quando lo salutai, mi rispose solo quando avevo perso la speranza che lo facesse e già mi ero avviato verso gli spogliatoi.

Fu molto duro con me. Disse sostanzialmente che non avevo scuse per non essere andato alla festa. Che lui non ci voleva credere ma a quanto pareva c'era una ragione chiara a tutte le mie stranezze. Lidia aveva raccontato del pomeriggio trascorso nel mio letto ... senza concludere niente. Più che un'opinione sembrava un verdetto. Quelle maldicenze mi gettarono nel panico, in me scattò un senso di vergogna infinito. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di riscattare il mio onore di maschio ...

 

Quell'intimo segreto pareva iniziasse a trapelare dai pori della mia pelle. La gente cominciava ad accorgersene ... mi sentivo braccato dall'etero inquisizione. Impazzivo di rabbia all'idea che Lidia raccontasse in giro che fossi frocio. Mi dicevo che non era così, che non poteva essere così. Carmelo sosteneva che sarei dovuto andare da lei e metterglielo in bocca, ma bastava veramente così poco per riscattare la mia virilità?

 

Poi sopraggiunse la partita con l'A.S. Acilia. Vincemmo facilmente ma Carmelo aveva disputato una pessima partita, tanto che il coach mi aveva fatto scendere in acqua al suo posto. Quel giorno giocai da Dio ma nessuno si congratulò con me. Prendevano invece in giro Carmelo, anche in modo pesante. Fu Mattia che negli spogliatoi, durante un'azzuffata, finse una sborrata spruzzandogli della schiuma da bagno in faccia. Lo conosceva Carmelo e sapeva benissimo che non era capace di scherzare mettendosi alla berlina. Io lo difesi istintivamente, ma fu un errore madornale. Iniziarono degli sfottò su me e lui, ci chiamavano fidanzatini ... era solo goliardia? Non credo, perché Carmelo si andò praticamente a nascondere sotto la doccia senza replicare una sola parola. Lo raggiunsi per porgergli il telo da bagno, non era la prima volta che lo facevo e non c'era mai stato un secondo fine. Carmelo mi scacciò come un appestato. Mi dette del frocio perso e non avrei più dovuto ronzargli attorno.

Non era difficile da capire quello che era successo. Carmelo mi aveva spinto tanto a compiere un gesto plateale con Lidia proprio perché sapeva cosa gli altri stavano pensando di me. Certo influì anche la gelosia che Mattia nutriva per Carmelo e sicuramente fu lui a metterci il carico da novanta con le maldicenze. Sapevo e capivo tutto, ma questo non mi aiutava a stare meglio e iniziai a fare manca anche agli allenamenti perché l'umiliazione era troppo ... troppo grande.

 

Persi il sonno tra eclatanti fantasie di vendetta. Avrei voluto rispondere a Carmelo che non ero certo stato io a chiedergli di mostrarmi la biancheria intima che si comprava nei sexy shop, tanto meno lo avevo spinto a indossarla per mostrarmi i suoi numeri di strip col pacco gonfio. Ero forse io il depravato o lui e Mattia che si dilettavano in porcate esibizioniste? Ed era forse "normale" che Mattia si comportasse con lui come una fidanzata gelosa? Quell'altro che si vantava di mettersi un dito nel culo per schizzare più allungo. Perché mettevano solo me alla sbarra?

Non riuscii mai a difendermi perché ero io il mio principale accusatore. In quel momento i ragionamenti nella mia testa avevano formato un grumo di rancoroso timore verso tutti, e si sa che la paura ti costringe a vivere nascosto nella tua tana buia e umida, tra i languori di un'esistenza ridotta ai suoi bisogni minimi.

 

Secondo Toni non mi dovevo far influenzare da quello che andavano raccontando una troietta e un nano presuntuoso, ma come potevo far finta di niente? Anche se era la calunnia di Lidia a farmi più male, io sapevo di essere colpevole e non perché lo dicessero gli altri. Avevo bisogno di parlare di quella faccenda con qualcuno che mi potesse capire: Marcello. Noi avevamo condiviso quell'esperienza omosessuale, eravamo della stessa pasta e quindi saremmo ben potuti tornare a essere amici ... avevo così bisogno di qualcuno che mi parlasse, mi spiegasse, che mi dicesse quanto ancora non sapevo pronunciare.

 

Cercai Marcello a casa dei suoi, ma lui al ritorno dalla Thailandia aveva fatto le valigie e se n'era andato. La madre pensava che io sapessi dov'era perché Marcello gli aveva detto che mi amava. Era quello che aveva cercato di comunicarmi il giorno in cui Lidia aveva organizzato la mia festa di compleanno a sorpresa. Il suo viaggio con Giacomo gli era servito a capire che gli piaceva il cazzo e in quanto culattone ufficiale voleva impalmarmi. Uh, quella era proprio il tipo di conferma che andavo cercando.

La madre me ne disse di tutti i colori, accusandomi di essermi intrufolato nel letto del figlio infettandolo della mia frocitudine. Ma vaffanculo brutta gobba, le avrei torto il collo a quella sottospecie di scimmia ammaestrata.

 

Scoprii così che non esiste il fondo del peggio, ogni volta si può scivolare sempre un po' più in basso. Le vacanze natalizie mi apparivano come il miraggio di un'età dell'oro, dove ancora trovar riparo. Toni m'invitò ad andare in montagna e avrei fatto bene ad accettare perché a casa con i parenti fu un disastro. Ero una nota stonata che continuava a scampanare fuori dal coro e a gennaio decisi che era giunto il momento di pigiare il bottone rosso dell'autodistruzione.  

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  • 1 month later...
Silverselfer

 

Floppy 04/42

 

 

Mignotte. Siamo solo delle meretrici alla ricerca del consenso altrui. Quante moine e sculettamenti per adescare un qualsiasi fottutissimo sì. Tatuarsi qualche famoso brand addosso, solo per omologarsi ad uno stereotipo di bellezza diventato sinonimo di successo sociale . Sono tutti ameni baluginii di un desiderio sterilizzato dalla mediocrità svenduta nei centri commerciali: pacchetti viaggio last minute per la felicità, sogni cuciti in taglie standard simili a delle minigonne indossate da culone cellulitiche oversize.

 

Io ero nato fallato e non riuscivo a omologarmi ai ragazzi prodotti sulla catena di montaggio della cultura cui sarei dovuto appartenere. Ero diverso e non era certo una mera questione di gusti sessuali. La mancanza di riferimenti mi disorientava e presto preferii tracciare una mia via, piuttosto di batterne altre che alla fine mi avrebbero escluso comunque.

 

Le persone si raccontavano per frasi fatte, concetti preconfezionati che li accomunavano in impasti acustici capaci di far comunicare attraverso un pensiero comune. Era questo il linguaggio con cui ci veniva insegnato a formulare i nostri pensieri. La condanna che quasi mi aveva ucciso scaturiva proprio da quella sinapsi mentale che esclude quanto non rientra nei preconcetti congeniti della propria cultura di riferimento; decisi dunque di disinnescare quel processo d'igiene sociale che arma la propria mano contro se stessi.

 

Le parole sono i tasselli di un enorme Tetris attraverso cui il ragionamento elabora la propria percezione del mondo. Iniziai dunque a disimparare riformulando i pensieri attraverso il significato di ogni singola parola. Un processo da cui Nietzsche metteva in guardia gli incauti e i frettolosi, com'è per sua natura l'adolescenza. Un particolare di cui non potevo ancora avere percezione e che è la prova di quanto sarebbe opportuno non lasciare soli certi testi in compagnia dei ragazzini.

 

La Zia Pina mi aveva insegnato che le montagne si spostano un sassolino per volta. Con la stessa ortodossia di un religioso, iniziai quindi a rimuovere ogni mia abitudine ... fino a cambiare il piede con cui solitamente scendevo dal letto. Per quanto fossi bravo a individuare le erbacce che infestavano il mio pensiero, non avevo ancora sufficiente sementa per una nuova coltura. Per necessità iniziai a confondere ogni cagata di passero che germogliava nel mio fertile terreno, per quella salvifica novità che andavo cercando.

 

Parte seconda

 

Spesso quando si rinnega qualcosa, s'incorre nell'errore di interpretarne la nemesi. Lele faceva proprio così. Dava del porco a ogni padreterno e quindi si definiva un adoratore di Satana. Io cercai di spiegargli che era concettualmente sbagliato professare un'antitesi. Ogni concetto speculare esiste solo grazie a quanto nega ...

 

-   Certo che a te la maria fa proprio svalvolà il cervello ...

 

E' difficile ricordarsi la prima volta che Lele mi rivolse la parola. Certo che eravamo nella stessa classe, ma comunicare con me non era comunque una cosa semplice. Lui era attratto dal mio silenzio e fin dal primo giorno di scuola, mi aveva salutato tutte le mattine facendo una battutina sulla mia ritrosia.

 

Tutto quel sragionare sul senso della vita, alla fine dei conti si risolse col rimandare ogni decisione pratica a un non ben determinato giorno avvenire.

Accadde poi una mattina che rimasi bloccato nei cessi della scuola proprio con Lele. La lezione di religione a inizio giornata era un'ottima occasione che usavano i "segaroli" per dribblare l'appello e segnarsi il ritardo all'inizio della seconda ora. Quella notte però il prof aveva avuto una colica e si assentò senza alcun preavviso. Si trattava della prova che è impossibile calcolare tutte le variabili del caso, mi dissi mentre Lele, invece, rollava la sua filosofia in una canna di marijuana che poi mi offrì provocatoriamente, solo per il gusto di oltraggiare il mio imperscrutabile silenzio.

 

-   ... dà retta che pensare al peggio porta solo sfiga.

 

La professoressa d'inglese, una povera disgraziata affetta da nanismo e che si portava a spasso una capoccia tipo Moai dell'isola di Pasqua, evidentemente conduceva una vita assai grama e quella mattina era già a scuola seppure non avesse lezione, quando il preside le chiese se poteva farci un'ora di supplenza. Già ... il problema è che avevamo lei anche all'ora successiva. Due ore filate di lezione ci costringevano a rimanere chiusi nei cessi fino alla ricreazione.

 

-   Ti ricordi quando Ludovica ...

 

La marijuana mi fa venire i colpi di sonno, glielo dissi a Lele anche per dare a intendergli che non ero certo uno sprovveduto. Lui però aveva ragione e quella era roba buona perché la coltivava suo zio eccetera. Ci venne una crisi di ridarella quando Lele si ricordò della nostra tremenda ex compagna di classe Ludovica, riguardo alla mattina in cui la professoressa d'inglese esordì dicendo che quel giorno le scoppiava la testa e lei, enorme com'era, si tuffò sul pavimento urlando "tutti a terra!".  

 

-   Anvedi! Siamo tutti e due romani, ebrei e segaroli ... damme il cinque frate' ...

 

Quella canna ci aiutò molto a parlare, anche perché io non ero né timido e tanto meno introverso, avevo solo dei seri problemi a relazionarmi con il gruppo. Spesso abbiamo proprio bisogno di un estraneo che non può condizionare la nostra vita, così da raccontargli tutte le nostre paturnie. Dissi a Lele che anch'io ero mezzo israelita e lui mi porse ironicamente le condoglianze, dicendo che non dovevo dispiacermi se non avevo mai visto mio padre, perché quelli più li conosci e meglio li eviti.  

 

-   Ammazza! Sei più sfigato de Candy Candy ...

 

Bene o male quelle ore passarono anche abbastanza velocemente, ma nascondersi continuamente nei gabinetti appena imboccava qualcuno nel cesso, ci snervò lo stesso. Quando giunse la ricreazione, i nostri compagni ci comunicarono la brutta notizia che il vicepreside aveva mandato il bidello a prendere il registro di classe ... eravamo belli che fottuti. Non potemmo neanche uscire durante la ricreazione perché quei coglioni dei nostri compagni non la smettevano di fare battute sulla nostra clandestinità e se solo il bidello avesse subodorato la faccenda, ci avrebbe preso gli scalpi per riscuotere la ricompensa dal preside.

 

-   ... secondo me se può fa ...

 

Le successive due ore di Lettere ci profilavano seriamente la possibilità di trascorrere l'intera giornata nei bagni ... non ci alleviò quella noia asfissiante nemmeno ricordare di quando Pistolesi e Braghetto fabbricarono un enorme pene di carta stagnola per calarlo dalla finestra fino al primo piano, davanti alle finestre dell'aula delle ragazze per farle "abboccare". Quell'aneddoto però ci fece venire in mente che si poteva fuggire dalle finestre delle aule del primo piano. Ovviamente avremmo avuto bisogno della complicità delle ragazze, ma a quello poteva provvedere la nostra ex compagna Ludovica. Lele fece una sortita durante la loro ora di lezione per far uscire Ludovica che accolse la faccenda con entusiasmo. La fuga si poteva fare al cambio dell'ora, lei ci garantì che le sue compagne avrebbero tenuto la bocca chiusa.

 

-   Fermi delinquenti!

 

Perfezionai quel piano di fuga e Lele mi diede del genio criminale. Ce la potevamo fare e, di fatto, filò tutto liscio . almeno fin a quando non raggiungemmo l'angolo dell'edificio scolastico. Il cancello posteriore della scuola era proprio lì davanti. Purtroppo tra noi e la libertà c'era il preside che si fumava una sigaretta alla finestra del suo ufficio.

 

Aspettiamo che getti la cicca ... ma quello rimane lì a gustarsi il tepore del sole. Ok, vuoi che non entri qualcuno nel suo ufficio e lo richiami dietro alla scrivania? Trascorremmo una decina di minuti accovacciati sotto il bordo delle vetrate dell'aula delle ragazze, sempre con il timore che qualcuno ci vedesse ... durante quegli interminabili momenti, il cesso ci apparve come un miraggio di sicurezza perduta, ma oramai eravamo lì ... con quel sole che ci scottava le teste già surriscaldate dall'ansia.

 

Quando ormai avevamo perso le speranze, il preside rientrò ... ma solo per prendersi un'altra sigaretta. Ci rincantucciammo veloci in una risega del muro tra due colonne dell'edificio ... non ci stavamo in due in quel buco di merda. Avevamo caldo, avevamo paura, avevamo fretta di scappare ... "E che ce vo?" Disse Lele, che proponeva una corsa e chi se ne frega. Secondo me se correvamo, il preside ci avrebbe visto subito, mentre se camminavamo senza dare a vedere che fossimo in fallo, anche se ci avesse notato, non avrebbe pensato a due fuggiaschi.

 

-   Fermi delinquenti!

 

Io non avevo completamente torto, nel senso che non fu il preside a vederci, ma un bidello spuntato da chissà dove. Ci intimò di fermarci e noi, come due stronzi, ubbidimmo quando ci sarebbe bastato correre per essere fuori dal cancello. L'infame ci condusse dal vicepreside, dove io piansi misericordia per convincerlo a non telefonare a casa. Lele che aveva sicuramente più esperienza di me, col cavolo che aveva scritto il numero di telefono di casa sua nel modulo d'iscrizione scolastica. Gli disse che loro non avevano il telefono e questo risolse la faccenda, mentre per me si profilava un'apocalisse al rientro a casa.

 

-   Siete proprio due stronzi ...

 

Ci disse proprio così! Il vicepreside fraintese com'erano andati realmente i fatti. Non avendo trovato le nostre presenze sul registro di classe e avendo entrambi fatto "manca" il giorno precedente, suppose che quella mattina avevamo semplicemente fatto un "filotto", ma poi ci eravamo introdotti nel recinto scolastico per amoreggiare sotto le finestre dell'aula delle ragazze. Lele prese subito la palla al balzo e si scusò, dicendo che doveva dare un libro alla sua fidanzata "Ludovica", precisando che io gli ero solo andato dietro e non era giusto che ora passassi dei guai perché vivevo in casa del mio padrigno che per quella storia magari mi rispediva da mia madre e il suo nuovo marito stronzo. Insomma, gliela imbastì di brutto e quando fu chiamata Ludovica, lei confermò la storia del suo presunto fidanzato ...

Il vicepreside ci guardò storto e dopo averci dato degli stronzi, ci disse che noi non eravamo là, lui non ci aveva visto e che dovevamo sparire prima che qualcun altro potesse affermare il contrario.  

 

Parte Terza

 

Grazie alla prontezza di Lele e a tutte le mie sfighe da Candy Candy che gli avevo confidato durante la mattinata trascorsa nel cesso, l'avevamo fatta franca. Da lì a poco però giunse una lettera di convocazione a scuola per i miei genitori, cioè mia madre. Memore di quanto mi diceva sempre la Zia Pina: " Due coincidenze non fanno mezza verità" decisi di aspettare prima di rispondere ai chiarimenti che mi chiedevano in casa. Angela sembrò addirittura compiaciuta della mia disgrazia, in realtà aveva sempre mal digerito i miei successi scolastici. Forse fu per questo che mi spalleggiò con Primo e lo convinse persino a parlare lui con mia madre, consigliandolo nel dirle che era solo per una questione burocratica. Sì, erano tutti più svegli di me nel gestire la verità, ma come facevo a raccontare ancora balle, quando tra qualche giorno sarebbe comunque venuto tutto a galla?

 

-   A bello ... io te voglio bene, ma non me ce poi tira' dentro pure a me ...

 

Quando confidai a Lele i miei dubbi, quello sbiancò come uno straccio e si preoccupò solo che non lo tirassi dentro le mie sfighe. Quello che mi pesava maggiormente era ammettere la verità ... già, ma quale verità? Io ero molto confuso e il mio presente mi appariva un guazzabuglio in cui non distinguevo i dettagli. Che cosa avrei detto a mia discolpa? Ma di quale delle mie colpe avrei dovuto chiedere venia? Ah, già! Solo di quella di aver fatto manca a scuola ... ma perché non ci andavo a scuola? Boh, erano i miei piedi che la mattina prendevano un'altra direzione e poi, insomma, le cose vanno per da sole per la loro strada ... Forse si trattava solo di quel famigerato disagio giovanile ... chissà perché Candy Candy non aveva mai fatto manca a scuola? Ah, già! Lei andava in quell'esclusivo college inglese ...

 

Quella mattina i pensieri fischiavano negli orecchi mentre aspettavo mia madre che arrivava in taxi da Roma. Arrivò in ritardo, ma fu una fortuna perché almeno così la calca di studenti si era dissolta. Lei mi sgridò perché non c'era motivo che perdessi minuti d'oro di lezione. Lei non sapeva però che eravamo stati convocati espressamente assieme ... ma che cazzo volevano da noi?

 

Una volta dentro, il caporal maggiore dei bidelli ci scortò pomposamente fino all'anticamera della presidenza ... PRESIDENZA! In quel momento pensai che il Padreterno si stesse vendicando di quell'eretico che ero diventato. Aspettammo non più di dieci minuti, quando mia madre decise che non poteva certo perdere la mattinata appresso a quegli scansafatiche e fermò il primo tizio che le rimase a tiro: IL VICEPRESIDE! Scongiurai Dio affinché la piantasse d'infierire su di me e forse mi ascoltò. Il vicepreside fu gentilissimo e mi fece pure l'occhiolino mentre ci salutava, dopo averci condotto in sala professori perché era a conoscenza della convocazione che gli aveva commissionato il mio professore di matematica. La faccenda stava prendendo una piega che dopotutto mi rassicurava. Beh, almeno la convocazione non riguardava direttamente le mie numerose assenze.

 

Dunque perché il professore Villucci ci aveva convocato? Con lui avevo da recuperare un'antipatica insufficienza, ma stava fresco se doveva convocare tutti i genitori di quegli alunni cui rifilava un quattro. Il prof giunse con la sua camminata sbilenca solo al cambio delle sue ore di lezione. La mamma mi aveva fatto una testa tanta sul fatto che ero un magia pane a tradimento perché non studiavo abbastanza e le stavo facendo perdere un'intera mattinata ...

Il prof ci salutò e tutto, ma siccome nel frattempo che aspettavamo la sala docenti si era riempita di suoi colleghi, decise di chiedere al bidello se ci concedeva la guardiola della portineria per una decina di minuti. Ma che caspita avrà avuto da dirci di così "scottante"?

 

-   .. C'era sembrato che il ragazzo provenisse da una famiglia ... un po' più ... sì, mi capisce vero?

 

Nell'ultimo consiglio di classe, i professori decisero di delegare il professor Villucci per conferire della mia situazione scolastica con i miei genitori. Secondo loro era chiaro dall'andamento del mio profitto, che fluttuava dall'eccellenza alla mediocrità, che quello non era l'indirizzo scolastico giusto per me. Mi commossi pensando a quegli insegnati tanto vituperati, che si erano presi la briga di preoccuparsi del mio futuro.

Il prof mi chiedeva spesso di confermare le sue supposizioni mentre cercava di convincere mia madre delle sue ragioni. Certo che era così, in un'altra scuola sarei potuto essere finalmente felice! Beh, almeno in quel momento sembrava essere la soluzione a tutti i miei problemi. Come sarebbe stato bello vivere una vita da telefilm in una di quelle scuole americane. Ma perché mia madre non lo voleva capire?

 

Il professore stava per perderci le staffe. Tanto che la prof di scienze ci raggiunse e cercò di calmarlo invitandolo ad andarsi a prendersi qualcosa al bar. La professoressa di scienze pose la faccenda sul livello umano. Mi mise in imbarazzo quando raccontò di come mi trattavano i compagni di classe e timidamente accennò alle mie frequenti assenze, sottolineando che in quel modo aveva visto rovinarsi tanti bravi ragazzi ... mia madre non aveva mai saputo niente della mia vita "privata" ... avvampai dalla vergogna. A sentire la prof, in una scuola più consona, magari un liceo scientifico, avrei trovato modo d'inserirmi eccetera ... Oddio, mi stavano dicendo che non c'era bisogno di Nietzsche per uscire da quel marasma che era diventata la mia vita sociale?

 

Quando la professoressa si riferì alla mia "difficile situazione famigliare", vidi mia madre irrigidirsi sulla sedia e mi appuntò addosso quei due spilli di occhi per accusarmi di averla messa in piazza. Non era difficile capire come i professori avevano saputo della mia "difficile situazione famigliare". Mi sentii in colpa per aver tradito quel vincolo omertoso solo per sfangarla con il vicepreside.

 

Messa all'angolo, mia madre dette il peggio di sé per negare l'evidenza dei fatti, iniziò a mentire spudoratamente e nel modo più umiliante. Si dette della povera ignorante e pianse misericordia per la sua sfortunata esistenza. Disse loro che faceva ancora la portinaia e che aveva cresciuto due figli senza marito, tra i disagi economici indotti anche dalla mia salute cagionevole. Arrivò a dire che non aveva neanche i soldi per mantenermi in quella scuola, figurarsi in un più costoso liceo ... Davanti al suo piagnisteo la prof si ammutolì ... balbettando l'imbarazzo per non aver capito da che genere di disagi provenissi.

 

Che stupida mia madre ... e non lo dico per la sceneggiata che improvvisò, piuttosto per il taxi che si fece chiamare per andare via. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che le persone con difficoltà economiche usano i mezzi pubblici per spostarsi.

La verità che mia madre non poteva ammettere era ben più miseranda di quella che aveva raccontato ai professori. Io ero una cosa talmente storta che ovunque la sistemasse, le puntava fastidiosamente uno spigolo nel fianco. Ora che mi aveva riposto in un luogo dove, fino a quel momento, non le ero stato troppo d'impaccio, non se la sentiva di ricominciare a penare per quella sua croce.

 

Il professor Villucci si strinse la testa tra le spalle e mi disse di continuare così ... forse solo per far dispetto a mia madre che non aveva voluto capire il loro sforzo. 

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  • 3 weeks later...

 

Floppy 04/43

 

 

I buoni sono una casta tenuta insieme dal bisogno reciproco. La legge del contraccambio annoda la trama sociale di modo che la "solidarietà" preservi dalle asprezze del destino. I cattivi sono una massa di cui ogni singolo individuo ha imparato a fare a meno degli altri.  Il rapace istinto di sopravvivenza non lega bensì separa, rendendo i cattivi come della polvere pronta a disperdersi al primo sternuto del fato.

 

Quegli impiccioni dei professori mi avevano preso sottocchio, non c'era altra spiegazione perché non si cerca di cacciare un ragazzo da scuola solo per qualche insufficienza. Questo è quanto trasse mia madre dai discorsi dei professori e non mentiva eh! Mai sottovalutare il potere della negazione.

Avrei dovuto forzare gli eventi per pretendere che mi fosse data l'opportunità di realizzarmi, ma era così complicato distinguere una sola verità tra le tante che mi si profilavano dinanzi. C'era la verità dei professori, la verità di mia madre, quella dei miei compagni di scuola, ma la più spaventevole era la verità di Marcello che mi esponeva al pubblico ludibrio.

 

La Zia Pina mi diceva: "Scenderesti in strada con il pipino di fuori?" ed io "Nooo" e lei "Le bugie sono le mutandine della verità".

 

La mia vita prese a svolgersi su dei piani diversi: c'era la realtà scolastica, un'altra era quella a casa di Primo, poi esisteva la vita che conducevo in città, un'altra verità ancora serviva a tenere a bada mia madre e, infine, c'era il racconto che di tutto questo facevo a me stesso. Molteplici esistenze che richiedevano abiti diversi con cui vestire la mia vergogna.

 

-   Mi bocciano? E allora vaffanculo, ce la spassiamo e chi se ne frega ...

 

Verso la metà di marzo i professori completarono il primo giro d'interrogazioni. La storia era diversa per noi "segaroli" seriali. In genere si tentava di fare lo slalom tra i vari "impreparato" fino alle vacanze di Pasqua, illudendosi di poter approfittare di quei pochi giorni per prepararsi a dovere. Al rientro dal breve ponte pasquale sarebbero iniziati i ritiri scolastici, cioè i segaroli disillusi buttavano la spugna e decidevano di godersi quegli ultimi giorni prima dell'ecatombe di giugno.

 

-   ... allora che fai? Sei dei nostri?

 

Lele però non era uno che se la stava a raccontare e sapeva benissimo che era inutile aspettare Pasqua per decidere il da farsi. Dopo essere incappato nell'ennesimo "impreparato" che indusse la prof di lettere a minacciare di bocciarlo, decise che era giunto il momento di mandare tutto a farsi benedire.

Io quel giorno a scuola non c'ero andato e dopo aver trascorso una mattinata tra la villa comunale e la sala giochi di Piazza Cairoli, ero in stazione ad aspettare il treno per andare a fare manca anche agli allenamenti di pallanuoto. Fu là che incontrai Lele furibondo per la figura di merda appena fatta.

 

-   ... se ce ritorno a quella troia la sbatto alla pecorina e 'lie rompo er culo ...

 

Dopo i trascorsi della fuga da scuola, diventata ormai un rocambolesco racconto epico che i segaroli si raccontavano durante le lunghe mattinate di vagabondaggio, Lele ogni volta che c'incontravamo, mi presentava a tutti come una sorta di ... come dire ... come se fossi una stranezza tale da avere dell'incredibile. Sì, m'infastidiva parecchio ed è per questo che cercavo di evitarlo come la peste.

 

-   Per Dio!

 

Quel giorno però era da solo; no, c'era anche Enrico, ma lui costituiva semplicemente una sua appendice. Lele piombò nella sala d'aspetto bestemmiando come un ossesso e scalciando la vetrata per poco non la faceva venire giù. Senza neanche salutarmi, mi venne incontro accusandomi di essere un gran paraculo, ma nel suo gergo si trattava di un mezzo complimento. Secondo lui avrei dovuto impedirgli di entrare a scuola quella mattina ... che stronzata. Alla fine prese di petto anche Enrico e lo informò che loro due a scuola non ci avrebbero messo più piede. Di punto in bianco, però, fece la stessa proposta a me ...  

 

-   ... allora che fai? Sei dei nostri?

 

Che dire? La prospettiva di godermi una lunga vacanza da quella vita stressante tra interrogazioni da dribblare e mattinate chiuso nei bagni per giustificazioni di assenze arretrate ancora da dover fornire ... mi fece tentennare quell'attimo che diede adito a Lele di fraintendere un sì. Seppure all'inizio glielo lasciassi credere allo stesso modo di come vestivo la verità per ogni piano di vita diverso, presto Lele seppe coinvolgermi nella sua concezione epicurea dell'esistenza.

 

Seconda Parte

 

I buoni erano quelli che entravano sempre a scuola e trascorrevano i pomeriggi assieme per aiutarsi a preparare le interrogazioni del giorno dopo. Io non potevo più appartenere a quella casta.

 

-   ... ma dai! Raccontagli quando quel coglione de Petrivelli ...

 

Petrivelli, il mio capogruppo di laboratorio tecnico, me lo fece capire quando si rifiutò non solo di spiegarmi cosa cazzo stavano facendo, ma insieme con gli altri tre finse per tutto il tempo che non fossi seduto lì con loro. Come potevo dargli torto se quelle poche volte che c'ero, me ne fregavo del lavoro per preparare la successiva lezione di fisica.

 

-    ... allora se lo guarda e gli dice "questo è mio e se parli te metto una mano in bocca, una in culo e te sciacquo come 'n bottiglione ...

 

Approfittavo del lavoro dei miei compagni di laboratorio senza contribuirvi. Tuttavia, quelli si comportarono proprio da stronzi e gliela giurai ... proprio come fanno i cattivi che considerano quanti non li aiutano come dei nemici. Dopo aver trascorso ben tre ore a rosicare per quell'affronto, urtai con la spalla Petrivelli mentre uscivamo dalla porta e gli sfilai il quaderno da sotto il braccio, costringendolo poi ad abbassare lo sguardo o avrebbe fatto una gran brutta figura prendendosi una scarica di botte lì davanti a tutti.

 

-   Cai, cai, cai... cioè, da sgarrarsi dalle risate! Quel cazzone s'e messo la coda tra 'e gambe come 'n cane bastonato ...

 

Appartenevo ormai alla categoria dei cattivi, cioè quelli che si sono talmente incasinati, da dover ricorrere alla forza per prendersi quanto gli serve. Il mio individualismo era reso feroce dalla necessità di tenere forte le briglie di una vita che non mi forniva alcuna rete di protezione. La famiglia era qualcosa da cui dovevo ben guardarmi, gli amici mi avrebbero rinnegato se scoprivano cosa fossi in realtà, il mondo intero funzionava come un tritacarne che non aspettava altro di farmi fuori.

 

-   ...  a rega', questo quanno fa l'occhi da matto ... lassatelo sta che 'ie puzza er culo!

 

 Le mie storture caratteriali con Lele divennero improvvisamente delle qualità encomiabili e non si stancava mai di raccontarle, aggiungendo sempre qualcosa di suo, facendole sempre più apparire come delle consapevoli bravate.

 

-   ... è un cucciolo smarrito ne-l'i-mmsit-à; nel bosco e tra le case di ci-ttà ...

 

Lele aveva dei begli occhi azzurri ... per il resto era proprio brutto. Era alto quasi quanto me, il che lo rendeva molto più alto della media degli altri ragazzi, ma non gli forniva neanche la mezza bellezza che recita il noto proverbio. Lui aveva delle gambe troppo lunghe e così magre da far sembrare i jeans sempre di qualche taglia più grandi; aveva dei fianchi troppo larghi che pure non gli facevano il culo, tanto che le gambe sembravano direttamente attaccate al fondo schiena; le spalle al contrario erano troppo strette e mettevano in evidenza una testona dalla criniera folta e crespa. L'incarnato ... beh, di carne ne aveva proprio poca, tanto che a guardarlo di profilo, faceva impressione per quanto era sottile; tutto questo gli conferiva un aspetto dinoccolato dalla postura leggermente curva sul davanti.

La faccia enorme e spigolosa aveva una fronte ampissima e i riccioli con cui cercava di nasconderla finivano per accentuarla. Aveva un naso decisamente "importante" con un incavo che sembrava essere fatto apposta per appoggiarci quegli occhiali che si ostinava a non portare, nonostante fosse orbo come una talpa. Le labbra sarebbero state un eufemismo definirle sottili, in quanto si notavano solo perché gli si screpolavano al punto da far apparire la bocca una sorta di cicatrice mal rimarginata.  

 

-   ... è un mondo di pensieri e liberta-à, che a spasso col suo gatto se ne va-à ...

 

Lele era brutto ma altrettanto simpatico e non perché la gente lo ritenesse amabile, piuttosto perché aveva piacere a conoscere le persone. Per il vero non teneva affatto al consenso degli altri, si trattava solo di curiosità. Parlava con tutti senza distinzione d'età, sesso o valutando il ben che minimo tornaconto personale. Non a caso era stato l'unico che a scuola era riuscito ad avvicinarmi.

 

-   C-candy o C-andy nella vit-ta sol-a non se-ei-i ...

 

Le mattinate trascorse insieme divennero una piacevole novità cui mi affezionai subito. Puntuali come orologi, arrivavamo nell'anfiteatro della villa comunale verso le nove e ci accampavamo tra i cilindri di cemento verniciati di giallo che fungevano da sedili. Poi Lele insultava Enrico perché ancora non aveva rollato la prima canna della giornata. Le mattinate ancora fredde rapprendevano le zaffate di fumo che si libravano grevi tra i suntuosi rami di un gigantesco platano. Sì, proprio come il "il grande albero" dell'orfanotrofio di Candy Candy, fu proprio Lele a notarlo ... lui conosceva tutte le sigle dei cartoni animati e non ci risparmiava ogni volta di cantarcele.

 

-   Aoh, ma la voi pianta' co' sta lagna? Stessi a canta' Bob pure pure ...

 

Diventammo così parte dell'arredo urbano di quell'anfiteatro. Ogni giorno Lele puntava qualche segarolo che si aggirava per i sentieri della villa, tanto per scoprire chi era e trascorrere con lui la mattinata. Poi quelli ogni volta che facevano manca, ci venivano a trovare di proposito. Si formò così il primo nucleo della nostra nascente banda fricchettona.

 

-   E cantalo tu a Bob, no? Sto 'gnorante ... 'n sai parla' manco l'italiano e vo canta' jammaicano!

 

Avevamo così tanto tempo da spendere in quella leggerezza che teneva lontana la noia. Ogni mattinata diventava una pietra miliare della nostra giovinezza. Seppure non ne fossimo ancora consapevoli, credo che intuissimo istintivamente l'unicità di quanto stavamo vivendo.  

 

-   A Mimmo dijelo te che i Giammaicani parlano l'inglese.

 

Ricordo di una mattina che Enrico tirò fuori dal suo zaino Invicta quattro bottiglie di birra Peroni.

 

-   Anve'! E da quann'è che te te sei 'mparato a parla' l'inglese?

 

Ne avrebbe dovuta toccare una a testa, perché quella mattina era previsto che ci raggiungesse un compagno di classe che aveva da scansare una verifica di matematica. Tuttavia, al gruppo si erano poi aggiunti altri due disgraziati.

 

-   A Lele già me fa male la capoccia, te ce metti pure tu che se peggio de 'n tarlo ...

 

Alla fine ne bevemmo assai poca, ma nessuno di noi aveva mai fatto colazione con della birra e ci salì subito alla testa.

 

-   Resti 'mparato pe' la prossima, e spennili sti du' sordi, la birra de' 'mbraconi hai preso e poi eccoli i risultati ...

 

Complice la canna del mattino, ci prese la ridarella ed Enrico ebbe improvvisamente un colpo di singhiozzo tale da fargli uscire il vomito persino dal naso ... sembrava un bricco di quelli per la birra alla spina! Forse non c'era neanche tanto da ridere, ma noi ci scompisciammo lo stesso e dopo, avuto giusto il tempo di riprenderci, vediamo giungere una casalinga con tanto di rolli per la messa  in piega in testa che, imbufalita, si cimenta in un lancio della ciabatta rotante come manco fosse Venusia di Atalas Ufo Robot: "Si trasforma in un argo missile col circuito di mille valvole ... tra le stelle vola e va ...".

 

-   Alla prossima te le metti tu le mani 'n saccoccia, contento?

 

Alla signora avevano telefonato dalla scuola del figlio minore perché erano tre giorni che non si presentava, quando giunse in villa per cercarlo e ci trovò invece quello più grande mezzo ciucco, lo tramortì con quella ciabattata.

 

-   E che è? 'N te se po' di più niente che pigli subito d'aceto.

 

A Lele ripartì la ridarella che affogò nascondendo il suo faccione nel mio Moncler, ma appena la signora si portò via il figlio per un orecchio, saltò in piedi sulla transenna dell'anfiteatro intonando le note di Ufo Robot.

 

-   ...

 

La mattinata continuò un po' sottotono, con Enrico che si trascinava malamente i postumi della sbornia. Lele, al solito, non lo fermava nessuno e verso mezzogiorno trovò opportuno rollare un'altra canna, giusto per avere il pretesto di cantare di nuovo la sigla di Candy Candy guardando il fumo salire tra i rami del platano ... e rompere le palle a Enrico.

 

-   Dolc-e Rem-ì picc-olo come sei ... per il mon-do tu va-ai ...

-   Ma la pianti?

 

Terza Parte

 

Lele si definiva un fricchettone non solo perché aveva inviso la moda, che in quegli anni era diventata una sorta di religione, tanto meno perché era freak in quell'aspetto che madre natura gli aveva dato, ma proprio perché adorava la cultura anticonformista degli anni settanta. Quest'amore gli era stato trasmesso dal padre con cui viveva. I suoi genitori avevano fatto il sessantotto e poi avevano vissuto attivamente gli anni settanta della contestazione, dai quali la madre si trascinò dietro una storia di tossicodipendenza che la condusse alla prostituzione.

 

Lele abitava a Santa Maria delle Mole, che era uno di quei posti strani appena fuori dal grande raccordo anulare. Il raccordo era un po' quello che ai tempi della Roma antica costituivano le mura Aureliane. Tutto quanto stava oltre l'anello autostradale diventava improvvisamente campagna romana che, nonostante gli abusi edilizi, preservava scorci paesaggistici ancora simili a dei ritratti bucolici ottocenteschi.

 

Santa Maria delle Mole era cresciuta abusivamente e ci si arrivava col trenino che faceva la spola tra la Stazione Termini e Velletri su un binario unico. Non aveva strade che la collegavano direttamente alla grande città e questo ne faceva una sorta di entità assestante. Un paesino chiuso con le sue storie di vita che naufragavano dalla grande metropoli, marcendo come in un invaso palustre. In quel posto non c'era niente oltre la puzza di una sorgiva d'acqua solfurea che somigliava tanto a quella di una fogna.

 

Era poco chiaro se Lele vivesse con la madre o col padre o se quelli fossero divorziati veramente perché entrambi condividevano una casa a due piani. Si erano spartiti equamente l'edificio ma al piano superiore si accedeva comunque attraverso quello inferiore. Così, di fatto, continuavano a vivere tutti insieme.

 

Primo piano:

 

-   Aoh, ma la pianti de fatte vede' le tette da Mimmo?

 

Quel posto era letteralmente un bordello.  Chiara, la madre di Lele, esercitava la professione più antica del mondo in casa. Lei si svegliava dopo pranzo e verso le sei iniziava il via vai degli uomini, i quali non toglievano subito le tende e spesso si trattenevano con gli altri clienti.

 

-   Io mi chiedo come ho fatto a partorire un simile borghesuccio ...

 

Chiara non era una semplice puttana ... certo che si faceva pagare dai clienti, ma interpretava casa sua come fosse una sorta di ashram dedicato all'amore libero. Appena entravi in casa, l'odore d'incenso ti stordiva e quando lei ti veniva incontro, ti spazzolava con un mazzetto di erbe speciali che servivano a purificarti. Praticava la medicina delle pietre con cui curava gratuitamente i suoi clienti, cui spesso cucinava anche piatti macrobiotici. Si prendeva cura di loro e credo che molti ci andassero non solo per scopare ...

 

-   Ma sta zitta, brutta zoccola ...

 

Chiara aveva lo stesso faccione di Lele, ma non so perché il suo non era brutto. Forse era dovuto ai capelli lunghi che formavano una nuvola di cheratina profumatissima. Era magra come il figlio, ma il culo lei lo aveva. Era piccolo e rettangolare, un bauletto che sembrava appuntarsi sopra delle cosce così magre da non sfiorarsi neanche nel mezzo. Chiare forse non era propriamente bella, ma sicuramente era sexy. Per esempio, non portava mai il reggiseno e anche se aveva due tettine insignificanti, queste erano puntute con due capezzoli sempre ben visibili sotto le sue casacchine etniche.

 

-   Ma vaffanculo! Mimmo è anche amico mio e stiamo solo parlando ...

 

Lele aveva un rapporto di amore e odio con la madre. Nel senso che diceva di odiarla, ma s'incazzava come un picchio se per caso si accorgeva che le guardavi le tette o il culo. Io, invece, con Chiara andavo molto d'accordo.

Mi ero inventato un modo di leggere le carte piacentine, una cavolata totalmente campata per aria, ma siccome più di leggere le carte, in realtà le usavo come pretesto per scoprire le persone, tutti lì dentro giuravano che fossi dotato di raffinate arti divinatorie. Chiara ci andò subito a ruota e stavamo ore a parlare smazzando carte. Sì, Lele aveva ragione, un poco m'invaghì di sua madre e delle accortezze che mi riservava.

 

-   Lascia' sta Mimmo e va, va a lavora' piuttosto ...

 

Chiara mi parlava anche di Israele e mi spiegò perché in casa di un ebreo ci deve essere sempre una menorah, anche se non si è religiosi. Quel candelabro ci ricorda la casa da dove veniamo e tutti torneremo. Lei ne aveva uno piccolino che teneva su un tappetino di velluto. Quando mi parlava di quella fantomatica casa, le sue mani compivano grandi gesti e ai suoi polsi rumoreggiava la chincaglieria che ci portava ... diceva sempre "noi israeliti" ... cioè mi riconosceva quel titolo e a me si gonfiava il petto di una gratitudine infinita. L'incontro con Chiara mi fece idealizzare eretz israel, credendo di potervi trovare finalmente una casa pronta ad accogliermi ... ma non tenevo conto che, affinché questo accadesse, in terra promessa ci avrebbero dovuto far nascere sicuramente più zoccole .

 

-   Torna presto Mimmo ... ho bisogno di te ... ti amo!

 

Sì, ok ... queste dichiarazioni le faceva pure al postino quando le portava la bolletta del gas. Lei amava tutti e aveva bisogno di tutti, tranne del figlio che la copriva d'improperi.

 

Secondo piano:

 

-   A Le' guarda 'n po' che pacco da regalatte che c'ho ... ihhhhhihhhhhhihhhh

 

Tutto questo accadeva al piano di sotto. Salivi le scale e ti lasciavi dietro il profumo speziato di Chiara per la puzza di calzini stagionati dello Zio di Lele. Se al piano di sotto si praticava l'amore libero, di sopra c'era licenza di pugnette scatenate. C'erano riviste porno sparse ovunque e persino un vecchio proiettore che serviva per le piccole bobine super otto dei filmetti a luci rosse. Igiene pressoché assente. I letti non avevano le lenzuola, o magari si erano semplicemente biodegradate nel tempo. Tapparelle sempre abbassate e riciclo d'aria pari a zero.

 

-   Schiaffatelo nel culo e canta forte ...

 

Il padre di Lele aveva sublimato il suo desiderio di vagabondaggio facendo il camionista di linea. Girava per tutta Europa e praticamente viveva nella cuccetta del suo mezzo. Lele era cresciuto con suo Zio.

Lo Zio era noto come "Tuttù", per via della balbuzie ed era uno spirito candido. Si arrabattava in lavoretti saltuari tanto per tirare a campare perché la sua passione era la musica reggae. Suonava la chitarra in una band che somigliava di più a una famiglia, di cui gli elementi io non ho mai ben capito, soprattutto perché le facce cambiavano continuamente e soprattutto, le prove spesso finivano prima di cominciare con un cannone di maria.

 

-   ... mammeta er bibrò te l'ha 'nsegnato bene a suca' ... ihhhhhhihhhhhhihh ...

 

La Marijuana era per il vero la fonte di reddito principale dello Zio di Lele. La coltivava ovunque e m'insegnò a distinguere i semi di canapa indiana contenuti nel mangime per canarini. Nella vasca da bagno aveva attrezzato una serra con delle lampade particolari per far germogliare i semi, mentre curava le piantine una a una in dei vasetti di terracotta che teneva in terrazzo. Era capace di trascorrere intere giornate a fissare una piantina e poi raccontarti com'era spuntata una nuova foglia.

 

-   Lascia' sta a mi' madre ...

 

Io adoravo quell'uomo. Era alto e magro anche più di Lele, ma non era brutto come lui. Aveva un viso minuto e due occhi giganteschi da Bambi ferito ... o Bambi accannato, forse è meglio dire così. Andava in giro con una Ford dalla vernice scrostata, con cui faceva continuamente le ronde per i luoghi segreti dove andava a fare crescere le sue preziose piante di marijuana. Una volta ci andai insieme ... nello stereo manco a dirlo c'era "Bob Marley" e procedemmo lasciandoci dietro una scia fumosa mista alla mia voce che discettava sulle differenze tra il reggae di Marley e quello di Peter Tosh.

 

-   A Lellè su, nte fa prega' ...

 

I clienti di Chiara erano spesso gli stessi di Tuttù e passavano dal piano inferiore a quello superiore per acquistare hashish (la marijuana era riservata agli amici). Era consuetudine che ai clienti si offrisse una canna che si faceva girare tra i presenti alla transazione commerciale.

 

-   Te lo sei fatto armeno il bidè?

-   E che mo avemo fatto a principessa, suca e statte zitto ...

 

Rimasi allibito la prima volta che vidi Lele spompinare un camionista dalla risata asmatica. Non eravamo soli, c'era Enrico e a persino lo zio! Però nessuno trovò la cosa almeno un po' strana. Che a Lele piacesse ciucciare il cazzo era cosa risaputa.

 

-   Se ce l'avessimo abbastanza lungo, nessuno userebbe più la mano pe' fasse le seghe.

 

Lele sosteneva che tutti i maschi se lo sarebbero succhiati da soli, se solo ci fossero arrivati con la bocca. Magari era anche vero, ma questo non significava che avrebbero preso in bocca anche il pisello di qualcun altro, specie se di un esemplare di orso marsicano peloso e sudaticcio.

 

-   E' colpa de que' a zoccola de mi madre che ...

 

Mi ritrovai a rifilare a Lele tutti quei pregiudizi che io stesso cercavo di fuggire. Del resto anche Lele si era costruito un alibi da esibire a sua difesa. Sosteneva che era colpa della madre che gli fece prendere il vizio di succhiare nutrendolo con il biberon ben oltre l'età scolare. Assurdo, lo so ... tuttavia, era vero che Lele doveva sempre succhiare qualcosa. Persino quando dormiva, s'infilava quattro dita in bocca, sbavando nel sonno in maniera esagerata ... era questo il motivo per cui aveva sempre le labbra strinate.

 

Quarta Parte

 

Certo che anche Chiara faceva i pompini a quei tipi e questo non mi suscitava nessuna repulsa. Lei, con tutte quelle sue ritualità esotiche, riusciva a interpretare il suo lavoro come una forma d'arte affascinante. La sua casa non rimaneva imbrattata dal degrado morale di una comune meretrice, mentre l'appartamento di Lele trasudava lo squallore di quel suo vizio. Tuttavia, anche se non approvavo quello che faceva, la nostra amicizia era diventata una consuetudine cui era impossibile rinunciare.

 

Le mattinate trascorse in villa si fecero sempre più belle. Con il sopraggiungere della bella stagione, si arricchirono di un sacco di gente. Ognuno portava sempre un nuovo amico in quella combriccola che Lele sapeva tenere unita con la sua innata propensione alla socialità. Si unirono soprattutto molte ragazze, fino a diventare di numero persino superiore ai maschi.

 

Le mattinate trascorrevano ognuna come una scampagnata con la vita. Lele adorava stare con le ragazze che lo usavano come un trastullo divertente. Ricordo di una volta che lo truccarono con tanto di rossetto sulle labbra e gli misero persino degli orecchini e un nastro tra i capelli. Era per ridere e la cosa ci divertì tutti in maniera esagerata, ma a me che lo avevo visto prenderlo in bocca, risultò molto grottesco. Io non nutrivo alcuno sdegno verso Lele, ma non riuscivo a ignorare la puzza del suo appartamento che portava addosso.

 

Io divenni una sorta di tombeur de femmes, ma solo di quelle brutte. Nel senso che erano loro a non fermarsi dinanzi alle mie incertezze. Purtroppo, però, starci assieme non era determinato da alcun sentimento, se non il disgusto che dovevo superare ogni volta che ne baciavo una. Perciò non mi accorgevo di usarle quando ne aggiungevo un'altra al palmares di casanova che esibivo con gli altri ragazzi. Sentivo quasi il bisogno d'insultarle se iniziavano a piagnucolare quando scoprivano il mio sporco gioco.

 

La Zia Pina mi diceva sempre che siamo la gente che frequentiamo.

 

Fu Lele a suggerirmi di sgraffignare qualche monile a quelle ragazze che mi stavano dietro come fossi una pop star. Io che non ero capace di rubare, iniziai a chiedere un "pegno del loro amore". Arrivai a incassare anellini, orologi e persino catenine d'oro, di quelle che nella tradizione si regalano per il battezzo. Ogni volta che riuscivo a farmi dare qualcosa di prezioso, Lele mi saltava addosso urlando che ero un fottutissimo paraculo.  Io sarò pure stato paraculo con quelle ragazze, ma sicuramente non ero furbo con lui poiché di quella refurtiva non vidi mai un soldo. Mi diceva che eravamo soci del fumo che ci comprava, ma di quello dovevo accontentarmi delle canne che ci steccavamo assieme.

Ero conscio dell'immoralità di quanto facevo, ma allo stesso tempo portavo le cicatrici di quel mondo che mi aveva sputato addosso. Ogni ragazza che derubavo aveva una gobba e l'alito pesante della madre di Marcello che mi dava del recchione.

 

Se solo fossi riuscito a strangolare ogni anelito della mia anima, se solo avessi potuto trovare un rigo su cui leggere come uccidere il mio spirito. Invece, c'era ancora in me quel rimorso indotto dal germe culturale della casta dei buoni che finiva per complicare tutto. Se fossi stato un paraculo vero, non mi sarebbe importato di farmi odiare da quelle ragazze. Al contrario, imitavo Chiara che si prendeva cura dei suoi clienti. Le ascoltavo e mi facevo in quattro per meritarmi quell'obolo che chiedevo, inducendole a credere in qualcosa che non esisteva. Facendo così, impedivo loro di usarmi allo stesso modo di come facevo io. Le lasciavo innamorarsi di quel ragazzo che le copriva di attenzioni e sapeva farle sentire desiderate ... ma erano tutte menzogne che finivano per essere contraddette da una realtà non meno squallida dei pompini di Lele.

 

 Quinta Parte

 

Quando scrivo il nome di Lele, implicitamente bisogna leggerci accanto quello di Enrico. Come ho già spiegato, loro due stavano sempre assieme. Il dubbio che Enrico fosse il pompino portatile di Lele, mi sfiorò parecchie volte, ma non posso affermare di averli mai visti in atteggiamenti equivoci.

Io parlavo molto di più con Enrico perché Lele era sempre affaccendato nello spaccio di hascisc dello zio. Mi sorprendeva la naturalezza con cui rispondeva alle mie curiosità riguardo al vizio di Lele. Ad esempio, ricordo del sorriso sulle labbra che aveva mentre si ricordava di quando, durante la partitella a calcio nelle ore di ginnastica delle medie, tutti si assentavano a rotazione per andare nei bagni, dove Lele si chiudeva per tutto il tempo a fare pompe.

 

Io proprio non riuscivo a spiegarmi come a Lele potesse palesemente piacere il cazzo, senza che questo lo facesse additare come un frocio e quindi essere messo alla gogna. Indubbiamente il fatto che spacciasse lo aiutava con quanti dovevano lisciarselo per spuntare una canna in più, ma c'era anche qualcos'altro. Lele riusciva a farsi accettare per quello che era perché aveva la capacità di coinvolgere le persone nella sua vita e forse era questo che mancava a me.

 

Enrico ed io eravamo come i pesci pilota di uno squalo, nel senso che nuotavamo in simbiosi con Lele, nutrendoci degli avanzi della sua socialità. Quella stessa diffidenza per il mondo che c'impedì di diventare realmente amici, paradossalmente creava una stranissima empatia tra noi. Ricordo di una mattinata in villa, durante quei giochi talmente stupidi da diventare esilaranti, quando rincorrendomi mi atterrò bloccandomi le braccia. Durò solo un attimo quel momento in cui mi sentii defluire l'energia dai muscoli e lui, quasi accorgendosene, mi guardò stupito, lasciando la presa come se fossi diventato rovente.

 

Enrico era un bel ragazzetto. Portava una zazzera scura rasata sui lati della testa, ma con un ciuffetto ricciolo sul davanti e una scopettina di capelli più lunghi all'attaccatura della nuca. Aveva una pelle olivastra dal colore uniforme, che si sporcava appena di un filo di barba sul mento. Aveva due occhi vispi e neri, mentre il naso era una patatina in mezzo alla faccia. Le labbra corpose erano quasi dello stesso colore della pelle.

 

Enrico non era molto alto e aveva le gambe storte da calciatore un po' più corte rispetto al corpo, che lo costringevano ad avere un'andatura tipo cowboy. Indossava sempre dei jeans calati col cavallo fino a mezza coscia, con una cinta dalla borchia da far west. I pantaloni portati sopra alle caviglie lasciavano scoperte delle preziose scarpe Timberland. Andava sempre in giro con un piumino rosso sbiadito in cui si rincantucciava come un riccio quando sentiva freddo.

Sì, è vero ... mi piaceva e neanche m'infastidiva l'odore che portava addosso, tale e quale a quello di Lele.

 

Sesta Parte

 

Lasciai credere a Lele che a Roma vivevo da solo. In realtà mia madre mi aveva messo in casa una domestica. Si chiamava Evelina. Era una vecchina indigente dagli occhi sempre sul punto di commuoversi. Dormiva in quella che era stata la mia cameretta, mentre io dividevo il letto matrimoniale con mia madre, ma per lo più lei non c'era mai.

Evelina era molto efficiente, ma lo era anche nel ruolo di mio kapò e appena mettevo i piedi in casa, dopo un po' sentivo il disco del nostro vecchio telefono girare, era lei che avvertiva mia madre.

 

-   A 'riche' er duca Torlonia se vergogna de fasse vede' co' i pezzenti.

 

Improvvisamente Lele iniziò a farmi battute sarcastiche per il fatto che non lo invitavo a stare a casa mia. Ora io non so quanti genitori sarebbero stati felici che la propria prole frequentasse un pusher di borgata figlio di una puttana ebrea.  Mia madre avesse solo subodorato una cosa del genere, non so cosa sarebbe arrivata a fare. Lele non poteva essere così sciocco da non rendersene conto. Quello che temeva, invece, era che le storie da Candy Candy che gli raccontavo facessero parte del repertorio di paraculate con cui mi sentiva irretire le povere ragazze che turlupinavo.  

 

Invitarlo a casa mia era il solo modo di dissuaderlo da quel dubbio. Per farlo dovevo sbarazzarmi di Evelina. Lei, anche se viveva da me, aveva anche una casa sua dove si recava di nascosto di mia madre, approfittando dei giorni in cui non c'ero. Quindi le lasciai intendere che per quel fine settimana non sarei andato a Roma e puntualmente non ce la trovai quando il sabato seguente arrivai con Lele ed Enrico.

 

Guardarli nel contesto di casa mia mi fece proprio strano. Non che vivessi in una reggia, però compresi solo allora, quando li vidi sedersi guardinghi sul divano che Evelina usava coprire con un lenzuolo di lino bianco, che io e loro provenivamo da mondi completamente diversi.

 

Lele ed Enrico continuarono a comportarsi in maniera assurda per tutto il pomeriggio, tipo chiedermi il permesso per andare in bagno!

Quando misi insieme una cena che potesse placare la nostra fame chimica, roba come biscotti, patatine e snack vari, quelli si sedettero al tavolo della cucina lanciandosi una strana occhiata divertita ... che cazzo c'era che non andava? Mi ruppi le palle di quella situazione e appena Enrico mi disse "grazie" per avergli semplicemente passato le patatine fritte, glielo dissi sul muso:

 

-   Perché vi comportate come se aveste una scopa piantata nel culo?

 

Lele si grattò il cespuglio di capelli e sorridendomi si strinse la testa tra le spalle ... lui che si sentiva in imbarazzo! Assurdo, semplicemente fuori dal mondo. Enrico stava addirittura riponendo il tubo delle Pringles senza averne presa neanche una. "Mangia quelle cazzo di patatine" Gli ordinai perentorio e allora lui ne sfilò una, una sola patatina quando era solito ficcarsene in bocca un sacchettino intero per volta. Persi proprio la pazienza e gli vuotai tutto il tubo di cartone davanti e gli ordinai di nuovo di mangiarle. "Ha fatto l'occhi da matto, mi sa che te convie' magnattele" Gli disse Lele, pigolando appena quel piglio goliardico che era solito urlare.

 

Insomma, mi avevano rotto tanto le palle per essere invitati a casa mia e ora che gli era preso? " E' che è vero che c'hai li sghei" E da cosa lo stavano deducendo? "Ma che ne so ... tutta sta roba da magnà ... sti tappeti per tera ... c'hai pure la serva!" No, casa mia era l'appartamento della portinaia, chiaro? "O vedi che c'hai li sordi ... solo chi c'ha li sordi s'offende quanno je dici che c'ha li sordi ... a Eriche' tu t'offenni se te dico che c'hai li sordi?" Enrico trattenne uno sghignazzo di complicità che mi escludeva.

 

... e io che credevo di essere diventato loro amico.

 

"Aoh, io me vergogno de 'na a fa la spesa co' mi madre perché er carrello nostro è sempre er più voto, a capito er signor a me me piaciono solo le princle" Non è vero! Non avevo mai detto che mi piacevano solo le Pringles, perché Enrico mi stava attaccando con tanto sarcasmo? "Ma che te credi aoh! Avemo fatto er conte Tacchia, avemo" Forse Enrico mi stava solo dicendo quello che avrebbe voluto rispondermi prima, quando alzai la voce con lui per via delle patatine fritte.

 

Li avevo invitati a casa mia non certo per essere messo sotto processo. Ero quello che ero e se non gli stava bene, potevano pure andarsene affanculo.

"Mica ce l'avemo co' te" Mi disse Lele mentre si accendeva una canna dietro le imposte della sala da pranzo. Ero stanco e volevo solo evitare di sentirmi fuori posto persino a casa mia. "Io vorrei sape' solo 'na cosa, ma perché te rode tanto?" Cioè? "E cioè 'n par de palle, 'n te se po' di' A che pigli d'aceto, ma che ne so?". Lele aveva ragione. Lui era lo spirito libero che ambivo essere, ma era così difficile liberarsi dall'educazione che mi costringeva a disprezzarmi.

 

Dopo quella discussione ci sentimmo tutti più rilassati, anche troppo perché Lele iniziò a servirsi da solo dalla vetrinetta dei liquori. Scoprii anche che la pila di giornaletti di Topolino che avevo visto nel bagno di casa di Lele, apparteneva a Enrico e allora gli dissi che io per anni avevo letto i fumetti della Marvel e a lui anche piacevano i super eroi, anche se li conosceva poco e allora gli spiegai un sacco di cose. Parlammo parecchio e a notte fonda, quando Lele sonnecchiava sbavando sul divano con quattro dita in bocca, decidemmo di lasciarlo là e andarcene a dormire.

 

Enrico si sfilò le Timberland e si gettò vestito sul letto, per loro spogliarsi per andare a dormire era solo una perdita di tempo per rivestirsi al mattino. "Che nun te ho metti er piggiamino de seta?" Mi disse sghignazzando quando stavo per sdraiarmi vestito come aveva fatto lui. "Aoh, se vede che questa è 'na casa de signori, io me sto a sfiatà de callo" Beh, se magari si fosse tolto almeno quel giubbotto ... "Anve'?" Direi proprio di sì. Presi dall'armadio la vestaglia di seta di mia madre giusto per rimanere in tema e gliela gettai addosso, chiedendogli se era della sua misura. "Ma porco disse, anvedi quanno è liscia aoh!" A quel matto gli piacque sul serio la vestaglia di mia madre, mi sa che era la prima volta che toccava della seta. Si tolse i vestiti e iniziò ad atteggiarsi a gran dama ... meglio dire a gran cortigiana, visto le movenze da mignotta che faceva ballonzolando sul letto.

 

Io avevo vergogna di come lo stavo guardando e temevo potesse accorgersi del mio turbamento. "E mamma mia, attento che se ridi te mori". A Enrico andava di azzuffarsi come faceva sempre con Lele, ma quando mi saltò addosso, io m'irrigidii e lui un po' si offese. Allora si sfilò la vestaglia di mia madre e si tuffò di nuovo sul letto. Aveva indosso solo degli slippini a strisce larghe verdi e nere ... come dimenticarseli! Io ponderai seriamente la scelta di andarmene a dormire nel lettino di Evelina, ma se l'avessi fatto, magari pensava di nuovo che fossi uno snob e che non volevo dividere il letto con un miserabile.

 

Spensi la luce e mi sfilai lentamente i vestiti di dosso. Mi sdraiai e lui rimase immobile con la faccia sprofondata nel cuscino. " A Mimmo che stai sveio?" Mi sentii domandare quando ormai credevo che stesse dormendo. " 'O sai che non c'ho mai dormito così bene?" Possibile che volesse intendere che non aveva mai dormito in un letto con delle lenzuola fresche di bucato? "Sì, profuma tutto ..." Mi ricordava Pino quando lo lavai con del bagno schiuma. "Amazza aoh! Profumi pure tu ..." Che? D'improvviso mi si accostò annusandomi il collo. Forse anche lui faceva pompini ai camionisti? "Aoh, mica t'ho detto brutto" Si lagnò, quando non gli risposi.

 

Che cosa c'era da fare? Mi rivoltai prima sul fianco sinistro, rivolgendogli le spalle ... ma poi, lentamente mi girai su quello destro e me lo ritrovai davanti, anche lui su un fianco. Mi stava guardando? La luce dell'illuminazione stradale che filtrava dalle imposte alle sue spalle, m'impediva di capirlo. C'era solo la sua sagoma scura, immobile a qualche decina di centimetri da me. "Se eri femmina, eri proprio 'na gran figa" Lo sentii sussurrare e immagino che lo dovessi prendere come un complimento. Gli risposi che lui no, sarebbe stato proprio una cozza inchiavabile. I singulti del riso che soffocò in bocca fecero sobbalzare il letto per qualche istante ... però glielo volevo dire che non era brutto. " Peccato che a te te piaciono solo le cozze" Si riferiva alle ragazze che derubavo e non mi piaceva che lui e Lele mi credessero un paraculo che gioca con i sentimenti delle persone e decisi che non lo avrei fatto mai più. Mi rivoltai di nuovo sul fianco sinistro. "Aoh ... a Mi' ... e girate 'n po' ... e mamma mia 'nte se po' di niente a te!" Mi rivoltai di nuovo ma per dirgli di piantarla, puntualizzando che quello che faceva i pompini stava dormendo sul divano. Perché fui così scontroso? Mi era venuto duro e la cosa mi gridava negli orecchi "o ricchione, guardate o ricchione".

 

 

Settima Parte

 

A maggio successe che gli allenamenti di pallanuoto furono sospesi perché la piscina doveva essere svuotata a causa di un problema al sistema di filtraggio, quindi ne avevo dedotto che la stagione sportiva fosse ormai finita, ma mi sbagliavo e non mi accorsi che gli allenamenti furono spostati nella piccola piscina interna al circolo canottieri. Fu un bel guaio perché Primo si accorse finalmente perché non venivo più convocato per le partite ufficiali. Mi fece un cazziatone memorabile e poi mi disse che pure l'allenatore voleva "parlarmi".

 

Lele mi arringò sostenendo che dovevo piantarla di farmi dare ordini da uno che non era manco mio padre. Lui mi convinse ad andare dall'allenatore e dirgli sul grugno che non me ne importava un fico secco di perdere tempo appresso a una stupida palla. Fu così che gli chiesi di accompagnarmi al circolo a darmi man forte e lui accettò subito.

 

Era giunto il momento di far valere la mia indipendenza, cazzo!

 

Tutta la mia determinazione sciamò nel momento che superai la reception del circolo. Rivedere tutte quelle facce che conoscevo da una vita e che continuavano serenamente la loro quotidianità, mi misero addosso una tale invidia! In un nano secondo mi riassalirono le paturnie sul fatto che non sarei mai potuto essere come loro.

 

Chiesi a Lele se voleva prendere qualcosa al bar, ma lui scosse timidamente la testa e con le mani intasca continuò a seguirmi in silenzio. Era forse così che intendeva sostenere la mia rivoluzione? Già mi aveva fatto fare tardi e ora dovevo per forza raggiungere gli altri a bordo piscina ... e col cavolo che mi seguì quando mi avvicinai al coach, rimanendo prudentemente  indietro a scalciare l'erba del solarium.

 

-   E tu che ci fai ancora vestito?

 

A qualche metro dalla piscina, urtai contro un muro invisibile. Mancavo agli allenamenti da due settimane, ma sarebbero potuti essere anche due secoli, tanto mi pareva remoto il ricordo di me che giocavo insieme agli altri ragazzi.

Il coach che arringava Mattia a darsi da fare di più dal bordo della piscina, quasi avesse gli occhi dietro la testa, mi fulminò chiedendomi col suo solito modo brusco perché non ero ancora entrato in acqua.

 

-   Ragazzino ... ora tu ed io faremo due chiacchiere ...

 

"Io non gioco più" Preferii buttargliela lì, senza starci a girare attorno. Tanti saluti e chi se ne fra ... invece no, il coach mi guardò spazientito e dopo avermi dato un buffetto sulla guancia, m'invitò a sedermi a uno dei tavolini accanto alla piscina.

 

Oh, mio Dio, no! Stava per partire con uno di quei soliti pistolotti da spogliatoio, pieni di retorica sul valore del gruppo e l'orgoglio di squadra.  "Tuo padre mi ha parlato del brutto momento che state passando in famiglia ..." Cioè che avevo scoperto di non averne una? Che oramai la mia famiglia era diventata una vecchina indigente che badava a me per denaro? "Dov'è finito il ragazzino cazzuto che sgomitava per entrare in squadra?" Possibile che non si rendesse conto dell'assurdità di ammazzarsi dalla fatica per gettare una palla in una rete del cazzo? "Cristo, se fossi mio figlio ..." Se fossi suo figlio, cosa? " ... ti si legge in faccia che ..." Il collirio! Lo avevo messo il collirio? Lo avevo detto a Lele che farsi una canna prima di entrare al circolo non era una buona idea ... ma sì, ti pare che mi ero dimenticato di mettermi il collirio. "... i ragazzi mi hanno detto ..." Che stava combinando Lele? Era salito sul muretto del Belvedere ... forse voleva ammirare meglio il fiume? Avevano cementificato l'argine per costruirci dei nuovi campi da tennis, proprio là dove con Vanni andavamo a sdraiarci ad ascoltare il Tevere. "Ei, mi stati a sentire?" Oddio, ma che aveva tanto da parlare? No, fumare quella canna di marijuana non era stata una buona idea ... quante vite cui stare dietro, quanti abiti con cui vestire la mia ... "Aoh, guardami un po' in faccia" No, no ... no! Il collirio l'avevo terminato ed era da giorni che mi dimenticavo di ricomprarlo, cazzo! Mi sa che al posto degli occhi mi ritrovavo due semafori rossi. "Ma insomma che cosa vuole da me?" E vaffanculo, ma perché mi dovevo sciroppare quella conversazione del menga? " Adesso è quella la gente con cui te la fai?" Oh, Lele no! Aveva scavalcato il muretto per andare a pisciare nel fiume, senza accorgersi che da dietro quella siepe era visibilissimo da tutto il circolo, forse da tutta Roma Est persino. " ... non costringermi a raccontare a tuo padre quello che ho visto oggi" Dunque tutto si risolveva con il solito ricatto?

 

-   Mat ... Carmelo ... venite un po' qua.

 

Perché ... perché era così complicato morire? Il coach chiamò Mattia e Carmelo, ma quei due già stavano seduti a far comunella fuori dall'acqua, quindi era evidente che il loro intervento era stato pianificato ... si trattava di un'imboscata bella e buona. "Mo, ci dispiace ... scusa" Mo ci dispiace scusa. Incredibile! Mattia aveva raccontato al coach che mi avevano preso in giro dandomi del frocio e questo solo perché si sentiva in colpa. Valli a capire i buoni che hanno sempre il bisogno dell'assoluzione pubblica ai propri peccati. "E pure te però, non capisci mai quando uno sta a scherza' " Carmelo ebbe l'ardire di darmi del permaloso! E lo sarò pure stato, ma non ero ancora pazzo e me lo ricordavo il modo in cui mi aveva scacciato come un cane rognoso. "Torna ... sarà tutto come prima" Ma perché quel prima continuava a suscitarmi tanta nostalgia?

 

Lele ci rimase malissimo quando gli dissi che sarei rimasto ad allenarmi e quindi, se non voleva aspettarmi, sarebbe potuto andar via. "Ma 'n te sta a crede che ce lo sapevo" Mi disse la mattina dopo, quando cercai di metterci una pezza, raccontandogli la balla che ero rimasto a causa dello sporco ricatto dell'allenatore. " A Mi', c'avessi avuta io la fortuna de nasce 'n mezzo all'ovatta, mica me li starei a fa' tutti 'sti problemi". A me non dava fastidio che Lele mi credesse ricco, ma era perché implicitamente mi dava anche dello snob; era fin da ragazzino che mi perseguitava la storia del "principe" ed era ora di finirla, cazzo! "Aoh, e nun me fa' incazza' ... ma che te credi che c'ho scritto Giocondo 'n fronte, che te credi che non lo so capito che hai mannato via pure la serva pe' paura che ce vedeva, ma sta zitto va che fai più bella figura ... ma lassa proprio perde ... ma che te credi che non ce l'ho l'occhi pe' vede' ndo cazzo vivo, che mi madre tra 'na disintossicazione e l'artra fa marchette pe' campà ... e 'nnamo per Dio!". Lo abbracciai ... non avevo altro modo d'imporgli le mie scuse. "Te possa piglia' 'n bene, ma uno ch'a da fa' co' te?" Mi disse cercando di consolare la mia improvvisa desolazione "Aoh, te e devi lassà perde que' pasticche che te bruciano sta testa matta che te ritrovi " Le Tavor le avevo ricominciate a prendere da qualche settimana perché curiosamente mia madre aveva dato ordine ad Evelina di lasciarmele sul comodino. "Per Dio! Nun te ne accorgi che tu madre te le dà per rincoionitte, t'ha fatto diventa' n' pezzo de PVC a forza de fatte magnà platica!" Da quel giorno il mio soprannome da borgata fu PVC. "Da' retta a Lelle tuo, quelle a spignele 'n piazza ce famo pure du' scudi a pezzo".

 

 

Ottava Parte

 

Improvvisamente il mondo si era messo in testa che andavo capito e soprattutto aiutato a non prendere "una brutta piega". Ebbi immediatamente il sospetto che dietro a tutto questo ci fosse Toni. Ai giovedì a casa sua non avevo mai fatto manca, tanto era diventata una consuetudine che la madre mi preparava apposta un manicaretto vegetariano sempre diverso. A Toni raccontavo tutto, era la sola persona al mondo con cui non fingevo di essere quello che gli altri si aspettavano che fossi. Siccome lui aveva un rapporto simbiotico con la madre, probabile che si lasciò scappare qualche parola di troppo e lei ne parlò alla mia; ed ecco spiegato il motivo per cui ricomparvero le pasticche sul mio comodino.

 

La combriccola delle mattinate in villa, dopo aver raggiunto l'apice di quasi trenta membri, cominciò a disgregarsi con il sopraggiungere della fine dell'anno scolastico. Le ragazze iniziarono a farsi invitare dai ragazzi per una passeggiata intorno alla zona ludica del parco. Si trattava di un sentiero che per un bel pezzo s'infilava in un corridoio di siepi molto discreto. Quando ne tornavano, era quasi certo che i due in questione si erano messi insieme. Le coppie così formatesi iniziavano a fare comunella tra loro, separandosi dal resto del gruppo.

 

La mia decisione di smettere la carriera di paraculo con le ragazze, paradossalmente le incattivì e queste iniziarono a sparlare sul mio conto. Precisamente non seppi mai cosa raccontarono in giro, so solo che tutto l'universo femminile prese a guardarmi schifato. Tutte tranne Elena, una ragazza bionda dall'aspetto ordinario che frequentava la scuola di ragioneria. In realtà lei arrivò nel gruppo quando questo si era già abbondantemente sfaldato e rimase sempre fuori da tutte quelle dinamiche interne che si erano innescate nel tempo. A me, però, piaceva la sua amica moretta e riccia, per il vero talmente bassa che per salutarla mi dovevo ogni volta piegare in due. Lei frequentava il liceo classico e nonostante coltivasse interessi da vera intellettuale, aveva seri problemi a scuola. Lei non proveniva da una famiglia ricca e faceva la babysitter per comprarsi quanto le serviva per studiare. Quella ragazza ai miei occhi era un super eroe e avrei fatto carte false per poterle piacere, ma il suo cuore era già stato dato a un metalmeccanico che poi la mise in cinta, riservandole quel destino da cui tanto voleva fuggire.

 

Elena era troppo timida e io mi accorsi che le piacevo solo quando la invitai a fare il giro intorno alla zona ludica del parco. Deve essere stata veramente grande la delusione quando si accorse che stavo solo intercedendo per Enrico, sì perché al contrario di me, lui si era invaghito di Elena e mi chiese di metterci una buona parola. Elena non mi dette subito una risposta, ma da lì a qualche giorno lei ed Enrico erano ufficialmente una coppia. Il loro tiepido amore seppe resistere al tempo e rimasero insieme per anni, fino a giungere a una breve convivenza che diede il suo frutto con una bambina. Il destino di Enrico era però segnato dalla cattiva sorte e non ebbe una lunga vita. Molti anni dopo seppi della sua immeritata e disgraziata fine. Era al mare con Elena in un giorno estivo come tanti, quando morì affogato per una banalissima congestione.

 

Quanti destini s'incrociarono in quel breve periodo che di mattino in mattino fu spazzato via dall'incedere degli eventi. Ci rendemmo conto di essere ormai al capolinea quando avremmo dovuto trascorrere una mattinata in spiaggia. L'avevamo programmata per il primo maggio, ma la festività ci giocò contro in quanto tutti poi furono presi da altri impegni, costringendoci a rimandare la fantastica gita a fine mese.

Purtroppo però, anche quella volta, all'appuntamento mancarono tutti quelli che si erano fidanzati tra loro, compreso Enrico. Di ragazzi c'eravamo solo Lele, io e un altro paio di cui manco ricordo le facce, tanto erano insignificanti. Le ragazze erano di più, forse sei o sette. Mi ricordo solo di una, era alta e segaligna con un caschetto scuro per capelli e due occhi neri che mi riservarono tutto il loro sdegno quando, dopo una piccola riunione tra loro, le ragazze decisero la spiaggia dove andare e soprattutto il perentorio "voi fate come vi pare" che ci escluse. Fu Lele a decidere di seguirle lo stesso, ma quelle non si sedettero neanche vicino a noi durante il viaggio in autobus e giunti a Nettuno, ci scaricarono fissando un appuntamento su a una spiaggia dove non si recarono mai.

 

Quegli altri compagni di ventura decisero di ritornare a Velletri con la coda tra le gambe, Lele ed io, invece, scendemmo per una caletta che portava a un fazzoletto di spiaggia dominata da un castello bellissimo. Lo stabilimento balneare portava ancora i segni dell'invernata trascorsa nell'incuria e la spiaggia era talmente ricoperta dai detriti portati dalle mareggiate, che era impossibile sdraiarsi al sole. Ci sedemmo lungo la staccionata delle cabine. Lele era particolarmente triste e rollò una canna che accompagnammo con la birra che c'eravamo comprati per affogare quella malinconia. Io gli confidai la paura di dover affrontare mia madre che avrebbe sicuramente preso malissimo l'imminente bocciatura scolastica. Lui mi rispose che avrebbe pagato per avere qualcuno che s'incazzasse per i suoi casini.

 

La solitudine di Lele era abissale e soffriva molto da quando il suo compagno di una vita gli aveva voltato le spalle per mettersi con una stupida femmina. Io mi sentivo in colpa nei suoi confronti, soprattutto perché sapevo che presto lo avrei abbandonato anch'io. Mi sfanculò quando gli feci notare che la porta di una cabina era aperta e gli chiesi se aveva voglia di svuotarmi le palle con una pompa alla faccia di quelle stronze che ci avevano bidonato. "Aoh" mi disse solo quando era giunto il tempo di tornare a casa "Annamo va ..." facendomi cenno con la testa verso la cabina dalla porta divelta.

 

Perché mi stavo slacciando la cinghia? Perché gli avevo proposto di farlo? Come c'ero finito là, in quel momento e in quel luogo? Era il primo pompino che mi facevano ed ero certo che non mi sarebbe venuto duro. No, certo che non mi poteva venire duro, perché certe robe riescono solo con chi ti attrae fisicamente. Quanti perché che in quel momento non riuscii a pronunciare, mentre quella massa di cheratina si agitava all'altezza del mio pube.

 

La guerra nucleare, l'apocalissi e no Capitano James T. Kirk tutto questo non è logico; ma lei Dottor Spock non potrà mai capire cosa accade nella testa irrazionale del cazzo quando la spingi in una bocca. Poco importa che si tratti di quella seducente della Dottoressa Uhura o un calloso orifizio su una faccia klingon, ti diventa duro lo stesso. Sulu prepari il lancio iperspaziale che ho i tachioni in subbuglio e accidenti a voi, state tutti zitti!

 

"Aoh, ma che me volevi svergina' le tonsille!" Disse Lele tenendosi una mano sulla gola, mentre tossiva e sputava per terra senza riuscire a riprendere fiato. Lo avevo tenuto per i capelli per quel breve tempo che mi servì a sparare i siluri dell'Enterprise. Non avrei voluto, ma da Capitano dovevo dirigere quel gioco in rapida escalation sensazionale. "Te stai proprio fori" Continuò Lele quando in un angolo della cabina si slacciò pudicamente i jeans, liberandosi della passione che gli avevo pompato in corpo.

 

Subito dopo avergli imbrattato la bocca, ero disposto ad accettare ogni condizione pur di tornare a far parte della casta dei buoni. Concedere a Lele di mettere le mani nelle mie mutande fu un errore perché lui fraintese quel gesto per una proposta di amicizia seria, come se mi volessi sostituire a Enrico, mentre dovevo solo liberarmi dal senso di colpa di trovarlo indecente. Qualcosa di amorale m'impediva di ben ponderare certi gesti che gli umani consideravano importanti, anche se poi li compivano usualmente in maniera a dir poco scellerata.

 

Il giorno in cui ci aspettava la gogna dei cartelloni appesi contro le vetrate dell'atrio della nostra scuola, su cui avremmo letto la nostra esclusione dalla società dei giusti, Lele decise che ce ne saremmo rimasti a casa sua a spaccarci come due cocuzze. Chiara ci spronò a ribellarci alla coercizione della bocciatura che esisteva solo per escludere dalla cultura le masse. Magari fu a questo fine che armò il suo narghilè turco dall'ampolla di cristallo in cui mise del sidro di mele. All'inizio parlammo e discutemmo sui massimi sistemi che regolavano quel fottuto mondo di merda, ma poi la droga ci spense lentamente, lasciandoci muti e senza pensieri, colmi ognuno della propria desolazione.

 

Mi risvegliai il mattino dopo, era prestissimo e Lele ancora dormiva. Decisi di andarmene senza salutarlo perché credevo che quello fosse un addio e non avrei avuto la forza di sostenerne il peso.  Andai alla stazione ferroviaria e presi il treno per Velletri. Volevo tornare da Angela perché solo lei a quel punto poteva aiutarmi. Avevo in corpo una tale ansia che mi stava consumando attimo dopo attimo. Ero sparito dal giorno prima senza dire niente a nessuno ... tecnicamente ero scappato da casa e non osavo pensare allo scompiglio che avrei trovato.

 

Avendo in me l'istinto del capidoglio che dinanzi a un problema, invece di cercare di aggirarlo, ci si spiaggia sopra; mentre ero alla stazione degli autobus di Velletri, quasi senza pensarci, entrai in una cabina telefonica e chiamai mia madre. Sentii la sua voce trattenere una forte commozione quando mi chiese dov'ero, io gli dissi subito che ero stato bocciato. Il suo tono di voce rimase lo stesso perché lo sapeva già e mi assicurò che non aveva nessuna importanza. Mi esortò a dirle dov'ero per mandarmi un taxi e tornare a casa. Io gli risposi grazie e riagganciai la cornetta.

 

Era stata tutta colpa di quei professori "burini" che mi avevano sicuramente preso sottocchio, ma l'anno seguente avrei frequentato una scuola in città, tornando ad essere lo studente modello delle medie. Certo che le cose non stavano così, ma cosa avrei dovuto fare? Mi sentivo tremendamente in colpa verso tutti e allo stesso modo di come avevo permesso a Lele di mettersi in bocca il mio uccello, cercai di accontentarli accettando ogni loro decisione sulla mia vita, compresa quella di segnarmi al programma sociale di Paolo "Un'estate straordinaria" che si prefiggeva di regalare una vacanza a tutti quei ragazzini che altrimenti non avrebbero mai potuto permettersene una. Sì, lo so che era una manovra per tenermi lontano dalle cattive compagnie, ma l'impegno profuso da tutti quanti mi stavano accanto, m'indusse a credere di poter essere curato da quel disagio interiore che mi rendeva inquieto, così da potermi finalmente sentire uguale a tutti gli altri.

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  • 1 month later...

Floppy 04/44

 

 

Essere o non essere questo è il problema di chi rincorre il proprio riflesso nello sguardo altrui. E' il dilemma di quanti non sanno più distinguere quello che sono da quanto desidererebbero apparire. Sono le affinità elettive a determinare il nostro ruolo tra la gente, oppure è un baluginante miraggio della volontà a costringerci dietro una maschera in quella commedia dell'arte che è la società dei vincenti? E' sbagliato essere diversi e quindi stonare in quella simmetria armonica creata dai ruoli omologati dal tempo e dal luogo che si abita? 

 

 

-   Invita Toni a stare da noi ...

 

I diversi piani su cui si svolgeva la mia vita entrarono presto in collisione tra le mura di casa. Tutto iniziò con una telefonata di mia madre che mi diceva d'invitare Toni a stare da noi per ricambiare l'ospitalità dimostratami per tutto l'inverno. Quella sera si organizzò una vera cena formale, durante cui c'impegnammo moltissimo per dimostrare come casa nostra fosse uguale a tutte le altre.

 

-   C'è Toni stasera?

 

Da quella volta mia madre iniziò a chiedermi sempre se c'era Toni, la risposta affermativa la rassicurava e quindi se ne rimaneva a casa sua, lasciandomi in pace con Evelina che badava a noi. Toni dal canto suo sembrò felice di trasferirsi da me un giorno sì e l'altro pure. Lui si rivelò una casalinga perfetta: arrivava sempre con una busta della spesa per cucinarmi qualche nuovo manicaretto vegetariano e prima di andar via impartiva a Evelina le disposizioni per le faccende del giorno dopo.

 

-   E' un ragazzo d'oro ...

 

Capitava rientrando che lo trovassi già in casa a chiocciare con mia madre in cucina. Sapendo quanto Toni era paraculo, non capivo più se fingeva quando stava con lei, piuttosto di quando era con me. Tuttavia, sebbene per alcuni aspetti fosse più bigotto di mia madre, mi piaceva averlo attorno e non m'infastidiva neanche quando, ad esempio, mi mostrava le immagini dei tumori al polmone per convincermi a smettere di fumare.

 

-   Sei arrabbiato con me?

 

Come potevo prendermela con lui, se era la sola persona che mi dimostrava dell'affetto? Così, quando la sera andavamo a dormire nel lettone, se non gli auguravo la buona notte dopo aver spento la luce, mi chiedeva preoccupato se ero arrabbiato con lui. Beh, capitava pure che lo sfanculassi se, al solito, aveva avuto da ridire cose perfide sulle mie amicizie, ma per lo più gli dicevo "sogni d'oro imbecille" e basta.

 

Tutto questo accadeva mentre le mattinate in villa con Lele iniziavano a immalinconirsi e l'approssimarsi della fine dell'anno scolastico richiedeva un'urgente soluzione all'inevitabile bocciatura. Fu soprattutto grazie alla solerte diplomazia di Toni, se mia madre alla fine prese la notizia meglio di quanto potessi sperare. C'era però da considerare anche Primo, in fondo mi aveva accolto in casa come se fossi veramente figlio suo, ed era stato lui a investire sulla mia istruzione affinché un giorno potessi occupare il suo posto nella ditta di famiglia ...

 

Fu solo per questo se presi tanto sul serio lo sport, perché certo se fossi riuscito a entrare in squadra, Primo mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Dopo aver ripreso regolarmente gli allenamenti, mi sorpresi di quanto il mio fisico soffrisse nello stato d'inerzia in cui lo avevo costretto negli ultimi mesi. Fu come se avessi compresso in me una tal energia, che al primo tuffo in acqua mi ritrovai una marcia in più rispetto agli altri. E non era solo una questione di muscoli, fu la stessa cosa per la testa. Mi bastava un colpo d'occhio a pelo d'acqua per capire cosa stesse succedendo e prima di ogni altro, sapevo cogliere un suggerimento dal bordo piscina e quindi adoperarmi per realizzarlo.

 

Sicuramente io ci misi tutto l'impegno possibile, ma non fu solo per questo se entrai direttamente da titolare nella squadra ufficiale del Circolo. In realtà il destino sembrava aver organizzato tutto in modo che diventassi in poche partite il giocatore più acclamato.

L'allenatore era entusiasta delle mie prestazioni e quando a fine maggio Carmelo si ritirò per prepararsi all'esame di maturità di scuola superiore, non ebbe alcun dubbio nell'assegnarmi il suo posto in squadra. Per il resto è sacrosanto il detto riguardo alla fortuna che arriva solo per quanti sono pronti a coglierla al volo ... la mia era tonda, gialla e rossa e ogni volta che mi arrivava sulla mano, sapevo subitaneamente cosa farne affinché finisse sempre nella rete avversaria.

 

Lo sbornia di popolarità che mi diede lo sport, cancellò quell'anno appena trascorso pieno di umiliazioni e sconfitte. Di quell'inutile parentesi triste e buia non rimase che una macchia nera, in cui ero intenzionato a far scomparire anche Lele. Sarebbe sicuramente successo se Enrico non lo avesse lasciato solo, ma a quel punto non me la sentii di abbandonarlo anch'io. Iniziai a trattarlo come quelle ragazze che dopo averle ingannate, il senso di colpa mi costringeva ad accontentarle in ogni capriccio. Fu così che anche lui entrò a far parte della tribù che si stanziò in casa mia.

 

Intanto al circolo ero entrato ufficialmente tra gli argomenti di discussione che animavano il bar. Sì perché c'era chi già mi annoverava nell'albo d'oro degli atleti del nostro club e quanti, invece, mi criticavano ritenendo che non avessi la stoffa del vincente. Quest'opinione era ispirata dalla mia ritrosia nel concedermi in quei salamelecchi tipici della vita di società. Gli stessi in cui eccelleva invece Mattia. Era lui, infatti, che menava la palla in rete allo stesso modo di come elargiva sorrisi in contraccambio delle pacche sulle spalle dei suoi innumerevoli fan.

 

Mattia non si sentì mai minacciato da me perché, al contrario di Carmelo che in fondo era invidioso del suo successo, io gli passavo sempre volentieri la palla, tant'è che era opinione comune che fossimo un'accoppiata vincente. Certo che potevamo considerarci amici anche prima, ma vuoi l'assenza di Carmelo impegnato a studiare, vuoi la voglia di tutti nel considerarci complementari, finimmo per credere di essere culo e camicia anche fuori dall'acqua.

Io accettai volentieri il ruolo del suo pupillo perché, anche se fisicamente ero diventato una pertica e potevo essere scambiato per un suo coetaneo, Mattia era prossimo alla maggiore età e a me faceva veramente comodo rimanermene rintanato sotto la sua esperta ala protettrice.

 

Studiai attentamente Mattia e compresi che un campione deve saper interpretare i desideri del suo pubblico per riuscire a condividere il proprio successo con loro. Mattia era noto come uno sciupa femmine così che tutti gli uomini s'identificavano in quella sua promiscuità e le ragazze, in un certo senso, si sentivano eguali nelle possibilità di poter conquistare le sue attenzioni. Al contrario, io risultavo presuntuoso agli uomini perché snobbavo quello che loro avrebbero fatto al mio posto, ed ero antipatico alle ragazze in quanto non gli riservavo quelle attenzioni che le avrebbero fatte sentire delle super fighe.

 

La soluzione era mettersi con una ragazza desiderabile, così i maschi mi avrebbero invidiato e le donne ammirato per la mia fedeltà. Avrei potuto scegliere qualsiasi ragazza. Mi bastava guardare una volta di troppo qualcuna di loro, che Mattia era pronto a presentarmele con allegato un manuale per l'uso.

Il tempo di un'uscita e l'interesse scemava, a volte bastava addirittura che aprissero bocca per diventarmi indifferenti. Mattia s'incazzava e diceva che non mi costava niente darle una "paccata" e rispedirle a casa, così che quelle avrebbero certo sparlato di me, ma come un profittatore paraculo piuttosto che come uno stronzo che non gliela contava mica giusta ... 

Persino Primo si sentì in dovere di chiedermi se c'era qualcosa che non andava con le ragazze. Non c'era niente che non andasse, avrei ben potuto scoparmele tutte, ma l'idea che questo mi avrebbe reso qualcosa che non volevo essere, me lo impediva a livello inconscio.

 

C'era solo una ragazza con cui mi sarei messo insieme: Lidia, ma come diceva Carmelo, lei era anche la più zoccola.

Lidia frequentava il circolo non come una ragazza qualsiasi, la procace avvenenza e la fretta di vivere l'avevano sempre spinta a intrecciare relazioni scandalose. Era opinione comune che fosse un'intrigante, ma in realtà la sua condotta di vita non era diversa da quella di Mattia.

 

-   ... rimarrà un segreto tra uomini ...

 

Primo mi disse proprio così, quando un pomeriggio mi chiamò al suo tavolo dopo un allenamento. Succedeva spesso che portasse degli amici a guardami giocare, cui mi presentava come fossi già un atleta da nazionale. Era una scocciatura da cui Mattia ogni volta mi veniva a tirar via dopo qualche minuto, quel giorno però non si vide perché era stato tutto pianificato. A quel tavolo ci trovai anche Lidia ... seduta accanto al padre. Dopo una presentazione molto ufficiale, fui invitato a sedermi ... io non spiccicai una parola per tutto il tempo.

 

Con Lidia avevamo già avuto modo di rivederci dopo quella sua festa di compleanno cui non partecipai, ma non c'eravamo più scambiati neanche una parola, nemmeno un saluto. Io proprio non riuscivo a perdonarle le calunnie che aveva messo in giro.

Quel giorno, però, Lidia mi rivolse un gran sorriso e mi salutò con i tre bacetti sulla guancia tipici tra gli amici del circolo.

 

Solo alla fine seppi come stavano le cose, quando Primo mi lasciò intendere che era meglio non far sapere a mamma del mio filarino con Lidia. Era dunque così? Io stavo con Lidia? E quando era successo? Mi spiegò tutto Mattia, quando mi disse sul grugno che in giro era tornata quella maldicenza sul mio presunto "mal de recchia". Solo per questo lui si sentì autorizzato ad andare da Lidia per proporle di mettersi con me e lei, da gran zoccola qual è sempre stata, accettò a condizione che Primo mi avesse presentato in modo ufficiale a suo padre ... sostanzialmente dopo quell'incontro cominciavamo a "uscire assieme".

 

-   ... non devi dimostrarmi niente, a me va bene così ...

 

Esiste qualcosa di più umiliante di tutto ciò? Sì, successe quando mi trovai solo la prima volta con Lidia e lei m'informò di sapere tutto quanto c'era stato tra me e Marcello. Lui lavorava nei locali del padre, dove certo era ben nota la sua omosessualità, visto che si era persino messo a fare marchette. Non ho dubbi che fosse Lidia a interrogarlo su quanto era successo tra noi, ma perché aveva dovuto raccontarle pure cosa provava sentimentalmente e che secondo lui, se non fossi stato ancora così piccolo e avessi accettato l'idea di essere frocio ... ed era solo per questo altrimenti di sicuro ... e vaffanculo! Quella sera fu solo per farla smettere di parlare che le cacciai la lingua in bocca e se non mi avesse fermato, l'avrei scopata fino a fargliela fumare. Invece mi disse che non dovevo dimostrarle niente, che a lei stava bene così e che le piacevo comunque, ma io a quel punto non ci capii più un'acca bucata ... Sì, era indubbio che mi venisse duro anche con gli uomini, però a Lidia me la sarei scopata assai volentieri. Quando lei mi respinse, fu come se le facessi schifo e questo mi umiliò profondamente ... ma allora perché aveva accettato di mettersi con me?

Non glielo chiesi e lasciai stare le cose così come le avevano decise gli altri perché era la cosa più giusta da fare se non volevo finire sulla gogna.

 

Seconda parte

 

In quei giorni, con tutta quella gente per casa, compresi perché da piccolo temevo di essere rapito dalle ombre di "Loro". Per il vero fuggivo il desiderio di essere raggiunto da quelle lunghe lingue scure che cercavano d'ingoiarmi in qualche anfratto buio di casa, perché la luce della realtà proiettata dagli sguardi di chi mi era accanto, mi squarciava la pelle proprio come fossi un'ombra da far scomparire.

 

Avevo sempre vissuto nello spazio esterno in uno scafandro da palombaro con un lungo tubo da cui continuavo a respirare l'aria della mia bolla di realtà alternativa. Da bambino la mia tana era la famiglia, ma ben presto quello spazio vitale cominciò a rimpicciolirsi sempre di più, costringendomi a vivere nascosto nella mia cameretta, tra quintali di carta che mi parlavano al posto delle persone. Senza capirlo avevo raggiunto sui miei passi "Loro" per sfuggire agli "Altri" che vivevano nella luce.

 

Marcello fu il raggio di sole che incautamente feci filtrare attraverso lo spiraglio di una casuale occasione e incendiò il mio castello di carta. L'ardore di quelle braci non smise più di avvampare il mio cuore, colmandolo di desideri.

Quando l'infanzia scomparve nell'evanescenza di un miraggio, lasciandomi orfano di tutti quei ricordi rivelatosi la parvenza ipocrita di una realtà taciuta a tutti i costi, acquisii anche l'inconsistenza di un'ombra perché cosa altro sono le persone se non la proiezione del proprio passato? Io esistevo ormai solo come un riflesso sgorbio e grigio di un segreto scandaloso.

 

-   Mi piacerebbe tanto capire cosa ti passa in testa che ti fa quella faccia così triste.

 

Sì, me lo chiedeva sempre anche mia madre e Toni specialmente ne era infastidito quando la mattina mi sedevo a far colazione con una faccia da funerale ... "ecco che gli è morto il gatto" diceva sempre la mamma ad Angela, se non le rispondevo distratto dalle mie elucubrazioni mentali.

 

-   Evelina sta attenta che oggi morde.

 

Evelina ... mio infido elfo servitore. Quella sua testolina spelacchiata dallo sguardo languido era così grottesca, che poteva ben essere venuta fuori da uno degli anfratti bui di casa ... le sue manine gelide mi carezzavano la testa per consolare la malinconia come fosse un gatto che gli faceva le fusa.

 

-   Beh, ti è forse morto il gatto e non me ne sono accorto?

 

Ho sempre desiderato avere un gatto, ma a mia madre non sono mai piaciuti gli animali in casa ... esattamente come non li poteva soffrire Toni ... era sorprendente come loro due si somigliassero.

 

-   Allora?

-   Vaffanculo.

-   Sia lodato il Signore, è ancora vivo!

 

Insopportabile esattamente come lei ...

 

-   Sappi che il tuo amico ha lasciato ancora il bagno sporco.

 

"Il mio amico" era Lele. Toni lo considerava come il diavolo e parimenti non lo chiamava mai per nome per paura di evocarlo.

 

-   ... che al signore pesano le manine per usare lo spazzolino?

 

Oh, ma era il caso di parlarne proprio a colazione? Lele di mattina lasciava sempre una sgommata nella tazza del cesso. Che ci potevo fare io?

 

-   Quello sono tre giorni che dorme sul nostro divano ...

 

Sì, effettivamente Lele ormai se ne andava solo quando gli dicevo che arrivava mia madre ... ma del resto quello era il mio divano e non il "nostro" divano.

 

-   E' arrivato il signorino Mattia.

 

Evelina chiamava tutti i miei amici "signorini" ... tranne Lele; beh, c'era da capirla se le stava antipatico, era lei che doveva pulire le sue sgommate, anche se era più infastidita dal fatto che sporcasse di cicche i candidi lenzuoli di lino con cui caparbiamente si ostinava a coprire il nostro divano ... ehm, volevo dire "il mio divano".

 

-   Evelina è vero che mi hai lasciato un po' del tuo caffè speciale?

 

Che gran figlio di puttana che era Mattia! Sapeva sempre come lusingare le persone, che lo contraccambiavano con mille attenzioni. Era il solo che riusciva a far sorridere Evelina. Le faceva la corte per finta dicendole che da ragazza doveva essere stata una gran gnocca, allora lei fingeva di offendersi, ma le piaceva eccome essere ancora considerata una donna, e quando Mattia esagerava, magari prendendola di sorpresa per un valzer immaginario, lo scacciava ma subito dopo il suo volto s'illuminava di un sorriso ...

 

-   Sei solo geloso perché Evelina mi vuole più bene che a te.

 

Evelina insieme al caffè gli serviva anche un cornetto in cui aveva spalmato il burro di arachidi che comprava apposta per lui ... perché a me non piaceva e quanto a Toni, lui non faceva entrare in casa schifezze ipocaloriche, tanto che Evelina teneva il barattolo tra le sue cose e figurarsi se Toni non doveva rimproverarla anche per questo. L'antipatia tra Mattia e Toni era qualcosa che forse risaliva fin alle loro vite precedenti e il burro di arachidi gli forniva solo un pretesto per ricominciare a beccarsi.

 

-   Piuttosto, lo sai che tuo marito ieri sera ti ha messo le corna?

 

Ecco, appunto. Perché in fondo quei due erano uguali e godevano entrambi di quelle loro schermaglie verbali. Però che cazzo c'entravo io?

 

-   Cioè? E' vero? Dopo quello che ti ha fatto, ti ci sei messo insieme! Con ... con quella zoccola?

 

Oddio! Aveva detto una parolaccia, mi sa che ora doveva andarsi a lavare la bocca con il sapone.

 

-   Ma parla ... dì qualcosa!

 

Mattia se la rideva della grossa, sapevo cosa stava pensando e non mi piaceva.

 

-   Dico che non sono cazzi tuoi e dico pure che Lele sta qui esattamente da quando ci stai pure tu.

 

No, non volevo cacciarlo, ma figurarsi se Toni non se la prendeva subito a male. Lui poteva dirmene di tutti i colori, se gli dicevo qualcosa io, se la legava subito al dito. Avrei voluto seguirlo in camera mentre si preparava lo zaino per andarsene, giusto per scusarmi perché in fondo era lui la tana dove potevo ancora costruire castelli di carta.

 

-   Lascia stare che è meglio se Fiatella si sciacqua dai coglioni.

 

Mattia mi trattenne per un braccio dicendomi che avevo fatto bene a mandarlo via ... che fosse per colpa sua se in giro dicevano che soffrivo un po' "de recchia"? Mattia non me lo disse esplicitamente, ma a Toni fin da ragazzino lo prendevano in giro per i suoi modi troppo educati e poi faceva il tuffatore e si sa che quelli sono degli esteti e gli esteti somigliano troppo ai froci ... mi si gelò il sangue nelle vene quando finii di tracciare la linea tra i puntini di tutti quegli indizi.

 

-   Toni non è frocio ...

 

Più che a Mattia lo dissi a me stesso.

 

-   ... e tu sei un grandissimo figlio di puttana.

 

E certo che Mattia era un grandissimo stronzo perché chi altri poteva essersi fatto venire quel dubbio? Lui non aveva mai potuto soffrire Fiatella ... ehm, Toni; e lo prendeva sempre in giro dandogli proprio della checca. Continuai a unire i puntini di tutti quegli indizi e compresi anche il gioco che stava facendo Mattia. 

 

Carmelo dopo l'esame di maturità sarebbe andato a lavorare in uno studio commerciale, il che significava che non avrebbe più potuto fare la vita da studente con Mattia. Io ero perfetto per sostituirlo, del resto avevo già preso il suo posto in squadra e tutto il circolo ci aveva consacrato come i più fighi del reame. Diciamocelo, io ero anche meglio di Carmelo perché noi due appartenevamo allo stesso mondo. Mattia aveva deciso di diventare il mio migliore amico e conoscendo il rapporto esclusivo come interpretava questo ruolo, non ebbe una sola esitazione a sbarazzarsi di quel Fiatella che non aveva mai potuto soffrire già di suo.

 

Chi altro poteva insinuare che tra me e Toni ci fosse qualcosa più di un'amicizia sincera, se non lui che era il solo a frequentare casa mia? La chiacchiera che soffrissi di recchia era solo una velata minaccia che avrebbe messo in atto se mi fossi tenuto Toni accanto. Del resto aveva fatto la stessa cosa quando costrinse Carmelo ad allontanarmi da lui. Senza manco accorgermene era appena riuscito a farmi scacciare Toni allo stesso modo.

 

-   E vai, corrigli dietro alla tua mogliettina ... ma chi ti ferma?

 

No, non gli corsi dietro. Mattia non sorrideva più dopo che ebbi finito di esporgli quanto forse neanche lui sapeva chiaramente di aver fatto. Era palese che soffrisse di una gelosia patologica e non poteva accettare di condividere quello che desiderava, lui doveva sempre essere il numero uno ... l'unico, quello che tutti invidiavano e quindi amavano. No, non corsi dietro alla mia mogliettina perché se lo avessi fatto, Mattia non avrebbe esitato un attimo a distruggermi. Sperai solo che Toni non facesse come me, quando allontanato da Carmelo decisi di scomparire.

 

Terza parte

 

Esiste qualcosa di più gratificante del compiacere chi ti vuole bene?

 

-   Tu sparisci che io vado a cerca' papà perché se t'acchiappa mamma stavolta t'ammazza!

 

La squadra ebbe i numeri per passare di categoria diverse partite prima che il campionato finisse. Un successo che non poteva essere certo ascritto solo alle mie ottime prestazioni in acqua, ma si sa che la gente preferisce sempre dare un volto alla casualità e il mio era perfetto per quel ruolo. Ero cresciuto in seno al circolo e tutti improvvisamente si ricordarono di quei piccoli successi che prima di allora nessuno aveva notato e adesso, invece, parevano raccontare l'epica ascesa agli allori di un giovante enfant prodige.

 

"Medaglia per l'atleta rivelazione ... "

 

No, non si trattava del galà degli Oscar al Kodak Theatre di Los Angeles, tuttavia la festa per la chiusura delle attività agonistiche del Circolo era l'evento dell'anno; una gran soiree cui le signore presenziavano in abito lungo e gli uomini indossavano lo smoking. I ragazzi e le ragazze iscritti alle attività agonistiche, invece, vestivano la divisa del club ed eravamo noi a dare un senso a quella pompa magna, perché sul palchetto allestito sul belvedere consegnavano le medaglie a quanti si erano distinti nei vari sport durante delle piccole olimpiadi interne.  Lo sport principe era ovviamente il canottaggio, dove io non ero mai riuscito a eccellere, ma si davano premi anche per attività artistiche e in quelle me l'ero sempre cavata meglio. Si trattava del premio Tiber e si assegnava per la pittura o la fotografia eccetera ... ma quella era roba per sfigati che era meglio quasi non vincere. Io smisi di parteciparvi quando, dopo essermelo aggiudicato per due anni di seguito, presero a bersagliarmi sarcasticamente con il nomignolo "il poeta" ...

 

-   Santo cielo guarda che roba! Evelina montami l'asse da stiro che ci penso io ...

 

La mamma quella sera era nervosissima perché era la prima volta che accettava di mettere piede al circolo e se la prese con Evelina perché secondo lei non mi aveva stirato bene la divisa del club. Dannata divisa! Ogni volta che la indossavo, non potevo fare a meno di ricordarmi di quanto Vanni da bambini ne andasse orgoglioso e di quella volta che alle scuole elementari mi costrinse a metterla per l'invito ufficiale ricevuto dalla mamma di Carmelina.

In fondo non era passato poi tanto tempo da allora e quella sera a casa mia sembrava essere tornati indietro negli anni. C'era la mamma che tutta in ghingheri cercava di non sudare con il ferro da stiro in mano e che rispondeva di traverso perché le cose non andavano mai bene, proprio come quando in passato ci dovevamo preparare per qualche matrimonio o roba del genere. C'era Angela che al solito era già pronta da un paio d'ore e faceva avanti e indietro sui tacchi per il corridoio di casa, innervosendo ancora di più la mamma. Primo era ovviamente in ritardo e quando sarebbe arrivato, si sarebbe beccato i soliti improperi perché noi venivamo sempre dopo i suoi inderogabili appuntamenti di lavoro ... o di qualsiasi altra cosa lui facesse passare per tali.

 

            " ... per l'impegno a portare in alto il nome di questo club ..."

 

Incredibile a dirsi, ma quella era proprio la mia serata! Quante volte avevo sognato di salire su quel palchetto per pisciare in testa a tutti ... no, la verità era che volevo essere accettato e il solo modo di riuscirci era sempre stato quello di eccellere, un po' com'era continuamente accaduto a scuola per guadagnarmi il rispetto dei compagni.

"Sei proprio bello" Mi disse Angela, quando mi raggiunse tra gli sportelli di specchio dell'armadio di mamma, sistemandomi il colletto della camicia appena stirata, proprio come quando da piccolo mi vestiva per andare a scuola ... mi metteva in piedi su una sedia e prima di farmi scendere, mi strattonava su per la cintola dei pantaloni, nell'inutile tentativo di non farla finire sotto il bordo della pancia gonfia di medicinali ricostituenti.

 

Esiste qualcosa di più gratificante del compiacere chi ti vuole bene?

 

"Siediti che ti lego i capelli" Forse quella volta le cose sarebbero andate in modo diverso ... non sarebbe tutto scomparso allo scoccare della mezzanotte. Angela decise che per l'occasione era meglio legare i miei capelli lunghi e mi fece sedere sul bordo del letto per spazzolarli prima di stringerli in una più ordinata coda di cavallo.

 

-   Oddio! Momo vieni a vedere chi c'è ...

 

Vanni ... era Vanni ... quella sera ci mancava solo lui. Era venuto con Primo a congratularsi con me ... falso e ipocrita, non poteva fare a meno d'invidiarmi anche quel successo?

"E' vero che sei stato promosso con tutti otto?" Quando arrivai in soggiorno, la mamma era in un brodo di giuggiole mentre presentava il suo caro figlioccio a Paolo ... promosso con tutti otto nella scuola dove sarei voluto essere io. Vanni mi salutò con un sorriso imbarazzato ... mi sa che avevo in faccia lo sguardo da matto di cui parlava sempre Lele. Vanni era così bello nella sua rispettabile normalità mentre io finivo sempre per essere fuori misura ... anche quella sera che con quella divisa sembravo un semidio pronto ad ascendere al trono degli dei, quando solo un mese addietro andavo per campi con la Ford dalla vernice scrostata dello zio di Lele e conversavo con la puttana ebrea di sua madre ... semplicemente eccessivo in tutto.

 

-   Tu non sei strano, sei solo fatto così ...

 

Mamma costrinse Vanni a seguirmi in camera, perché noi eravamo amici per la pelle no? Invece eravamo imbarazzati perché non avevamo più nulla in comune. Quell'estate lui sarebbe partito per un giro d'Europa in tenda ... aveva proprio ragione Lele - non esiste nulla di più snob della pretesa dei ricchi di fare esperienze da squattrinati. Ma se Vanni mi stava così antipatico, perché non riuscivo a smettere di volergli bene?

"Io lo so che sono un po' strano" Glielo dissi perché era vero e potevo essere qualsiasi cosa ma non stupido. Lui disse di no che non ero per niente strano ... mentiva ... tergiversò per farmi credere che era tutto normale quello che mi accadeva ... allora cercai di spiegargli quanto assurda era diventa la mia vita, però mi accorsi di metterlo in imbarazzo con quelle confidenze sconvenienti e tornai a interrogarlo sul suo imminente viaggio avventuroso.

"Avete finito di complottare voi due?" Ci venne a chiamare mia madre perché si faceva tardi ...

 

            " ... tu sei il simbolo dei valori cari a questo club ... ".

 

Quanta ipocrisia ... non ne avevo mai vista tanta in una volta sola. Gente che non mi aveva mai degnato di uno sguardo che mi salutava come se fossimo parenti stretti. Li conoscevo tutti, questo è vero, ma ricordavo bene lo sdegno del padre di Pontesilli Antonio, quando chiese che alla sua decerebrata progenie fosse assegnato un diverso compagno di vogata; ora erano lì, tutti ai miei piedi per volontà di Dio e se fossi stato furbo avrei accettato quello stupido gioco di salamelecchi ... del resto, non era forse quello che desideravo?

 

-   Dove cazzo sei finito oggi? C'erano le foto da scattare ...

 

Mattia e Carmelo mi vennero incontro con le loro teste rasate a zero, tirandomi via dal capannello di gente che si congratulava per il mio encomiabile successo. Si lamentarono con me perché nel pomeriggio sarei dovuto andare al circolo per il rito delle foto di squadra da appendere in bacheca ... ho sempre odiato quel genere di foto, anche a scuola le avevo evitate ogni anno dandomi malato. Certo non avevo più la pancia e le guance a meletta che giustificavano quella mia irrazionale ritrosia, ma proprio non ci riuscivo a sentirmi come gli altri. 

 

-   Smettila di fare la star ...

 

E certo, perché alla fine passavo per quello che ritiene gli altri indegni della propria presenza. Era già successo anche alla festa del dopopartita che decretò il passaggio alla categoria superiore ... io tagliai la corda un quarto d'ora prima. Ero bravo solo quando c'era da lavorare e impegnarsi, ma ero totalmente incapace di lasciarmi andare in quelle espressioni amicali come abbracci, sorrisi e condivisione in genere del proprio piacere. Quella sera, con le loro teste rasate, tutta la squadra aveva deciso di porre l'accento sul loro spirito di appartenenza ... con quella crapa pelata facevano sfoggio di una goliardia cameratesca che suscitava tenera invidia a chiunque. La mia lucente coda di cavallo, invece, testimoniava quanto non facessi parte di quell'avventura, ma siccome quella sera era la mia forza che era omaggiata, quei capelli risultavano antipatici come fossero di un Sansone che pretendeva di arrogarsi tutto il merito della vittoria.

 

-   Amore mio! Andiamo che ti voglio sfoggiare un po' in giro ...

 

Lidia. Il nostro rapporto era cambiato dalla festa del diploma di Carmelo.

 

-   Quella sera vedi di far sparire lo Spaventapassere ...

 

Carmelo non poteva proprio soffrire Lele e lo chiamava "Spaventapassere". Obiettivamente Lele non fece mai nulla per rendersi meno sgradevole al gentil sesso. Io avevo tentato di dargli dei consigli per migliorare il suo aspetto ... ero persino riuscito a fargli tagliare il cespuglio incolto di capelli che portava in testa, anche se il risultato certo non fu quello che mi aspettavo ... ma insomma, almeno una doccia in più l'avrebbe potuta fare per togliersi di dosso l'odore di stantio, no?

Il fatto era che fin quando rimanevamo tra noi, Lele non era un problema, anzi, trovò in Mattia una cospicua fonte di reddito, però Carmelo era troppo sensibile a cosa pensassero le ragazze di noi e quelle del nostro giro non facevano mistero di quanto schifassero Lele.

 

-   ... vedi di far sparire lo Spaventapassere.

 

Come il solito, quando il sarcasmo di Carmelo ti affibbiava un soprannome, era una sorta di marchiatura a fuoco, ne sapeva qualcosa Fiatella alias Toni ... Fu così che tutti presero a chiamare Lele "Spaventapassere" e fu così che lo chiamò anche Lidia, quando mi disse a chiare lettere che non lo voleva al tanga party a sorpresa per la festa di diploma di Carmelo che, appunto, avremmo tenuto a casa mia.

Io proprio non ci riuscii a trovare il modo di dirglielo e quindi ci pensò Mattia. "Io ci metto il fumo" Provò a ribattere Lele, quando Mattia gli disse sul grugno che per partecipare alla festa doveva cacciare i soldi per la "roba seria". Roba da ricchi intendeva ... cocaina. Avrei dovuto dire qualcosa? Probabilmente sì, ma non potevo certo pagare la sua quota per comprare la coca e poi la storia dei soldi era solo un pretesto, lo sapevo ... dopotutto Lele non poteva aspettarsi di essere accettato dai miei amici solo perché abitava sul mio divano.

 

-   Ah! Lo sapevo che avresti scelto questo ...

 

Un tanga party era la versione hard di un toga party ... Lidia portò perizomi per tutti e delle fogge più "extreme". Per lei era facile reperirli perché quei sexy shop che Carmelo e Mattia frequentavano pur non avendo l'età per entrarvi, erano solo una delle tante attività commerciali appartenute a suo padre.

Lidia mi chiese di sceglierne uno per lei ed io a dire il vero scelsi il più casto, una mutandina da Wonder Woman con tanto di laccetto dorato legato su un fianco. Lei se la rise della grossa perché lo aveva messo nel mucchio apposta, sicura che lo avrei scelto ... Santa pupazza! Si spogliò davanti a me ed io non sapevo se era lecito guardarla, ma lei non mi diede il tempo di pensarci e si sfilò pantaloni e mutandine, issando la bandiera d'America sul quel pennone di cosce che si ritrovava. Cioè, quella diavoleria le lasciava i glutei scoperti ... due chiappe che manco Canova avrebbe saputo levigare altrettanto bene. Un culo così sodo che solo a guardarlo pareva di sentirne la fragranza sotto i polpastrelli ...

 

-   Aoh! Ma che fai?

 

E che avevo fatto? Semplicemente quello che qualsiasi altro maschio con del sangue caldo nelle vene avrebbe fatto ... la palpai. Lei mi respinse esterrefatta ma non era arrabbiata ... anzi, sfidò con un sorriso malizioso l'imbarazzo che subito mi avvampò la faccia. Lidia si sfilò provocatoriamente la magliettina costringendomi a guardare altrove ... quando stette per sganciare il reggiseno, la esortai a smetterla perché Evelina sarebbe potuta entrare in camera in ogni momento ... Bang! Appena slacciò il gancetto, il reggiseno saltò via come un elastico dalle sue abbondanti zizze.

 

-   Vado a far dire un rosario a Evelina ...

 

No, non era una scusa per farla smettere! Mattia aveva trovato un modo sicuro per tenere lontana Evelina commissionandole un rosario, previo pagamento di un deca. Io non lo so se poi il rosario lo andava a recitare sul serio, fatto è che si chiudeva in cameretta e qualsiasi cosa succedesse non usciva più per tutta la serata.

Io volevo solo andare a scucire un deca a Evelina affinché non ci disturbasse, chiaro? Invece, quando tornai in camera, Lidia ricominciò con la pippa che non dovevo dimostrarle niente. Quando stava per sfilarsi la mutandina da Wonder Woman le bloccai le mani. "Così mi fai paura" Disse ... sì, come no! "No, davanti no" Davanti ... di dietro, ma cosa potevo capirci più io che annaspavo con la faccia tra tutto quel ben di Dio. Non era la prima volta che facevo sesso con una donna, è vero, ma era la prima volta che ne avevo coscienza in tutti gli istinti più reconditi del mio corpo. Tra le sue cosce durai giusto il tempo di un battito di ciglia e secondo me non ci arrivai nemmeno a possederla carnalmente, ma lei sostenne il contrario.

 

-   Le ragazze non scoreggiano perché altrimenti il culo se la canta.

 

Carmelo sosteneva che tutte le ragazze facessero sesso anale per salvaguardare la propria verginità ... che fosse anche il caso di Lidia? Perché risultava piuttosto inverosimile che una con la sua fama non fosse mai stata con un ragazzo. Tuttavia, subito dopo aver fatto l'amore, lei si rannicchiò nel letto con le ginocchia al petto e una mano tra le cosce ... Io cercai di parlarle ma lei continuò a mugolare in un palmo di mano il pianto sommesso. Le avevo fatto male? Cazzo, possibile che non ne combinavo mai una giusta? ... Perché non parlava?

 

-   Se mi hai messo in cinta, sono cazzi tuoi ...

 

Cosa?! D'improvviso Lidia si tirò addosso il copriletto e corse in bagno a testa bassa ... Stette un bel po' sotto la doccia e quando uscì mi redarguì per il guaio che avevo combinato e soprattutto il rischio che correvamo ...

 

La festa però alleviò la tensione e, anzi, forse fu la prima volta che mi divertii veramente in un'occasione del genere. Vi partecipavano solo i ragazzi della squadra, nel senso che c'erano sì anche molte ragazze, ma ero comunque tra persone che conoscevo bene.

Mi costrinsero a tirare un po' di coca, ma a me faceva male e che fosse stata mandorlata, al cherosene o "biscottata" mi gettava comunque in uno stato di prostrazione fisica; invece il nitrito di amile, in tutte le sue variopinte boccettine, per me fu il vero protagonista della serata. Una cosa folle, ma forse avevo bisogno proprio di quel genere di pazzia per riuscire a superare tutte le mie barriere inibitorie. Beh, per il vero fui l'unico a tenere il perizoma, gli altri ragazzi se ne liberarono presto, rimanendo nudi manco fossero nello spogliatoio della piscina e non in mezzo a delle femmine. Del resto anche le ragazze finirono presto tutte con i seni scoperti ... la cosa strana è che nessuno pareva farci caso, quando normalmente bastava vedere un decolleté per scatenare un quarantotto.

 

-   E' ridicolo con quel pisellone tra le cosce ...

-   ... del resto che ti aspetti da uno che si fa le seghe con due dita nel culo.

 

Di quanto accadde in quella festa, tutti serbammo solo un impasto d'impressioni profondamente umorali. Avevamo bevuto, sniffato e inalato poppers ... un accesso dei sensi ci aveva svelato fin nell'intimità. Fu così che delle pulsioni istintive finirono per avvicinare o dividere le persone. Gli amici divennero più amici, ma chi si stava appena un po' sul culo, finì per schifarsi completamente l'uno dell'altro. Credo che fosse questa la ragione per cui Mattia si mise a criticare gli eccessi tenuti da Carmelo durante la festa, definendo ridicola l'inutile proboscide di cui andava tanto fiero. Allo stesso modo Carmelo mi disse che Mattia era un presuntuoso e se non la smetteva di titillarsi il buco del culo, sarebbe finito a battere all'EUR insieme ai transoni.

 

-   Quello che è accaduto è qualcosa d'importante, lo capisci vero?

 

Chiunque avesse partecipato a quella festa, avrebbe rivelato se stesso. Per esempio, se ci fosse stato Lele, con quell'abbondanza di piselli al vento, lo avrebbe ciucciato a tutti nonostante il ludibrio generale. Allo stesso modo Lidia partecipò al gioco del gancetto di reggiseno, in cui i ragazzi si cimentavano a sganciarlo solo con l'ausilio dei denti ... non le importò minimamente delle risate scandalizzate delle sue amiche; neanche dei pesanti apprezzamenti che la visione saffica scatenò tra i ragazzi. Se quella era la Lidia nascosta, che cosa intendeva quando poi mi disse che tra noi era accaduto qualcosa d'importante? Io non stavo giudicando nessuno e tantomeno mi sentivo migliore di altri, solo perché quella sera fui l'unico a tenermi il pisello nelle mutande; ma lei non poteva neanche venirmi a raccontare che mi amava. Fosse stato anche vero che aveva perso la verginità con me, questa era una mera questione tecnica, visto i modi discinti con cui usava comportarsi con il resto del genere umano. 

 

            "Un applauso per il nostro campione"

 

A Lidia non dissi mai di amarla, ma neanche la respinsi ... nel senso che continuammo a "uscire insieme" e non disdegnai certo le sue attenzioni. Lei mi chiamava "amore mio" e quando andavamo in giro, usava appendersi al mio braccio con entrambi le mani. Indubbiamente ci faceva sentire complici trovare l'uno nell'altra degli aspetti in cui ci riconoscevamo, ma non potevamo definirci nulla di più che degli scopa-amici.

 

-   Amore mio! Andiamo che ti voglio sfoggiare un po' in giro ...

 

La sera del galà Lidia era raggiante. Col cavolo che si era messa la divisa castigata del circolo. Lei indossava un vestitino che le scivolava addosso disegnando a ogni movimento pieghe sinuose tra le forme del suo corpo da sballo. Ero orgoglioso di averla accanto perché tutti la desideravano e lei aveva scelto me ... ero presuntuoso a sospettare che per lei fosse la stessa cosa?

 

-   Tu sparisci che io vado a cerca' papà perché se t'acchiappa mamma stavolta t'ammazza!

 

Insieme era così piacevole specchiarsi nello sguardo altrui. Era così facile confondere quello che eravamo con quanto desideravamo apparire. A entrambi piaceva crederci dei numeri finalmente senza variabili quantiche, finalmente capaci di rimanere sul rigo di un pentagramma a suonare sempre la stessa nota nell'orchestra dei giusti.

 

Che cosa ne pensava mia madre di tutto ciò?

 

Forse perché ebbro della sbornia di popolarità, forse perché mia madre al circolo non c'era mai venuta prima, sta di fatto che mi ero completamente dimenticato di lei! Quella sera Lidia ed io eravamo la coppia più acclamata ... coppia appunto ... uno più uno uguale matrimonio moltiplicato per tot nipotini fratto apparentamento famigliare e condivisione delle feste comandate ... a mia madre scoppiò un embolo!

Io non lo so come Angela riuscì a contenerla, magari fu merito di Paolo ... non lo so. Certo che conoscendo la sua emotività, mi stupii molto nel non vedere volare via frattaglie umane.

Mia madre odiava il padre di Lidia, lo riteneva uno "schifoso" e il suo odio non concedeva eccezioni e quindi Lidia le faceva schifo allo stesso modo. Insomma, anche quella volta avevo saputo trovare il modo migliore per farla impazzire di rabbia.

 

-   Ero sicuro di trovarti qui

 

Toni venne a cercarmi sulla loggia del solarium, dove ero sparito su consiglio di mia sorella. "Ti sei davvero sorpreso che la prendesse in questo modo?" Mia madre era semplicemente matta. "Se Lidia ti volesse bene, non ti starebbe accanto solo quando le fa comodo" Chiunque sarebbe scappato davanti a un bisonte imbufalito. "Invece no, io sarei rimasto accanto alla persona che amo al costo della vita stessa" Oh, Toni! Inguaribile romantico. "Le persone non sono tutte ciniche come pensi tu" Chissà, forse proietto sugli altri la visione che ho di me stesso. "Ma ti senti?" Cioè? "Se io sono romantico, tu sei melodrammatico" Ma vaffanculo. "Ti circondi della peggio gente e poi eccoti a piangerti addosso perché ne ricevi calci negli stinchi" Siamo la gente che frequentiamo. "Smettila di avere paura delle persone che ti vogliono bene" Chi ti vuole bene pretende sempre di sapere cos'è meglio per te. "Dici che è meglio stare con chi ci vuole male?" Preferisco stare con quelli che mi accettano per quello che sono. "Allora è solo per questo che fingi di amare Lidia?" Io non fingo. "A no?" Lidia ed io stiamo insieme per affinità elettive. "Nel senso che siete entrambi dei gran paraventi" Tutti indossiamo una maschera per recitare il ruolo che gli altri ci chiedono d'interpretare. "Sei come quegli ipocriti che per assolversi fanno del mal comune mezzo gaudio" Perché dovrei sentirmi in colpa solo perché ho la consapevolezza di quello che faccio? Sarei come tutti gli altri se riuscissi a dimenticare le mie differenze. "E' un reato essere diversi?" Più che altro è una sfiga. "Vuoi forse trascorrere la vita interpretando la volontà degli altri?" E' così piacevole compiacere la gente. "Ti rendi conto che in questo modo non riuscirai mai a essere felice?" Ma le hai viste le medaglie che porto al collo? Tutti vorrebbero essere al mio posto. "Tranne te" Stronzate.   

 

-   Mi vuoi ignorare completamente o posso sperare ...

 

La mia coscienza ormai mi parlava con la voce di Toni, usava persino le stesse parole!

 

-   Angela ti sta aspettato su al parcheggio ...

 

Oh, Toni! Amico mio ... come avevo potuto dar credito alle maldicenze di Mattia, secondo cui era un frocetto che si era preso una cotta per me e si sa che quelli si appiccicano come piattole sui coglioni arrivandoti a incasinare la vita ...  

 

-   Tu al circolo non ci metti più piede ...

 

Allora ... Paolo riuscì a convincere mamma a tornare a casa, dove aspettò inutilmente che tornassi, perché Primo decise di portarmi con sé in provincia, aspettando così che la rabbia le sbollisse un po'. Speranza del tutto inutile perché il giorno dopo non ci furono santi a poterla trattenere ancora e me la ritrovai davanti con una faccia truce come manco ci fosse stato un morto in casa.

Mamma fu lapidaria nel declamare la soluzione del problema, che ovviamente non era il temibile filarino tra Lidia e me. Come il solito, il suo potere di negazione era capace di far scomparire anche l'evidenza.

Lei era venuta a impedire a Primo di tirarmi su come un debosciato tale e quale a lui, quindi niente più circolo canottieri che come aveva sempre pensato, era solo un postribolo del malaffare. Aveva già disposto che sarei partito con gli scout della parrocchia per il campeggio in montagna, lontano dalle tentazioni e soprattutto tra persone timorate di Dio e non del portafoglio, com'erano tutti quelli come Primo, che trovavano rispettabili anche dei sozzoni solo per il loro conto in banca.

 

Dopo tutto poteva andarmi anche peggio. Sicuramente la prospettiva del campeggio scout non era molto invitante ... ma del resto avevo già detto sì al campo estivo che organizzava Paolo, quindi si trattava solo di anticipare di due settimane la partenza. Certo è che Lidia non mi sarebbe mancata e certamente nemmeno io a lei. 

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  • 1 month later...
Silverselfer

Floppy 04/45

 

Nome e cognome li dobbiamo avere tutti. Se la sorte non ci ha provvisto di questo codice binario indispensabile per renderci compatibili con gli automatismi burocratici della società, ci penserà la legge a procurarceli attraverso l'indagine e la coercizione. Istruire delle cause per ricondurre dei soggetti in un supposto ordine di responsabilità, è un processo costruito esclusivamente su dei preconcetti morali, di cui sarà per primo il "senza nome" a pagarne di nuovo lo scotto.

La giustizia degli uomini dovrebbe preoccuparsi solo degli effetti pratici di tutto questo, col solo fine di renderci uguali come dei numeri in un'equazione sociale.

 

-   Correggimi se sbaglio: fino a quando tua zia non ti ha dato questa cartella, nessuno ti aveva mai detto niente?

 

La Zia Pina mi ripeteva spesso che a cercare la verità ci si sporca sempre le mani. Chi più di lei poteva saperlo che dai segreti della gente traeva profitto? La zia mi voleva bene, anche se rappresentavo solo uno dei suoi tanti "investimenti". Se quella cartellina gialla l'avessi consegnata a chi mi aveva detto di darla, il velo d'ipocrisia che aveva tessuto intorno a me, sarebbe rimasto intatto fino al giorno in cui avrei potuto decidere io cosa farne; invece, per il solo fatto di averla trattenuta tra le mani, aprendola e per il vero capendoci poco di quanto in realtà testimoniava, il sottile intrigo si dissolse d'incanto, consegnandomi alla mercé di chi non avrebbe più saputo tenerne le fila.

 

-   Ragazzo mio, io non me la sento di procedere agli atti senza che qualcuno prima te ne parli.

 

"La cosa sbagliata la riconosci sempre dai buoni propositi con cui cercano di vendertela" La zia mi aveva voluto bene ed io sarei sempre rimasto la sua piccola opera d'arte. Chi cercava di sradicare in me i suoi precetti, si trovava dinanzi al ghigno cinico con cui mi aveva insegnato a guardare il mondo.

 

-   Ora ti mando da questa persona e tu mi fai il favore di andarci.

 

Le cose stavano più o meno così - Con la zia a fare ormai i vermi sotto terra, quando quelle carte entrarono a casa mia, nessuno trovò più conveniente sostenere il peso di quel segreto. Mia madre era stanca di fare la vedova bianca con un marito che non era neanche tale. Primo allo stesso modo decise di riprendersi la sua vita e chiudere con una situazione in cui si vedeva solo come una vittima. Nel trambusto provocato dai demoni fuoriusciti da quel vaso di Pandora e il delirio che era diventato ogni aspetto della mia vita sociale, mi aggrappai alla mano di Angela come avevo sempre fatto fin da bambino.

 

-   E' normale avere paura ...

 

Quelle carte testimoniavano una sequela di punti di rottura avvenuti in famiglia a mia insaputa, quando la verità creava smottamenti e faceva entrare in fibrillazione l'ipocrisia che la teneva unita. Lì dentro c'erano un non ben definito numero di cause giudiziarie cominciate e rimaste insolute: atti del tribunale dei minori disinnescati in extremis con ricongiunzioni famigliari sempre più sfilacciate, separazioni con conseguenti cause di mio disconoscimento e riconoscimento e affidamento che si stratificavano fino al paradosso giuridico.  

 

-   ... lo sai che qui sopra c'è scritto il nome del tuo vero padre?

 

Quando i miei si lasciarono per la mamma fu logico procurarmi un nuovo cognome. Il matrimonio con Primo era già stato invalidato prima dalla Sacra Rota perché fu provato che lui conduceva una vita parallela con una "ballerina" ben prima delle loro nozze, poi si separarono anche legalmente a causa della folle causa di riconoscimento che il mio padre genetico intentò contro la falsa attestazione di paternità legale. Un pastrocchio di cui non saprei dire più di tanto, ma ne risultò che per un breve periodo i miei tutori legali divennero i nonni ebrei, poi quella causa di paternità fu ritirata e, misteriosamente, ne seguì un'altra che mi dava in affidamento di nuovo a Primo, che nel frattempo era tornato con mia madre.

 

Questo è giusto, quello è sbagliato ... tutti improvvisamente sapevano dirmi cosa c'era da fare e persino come mi dovevo sentire scoprendo di essere sempre stato una croce per tutti. In quei momenti compresi da dove proveniva lo straordinario potere di negazione della mamma, si trattava semplicemente d'istinto di sopravvivenza.

 

-   Nessuno ti costringe a diventare figlio di un uomo solo perché ha sposato tua madre.

 

Le facce preoccupate della giudice che pretese di parlarmi, mi facevano vergognare equiparandomi a uno di quei tristi casi di disagio giovanile che era abituata a trattare ogni giorno. Dovetti anche incontrare un consulente famigliare che mi raccontò le debolezze di quanti, in un modo o nell'altro, avevano solo cercato di proteggermi dalla squallida realtà dei fatti.

Poi, la decisione di andare a vivere in provincia con Primo congelò la causa iniziata per togliergli l'affido e farmi così adottare da Paolo.

 

-   Buona fortuna.

 

Quando poi si verificò l'ennesimo scorno tra Primo e mamma per via di Lidia, tutto si rimise in moto con un'accelerazione impressionante. Il nuovo giudice neanche mi rivolse la parola quando lo incontrai e il consulente famigliare mi trattò come un caso terminale di qualche incurabile malattia sociale, accettando con scetticismo ogni mia risposta e risolvendo il suo aiuto con un "Buona fortuna" al momento dei saluti.

 

Del resto Paolo era una persona rispettabile, servitore della patria, buon cristiano e dedito ad attività filantropiche. Casomai c'era da domandarsi perché uno come lui si mischiasse con della gentaglia e non viceversa! Mia madre aveva ragione, prendere il suo nome poteva essere solo una fortuna per me e al diavolo la verità.

 

Prima Parte

 

Inutile chiedere di essere accettati, senza che gli altri si sentano poi elevati al rango di giudici. Lo stigma dell'imputato ci sarà impresso prima del verdetto. E' poi superfluo disquisire sulla qualità del metro con cui ci misurano; le tacche su quella norma ci stanno per individuare e successivamente escludere quanto non rientri in un ordine stabilito a priori. La colpa del diverso sta nell'originalità che sfugge ai gruppi sociali precostituiti, per cui il giusto gli ascrive il caos luciferino che esecra.

 

-   ... mi hai profondamente deluso ...

 

Gli scout non sono il male assoluto e negli Oratori non si promuove alcun pensiero unico, in quanto i preti o chi per loro, sono ispirati da una volontà superiore più o meno identificabile con il Padreterno, che parla ad ognuno attraverso la voce della coscienza . In fondo li avevo sempre invidiati quei ragazzi in uniforme continuamente assorbiti dalle loro facezie, ma c'era qualcosa in me che m'impediva di accettarne la serena omogeneità di spirito.

 

"Sii preparato"

 

Benedetto e Michele erano due bravi ragazzi che oltre a insegnare catechismo nelle loro ore libere, s'impegnavano in ogni aspetto della vita parrocchiale. Con Gianna, la fidanzata di Michele e Gianna due (un escamotage per ovviare alla confusione di avere lo stesso nome); insieme avevano deciso di accompagnare i giovani scout nell'annuale campeggio estivo.

 

"Servire"

 

Ci conoscevamo perché eravamo cresciuti nello stesso rione e avevamo frequentato la medesima parrocchia. La mia personalità aveva già avuto modo di rendersi spinosa durante la preparazione ai sacramenti eucaristici. Ogni catechista si era dovuto confrontare con le mie domande ed io mi ero malamente sgrugnato contro tutti i loro dogmi di fede.

 

"Del nostro meglio"

 

Questa era un'altra parte del mio passato cui la sorte pareva volermi far confrontare, quasi fosse l'ultima stazione di una via crucis prima di liberarmi completamente delle spoglie di fanciullo. Essere accettato dai ragazzi della parrocchia, era stato uno dei tanti fallimenti di socializzazione che avevo patito da ragazzino. Seppure non lo ammettessi, segretamente speravo che i recenti successi sportivi potessero in qualche modo aver cambiato le cose anche con loro ... ma tutto iniziò ad andar male fin dal principio.

 

-   Non si diventa scout come se ci s'iscrivesse in palestra ...

 

Benedetto e Michele pretesero d'incontrarmi prima di partire per istruirmi sullo spirito di un gruppo scout, con tutti quei loro motti tesi all'affratellamento che unisce nello scopo. Colsi subito un equivoco sostanziale, quelli erano convinti che desiderassi unirmi a loro ... intendo per sempre. Ovviamente mi preoccupai che lo continuassero a credere, del resto il solo motto che mi era stato insegnato fin da bambino recitava: inganna il prossimo tuo come te stesso.

Mi fu consegnata una divisa di fortuna perché non c'era il tempo di procurarmene una nuova, ma quella sarebbe andata al ragazzino paffutello che si ricordavano loro, non al marcantonio che ero diventato. Persino la divisa di Michele mi stava risicata e quindi mi fu concesso di partecipare al campeggio in panni "borghesi".

 

-   Avanti ragazzi, prima di partire il motto "Estote Paratae, OK?"

-   "Eccoci!"

 

Capelli sciolti, jeans e magliettina nera con sopra la testa di morto di Eddie degli Iron Maiden ... se la forma è anche sostanza, era lampante che non avrei mai potuto far parte di quella comitiva. La mattina della partenza, mi sentivo come una mosca che si fa due vasche in un caldo e accogliente piatto di minestra.

 

Avevo portato con me "Il Signore degli Anelli" di Tolkien, lo avevo scelto soprattutto per la mole che mi garantiva un unico testo da leggere per tutta l'estate. Sul pullman l'occhialuto Baccarini Piero m'invitò a sedermi accanto a lui, non lo so perché lo fece, evidentemente la preoccupazione di procurarsi un compagno di viaggio prevalse sul timore che il mio aspetto voleva inutilmente incutere. Ci scambiammo le musicassette che avevamo nel walkman e devo dire che mi sorpresi dei gusti musicali di Bacca. Ascoltava i The Cult che costituirono una piacevolissima scoperta per me. Lui rimase deluso che non fossi un metallaro e stessi ascoltando gli Psychedelic Furs; perché al di là dell'aspetto nerd, lui sembrava avere una venerazione per le star del heavy metal.

 

-   Respiri piano per non far rumore ti addormenti di sera ti risvegli col sole ... sei chiara come un'alba ... sei fresca come l'aria ... diventi rossa se ...

 

Mi appisolai alla cinquantesima pagina descrittiva della terra di mezzo, mentre degli straziati accordi alla chitarra cercavano di accompagnare Gianna e Michele, che dal microfono del torpedone guidavano un coro sulle note di Albachiara del Blasco.

Quando tutti erano già in piedi tra i sedili per scendere dall'autobus, Bacca mi svegliò per la solita sosta della pisciata di rito in autostrada. Ero cambiato e me ne accorsi nel momento che entrai nei cessi senza le tradizionali paturnie. Notai subito un capannello di ragazzi che si steccava una sola sigaretta ... si accorsero del mio sguardo e mi offrirono un tiro forse solo per capire se dovevano preoccuparsi di essere stati scoperti.

 

Mi faceva strano sentirmi chiamare ancora con il mio vecchio cognome. Ero ormai un impostore. Che fossi diventato un fantasma che non esisteva più nelle sue antiche spoglie mortali? Con tutti quei discorsi su cos'era giusto e sbagliato, a me comunque avevano strappato via la faccia. Da quel giorno mi sarei potuto chiamare in mille altri modi, senza che nessuno di esso avrebbe più potuto ridarmi una reale consistenza terrena.

 

-   Gianna due ci crede proprio e a Bene sta stanotte lo violenta ...

-   Come minimo!

 

Quei ragazzi avevano pressappoco la mia età e stavano assaporando il sottile piacere dell'emancipazione attraverso una trasgressiva Marlboro. Valencia accese un'altra sigaretta e me la passò per un secondo giro. Ci fu qualche battuta denigratoria riguardo alle chiappe ipertrofiche di Gianna due e sul fatto che avesse puntato Benedetto.  Niente di più che innocui sfottò; Carmelo avrebbe sicuramente trovato appellativi molto più sarcastici per descrivere l'alterigia di quella buzzicona di Gianna due. Poi mi passarono una mentina per cancellare ogni traccia di fumo dall'alito.

 

-   OK, avanti ciurma, raduniamoci tutti al punto di concentramento per il pranzo al sacco ...

 

In mezzo a quel gruppo compresi quanto mi fossi spinto avanti rispetto a un ragazzino della mia stessa età. Considerare il tempo attraverso i numeri del calendario riguarda quanti vivono in un pollaio come fossero galline, che vanno a dormire al tramonto e si svegliano sempre all'alba con la medesima routine dell'uovo quotidiano di tutte le altre galline del mondo.

 

-   Martelli chiama Luisi e tu Ronconi sempre a fare il cascamorto con le ragazze!

 

A differenza di tutti loro, per me il calendario procedeva secondo un moto difformemente accelerato, spingendomi su e giù come in un vorticoso otto volante.  La rapidità con cui i fatti si succedevano, finiva per far contenere ai miei anni più tempo trascorso.

 

-   Qui ci sono panini per tutti, quindi non ci affolliamo e soprattutto ognuno si tenga quanto la Divina Provvidenza gli ha dispensato, OK?

 

Nel mio cielo c'erano solo stelle cadenti che sfumavano in linee rette come quando la nave spaziale Enterprise di Star Track superava la velocità della luce.

Le accelerazioni cui mi sottoponeva il destino, mi avevano portato via quelle certezze affettive capaci di identificarmi: un nome, una memoria comune, la visione di se stessi o anche solo un porto sicuro dove far ritorno. Facevo ormai fatica a mantenere la coesione molecolare della mia stessa anima. Tutto si rimescolava continuamente e niente funzionava come avrebbe dovuto.

Persino il mio corpo era mutato, certo in meglio, ma così repentinamente che ogni mattina temevo d'incontrare nello specchio la faccia di uno sconosciuto. Per non parlare poi di quella testa di cazzo di Mr Wiggly, che non voleva proprio saperne di regole e buon senso.

 

Se la gioia stava in una sana idiozia, allora volevo instupidire e avere anch'io un pollaio dove serenamente cagare uova per la felicità del contadino, il quale avrebbe detto: "Non potrei certo vivere senza la gallina che il buon Dio mi ha mandato".  

 

-   Un applauso per Gianna due che ci ha confezionato questi gustosi panini, OK?

 

A me gli embrioni di uccello fritti in padella fanno venire il mal di stomaco, OK? E le frattaglie di carcasse morte insaccate in qualche budello intestinale provocano un'alquanto antipatica dissenteria, OK? E comunque detesto il cibo condito con secrezioni di origine bestiale, OK?

 

-   Se non vi dispiace, io opterei per una di quelle deliziose insalatine scondite che vendono sempre in questi autogrill ...

 

Ma no che non volevo sputare in faccia a tanto amore per il prossimo, tantomeno c'era l'intenzione di distinguermi da tutti quegli altri che si stavano litigando i panini. L'insalata la mangiai sul serio di gusto, peccato che pure lì c'era del cetriolo e quello mi fa venire i rutti acidi ... sgrott ...

Guardavo il torpedone dall'alto della vetrata dell'autogrill come fossi una sorta di spirito extramondano che pativa quella distanza ... e ma, allora quante ne cerchi, pirla! Schioda le chiappe e torna da loro e smettila una buona volta di fare sempre il melodrammatico ...

 

-   ... per la lunaaa e le stellee io le sento mie sorelleee ...

 

Tornai pieno di buoni propositi in prossimità dell'autobus ... in fondo non era ancora reato essere disgustati dal novanta per cento del cibo di cui si nutre il resto dell'umanità ... però io non canto, OK? E non è un fatto di timidezza, quindi è il caso di non rompermi le palle o sono capace di produrre dei ringhi in Sol diesis che manco un coro di Serafini saprebbe sopportare. E poi non sarebbe stato il caso di ripartire?

 

Era indubbiamente vero: stavo guastando il loro spirito di non so cosa. Cercai dunque di scomparire. Nel mio sacco avevo provveduto a metterci dieci grammi di hashish e un sacchetto di marijuana della coltivazione bio di Tuttù. Le canne mi erano diventate indispensabili da quando la storia di avere giudici e consulenti vari tra i piedi, aveva dissuaso mia madre nel procurarmi le medicine contro il male di vivere. Quelle provviste anche se potevano sembrare abbondanti, erano poca roba se considerate sul tempo trascorso lontano da casa. Avevo calcolato una canna al dì, giusto per alleggerire la tensione di tenere il drago immerso nel fondo della palude.

 

-   ... vado in bagno ...

 

Non era una buona idea, lo sapevo ... sta di fatto che mi ero andando sul culo da solo.

 

Mi chiusi in un gabinetto per celebrare il rito del fumo. Inumidii il filtro della sigaretta con la saliva, quindi ci appuntai sopra la scaglia di hashish che dopo passai sopra la fiamma dell'accendino, fino a quando una brace brillò su un suo angoletto. Appena la fiamma si spense, un filo di fumo si arricciolò disperdendosi tra la puzza di piscio del gabinetto. Mi bastò una leggera pressione tra il pollice e l'indice per sfarinare l'hashish nel palmo della mano, quella in cui tenevo ancora la sigaretta dal filtro un po' bruciacchiato. Leccai il bordo incollato della Marlboro Light che poi strappai via, lasciando cadere il tabacco direttamente sull'hashish e quindi mischiai bene. Cazzo! Anche quella volta avevo dimenticato di farmi il filtro ... quindi tirai via la linguetta interna del pacchetto di sigarette e ne arrotolai alla ben in meglio un angolino. Cappottai il tabacco sulla cartina e rollai lo spino. Il sapore dolciastro dell'hashish mi riempì la bocca e l'ansia fuggì via dal mio corpo in un sospiro liberatorio.  

 

-   ... per la nostraa madre terraaa che ci donaa fiori ed erbaaa ...

 

Mi attardai ... mi attardai perché non è vero un cazzo che l'hashish infonde coraggio. Lo spinello mi fece rendere conto del peso di quelle settimane, che avrei dovuto sostenere prima con gli scout e soprattutto dopo con Paolo in veste di nuovo "papà". Potevo forse rimanermene chiuso in quel cesso d'autostrada per il resto della vita? Seppure ne ponderai l'eventualità, come prospettiva certo non era migliore dell'altra e quindi abbandonai quella tana puzzolente per tornare nel mondo.

Mi attardai e Michele venne a cercarmi perché improvvisamente erano stati tutti morsi dal demone della puntualità.

 

-   Sono molto deluso, ti credevo un ragazzo serio.

 

Io ero uscito dal gabinetto e già mi ero dato una rinfrescata al viso per riprendermi, quando Michele sopraggiunse e la mise giù dura mostrandosi "indignato" dal mio comportamento. Lo spinello era da un pezzo che stava facendo compagnia agli stronzi giù nella tazza del gabinetto e avevo avuto il tempo persino di mettermi il collirio. Insomma, mi pizzicò fumando una dannata sigaretta, OK? E allora vaffanculo, glielo dissi sul grugno che doveva farsene una ragione. Io fumavo e avrei continuato a farlo e se proprio aveva intenzione di avvelenarsi la vacanza, ci doveva solo provare a rompermi i coglioni. Beh, in sostanza era quanto avrei voluto spiegargli, ma in realtà rimandai semplicemente a dopo, come si fa quando l'hashish ti manda a mille le fantasticherie, ma poi t'impasta la bocca con il vinavil e non riesci ad articolare più di qualche suono onomatopeico.

 

-   Queste le prendo io ...

 

Non m'importava del pacchetto di sigarette sequestrato e desideravo sinceramente essere capace d'identificarmi in una qualsiasi figura di riferimento che li rassicurasse, ma ero fatto così e non ci potevo far niente. Quando risalii sull'autobus con lo stigma del peccatore impresso in fronte, si sentirono tutti sollevati dal potermi legittimamente scansare.

 

-   ... figlio della stradaa, vagabondo sono iooo, col destino in tascaa ora il mondo è tutto miooo ...

 

Vuoi il libanese di Lele, vuoi i rutti acidi del dannato cetriolo e vuoi quelli che non la piantavano di cantare e cantare e ancora ricantare gli inni francescani ... appena tornai a scorrere le righe di Tolkien, ebbi la certezza di avere il mal d'auto. Ci mancava solo quello! Misi in pratica ogni espediente per farmelo passare, ma dopo un lungo travaglio con lo stomaco sotto sopra, fui costretto a far fermare il torpedone mentre il vomito stava per schizzarmi fuori anche dagli orecchi. Collassai verde come un Visitors e quando tornai al mio sedile, Baccarini aveva traslocato altrove ... finalmente, anche il più codardo tra i codardi si era potuto smarcare dall'ennesima iattura della sua insignificante esistenza di acaro della carta igienica e chissenefrega! Mi sdraiai di traverso su entrambi i sedili e finalmente trovai un po' di pace tra le braccia di Morfeo.

 

Parte Seconda

 

Il campeggio si trovava in una piccola valle tra bellissime montagne boscose. Era un luogo che incantava, ma quelli appena arrivarono si misero a discutere su quale fosse il luogo migliore dove piazzare le tende e, ovviamente, scelsero il posto sbagliato. Il responsabile del campeggio ci venne ad avvertire che stavamo piantando il campo su una zona alluvionale che doveva rimanere sgombra.

 

-   Puoi anche toglierti quel sorrisetto dalla faccia ...

 

Mi disse proprio così! Benedetto aveva preso una cantonata che io mi ero solo preoccupato di sottolineare per tempo, quando ci disse che sarebbe stato più facile piantare i picchetti delle tende sul ghiaino, ma secondo lui chi l'aveva portata tutta quella sabbia di fiume in quel posto, se non fratello fiume ingrassato da sorella pioggia? E allora vaffanculo, perché non era certo un sorriso quello che avevo in faccia. Ricominciare da un'altra parte a quell'ora del pomeriggio significava metter su giusto un ricovero per la notte ... tutto ciò perché avevamo fatto una cazzo di sosta di ore in quella fottuta aerea di servizio con le frittate della buzzicona.

 

-   Il tuo atteggiamento fancazzista sta rovinando l'armonia del gruppo ...

 

Gna ... gna ... gna ... Ti pare che la suddetta buzzicona non prendesse subito partito contro di me, nell'inutile tentativo di farsi dare una ripassata da Mr Bene? Eppure non avevo fatto niente contro nessuno. Visto solo l'inconcludenza di quelli che avrebbero dovuto organizzarci, mi ero assicurato di non dormire fuori dalla tenda.

Era evidente che ci trovassimo in una "romanicamente parlando" marana, circondati da montagne dietro cui il sole tramontava anzitempo e che facevano ristagnare l'umidità ... quindi alla faccia loro, mi scelsi un posticino lontano dal torrente e abbastanza in alto da rimanere sopra le brume del mattino.

Era forse colpa mia se cazzeggiarono tutto il tempo e la sera rimasero a dormire in sacco a pelo sotto le stelle? Potevano ben venire dove avevo piantato la tenda io, invece preferirono rimanere accanto al torrente a farsi divorare dalle zanzare ... era assurdo che dovessi spostarmi io, in fondo ero in linea d'aria solo a una ventina di metri dal loro campo.  

 

-   Noi siamo responsabili della vostra incolumità ...

 

Oddio com'erano pesanti! Il gruppo si riunì addirittura in seduta plenaria per discutere il mio comportamento ... e con la buzzicona a darmi addosso su tutto. Secondo loro avevo la tenda troppo vicina il bosco, manco ci potesse uscire qualche orchetto alla Tolkien!

 

Io non ero un fancazzista e glielo dissi sul grugno a quella rompiballe, visto che avevo trascorso tutto il giorno a piantare i picchetti, compresi quelli della sua tenda ... e gna, gna, gna ... ognuno deve avere il suo ruolo nel gruppo ... gna, gna, gna ... ma va ammoriammazzata! Insomma, avrei preso parte a tutte le attività, ma non potevano inocularmi il loro famigerato spirito di gruppo e se la sera avevano da cantare intorno al falò, cazzi loro.

 

-   Ma allora perché fai così?

 

Così ... cosa? Quella sera del processo in pubblica piazza, dopo aver messo in chiaro quale sarebbe stato il mio contributo alla vita di gruppo, me ne tornai là dove la mia tenda sarebbe rimasta. Anche quello, però, non voleva essere un gesto di disappunto e tantomeno era nelle mie intenzioni mettere in discussione l'autorità di qualcuno. Me ne ero andato prima di cena solo perché stavano arrostendo salcicce e se fossi rimasto, avrei dovuto rifiutare il loro cibo con conseguente nuovo scorno con la culona. Del resto, se avessi avuto fame, c'era sempre il chiosco del campeggio, dove confezionavano tramezzini a volontà e c'era persino un fantastico distributore automatico di merendine.

 

-   I ragazzi vorrebbero solo conoscerti ...

 

A una cert'ora, mentre leggevo alla luce della lampada a gas spippacchiando erbapipa, Michele mi fece prendere un coccolone entrando in tenda senza alcun avvertimento. Mi aveva portato la cena ... si trattava della salsiccia che mi spettava ... e la mangiai, che dovevo fare? Era stato così gentile ... non volevo offenderlo, ma io non volevo offendere nessuno ... cazzo!

 

-   Con il tuo atteggiamento ci respingi ...

 

Mi sa che era venuto a recuperare la pecorella smarrita.

 

Michele era un bel ragazzo dai capelli di un misterioso bruno ramato, non era un bacchettone e si accorse subito del buon odore di erbapipa che aleggiava nella mia tenda; senza neanche provarci più a farmi storie, disse solo che ero incorreggibile e mi chiese un tiro. Inspirato dalla sacra Ganja che non per nulla il buon Dio ci restituì dall'Eden perduto, facendola crescere sul sepolcro del saggio Re Salomone, gli spiegai perché non ero adatto alla vita di gruppo.

Ero abituato a essere padrone del mio tempo e per quanto me ne sentissi in colpa, il loro paradiso non faceva per me. Io non fuggivo la solitudine riempiendola di cose da fare e non ritrovavo me stesso stando con gli altri. Il mio concetto di Dio non aveva nulla a che vedere con quella loro armonia che li avrà pure aiutati a cantare bene, ma serviva solo a distrarli da se stessi.

 

-   Fallo per me, domani rimani a mangiare con noi ...

 

E va bene, però la tenda sarebbe rimasta dov'era.

 

La missione per salvare il mondo che si era prefissata la piccola legione di Dio cui facevo parte, era di edificare un inutile palafitta. C'era forse da sottolineare in qualche modo l'assurdità di tale dispendio di energie?

"Guarda che nessuno ti ha costretto a partecipare" Potessi cadere fulminato all'istante se proferii una sola parola di quanto pensassi legittimamente di Benedetto. "Che coglione!" Io non avevo pregiudizi e tantomeno verso i coglioni che al contrario stimavo moltissimo, almeno fin quando erano nel loro luogo naturale: a due dita dal buco del culo. Bene era un bravo ragazzo e tutto, ma non era proprio adatto a ricoprire il ruolo del leader.

 

-   Momo cerca di non dimenticare quanto ci siamo detti ieri sera ...

 

Ovviamente quella butrilla della Gianna due, che non mi rivolgeva la parola, andò subito a lamentarsi con Michele e lui altrettanto ovviamente gli dette credito; quindi nuova paternale sul valore della tolleranza nella vita in comune.

Dovevo forse smetterla di pensare con la mia testa? Era colpa mia se le palafitte si edificano fin dalla preistoria su dei pali conficcati nel greto di un fiume? Come ce li piantavamo dei tronchi in quel fondo di ciottolato? Dove li trovavamo dei pali abbastanza grossi adatti a tale scopo?

 

-   Michele, non ti accorgi che sta cercando solo lo scontro?

 

Che cosa avrei cercato di fare? Domande ... le mie erano solo domande. Era forse imputabile a loro l'ignoranza di chi non vi sapeva dare risposte sensate?

 

-   Vuoi uomini cercate sempre di prevalere mentre è nell'opera quotidiana che noi donne costruiamo la pace.

 

Questa era Gianna, la ragazza di Michele che m'illuminava sul motivo per cui, se il mondo fosse stato governato dalle donne, sarebbe diventato un paradiso di pace e giustizia.

Gianna era tanto cara e accettava di buon grado ogni scelta del suo promesso sposo, anche quelle che non condivideva pienamente, come la pretesa di recuperarmi in seno al gruppo. Mi stava persino simpatica nonostante la manifesta diffidenza che nutriva nei miei riguardi. Le rodeva solo il culo perché Michele ed io eravamo diventati amici e lui preferiva stare nella mia tenda a parlare fino a tardi, invece che rompersi i marroni con le paturnie bisbigliate al buio della sua fidanzata.

Poteva darsi che Michele era solo stanco di quell'intrallazzare di ragazze che si facevano dispetti per conquistare l'attenzione di qualcuno del gruppo, mentre i maschi erano totalmente assorbiti dal loro ruolo di verro riproduttore.

 

-   Stamattina ho fatto un aborto così grosso che me so' schifato da solo ...

 

I ragazzi usavano definire così la loro sborrata mattutina: un aborto. Disperdere il proprio seme è peccato per un buon cattolico, lo so ... ma c'era proprio bisogno di rimarcarlo in un modo così colorito? Almeno se lo fossero tenuto per sé il loro senso di colpa post masturbatorio.

Per quanto fossero amabili a guardarsi, quei ragazzi davano l'impressione di usare le virtù solo per individuare un colpevole. Di una ragazza che incedesse in qualche debolezza della carne, si commentava con perfidia che era una santa, lasciando intendere che lo prendeva in bocca in ginocchio. In barba a quanto sosteneva Gianna, le ragazze non erano diverse bensì erano persino più feroci dei maschi nella loro logica d'inclusione ed esclusione, confondendo la generosità con il tornaconto.

 

Sicuramente aveva ragione Gianna che imputava all'innata propensione per la violenza quelle espressioni crude nel linguaggio dei ragazzi, ma allora come si sarebbe dovuta chiamare la propensione delle femmine nell'azzannarsi continuamente per litigarsene l'attenzione? Usando l'interesse dei ragazzi nei loro riguardi per delineare categorie di presunto potere. Una ragazza che poteva vantare un fidanzato contava più di un'altra che non se la filava nessuno e al contrario, una "santa" veniva messa all'indice a prescindere ogni sua altra "virtù".

 

-   E tu a quale categoria apparterresti, ai seminatori di zizzania forse?

 

Alla fidanzata di Michele stavo proprio sulle ovaie, come del resto a ogni altra ragazza perché mi dissociavo dalla logica per cui il valore di un maschio era legato al ruolo che ricopriva all'interno del gruppo. Il compito svolto in seno alla comunità conferiva prestigio e smussare le proprie originalità al fine di combaciare il più possibile con esso, era ritenuto un successo ascrivibile a una virtù sacramentale.

C'erano anche dei ragazzi che scansavano volentieri le mansioni cui venivano assegnati, erano appunto bollati con il termine "fancazzista", ma io non potevo rientrare neanche in quella categoria.

Il fancazzista era dedito al divertimento che costituiva la polpa zuccherina della vita sociale. Io non ero un fancazzista perché non mi sottraevo a nessuna mansione e non incedevo nel divertimento, anche quando era ritenuto la giusta ricompensa riservata a chi se la meritava.

 

Ero strano e per me non c'era differenza dal piantare picchetti per le tende o sgrassare il fondo di una pentola; allo stesso modo non provavo fastidio se mi si chiedeva di stendere il bucato dopo aver menato di roncola i rami per il falò, questo perché non volevo affermare me stesso attraverso quei ruoli, attraendo magari lo sguardo di una femmina che avrebbe dato lustro al mio sforzo. Preferivo, invece, le solitarie passeggiate nel bosco o il cantuccio della mia tenda alle ridanciane serate intorno al falò.

 

-   ... ma chi ti credi essere?

 

Sto cazzo! Cos'altro puoi rispondere a chi ti verrà contro a prescindere? Io stavo zitto e tutto, ma quando finalmente accettavo per amor di popolo di conversare, alla fine rispondevo di traverso.

Preferivo quel bestemmiatore di Lele o il caustico sarcasmo di Carmelo al gioco di maschere che costringeva quella gente a ostentare una bontà di spirito che gli causava evidenti irritazioni al colon. Se non gli piacevo, potevano ignorarmi con la certezza di farmi un favore; invece stavano sempre lì a lamentarsi di qualcosa che era insito nei miei gesti, nelle mie non parole e quasi esplodevano di gioia quando gli rifilavo un vaffanculo, che secondo loro confermava la mia intrattabilità.

Ero semplicemente senza pelle con tutte le interiora della mia anima a far brutta mostra di sé, non pretendevo di piacere e soprattutto non avevo chiesto a nessuno di essere accettato, quindi potevano scordarsi che li avrei alzati al rango di miei giudici.

 

-   Dovresti smetterla di rimanere sempre concentrato su te stesso ...

 

Cioè?

 

-   Dici che non vuoi essere giudicato, ma sei il primo a farlo ...

 

Cioè?

 

-   Se la piantassi di aver paura del giudizio degli altri, ti accorgeresti di quanti invece ti ammirano...

 

Ammirano!

 

-   Sei troppo sicuro di te stesso ...

 

Che?

 

-   Lo vedi che lo stai facendo un'altra volta!

 

Cosa?

 

-   Non accetti le critiche e finiscila di prendermi per il culo, OK?

 

Michele era un caro amico e mi parlava sempre con sincerità. Apprezzavo sinceramente lo sforzo di mediare tra me e gli altri, ma quella sera avevo avuto un acceso diverbio con la sua ragazza ed era evidente quanto gli fosse dispiaciuto.

 

-   Sei ... sei così ... dico ... non sei mica superman!

 

Che cazzo stava dicendo? Ma ce li aveva gli occhi per guardarmi? Gli sembravo forse quel bacchettone di Clark Joseph Kant?

 

-   Ti ho appena chiesto gentilmente di non prendermi in giro, OK?

 

Era arrabbiato su serio con me e questo mi dispiaceva, però non volevo certo prenderlo in giro, era lui che non sapeva sputare una frase di senso compiuto.

 

-   Smenttila con questo tuo atteggiamento e finiscila di pensare solo a te stesso, OK? Io, Io e ancora Io ... non esisti solo tu e tu non sei quello che ha sempre ragione, OK?

 

E' vero, spesso mi mandavo affanculo da solo, quando mi stancavo di pensare sempre ai miei problemi. Allora era questo che dovevo fare? Dimenticarmi di me stesso e pensare solo a come far sentire meglio chi mi stava vicino?

 

-   Lo stai facendo di nuovo!

 

Che cazzo stavo facendo di nuovo?

 

-   Ti credi in grado di poter decidere cosa sia giusto per te e per il resto del mondo. Devi capire che certe cose ti vengono da dentro, le devi sentire. Tutte le menate che leggi nei tuoi libri ti permettono di capirlo questo? Non sei nessuno senza il sostegno degli altri, OK?

 

Era dunque questo il mio fallo di fabbrica: avere bisogno degli altri? Ero abituato a giudicare me stesso prima del verdetto perché il destino aveva posto me sulla pira e aveva dato a loro il cerino per accenderla. Avevo indubbiamente paura e allora state bene in guardia dalla fiera che fugge il proprio carnefice.

 

-   Nessuno ti vuole cacciare, OK? Sei solo un ragazzino, per la miseria! Sei complicato, ma hai anche tante qualità. Io ti voglio bene perché hai permesso di avvicinarmi. Dà agli altri la stessa possibilità di conoscerti. Scoprirebbero la straordinaria persona con cui parlo ogni sera e ...

 

Un ragazzino come tutti gli altri ... sì, non ero diverso ... erano solo paturnie le mie ... non ero diverso ... non ero un dannato mostro del cazzo ... non ero diverso ... mi avrebbero amato tutti se solo glielo avessi permesso ... con le mie qualità straordinarie non avrei certo avuto bisogno di un giudice per essere accettato. Tutti mi volevano bene e persino la buzzicona stava solo tentando di salvarmi dall'egocentrismo della mia natura maligna ...

 

Cadute verticali. Io le chiamo così. Quando molli le redini anche solo per un attimo, magari per un momentaneo barlume di speranza suscitato da una carezza inaspettata. Io poi sono uno che si commuove facilmente, figurarsi quella sera che avevo anche fumato.

Certo però che grezza farsi vedere in quello stato da Michele. Provai lo stesso pudore di quando da bambino andavo in bagno a vomitare cercando di non far rumore perché non volevo essere la croce di nessuno ... ma che ci potevo fare se la mia anima non sapeva trattenere i suoi schifosi rigurgiti?

 

-   Lo vedi che solo l'amore degli altri può salvarti dal dolore?

 

"La felicità è solo un momentaneo affrancamento dal dolore che permea il mondo" Non l'ho detto io, OK? L'ha scritto Schopenhauer, ma non era il caso di starlo a spiegare a Michele, secondo cui il dolore era una malattia da debellare e chi ne era infetto, doveva essere curato con tanto "amore" ... e il suo affetto era così caldo!

 

-   Che capoccione che sei!

 

Allontanai l'abbraccio di Michele perché la sua pelle aveva un buon odore di sudore e stava solleticando la mia natura di lupo mannaro. Lui scosse la testa e mi dette del testardo prima di lasciarmi di nuovo solo con i miei demoni da dover imbrigliare nella logica di una ragione che voleva dissennatamente negarli.

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  • 4 weeks later...

  Floppy 04/46

 

 

E se l'amore fosse solo l'inganno di un Dio pagano? Quanti poeti da quel pulpito diventano falsi profeti. Ammiccanti meretrici di un tempio divenuto postribolo fanno del desiderio una virtù e dell'amore un'assoluzione plenaria.  

Per lo più, il gesto dell'amore somiglia al goffo sbatter d'ali dei polli, convinti di volare quando si tratta solo di un frullo del desiderio, momentaneo affrancamento dal razzolare la terra.

 

Le parole che mi accusavano lasciavano il passo ai gesti che compivo quotidianamente. Tenere le mani occupate, mi metteva al riparo dai pensieri molesti. Quella dannata palafitta divenne il solo modo in cui riuscivo a stare insieme con gli altri, e anche quando tutti si stancavano dedicandosi a faccende meno faticose, io rimanevo là a stringere nodi o accatastare sassi per tenerla al riparo dall'acqua del ruscello.

 

-   A Mo! Cerchiamo di sbarrare la corrente o non risolviamo nulla ...

 

Michele non mi lasciava mai da solo ... non lo so perché lo faceva, ma era chiaro che preferiva la mia compagnia a quella del gruppo. Gianna non si dimenticava mai di lui e ogni minuto libero lo trascorreva a guardarci. Spesso ci portava qualcosa da mettere sotto i denti e imparò subito le cose che non mangiavo. Io credo che amasse a tal punto Michele, da sorbire per osmosi la simpatia che nutriva per me.

 

-   Davide! Se ti sei stancato, puoi anche andare dagli altri, OK?

 

Davide non ricordo quanti anni avesse, ma certo doveva avere più o meno l'età di tutti gli altri ragazzi del gruppo, anche se dall'aspetto minuto non gli si poteva dare più di undici ... massimo dodici anni. Spesso capita con gli scriccioli come lui, che siano iperattivi come degli scoiattoli. Gli altri lo scansavano proprio perché erano infastiditi da quella sua frenesia.

Sotto la zazzera pel di carota, c'era una mente che lo faceva parlare svelto per correre dietro a dei pensieri rapidi come scosse elettriche . Le opinioni gli scappavano da bocca e una qualsiasi pulsione fisica era seguita dall'azione prima ancora che dal pensiero.

 

-   Davide! Aho ... ma me stai a senti?

 

Nessuno lo prendeva sul serio, tantomeno Michele che doveva ricorrere a tutta la sua pazienza per riuscire a sopportarlo.

 

Davide divenne il mio fido scudiero. Non che io feci mai nulla affinché lo diventasse, sia chiaro! Potrei formulare varie ipotesi al riguardo, ma onestamente non credo che quello scoiattolo avesse la temperanza di ponderare una decisione.

 

-   Davide! Davide dove vai?

 

Poi, una sera, dopo cena, quando solitamente io lasciavo l'allegra comitiva intorno al fuoco per rintanarmi in tenda, Davide mi venne dietro. Era ormai così normale averlo attorno, che neanche io pensai al fatto che stessi andando a dormire. Michele ebbe una reazione allarmata, come stessimo per combinare una marachella.

 

-   Momo la sa trovare da solo la strada per la sua tenda ... avanti, torna qua.

 

Dopo, quando la fiamma del falò si abbassava e l'umidità costringeva tutti al riparo nelle rispettive tende, Michele al solito trovò una scusa per venire a infilarsi nella mia.  Era oramai un'abitudine ed io lo aspettavo con la canna di maria già pronta. Ci sdraiavamo sul mio comodissimo materassino a due piazze e come fosse l'alcova di una puttana, lui si lasciava andare in discettazioni su argomenti che, forse, non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare se non fossimo stati soli.

 

-   Aoh, ma perché io non ce posso sta?

 

Davide non era certo uno che si fermava davanti al primo no, quindi quella sera aspettò il momento in cui Michele si allontanava dal campo e lo seguì fino a quando s'infilò "di soppiatto" nella mia tenda. Mi venne da ridere a guardare la faccia imbarazzata di Michele che non sapeva dare una risposta sensata a Davide che, con la sua solita schiettezza, gli chiedeva una ragione plausibile per cui lui non poteva partecipare alle nostre serate "private".

 

-   Torna alla tua tenda e basta ... noi dobbiamo parlare di cose da adulti.

 

La canna di maria e i discorsi che ne sarebbero venuti erano roba da adulti ... questo era plausibile, ma non bastava a spiegare perché Michele mi considerasse più maturo degli altri ragazzini del campo. Glielo chiesi e non seppe rispondermi; anzi, lo misi così in imbarazzo che se ne andò molto prima del solito, perché quel pensiero non gli permise più di lasciarsi andare ai soliti ragionamenti di cui amava rendermi partecipe.

 

-   Davide è ... tu ... lui ... è un ragazzino ... non è come te ... e niente canne, OK?

 

Se Michele si fosse trattenuto fino a tardi anche quella sera, forse Davide avrebbe desistito dal suo intento; invece, dopo neanche cinque minuti che ero rimasto solo, me lo vidi imboccare nella tenda, tutto tronfio della sua piccola vittoria. "Che strano" mi dissi, era come da piccolo, quando mia madre non mi faceva uscire di casa e Nando si arrampicava dal balconcino della cucina per venire a giocare con me, vantandosi di questo con tutti gli altri ragazzini del circondario. Non era poi molto diverso da quando Lele pretese di essere mio ospite ... o anche per tutti gli altri, compreso Toni o Mattia e persino Michele ... cosa avesse di speciale il buco in cui ero solito rintanarmi, non lo so.

 

-   Posso rimane' a dormire qua?

 

Poi non è che avessi da offrire il magico mondo dei balocchi! Anche con Davide rimanemmo svegli solo perché gli spiegai il mondo della terra di mezzo con la contea e Gran Burrone. Domande e risposte s'intrecciavano con il tempo formando spunti a volte divertenti. Niente di più ... fino a quando Davide mi chiese se poteva fermarsi a dormire ... che c'era di male?

A giudicare la reazione di Michele, il male c'era eccome. Quando il mattino dopo ci vide arrivare insieme dalla mia tenda, si rabbuiò diventando nervoso e scontroso. Durante la colazione, per ben due volte trovò il modo di ripetermi a voce bassa che dovevamo parlare. Appena rimasi solo, me lo sentii piombare addosso e tirandomi per un braccio, ci appartammo sulla via per la palafitta.

 

-   ... non ci si può fidare di lui!

 

Giuro che non comprendevo tutta quella sua preoccupazione di venire scoperto. Ci facevamo una canna dopo cena e che sarà stato mai! Ribadiva continuamente quanto fossi dissennato nel non vedere il pericolo che correvamo. Forse era l'abitudine di trovarmi seduto sopra la pietra dello scandalo a rendermi cieco? Tuttavia, le paranoie di Michele erano talmente esagerate da lasciar pensare che nascondesse qualcos'altro.

 

-   Michele è uno stronzo.

 

Michele pretendeva che fossi io ad allontanare Davide, ma perché? La canna ce la potevamo andare a fumare anche da un'altra parte, no? E poi mi offendeva quella sua paura che potessi traviare il povero ragazzino indifeso ... lasciando quasi a intendere che avessi fatto la stessa con lui. Quando gli spiegai che non me la sentivo di offendere Davide, reagì malissimo e non tanto nei miei confronti, ma proprio verso quello scoiattolo. Gli stava sempre addosso e prese a bersagliarlo di sfottò che diventavano subito dei tormentoni ripresi da tutti gli altri.

 

-   Tu non hai paura di risvegliarti morto?

 

Davide non traslocò nella mia tenda come avrebbe voluto ma, di fatto, ci venne a dormire tutte le sere. Ho sempre avuto problemi a prender sonno con qualcuno accanto, ma con lui era anche peggio perché me lo ritrovavo continuamente addosso. Faceva caldo e il suo corpo emanava calore più di una stufetta! Glielo dissi che non era normale e lui mi spiegò il motivo stesso per cui ci teneva tanto a stare nella mia tenda.

 

-   Ho paura a dormire da solo.

 

Aveva paura a dormire da solo perché temeva di smettere di respirare durante il sonno, risvegliandosi così nel limbo dei morti, che immaginava come un lontano spazio siderale, in cui sarebbe rimasto privo dei suoi affetti più cari.

Era così affascinante il mondo che si nascondeva dietro la copertina di ogni libro! Io non potevo che stupirmi ogni volta che scoprivo l'universo celato dietro la faccia di ciascun essere umano.

 

-   Mamma e papà mi lasciano dormire nel loro letto ... ma lo so che devo smetterla ...

 

Davide dormiva ancora nel letto dei propri genitori, che probabile lo avessero spedito in campeggio proprio per togliergli quell'abitudine. Lui aveva bisogno di addormentarsi accanto a qualcuno, quasi ne potesse sentire l'odore anche durante il sonno e questo lo rassicurava che era ancora in vita.

 

-   Se ti do fastidio, mi metto da piedi ...

 

Chissà perché Davide aveva scelto proprio me per quella confidenza così intima. Eppure ce la mettevo tutta per apparire come una burbera testa di cazzo! Ma niente ... permisi a Davide di dormire come voleva e alla fine gli passai un braccio dietro la testa e lui ronfò tenendosi al mio corpo come un naufrago alla deriva nel mondo dei sogni.

 

Parte prima

 

 

... è borragine, l'ho raccolta nel bosco ... è buona!

 

 

Lady M prese a seguir seco la Madama che usava andar a far visita a quel cavaliere, cui il core suo avea donato. La regola del poeta volesse ora far seguir fiori di parole, come una ghirlanda a profumare la veste di una femmina. Fresca sorgiva del core ... fuggevole come l'acqua ... Lady M pervase lo corpo e lo animo mio come un anelito sospirato dallo bosco.

Il vero è acqua fresca e sapore non ha nella coppa fatta per lo vino. Il latte della terra è dell'angelo lo peccato: fresco e limpido come lo cristallo, invisibile all'occhio se non quando dalla luce fende lo tardo. Di Lady M vidi l'aura proprio come dell'agnoletto è la meraviglia a rimirar l'aurora. Tenue m'era lo sentore di quella fiamma troppo lontana per udirne lo crepitio, eppure inebriato fui dallo suo calore a rifocillar membra intirizzite.

 

E poi c'era lei ... Giuro che non l'avevo mai notata prima, eppure avrei dovuto ... se non altro perché era la sorella minore di Lidia.

 

            ... li senti i campanellini?

 

Tutti sapevano quanto piacessi a Marica, solo io non mi ero accorto di nulla. Iniziò ad accompagnare Gianna quando veniva alla palafitta per parlare con Michele. Un giorno aveva pastellato delle foglie di borragine raccolte lungo il torrente nel bosco. Tutti le avevano trovate ottime e Gianna pretese che provassi almeno ad assaggiarle.

Marica mi raccontò di molte erbe che erano tutte a suo dire buonissime, come i cardi e il crescione o l'asparagina e ovviamente ogni sorta di bacca. Le conosceva tutte e mentre me le descriveva, io mi accorsi di quanto ero stato cieco per tutto quel tempo a non averla notata prima.

 

            ... ti faccio vedere come si fa ...

 

Marica aveva quelle che si usa definire "mani d'oro": sapeva cucinare, cucire e ricamare, aveva il pollice verde ed era molto orgogliosa di sé perché stava imparando a fare la parrucchiera. Il suo hobby segreto era comporre versi e promise che un giorno me li avrebbe fatti leggere.

Quando le presi una mano e le dissi che erano belle e affusolate, lei sbarrò i suoi occhioni verde smeraldo e trattenne un sorriso incredulo. Marica esprimeva con lo sguardo ogni sua emozione e quando desiderava che dicessi "Sì", sbarrava gli occhi fin quando non me lo sentiva pronunciare ... allo stesso modo, quando non voleva mentirmi, tratteneva nervosamente le labbra sottili della bocca e divaricava lo sguardo come una bambina colta in fallo.

 

            ... davvero mi trovi bella?

 

Era bella, ma non lo sapeva. Aveva lunghissimi capelli neri, lucidi e spessi come il crine di un cavallo, così usava definirli schernendosi, perché avrebbe voluto acconciarli come sapeva fare, invece quelli cadevano sempre giù, dritti come spaghetti. Per comodità, visto che era sempre affaccendata in qualcuno dei suoi mestieri, li attorcigliava soprala testa, infilzandoli di traverso con una matita ... ed era così elegante! In quel modo si scopriva il collo che pareva troppo sottile per sostenere quel gran ciuffo di crine.

 

            ... ho il nasone da strega ...

 

Diceva che se fosse nata capra sarebbe morta di fame, perché sosteneva di avere un naso enorme ... ma non era vero! Il problema era che l'avevano sempre trattata come il brutto anatroccolo di casa. Lei sarebbe voluta essere come le sue sorelle tutte sposate o con la fila degli spasimanti dietro la porta. Lidia rappresentava per lei la massima aspirazione cui una donna potesse ambire e non si accorgeva, invece, di quanto fosse affascinante quel suo corpicino esile come un giunco. Certo non possedeva le grazie che solitamente attraggono lo sguardo di un ragazzo, tipo seni prosperosi e labbra turgide. La sua bellezza stava in quella sua pelle diafana o in quegli occhi verdi dominati da una luce malinconica.

 

            ... te li taglio, sono brava!

 

Mi tagliò i capelli. Si erano allungati troppo e non potendoli lavare spesso, era diventato complicato anche solo pettinarli. Com'era contenta quella mattina! Ma lei era sempre entusiasta di prendersi cura degli altri. Le dissi ancora quanto mi piacessero le sue mani ed era vero! Sentirle sfiorarmi la testa era divino ... ma lei mi chiese di smetterla con quella storia delle mani. Disse che erano brutte e se n'era sempre vergognata perché fin dalle elementari l'avevano presa in giro con lo sfottò delle mani da strega. In effetti, erano sì sottili e affusolate, ma le nocche erano un po' grosse e le unghie le crescevano curve come fossero artigli ... ma era anche vero che le usava per tutte le sue attività senza mai prendersene cura. A riprova della mia convinzione, dopo il taglio dei capelli, le feci un vero e proprio impacco con crema di glicerina. Le dissi che non c'era rimedio migliore e le massaggiai le mani così allungo che alla fine la pelle divenne morbida come il velluto.

 

            ..."beeeeee beeee"...

 

Parlammo di un sacco di cose, anche se solitamente era lei che mi raccontava delle sue ambizioni, che per il vero erano assai semplici - aprire un negozio di parrucchiera tutto suo, avere una fattoria con tanti animali e sopra ogni altra cosa amava cavalcare, adorava i cavalli e mi raccontava con orgoglio di com'erano belle le sue preziose selle. Mi fece strano scoprire che suo padre possedeva un bel podere proprio nel paese dei genitori di Primo e che lei si ricordava persino di nonna Mela.

 

            ... io sono la rincarnazione di una capra!

 

E poi niente, non si parlava mai di cose comuni ... per lei esistevano solo gli animali. Potrei raccontare mille vicende riguardo Giannina, la sua pecora nera che svezzò col biberon. Per esempio, un giorno, decisa a scappare da casa, mise Giannina nel pandino che tenevano in campagna e partì ... sì, perché, tra le sue molteplici arti c'era anche uno spiccato talento per la meccanica e imparò a guidare appena riuscì ad arrivare ai pedali di un'automobile. Poi, mi raccontò, che arrivata al centro del paese, terrorizzata dal traffico, la pecora nera saltò fuori dal finestrino e dovette cercarla per tutto la città chiamando "Giannina vieni qua" ... invece trovarono lei e si prese anche un sacco di botte.  

 

            ... andiamo nel bosco insieme?

 

Lei usava passeggiare nel bosco di mattino presto, quando ancora dormivano tutti. Sì, avevamo molte cose in comune, anche quella di non riuscire a dormire allungo.

Marica era proprio uno spirito silvestre ... per alcuni versi, persino selvatico. Per esempio non sopportava le scarpe e nel bosco ci veniva con gli zoccoli. Il buffo era che portava la gonna pantalone della divisa e persino il giubbotto, sotto cui metteva anche una maglietta pesante ... soffriva il freddo anche a quaranta gradi, ma i piedi dovevano restare rigorosamente all'aperto. Eppure con quegli zoccoletti riusciva ad arrampicarsi ovunque e quando glielo facevo notare, lei sorrideva asserendo di essere la rincarnazione di una capra e non scherzava mica!

 

            ... lo hai visto il leprotto?

 

Ogni volta che andavamo nel bosco, mi portava per le piste battute dai caprioli e dai cinghiali. Era stupefacente come sapeva orientarsi senza bisogno di bussole o altro. Per lei ogni albero era diverso dall'altro e a qualcuno aveva persino scelto un nome. Portava con sé un grazioso cestino che aveva intrecciato lei stessa, per riempirlo di bacche e funghi. Adorava i frutti di bosco e sapeva trovare i funghi ascoltando i "campanellini", se mi prendesse in giro non lo so, in quanto io non riuscii mai a udire nulla, ma di certo i funghi li trovava eccome.

 

            ... è bellissimo ...

 

Di mio le raccontavo la magia che vedevo nei colori e udivo tra le fronde degli alberi. Tentai d'insegnarle a guardare l'insieme attraverso le cose minute, cercando di mostrarle l'universo che si nasconde anche in un solo centimetro quadrato di prato. Un giorno ci stendemmo in una radura dominata da una grande roccia bianca. Le dissi di rimanere immobile per riuscire a comprendere lo spirito del bosco. Io lo facevo sempre e dopo una decina di minuti trascorsi a fissare le evoluzioni delle nubi nel cielo, riuscivo a vedere miriadi di spore sospese nell'aria, come fossero del krill oceanico. La terra sotto di me brulicava di vita e gli insetti iniziavano a esplorarmi ... non solo farfalle, ma anche formiche o chissà cos'altro ... come se il bosco cercasse di digerirmi con i suoi enzimi gastrici.

 

            ... le vuoi leggere?

 

A lei l'esperienza non piacque e si mise seduta ... ma in silenzio, mentre le raccontavo quello che provavo. Fu allora che trovò il coraggio di tirar via il suo diario delle poesie dal cestino. Inutile dire che anche il diario lo aveva fatto lei, nel senso che ci aveva incollato sopra delle foglie e ogni pagina nascondeva un fiore essiccato.

Le poesie non erano molto belle, spesso sgrammaticate e con rime raffazzonate. Erano tutte dedicate a se stessa, come fossero delle carezze che non aveva mai ricevuto. Mi commossi immaginando la malinconia del mare nel suo cuore, dalla cui risacca erano naufragate quelle speranze senza vita, come fossero gusci di molluschi morti.

Le dissi che erano bellissime e le chiesi se potevo scriverne una io. Vergai qualche verso curando più i ghirigori che non il senso, affinché paresse il vezzo di una gran dama, un nastro di seta per capelli che la consolasse della messa in piega che proprio non voleva attecchire sul suo crine di cavallo. Poi gliela declamai accompagnando i versi con ampi gesti, terminando con un improbabile inchino a chieder la sua mano per un ballo.

 

Niente ballo ... mi si aggrappò addosso come un koala ... mi stringeva forte al punto che sentivo i suoi muscoli fremere ... credo che da quel momento iniziai ad amarla e non smisi mai più.  

 

Seconda Parte

 

Adoravo la sua grazia naturale nel muoversi, la magia che aveva nelle mani e quei suoi occhi in cui non riuscivo a penetrare. Avrei voluto tenerla per mano anche davanti a tutti, ma quando glielo chiesi, quasi fuggì via spaventata.

 

            ... smettila di fissarmi ...

 

Lei soffriva di una tonsillite cronica, unita a un'esofagite congenita che difficilmente le faceva trattenere nello stomaco più di un solo boccone. Mangiava meno di un passerotto, beccando sì e no qualche briciola ogni giorno. Gli antibiotici con cui la curavano, le stavano rovinando lo smalto dei denti e per questo tratteneva tutti i suoi sorrisi dietro quella smorfia buffa degli occhi. Avrei dovuto identificare quei sintomi che pure conoscevo bene, ma ero così stupido da scambiarli per una sorta di affinità elettiva.

 

            ... la sera della premiazione eri proprio bello, lo sai?

 

Tra noi funzionava in modo strano perché in realtà c'eravamo conosciuti la sera della premiazione al circolo, quando Lidia mi presentò in modo ufficiale a tutta la sua famiglia. Con Lidia non c'eravamo più visti da allora, tuttavia le cose erano rimaste congelate e per Marica ero ancora il ragazzo della sorella. Era difficile affrontare quel discorso con lei, anche perché non avrebbe certo potuto capire quanto era complicata la mia anima e cosa in realtà mi univa a Lidia.

 

            ... sei dolce quando balbetti ...

 

Il timore che si potesse spaventare nello scoprire il mostro che ero, faceva riaffiorare la mia antipatica balbuzie emotiva. Eppure quando ero accanto a lei, mi convincevo che non era vero niente, che era proprio come sosteneva Michele e quanto accaduto in passato, faceva solo parte di quella nota fase di crescita tipica degli adolescenti.

 

            ... siamo nati nello stesso mese e i numeri dei nostri compleanni sono palindromi!

 

I numeri della data dei nostri rispettivi compleanni erano palindromi. Come facevo a spiegarle che in realtà manco sapevo con certezza quale fosse la data del mio reale compleanno? Di certo c'era solo che lei tra un mese circa avrebbe compiuto tredici anni ... seppure non fossi poi molto più grande, mi accorgevo quanto era ingenua riguardo ai rapporti che intercorrono tra una ragazzo e una ragazza; invece, io iniziavo a sentire la mancanza fisica di certe attenzioni e facevo fatica a non guardarla con la brama di un lupo affamato.

 

            ... smettila di fissarmi ...

 

“Smettila di fissarmi” Mi disse il penultimo giorno che ci incontrammo alla “Bianca roccia”. Era vero che la stavo guardando, ma credevo che voltata di spalle non sarebbe stata in grado di accorgersene. “ Scu … Scu …” Con quella tachicardia, quando mai sarei stato in grado di spiccicare una banalissima scusa! Lei sorrise distogliendomi di dosso quello sguardo che m’incasinava il cervello. “Sei dolce quando balbetti ...” Come no! “... tale e quale a una pecora col singhiozzo” rise di me. Poi mi chiese perché non mi togliessi la maglietta, il sudore mi stava sciogliendo. Io non ero timido, ma avevo paura di non piacerle, cioè, il mio corpo non era come lo volevo. Ok, sapevo di non essere più basso e grassottello, ma la mia pancia era brutta lo stesso e i capezzoli non erano simmetrici e per giunta mi stavano crescendo peli dappertutto.

 

            ... tanto ti ho già visto in costume ...

 

 Ma sì, tanto mi aveva già visto in costume. Tirai via la maglietta gettandola in terra senza troppa cura, come avevo sempre visto fare a Marcello. Lei non parve accorgersi di quanto fossi brutto e a me piacque moltissimo sentirmi il sole sulla pelle. Era strafigo starsene a torso nudo, non era come stare in piscina, non so, mi faceva sentire sexy. Poi lei notò una specie di campanula viola. Corsi a cogliergliene una, ma la verità era che mi piaceva sentirmi il suo sguardo addosso.  

 

            ... se ci vedesse Lidia, mi ammazzerebbe ...

 

Risultato di quell'esibizionismo fu una scottatura micidiale, ma andava bene così, perché il giorno dopo Marica portò con sé i suoi unguenti da sciamano. Lei sorrise all'idea di cosa avrebbe potuto pensare la sorella, se l'avesse vista mentre mi spalmava la crema sulla pelle nuda.

M’immaginavo guerriero celtico ferito in battaglia, raccolto da una mistica silvestre, mentre quei brutti gobbi giù nella valle edificavano la loro abominevole magione. “Fatto” Già fatto! Proprio nel momento in cui stavo per far saltare la testa alla mezza orca dalle braghe corte ...

 

            ... che faccia buffa ...

 

Rise ancora di me e dell'espressione stralunata che mi era venuta. Volevo che accadesse qualcosa, da quel momento non poteva tornare a essere solo sguardi languidi e carezze. “La conosci la storia delle donne orientali che praticavano il massaggio dello sfioramento usando i loro lunghi capelli?” Troppo audace? Lei non rispose. Sorrise maliziosamente mentre tirava via la forcina con cui teneva i capelli. Fece scivolare quella cascata di crine giù per la spalla destra e si protese su di me. Seta, erano come milioni di fili di seta che scivolavano freschi sul mio petto. “Lo fanno così le donne orientali?” mi chiese “Ma tu sei una fata!” Ops, avevo di nuovo aperto la bocca prima di accendere il cervello. Lei rise e mi chiese come mai non balbettavo mai quando c’era da fare il cascamorto.  Venne da ridere anche a me e disse che mi preferiva così, piuttosto che con il solito broncio. Non era giusto, avrei dovuto dirle io che era bellissima quando mi parlava con quella sua voce d’incantatrice. Troppo tardi perché la sua ombra oscurò il cielo e un limbo sensuale avvolse la mia anima.

 

            ... ora sì che Lidia ci ammazzerà ...

 

Marica aveva delle labbra troppo sottili e sapevano del male che la affliggeva, mentre quelle di Lidia erano carnose e calde ... ma fu dalla sua bocca che sorbii per la prima volta la dolcezza dell’amore. Come un vento caldo, il suo alito faceva diventare torrida la primavera, arsa la terra nel cuore che pretendeva la passione per dissetarsi. Io le chiedevo troppo e allora preferivo trattenere il desiderio, ma egualmente sentivo nelle sue carezze il crescente impeto di un torrente in piena.

 

“Nei tuoi riccioli c’è il riflesso del sole” Sfido io! Non mi pettinavo da quando mi aveva tagliato i capelli “ … e sulle tue labbra c’è disegnato un cuore “ probabile che tutto dipendesse dai miei geni yiddish. Quelle sue labbra che si schiudevano come ali di farfalla, erano una deliziosa tortura cui non volevo sottrarmi.  “T … Tu … c … cioè” Lei posò il suo incantevole ditino sulla mia bocca per zittirmi; ma io dovevo dirglielo. Stavo scoppiando e non solo metaforicamente. “Ma che ti prende?” disse, nascondendo poi le sue risa sotto il mio orecchio. La morbidezza dei suoi seni mi premeva il petto e il singhiozzo del suo ridere nel mio orecchio era troppo, troppo, troppo … e poi mi chiedeva pure cosa mi stava prendendo! “Me lo hai fatto venire durissimo” E che ci potevo fare? Se ci giravo intorno per dire le cose balbettavo, invece, avevo scoperto che a dirle direttamente non m’inceppavo mai. “Cosa!” Disse sbarrando quei suoi occhioni di strega. Strap, fece la chiusura a strappo dei miei calzoncini da mare. Lei scattò via, voltandosi di spalle “Sei impazzito?” mi chiese. Boh, forse sì. Oramai i miei gesti sorprendevano anche me. “Rimettilo subito dentro o me ne vado” Come la faceva difficile “Così che finisce la storia che sarei la fata che ti ha incantato il cuore?” Perché secondo lei quella non era una magia? Ma la battuta era per sdrammatizzare! Fece per andar via, ma io la trattenni forte. La strinsi a me e le chiesi scusa. Cercai la sua bocca e la baciai, quella volta a modo mio, schiudendo le labbra per sorbire la sua rugiada.

 

Non la costrinsi a fare nulla, scivolai semplicemente tra le sue gambe ... iniziai a premerla tra le cosce e la sentii gemere ... in quei frangenti l'istinto rapace della pulsione sessuale mi ha sempre travolto e anche quella volta non fu diverso ... mi sciolsi in un paio di sussulti che la fecero trasalire spaventata. “Che schifo!” esclamò. Le avevo imbrattato l'orribile gonna pantalone della divisa. Cercai di scusarmi, le passai la mia maglietta per pulirsi, ero imbarazzatissimo. Si era fatto tardi ... ma la trovavo così bella! La strinsi ancora e lei mi baciò senza più remore e la seconda volta fu ancora più bello. Lei mi cercava con la bocca e disse che voleva sentire la mia pelle sulla sua ... si alzò il maglioncino e posò i suoi seni su di me ... come potevo resistere ancora!

 

            ... ti prego aiutami ...

 

C'eravamo rivestiti di fretta perché si era fatto proprio tardi, ma quando ci trovammo manco a metà della radura dominata dalla bianca roccia, lei si bloccò sui suoi passi tenendosi la testa con una mano mentre con l'altra cercava di mantenere l'equilibrio. La sostenni e m'implorò di aiutarla. Sentii la forza defluire progressivamente dal suo corpo. Io la chiamavo, cercavo di farla rinvenire ed era complicato perché pareva morta. La adagiai prima a terra per meglio prenderla sulle braccia e poi corsi ... almeno cercai di farlo.

 

Arrivato al campo, chiedevo disperatamente a tutti dove stava Michele, ma quelli se ne rimanevano imbambolati a fissarmi come non so cosa. Per fortuna che c'era la buzzicona e prese in mano la situazione. Mi chiese cosa le era successo, ma io non lo sapevo. Poi mi disse di stenderla e alzarle le gambe, mentre ordinò che gli portassero dell'acqua dal torrente. La schiaffeggiò energicamente fino a quando Marica si riprese un po' e allora le fece bere un bicchiere di acqua in cui aveva sciolto una bustina di non so cosa. Nel frattempo erano giunti anche Benedetto e Michele e tutti insieme decisero di portarla al pronto soccorso.

 

-   Brutto bastardo ...

 

Quando li vidi ritornare con l'automobile del campeggio, mi avvicinai accorgendomi subito che c'era qualcosa che non andava. Avevano una tale faccia da funerale! Marica camminava rintanata sotto il braccio di Gianna. Benedetto mi fulminò con uno sguardo assassino e Michele mi esortò a togliermi di mezzo. Fu la buzzicona, ma almeno di questo gliene fui grato, che m'insultò dandomi del brutto bastardo e che me l'avrebbe fatta pagare. Solo che non poteva certo liquidarmi così. Le chiesi semplicemente cosa avevo combinato, di quale colpa mi ero macchiato quella volta ... di tutta risposta mi spintonò e allora Michele mi riaccompagnò alla tenda o l'avrei definitivamente atterrata con una capocciata.

 

Terza Parte

 

Già nell'infermeria del campeggio si erano accorti di qualcosa, ma è al pronto soccorso che i medici chiarirono l'origine dello sporco che c'era sulla biancheria intima di Marica. Ovviamente non era quello ad aver causato il suo malore. Marica aveva la febbre non si sa da quanti giorni e probabilmente non si nutriva a sufficienza, questo le aveva fatto venire quel mancamento. Sicuro che averle procurato orgasmi non le fece certo bene, ma io che ne potevo sapere!

 

-   Quello che hai fatto è imperdonabile ...

 

Mi disse Michele quando mi venne a riferire la decisione di escludermi da tutte le attività del gruppo. Sarei dunque rimasto confinato nella mia tenda fino a quando non sarebbe venuto qualcuno da casa a riprendermi. Che casino! Se solo immaginavo a mia madre che prendeva quella telefonata, venivano i mancamenti pure a me. Almeno ebbero l'accortezza di non fare il nome della ragazzina di cui a loro dire avevo abusato.

 

-   Non prendo niente da voi ...

 

Forse Michele mi difese veramente dinanzi alle accuse che certamente la buzzicona mi aveva mosso contro, quando decisero di confinarmi come un cane nella mia tenda. Tuttavia non volle mai sentire le mie ragioni e non potevo chiedere il perdono per una colpa di cui non mi ero macchiato. Per loro non era importante capire se ero stato io a causare il malore di Marica. La colpa era insita nel gesto di averci fatto l'amore assieme, di averle sporcato le mutandine di sperma. Quella era la vergogna inammissibile.

 

Mi fu concesso di mangiare assieme agli altri, ma col cavolo che accettai di farmi guardare come un mostro. Non avrei accettato più niente da quella gente. Quello che mi mandava in bestia era la paura di Marica che temeva di essere giudicata male. Era dunque questa la tanto decantata forza che infonde l'amore?

 

Mi lasciai scivolare in un lungo dormiveglia che non mi faceva più distinguere il giorno dalla notte, anzi, preferivo uscire dalla tenda quando tutti dormivano per andare a prendere qualche merendina dal distributore automatico. Non volevo incontrare nessuno e decisi che avrei definitivamente chiuso con il mondo. Era chiaro che qualunque cosa fossi, ero incompatibile con la società dei giusti.

 

Poi una mattina, o forse era sera, o magari pomeriggio ... meraviglia delle meraviglie, mi svegliò proprio Marica. Si era infilata nella tenda di nascosto per chiedermi scusa, senza capire che era lei ad avermi accusato con il suo silenzio. Ma insomma, era là e a me non dispiaceva. Ancora non immaginavo quante altre volte avrei perdonato quei suoi occhi pavidi e quelle labbra su cui sarebbero fiorite solo spine.

 

Ma era là e quando allungò le sue mani da strega verso di me, stava per venirmi un colpo. Invece, infilò le dita tra i miei capelli e delicatamente ne trasse via un cazzo di centopiedi schifoso. Altro che embolo, che schifo!

Avrei dovuto chiederle spiegazioni, pretendere chiarimenti pubblici, ma lei iniziò semplicemente a parlare del verme che lasciava correre sulla mano come fosse una graziosa coccinella. “Ma scusa, tu non sei vegetariano?” mi chiese quando la pregai di non lasciare libero quel coso nella tenda. “Beh, neanche prima mangiavo i vermi” le chiarii. Quindi mi spiegò di nuovo la sua teoria sulla trasmutazione delle anime, secondo cui quel coso magari un tempo era stato suo figlio.

 

-   E meglio che me ne vado prima che qualcuno si accorga che sto qui ...

 

Chissà, magari era anche convinta di avermi fatto un favore. In realtà sì. Sapere che almeno lei non era convinta che fossi un mostro, mi rincuorò parecchio.

Quando lasciò la tenda, la seguii fuori. Mi sorrise ancora mentre posava il verme sull’erba. La seguii con lo sguardo fino a quando non si confuse tra gli operosi compagni. Che bello! Acciaccai il verme e me ne tornai in tenda.

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  • 1 month later...
Silverselfer

 

 

Floppy 04/47

 

 

L'istinto predatorio è un'attitudine determinata fin nella chimica organica di un cacciatore. Allo stesso modo una preda è tale per designazione biologica. L'aggressività del primo è favorita da inibitori ormonali nella seconda.

 

-   Quante volte ti avremo detto che nel bosco da solo non ci puoi venire?

 

Mi era stato proibito di andare nel bosco e quando un pomeriggio Benedetto e Michele non mi trovarono alla tenda, vennero a cercarmi fino alla Bianca Roccia. Al solito Benedetto mi rifilò un pistolotto sulla sua responsabilità e la mia sicurezza, ma sostanzialmente era contento di potersi finalmente lavare le mani dell'una e dell'altra, consegnandomi ai nuovi arrivati.

 

-   Va dai responsabili del campo sociale, da ora saranno loro a occuparsi di te ...

 

Dopo tre o al massimo quattro giorni d'isolamento, giunsero dalla città i responsabili del campo organizzato da Paolo. Benedetto mi disse sul grugno che da quel momento di me non voleva più saperne. M'indicò i due tizi ma non mi accompagnò da loro. Michele mi salutò con uno sbrigativo augurio di buona fortuna che aveva il sapore di un addio liberatorio.

 

-   Ci darai una mano a preparare il campo ...

 

Jamil e Franco erano due giovani uomini che non somigliavano per niente a degli assistenti sociali o a dei volontari di qualche associazione filantropica. Jamil era di origine arabo-libanese: pelle olivastra e statura minuta ... ma che era tutta un fascio di muscoli. Aveva una testa piccola con gli occhi, naso e bocca ammucchiati al centro della faccia. Il naso aquilino e i capelli che disegnavano una "V" sulla sua ampia fronte, gli davano un aspetto particolarmente sinistro.

Franco, al contrario, era grosso. La prima impressione fu di guardare un grizzly, anche se poi non era più alto di me. Aveva una zazzera biondiccia in testa che diventava tutt'uno con la barba sempre da rasare; mentre la carnagione chiara del volto aveva acquisito un aspetto coriaceo. Possedeva la bellezza virile di un maschio dominante e quando i suoi occhi celesti mi si appuntavano addosso, mi gelava il sangue nelle vene.  

 

Al momento delle presentazioni, Franco mi strinse energicamente un capezzolo, poi prese a chiamarmi con l'appellativo "c'haiunbelcu'". Si prendeva ogni sorta di libertà con me. Era capace di palparmi una chiappa e poi farmi un frontino per sbeffeggiarmi. Mi spaventava quel suo sguardo spiritato che non riuscivo a dominare. Avrei voluto ignorarlo, ma ovunque mi trovassi e qualsiasi cosa facessi, mi capitava di voltarmi sempre nella direzione dove in quel momento Franco mi stava osservando. Appena si accorgeva che mi ero avveduto del suo sguardo inopportuno, mi fulminava con qualche gesto osceno, alludendo a tutto quello che cercavo di tenere nascosto.

 

-   ... per caso t'intendi di motori?

 

Jamil e Franco si beccavano spesso su chi dei due dovesse prendere ordini dall'altro. In quel momento se ne dicevano di ogni a causa di quella "cazzo di tenda gonfiabile" donataci dalla Croce Rossa internazionale. Il compressore non voleva saperne di funzionare e Jamil mi chiese se ci capivo di motori. Io che non ero certo un esperto, capii subito che quel coso non si sarebbe mai messo in moto, specie dopo che lo avevano smontato in un milione di pezzi. Ci feci comunque una bella figura quando andai a farmi prestare il piccolo compressore che avevo visto in direzione del campeggio.

 

Il fervore determina una costante competizione tra i cacciatori. L'irascibilità tra loro è mitigata solo dal bisogno di predare in branco.

 

-   Quest'affare non serve a un cazzo ...

 

Jamil mi trattava come un suo sottoposto impartendomi ordini con un fastidioso tono di sufficienza. Succedeva poi come con il compressore del campeggio, che era colpa mia se non ce la faceva a gonfiare adeguatamente quella grossa tenda. Io abbozzavo perché stava nei fatti che dovessi ubbidirgli, ma l'insofferenza trapelava nei miei gesti e questo sembrava dargli ancora più soddisfazione.

 

-   Sbrigati che non abbiamo tempo da perdere ...

 

D'improvviso si erano ripresentati tutti i fantasmi che Marica aveva fatto scomparire. Cercavo, assai disperatamente per il vero, di trovare ragioni diverse all'attrazione fisica che provavo per Franco, che poi lui rendeva ancora più umiliante con quei suoi comportamenti. Mi dicevo che non poteva certo essere così perché Jamil era più figo di lui, eppure non mi suscitava alcun scompiglio. Li vedevo lavorare uno accanto all'altro, mentre Jamil indossava solo dei pantaloncini più risicati di un paio di mutande, con tutti i sui muscoli abbronzati in bella mostra e certi pettorali da far invidia a quelli di Carmelo ... nonostante questo, erano i jeans calati sul didietro e la pancia solida di Franco che mi turbavano al punto da costringermi a non guardarlo.  

 

Fu anche per questo che preferii lasciare la tenda piantata dov'era, invece di sistemarmi vicino alla loro. Rimanere nei pressi del campo scout mi permetteva di preservare almeno un contatto visivo con Marica, la sola capace di salvarmi da quel dissennato subbuglio ormonale, che mi faceva lampeggiare in fronte la scritta: frocio.

Stare tutto il giorno con quei due alle costole era davvero stressante e avevo bisogno di ritrovare un coetaneo con cui poter parlare anche solo di musica pop. Tuttavia, fui costretto ad allontanare Davide che nel frattempo era tornato a dormire nella mia tenda. Fui costretto a farlo perché una mattina, come tutte le mattine, lo sentii stringersi al mio fianco ... non lo faceva apposta, ma era così.  Fu allora che mi sorpresi a far scivolare furtivamente la mano sotto l'elastico delle sue mutandine. Abbracciai con una mano la fragranza della sua carne e la tenni stretta mentre mi scioglievo in un orgasmo spontaneo.

 

E' la debolezza della preda a tessere la trama del bisogno reciproco che tiene coeso un gregge. L'indole mite favorisce la subalternità al capo branco. La forza fisica che esso esprime, impone il rispetto della regola sociale e allontana quei soggetti che mostrano atteggiamenti individualistici eversivi.

 

Solo dopo l'arrivo di quei due, compresi che l'isolamento cui mi avevano imposto i capi scout non voleva certo ostracizzarmi dal gruppo. Capitava spesso che qualcuno venisse confinato nella propria tenda, allo stesso modo di come un genitore manda il proprio pargolo in punizione nella sua stanza. Se la mia tenda fosse stata accanto a tutte le altre, non ci sarebbe stato modo di evitare un contatto con gli altri, lo stesso che avrebbe fatto superare la controversia. Al contrario, il mio rifiuto alla possibilità d'incontrarli almeno durante i pasti, finì per congelare la situazione in uno stallo che alla fine si trasformò in un orgoglioso braccio di ferro. Tuttavia, con la nuova situazione che mi poneva fuori dalle loro regole, Davide era tornato a stare nella mia tenda e se solo mi fossi comportato in un qualsiasi altro modo, anche gli altri mi avrebbero "perdonato".

 

Davide era un testone e il solo modo di fargli intendere che non doveva più venire da me, fu usare dei modi bruschi e quindi gli intimai di "sciacquarsi dai coglioni". Ora che stavo con quei due, i quali parevano pisciare in testa al mondo, quella prepotenza sembrò a tutto il campo scout come l'ennesimo scaracchio di tracotanza nei loro riguardi.

Si scatenò una piccola guerra e lasciare la tenda così vicina al loro campo, mi procurò dei continui sfottò, tipo darmi del cane rabbioso abbaiando ogni volta che mi vedevano passare. Si sentivano forti quando rimanevano in gruppo, ma scappavano come codardi se mi capitava d'incrociarli da soli.

 

L'animale espulso dal gregge acquisisce caratteristiche violente più pericolose di quelle di un predatore, perché ispirate dalla follia per una condizione che lo pone fuori dai suoi istinti naturali.

 

Quel fine settimana sarebbero giunte le famiglie per festeggiare la fine del campeggio scout. Confesso che guardavo con invidia tutti quei preparativi e siccome la tenda gonfiabile eravamo riusciti comunque a farla stare in piedi, quel sabato non avevo niente da fare e quindi nessuno con cui stare. Rimanere a guardare gli altri che mettevano in scena quel quadretto di gioia famigliare, sarebbe stato puro autolesionismo. Misi dunque lo zaino in spalla e decisi di compiere un'escursione nel bosco, tentando di risalire il torrente fino alla sorgiva.

 

Era un'impresa affascinante e m'incamminai appena iniziò ad albeggiare. Risalendo il torrente trovai degli invasi con cascatelle bellissime, ma non mi trattenevo più di tanto perché sapevo con la piantina alla mano quanto ancora c'era da camminare e, soprattutto, dovevo tener conto del tempo necessario per rientrare prima che qualcuno si domandasse dove fossi finito.

Fu quasi un'esperienza mistica trovarmi dinanzi a quel piccolo antro cavernoso dove ribolliva uno zampillo subacqueo. Ci restai il tempo di rollarmi una canna e poi mi rimisi in cammino per tornare indietro, anche perché non c'erano panorami d'ammirare e, anzi, quel posto era anche un po' oscuro nonostante il sole fosse alto in cielo.

 

Tornai a valle che ero esausto e nonostante ci voleva ancora un po' affinché calasse la sera, pregustavo una sana dormita che mi avrebbe traghettato direttamente all'indomani, quando sarebbero arrivati tutti gli altri del campo sociale ... compreso Paolo.

Arrivato al campeggio, però, trovai la tenda rivoltata con le mie cose sparse tutte intorno. C'era poco da capire che era successo. Si trattava di una sortita di quegli stessi stronzi che trovavano divertente abbaiarmi dietro, forti di avere le chiappe parate dalla presenza delle loro famiglie e dal fatto che il giorno dopo se ne sarebbero andati via.

 

Sul principio volevo soprassedere, abbozzare ma ... raccattando quegli oggetti provavo una sorta di profanazione della mia intimità, uno scempio tale che a un certo punto, un rigurgito d'orgoglio innescò una violenta reazione chimica nel mio cervello. Senza manco pensarci, i miei piedi si misero a marciare da soli verso il campo in festa. Ricordo quegli attimi con dei lampi che mi facevano traballare la vista, scoprii così che non è solo un modo di dire: accecato dalla rabbia. Non so se mi azzuffarmi con il primo che mi si parò dinanzi o cominciai fin da subito a rivoltare qualsiasi cosa. Comunque non furono scene edificanti ... mi sentii poi neutralizzare da una presa alle spalle, seguita da un sapiente sgambetto che mi ridusse all'impotenza, in ginocchio e con la faccia spiaccicata a terra.

 

-   Sta fermo, cazzo! O sti coglioni ci chiamano la polizia ...

 

Era Jamil che mi teneva bloccato e quando mi parlò in un orecchio, compresi che stava dalla mia parte. Rialzandomi vidi Franco mostrare il petto spavaldo a Benedetto, che era trattenuto da una certa folla. Il capo scout era fuori di sé perché lo avevo picchiato; lo avevo fatto solo perché aveva tentato di fermarmi, ma vai a spiegarglielo! In realtà avevo messo su una baraonda e oramai non c'era più ragione che mi potesse giustificare. Franco tenne bene le retrovie mentre Jamil, spingendo lesto sui miei passi, mi portò al riparo nel camper di Paolo.

 

-   Abbracciami fratellino ...

 

Che stronzi quei due! Non mi avevano detto che Paolo sarebbe giunto al campo sabato mattina. Certo che se l'avessi saputo non mi sarei andato a infilare nel bosco per tutto il giorno, così quegli altri non mi avrebbero rivoltato la tenda e magari ci risparmiavamo pure quella bagarre del cazzo. Invece; eh, al solito avevo combinato un gran macello, come se la situazione non fosse stata già sconveniente di suo.

 

-   Ei, calmati ... respira profondamente ... è tutto apposto, sei a casa adesso.

 

L'adrenalina che non riuscivo a far defluire, contraeva il mio corpo in uno spasmo tale da impedirmi di respirare bene ... non c'era verso di farmi calmare e certo Jamil non mi stava aiutando continuando a interrogarmi su dove cazzo ero stato tutto il giorno e che mi avevano cercato inutilmente anche nel bosco e avevano avvertito persino la forestale ... che casino! Tutti avevano pensato che fossi scappato via dopo la spedizione punitiva che i ragazzi avevano compiuto alla mia tenda.  

 

-   Ve lo avevo detto che non era scappato ...

 

Franco imboccò nel camper preso da una sorta di euforia che gli faceva venire lo sguardo da folle. Mi chiamò fratellino e mi strinse in un poderoso abbraccio. Fu come quando la Zia Pina da piccolo mi carezzava energicamente il volto per farmi rinvenire dalle crisi nervose. Franco mi disse che non ero più solo ... che con lui ero al sicuro ... ero a casa. Mi disse un sacco di cose, non la piantava più di parlarmi ed io non lo mollavo ... sembravo uno di quei gatti che spaventati dall'acqua, ti si aggrappano muggendo un miagolio disperato.

 

-   Sei un fottuto predatore del cazzo e se non lo facevi tu, gliela rompevo io la faccia ...

 

Franco era orgoglioso di me e avevo compiuto esattamente quello che si aspettava che facessi. Era strano perché anche Jamil, dopo essersi acceso un sigaro, si mise a scherzare sul modo in cui ero piombato nel campo mettendolo a soqquadro. Ma chi erano quei due?

 

-   ... e tu smetti di fomentare il ragazzo.

 

Paolo sopraggiunse portando con sé quella sua austera calma che incuteva rispetto e ripristinò l'ordine morale, facendo tornare deprecabile ogni mio comportamento. Franco era il primogenito di Paolo e quindi sarebbe stato seriamente il mio fratello maggiore. Paolo se la prese sostanzialmente con lui perché mi difendeva, ma soprattutto perché sosteneva quella sua tesi stramba secondo cui sarei stato un "fottuto predatore del cazzo" e quindi era sacrosanto che avessi reagito in quel modo; ma non solo, accusava a sua volta il padre di non voler prendere atto di quell'evidenza. Quei due litigarono di brutto su questa cosa e alla fine Paolo cacciò il figlio in malo modo dal camper e dopo, trattenne per qualche attimo Jamil, redarguendolo su un suo ordine che aveva disatteso, cioè tenere a freno il figlio.

 

-   Parleremo domani ...

 

Rimasi solo nel camper con Paolo. Dopo tutto quel trambusto il silenzio calò come una gelatina vischiosa impossibile da infrangere. Paolo m'indicò la cuccetta sopra il posto di guida e parlò solo per dirmi che il giorno dopo avrebbe discusso la faccenda con calma.

 

Seconda parte

 

Forse fu per la scarpinata in montagna del giorno prima, però quella notte dormii con un sonno così profondo come mai avevo provato prima. Mi svegliai dopo mezzogiorno quando vidi dal lunotto della cuccetta il sopraggiungere del pullman che portava i ragazzi dalla città per il campo sociale organizzato da Paolo. Quello significava che anche gli scout stavano per ripartire perché avrebbero usato lo stesso mezzo per tornare indietro. Il primo pensiero andò a Marica perché avrei voluto salutarla, per fare in modo di rivederci ... ma capivo benissimo che oramai per me era impossibile riavvicinarla in quel contesto.

 

Mi rivoltai nel letto e aspettai allungo che qualcuno mi venisse a chiamare. Fu la faccia sinistra di Jamil che vidi far capolino da sopra la scala a pioli della cuccetta. Paolo chiedeva di vedermi ... era inevitabile che lo dovessi affrontare e quindi ci andai rassegnato al peggio.

Quando sopraggiunsi, lui stava passando in rivista la ciurma di ragazzini e come fosse un sergente, gli impartiva le regole da rispettare.  I maschi avrebbero abitato nelle tende mentre le poche femmine avrebbero alloggiato nel canotto mezzo sgonfio della Croce Rossa. Il campo sembrava più che altro una baraccopoli, nulla a che vedere con quello degli scout che stavano andando via.

 

Paolo non fece cenno a quanto accaduto il giorno avanti e mi chiese solamente di andare a recuperare la mia tenda per sistemarla accanto alle altre. Io non osai obiettare alcun che. Lui mi seguì in silenzio.  Indossava come suo solito un paio di pantaloni da ginnastica, con sopra una magliettina bianca. Al collo ci portava un fischietto tipo allenatore di qualche squadra sportiva, mentre in mano teneva una cartellina come quelle dei presentatori televisivi.

Aveva i capelli grigi tenuti molto corti che diventavano radi sulla zucca, mentre una barba ben curata, anch'essa grigia, dava ancora più autorevolezza a quel volto imperscrutabile. Anche lui aveva gli occhi azzurri e del resto, a guardarlo meglio, era possibile intravedere una certa somiglianza con i caratteri somatici di Franco.

 

Paolo parlava solo se necessario e quando lo faceva, la sua voce bassa e suadente non ammetteva repliche. Stette tutto il tempo fermo impalato a guardarmi mentre raccattavo le mie cose. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa, ma che poi rimandava continuamente. Io cercavo di fare in fretta sistemando con metodica rapidità ogni oggetto, prima che Paolo trovasse l'attimo giusto per infilare quel discorso che non volevo ascoltare.

Un brivido di spavento mi attraversò dalla testa ai piedi, quando vidi lo stereo portatile con lo sportello delle musicassette aperto ... lì dentro ci tenevo la poca maria rimasta. Quei bastardissimi avevano rubato il sacchettino di marijuana. Badando a che Paolo non s'insospettisse, aprii il vano batterie dello stereo e tirai un sospiro di sollievo ritrovandoci il pezzo di hashish ancora nascosto tra il filo elettrico.

 

Tornati indietro, Paolo m'indicò il luogo in cui piantare di nuovo la tenda: accanto al suo camper. Anche in quel caso se ne rimase impalato a guardarmi lavorare. "Tu ed io dovremmo parlare" Mi disse di punto in bianco. "E temo proprio che tra tutti e due non riusciremo mai a mettere insieme mezza conversazione" Forse era meglio se non ci provavamo neanche. "Ho sistemato la faccenda della scuola" Già ... la scuola ... "Parlo del tuo ... mio cognome ... insomma, hai capito benissimo" Avevo espressamente chiesto di iniziare l'anno scolastico con il nuovo cognome ... il suo "cognome". Eravamo entrambi imbarazzati e facemmo volentieri finta d'intenderci, poi lui cambiò alla svelta discorso. "Hai una bella tenda" Io sarò stato pure di poche parole, ma come potevo rispondere a quelle sue inappellabili constatazioni di fatto? "Tua madre è molto preoccupata per te" Mia madre era sempre preoccupata di me. "Tu le somigli molto" Beh, spero che quello non volesse essere un complimento. "I ragazzi stanno un po' stretti nelle loro tende" Non me ne importava nulla degli altri, per quanto mi riguardava, volevo solo seppellirmi vivo fino al ritorno in città. "Hai intenzione di continuare a vedere quella ragazzina?" Che? "Hai capito benissimo di chi sto parlando" Era lui che non aveva capito quanto quelli non fossero cazzi suoi. "Tua madre ... " Mia madre cosa? "Ragazzino non guardarmi in questo modo" Preferiva forse essere mandato affanculo in maniera più esplicita? "... non avere fretta di crescere" Se magari il mondo avesse smesso di prendermi a calci nel culo, avrei volentieri smesso di correre. "Ci tieni proprio a sembrare un tipo duro, vero?" Veramente era lui che se la cantava e suonava da solo. "Ho bisogno che tu mi faccia un favore" Wow, il Signor Generale che chiede un favore! "Te lo chiedo perché si tratta di qualcosa che puoi fare solo se lo vuoi anche tu" Ahi ... ahi ... ahi. "C'è questo ragazzo ... " Non c'era storia, non avrei diviso la tenda con uno di quegli scoreggioni di borgata. "Potresti almeno ascoltarmi prima di rispondermi di no" Mi disse seccato, ma sia chiaro che io non avevo ancora mai aperto bocca. "Sei tale e quale a tua madre" Ah, ma allora stava imparando sul serio a conoscerla. "Duri dal cuore tenero" Sì, un par di palle. "Aiutare gli altri può essere il solo modo che abbiamo di metterci in pace con noi stessi" Dimenticavo le sue doti da buon samaritano. "So di non piacerti" beh, ora la stava mettendo giù dura. "Tu invece mi piaci molto" Sul serio! "La vita non è stata tenera con te" Voleva fare il gioco del bastone e della carota? "Forse non è un caso se Dio ci ha messo sulla stessa strada" Di quale Dio stava parlando? "Questa situazione fa paura a te quanto a me" Mi aveva rotto il cazzo con quei discorsi e doveva smetterla di leggermi nel pensiero. "Ti sto solo chiedendo di darmi una possibilità" La possibilità gliela aveva già data il giudice. "Io te lo presento, poi deciderai da solo" Presentarmi chi?

 

-   Lui è Adolfo ...

 

Sì, avevo visto benissimo che nel gruppo c'era anche qualche ragazzo "diversamente abile", ma quelli avevano pure chi li accompagnava ... io che c'entravo? Chi era questo Adolfo e perché avrei dovuto fargli da balia? Era forse una specie di cura riabilitativa per la mia anima di peccatore impenitente?

 

-   CiAhAhoO

 

Oh, Santa pazienza! Adolfo mi fece un verso gutturale con cui immagino volesse intendere un saluto e... il Padreterno mi perdoni ... fui colto alla sprovvista, ecco ... le labbra iniziarono a tremarmi nel vano tentativo di non scoppiargli a ridere in faccia. Ero forse impazzito? Paolo voltò Adolfo prendendolo per le spalle e poi chiamò uno dei ragazzi che si occupavano degli handicappati, quindi mi gelò con lo stesso sguardo assassino di Franco, intimandomi di andare a prendere le cose di Adolfo per sistemarle nella mia tenda. Fu categorico. Mi sarei occupato di lui h24 ...

 

Il gregge lascia indietro gli animali malati e i predatori se ne cibano, favorendo così una selezione naturale della razza più forte.

 

Sapevo di meritare una punizione e, come sosteneva Michele, dovevo imparare a occuparmi di qualcuno che non fossi "io" e ancora "io". Tuttavia, Adolfo non andava bene a questo scopo. Lui non era abbastanza brutto ... o ero io che ero così anormale da trovarlo attraente ... non saprei dirlo. Ero così confuso e spaventato da quanto mi stava accadendo! Desideravo solo una tregua con il mondo ... ma ci si può davvero mettere al riparo da se stessi?

 

In quel momento ero impaurito da un istinto "pansessuale" che mi mischiava i punti cardinali di madre natura e, di conseguenza, mi disorientava anche dal punto di vista dei sentimenti. Sapevo di amare Marica, tuttavia, dopo quanto accaduto con lei, ero precipitato dentro a un pozzo in cui non giungeva alcun barlume di razionalità. Contavano poco tutte quelle menate sulle affinità elettive. Marica m'incantava senza bisogno di avere tette prosperose e labbra seducenti, mentre con la sorella era stata proprio quella sua bellezza travolgente a sedurmi, allo stesso modo di come ora la fisicità di Franco innescava nel mio corpo una reazione chimica che mi soggiogava; eppure, fin dal primo momento che annusai lo sguardo di Adolfo, compresi che anche lui apparteneva a quel genere di esseri umani capace di stimolare il mio istinto predatorio ...

 

Il cacciatore riconosce subito la preda dal desiderio che essa scatena nelle sue viscere. Dopo averla avvistata, una particolare smania di possesso comincia a infervorare quell'istinto che non gli permetterà più di staccargli lo sguardo rapace di dosso.

 

Adolfo era sordo e quindi non sapeva parlare. Aveva poi un problema deambulatorio e camminava con dei tutori metallici che lo aiutavano a sostenersi dal ginocchio in giù; quindi si muoveva come una marionetta ubriaca. Tuttavia, quando stava fermo e non cercava di parlare, era un ragazzetto apparentemente come tutti gli altri. Altezza media, corporatura media, moretto con una barba cespugliosa ancora difficile da rasare perché era sottile e morbida ...

 

-   Sta-i Fe-rmo o-pp-ure Zac!

 

Rasarlo fu la prima prova in cui mi cimentai. Gli piaceva la barba come la portavo io; ma la mia barba cresceva da sola in un pizzetto bohemien strafigo, mentre i suoi peli venivano su tutti di traverso e spuntavano anche dove non ci sarebbero dovuti nascere. Il pizzetto alla fine non riuscii a farglielo, ma almeno rasandolo tutte le mattine, evitai che i peli marcissero prima di uscire.

 

Ado voleva sentirsi come tutti gli altri, per questo motivo aveva chiesto a Paolo di poter partecipare alla vita del campo senza tutor ... finendo così nella mia tenda. Lui era tutt'altro che stupido, ma se non gli spiegavi bene cosa volevi, finiva per andare a destra invece che a sinistra. Era anche un po' testone e per esempio non voleva che gli parlassi sillabando, ma era anche vero che proprio non era capace di leggere sulle labbra. Ado ci teneva troppo a "sembrare" normale, finendo per mettersi in ridicolo e allora ecco che qualche cima di broccolo lo faceva un po' tardo di comprendonio.

 

-   .. e tu finiscila co' sti schiaffi!

 

Presto Ado non si offese più quando scoppiavo a ridere sentendolo fare quei versi con la voce; o meglio, imparai subito a capire qual era il gesto che usava per esprimere disappunto: mi menava una sberla, ma non forte ... almeno se smettevo di ridere subito, ma delle volte quel gesto mi faceva venire ancora di più la ridarella e allora ci andava giù duro con lo schiaffi, peggiorando il mio stato di coglionaggine.

 

Risolvemmo la questione "comunicazione" attraverso una lavagnetta che lui portava sempre con sé. La parola scritta mi è sempre stata più congeniale e fu proprio Ado ad ascoltare delle parole che non avrei mai avuto il coraggio di pronunciare ... e tutto questo non accadde dopo una settimana, un mese o un anno ... bastarono appena un paio di giorni. Del resto eravamo in una condizione d'intimità forzata. La sera gli toglievo io i tutori alle gambe e da sdraiato non riusciva a sfilarsi i jeans ... certo che se avesse messo dei pantaloni di una tuta come facevamo tutti, sarebbe stato assai più semplice, ma niente! Doveva vestirsi sempre da fighetto e, per esempio, aveva con sé quattro magliette e ogni mattina doveva provarsele tutte prima di sceglierne una ... da far levare la pazienza a un santo.

Il buffo era che, seppure non comprendessi il linguaggio dei segni, ci facevamo lo stesso delle gustose litigate e Ado afferrava al volo tutti i miei vaffanculo. Delle volte era lui che scoppiava a ridere perché mi sa che quando m'incazzavo, balbettavo anche con le espressioni facciali.

 

Mi ero ripromesso che non mi sarei affezionato a lui perché temevo il mio modo di voler bene alle persone ... proprio non riuscivo a trovare quel confine entro il quale l'amicizia non diventa amore; allo stesso modo non sapevo distinguere il rapporto d'esclusiva che comporta amare una sola persona ... perché non si può essere innamorati dell'intero genere umano ... almeno non sarebbe "normale".  

 

Un branco di predatori ubbidisce al proprio scopo e il suo leader rimarrà tale fin quando lo rappresenterà al meglio.

 

Paolo si era messo in testa di formare una squadra di rugby perché progettava un piccolo campionato di dilettanti. Lui c'insegnava le regole e Jamil ci allenava. Ben presto, però, entrambi dovettero desistere dinanzi al poco interesse generale. Ogni partita finiva inevitabilmente con i ragazzi che usavano il pallone ovale per giocare lo stesso a calcio.

 

Ado trascorreva buona parte del giorno con le ragazze perché svolgevano le loro attività insieme ai disabili. Io godevo di una posizione speciale tra i maschi perché ero il figlio del boss e, per il medesimo motivo, Jamil fece di me il suo braccio destro. Jamil mi stava antipatico e anch'io certo non gli piacevo, eppure eravamo accumunati dal rispetto dell'autorevolezza che sapeva esprimere Polo.  

 

Alla fine della prima settimana giunsero a bordo di fuoristrada altri tipi della stessa schiappa di Jamil e Franco. Circa una ventina di uomini armati fino ai denti che parevano dovessero andare in guerra, invece erano lì per una battuta di caccia al cinghiale. Si comportavano tutti come soldati agli ordini di Paolo. Si accamparono giù al torrente, dove prima stavano gli scout. Franco traslocò da loro, mentre Jamil continuò a occuparsi di noi ... anche perché aveva intrapreso una liaison amorosa con la responsabile delle ragazze.

 

Paolo si rivelò un profondo conoscitore del mio animo inquieto. Dopo cena mi chiedeva sempre di passare da lui. Stavamo ore a studiare delle planimetrie e si entusiasmava per la mia capacità di saper vedere il territorio attraverso la topografia. Mi trattava da adulto ed era sempre pronto a cogliere le mie intuizioni per individuare le poste migliori per la sua battuta di caccia.

Di Paolo intuivo la storia importante che trapelava da ogni suo gesto. La sua nobiltà di spirito unita a una certa mistica di cui mi parlava con ritrosia, ne faceva ai miei occhi una sorta di cavaliere templare sulla via di Gerusalemme.

 

Quel genere di vita marziale mi rassicurava perché mi metteva al riparo da un libero arbitrio che, invece, mi atterriva. Avevo bisogno del cilicio per vincolare il mio istinto amorale alle salvifiche virtù della vita comune.

 

 

Terza Parte

 

 

La volontà di un predatore è complementare a quella della sua preda. Questa dipendenza è la sola regola cui egli soggiace.

 

Se fossi stato attratto solo dalle ragazze, sarebbe stato tutto perfetto ... perché tutte le femmine del campo sdilinquivano per me, invece io non le vedevo proprio, occupato com'ero con Ado. Del resto, ero riuscito a convincermi che non c'era nulla di male a voler bene a un ragazzo in termini amicali. Certo che non potevo giustificare le mie erezioni con le mere ragioni filantropiche; però, almeno per quello che era la mia esperienza, ne avevo visti a pacchi di maschi lustrarsi il piffero a vicenda, senza per questo sentirsene in colpa.

 

Ado, per via dei propri accidenti fisici, non aveva mai avuto amici con cui condividere la propria consapevolezza sessuale. Certamente per lui era più complicato, se non impossibile, usufruire di quegli scampoli d'intimità in cui coltivare l'autoerotismo. A quell'età poi, se non ci si svegliava con un certo "fulgido fervore", significava che portavi nelle mutande il prodotto interno "lordo" di un'ingloriosa polluzione notturna. Una situazione ancora più imbarazzante se tenuto conto che si dipende da qualcuno anche solo per tirarsi sopra i pantaloni. Io poi gli lavavo persino la biancheria intima! Risolsi la faccenda fornendogli i numeri migliori delle riviste pornografiche che avevo con me, ma niente di più. Fu lui che mi mostrò le immagini che lo attizzavano, poi venne con sé eccitarci insieme. Mi accontentavo di quell'intimità, anche se poi, al solito, sapevo spingermi oltre anche senza bisogno di allungare le mani.

 

Ad esempio c'era il problema delle docce. Per il vero la questione dei servizi igienici era un problema per tutti. Il campeggio usava quei cessi biologici che si trovano in genere nei cantieri edili; cioè cabine di plastica che, specie nelle ore più calde, diventavano camere a gas puzzolenti.

Questi possono sembrare problemi secondari o comunque si preferisce sempre non parlarne, ma sono quelli che condizionano maggiormente la vita di tutti i giorni.

Le docce comuni erano costituite da un ripiano di tavolacci su cui piovevano dei "pisciatelli" d'acqua attraverso tubi di caucciù collegati a dei cassoni. L'acqua era tirata su attraverso una rumorosissima pompa direttamente dal torrente ... acqua gelida appena stemperata dal calore del sole ... inutile dire che la doccia si faceva solo in caso di necessità.

C'era poi da dire che da quando erano arrivati gli uomini giù al campo vicino al torrente, le docce erano state praticamente monopolizzate da loro che, invece, sembravano essere abituati a quelle condizioni a dir poco spartane ... e siccome la loro spavalda virilità c'intimidiva un po' a tutti, anche questo convinceva parecchi a tenersi la puzza di sudore addosso.

 

Una mattina avevo portato la solita pentola d'acqua per lavarci al meglio e Ado si bagnò la punta delle dita e me le schizzò in testa imitando una doccia ... magari aveva anche ragione a volersi fare una doccia, ma come glielo spiegavo le difficili condizioni in cui eravamo? Lui era sempre prevenuto verso ogni mia obiezione e anche quella volta afferrò la lavagnetta e ci scrisse sopra "sei uno stronzo", alludendo che mi vergognassi ad aiutarlo. Quella era una cazzata che mi diceva per indurmi a fare tutto quello che mi chiedeva ... lo avevo sgamato eccome ... ma tanto l'espediente paraculo funzionava lo stesso ogni volta.

 

Il mattino era un momento tranquillo per usare le docce perché nessuno si azzardava a usare l'acqua resa gelida dalle ore notturne. Prestai ad Ado il mio costume perché lui non aveva manco un paio di pantaloncini e per via della promiscuità, nessuno faceva nudo la doccia. Lo presi sulla schiena a cavacecio e ci avviammo. Sistemato sulla panca, gli riempii il secchio d'acqua con la spugna e il bagno schiuma ... lo aiutai a lavarsi le spalle e poi mi fece cenno che anche lui voleva aiutare me ... e va bene. Ammetto che sentirmi la sua mano addosso mi turbò e al solito cercavo sempre di interrompere tutte le pratiche che potessero risvegliare il mio istinto predatorio.

Ado, però, pretendeva che il nostro fosse un rapporto alla pari e ne faceva una questione di principio ricambiare ogni favore; quindi, dopo, volle pure lavarmi la testa perché io lo avevo già fatto un sacco di volte a lui ... così m'inginocchiai tra le sue gambe a testa china e occhi stretti mentre le sue mani mi carezzavano fin sul collo ... non credo che avessi sofferto tanto prima di allora.

 

Misi fine a quella tortura alzandomi di scatto e infilandomi direttamente sotto il pisciatello di ghiaccio solvente. E vuoi che anche lui non pretendesse di fare lo stesso? Fece quei versi con la voce per attrarre la mia attenzione ... no, in realtà lui mi parlava in quel modo, ero io che non capivo ... allora m'indicò con il dito se steso e poi me, quindi il segno della doccia in testa. Io mi abbracciai esagerando un brivido di freddo per scoraggiarlo nell'intento, ma figurati se un maschio della sua schiappa temesse il freddo!

Lo aiutai a rimanere in equilibrio tenendolo da dietro le spalle e sì ... glielo feci apposta, cazzo! Strattonai la fune che aumentava il flusso d'acqua e i pisciatelli divennero scrosci ... lui prima rimase senza fiato ma poi urlò eccome ... ebbe un sussulto e mi si rivoltò tra le braccia. Fui costretto a tenerlo più forte perché altrimenti mi sarebbe scivolato sul tavolaccio.

Durò un attimo perché la corda andava su da sola e i piasciatelli tornarono subito a essere tali. Io ridevo certo, ma non era per scherno ... lui mi avrebbe ammazzato di botte, ma come poteva riuscirci se era come un passerotto tra le mie braccia ... gli detti un bacio in testa, ma solo per fargli capire che non volevo prenderlo in giro e allora lui anche sorrise e mi fece dei segni che ovviamente non compresi. Tutto qua ...

 

Guardando i documentari della National Geographic, mi sono sempre chiesto cosa provasse l'inerme gazzella mentre, ancora viva, la leonessa la sbranava a morsi. Forse è vero che è nella natura della preda perire tra le fauci del proprio cacciatore. La sensazione era di qualche misterioso sortilegio che neutralizzava ogni muscolo del mio corpo; così svuotato di ogni energia, esso giaceva inerme come quella gazzella mentre lui si sfamava della mia carne.

 

-   Ti ho visto amoreggiare con quello storpio ...

 

Forse era accaduto fin dal primo giorno che mi seguisse, studiando ogni mia abitudine, proprio come fa il cacciatore con la sua preda.

 

Nessuno andava volentieri nei bagni biologici del campeggio e anch'io, seppure fosse proibito, per i miei bisogni fisici usavo appartarmi dietro qualche cespuglio nel bosco. Non trascorse molto tempo che un giorno me lo ritrovai addosso. Mentirei se dicessi che mi usò qualche tipo di violenza. Disse che si era accorto subito della mia natura di predatore e per questo appartenevamo alla stessa razza.

Mi strinse forte ed io non lo respinsi mai. Non dovevo mai cercarlo, era sempre lui che trovava me.

 

-   ... mi stavate facendo vomitare ...

 

Incontrai Franco quando avevo più bisogno di trovare una persona che mi spiegasse cosa ero. Almeno per i primi giorni fui contento di averlo trovato perché è normale desiderare essere orgogliosi della propria natura, esattamente come lo era lui. Poi mi dette della checca perché nella foga del momento provai a baciarlo. Forse fu solo per provare a me stesso di non essere solo un "inutile frocetto", se quella mattina tentai maldestramente ad approfittarmi di Davide. Era Franco che mi esortava a "stimolare" il mio istinto "predatorio", ma la sensazione fu tutt'altro che inebriante.  Da quel momento iniziai a dubitare di appartenere alla fantomatica stirpe di quei maschi cacciatori per cui "ogni buco è trincea".

 

-   ... facevano bene gli spartani a buttare a mare i figli storpi ...

 

I nostri non erano appuntamenti amorosi ... forse per questo che lui mi parlava tanto solo prima ... ma dopo, si tirava su i pantaloni in fretta e si volatilizzava senza accennare alla volta successiva. Avrei voluto interrompere quegli incontri, ma i piedi alla fine mi ci riportavano sempre. Si prendeva quello che voleva e alla fine imparai a ingannarlo, allo stesso modo di come mentivo a tutti gli altri. Così si convinse ancora di più di aver trovato una sorta di discepolo da iniziare a quella sua vaneggiante dottrina. Era ormai difficile capire se era lui che predava me o io che lo usavo per soddisfare quel desiderio della carne, che mi consumava e sempre più a fatica riuscivo a dominare.

 

-   ... l'amore è roba per fighette che ha rovinato il mondo ...

 

Quello che Franco non capiva è la pietas che invece provavo io per il genere umano. L'ultimo giorno che c'incontrammo nel bosco, dopo avermi morso di nuovo, insinuò che amoreggiassi con Ado perché ci aveva visto alle docce. Non era così, eppure aveva ragione lui perché, anche se parlava come un folle, indovinava sempre gli istinti da cui cercavo riparo invocando la morale dei sentimenti. Secondo la sua filosofia avrei dovuto fottere lo storpio allo stesso modo di come lui fotteva me. Era solo una questione di carne e sangue in cui non doveva entrarci nessuna pietà, da cui sarebbe scaturito l'inevitabile sentimento.

 

-   . mi hai deluso ragazzo ... rimarrai quello che sei, un buco per svuotarci i coglioni dentro.

 

Quel giorno Franco mi disse che l'indomani sarebbe partito per la battuta di caccia ... lo sapevo e non mi dispiaceva. Mi sarei aspettavo niente di più del nulla che ogni volta seguiva i nostri incontri; invece sentì il bisogno di sputarmi il suo disprezzo addosso.

Secondo lui l'amore era un'invenzione del cristianesimo introdotta per fiaccare la volontà virile dell'era classica; beh, almeno si potevano tradurre in questo modo quei suoi vaneggiamenti sull'eroismo dell'era greco/romana. L'apocalisse ai suoi occhi si sarebbe definitivamente abbattuta sul mondo, nel momento in cui gli eunuchi di Dio avrebbero sovvertito l'ordine naturale delle cose, trasformandoci tutti in fighette senza spina dorsale.

 

Dopo esserci lasciati, andai direttamente a sedermi al tavolo a fare colazione ... mangiai, anche se non avevo appetito, perché un predatore ha bisogno della fame per dare un significato alla propria vita. Il brusio delle chiacchiere tutte intorno, mi solleticava gli orecchi come sarebbe stato per un lupo ascoltare il belare delle pecore.

Stavano dunque così le cose? Avrei dovuto vivere teso a soddisfare un appetito vorace che presto o tardi si sarebbe ripresentato, reclamando ancora un'altra vittima sacrificale? Un rapporto ambiguo quello del cacciatore e la preda, dove il primo si crede il più forte, ma è lui che dipende dall'altra.

 

Sperai in quell'indifferenza ostentata da Franco, come fosse un callo che mi dovesse crescere sul cuore affinché un giorno non provasse più sofferenza. Ero solo un adolescente cui servivano delle risposte e non sapevo ancora che l'apatia è solo una forma di castrazione dell'animo. Franco fu il peggior maestro che potessi incontrare e si vantava tanto della sua indolenza, quando in realtà era solo uno stolto che si beava della propria idiozia.

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  • 1 month later...
Silverselfer

Floppy 04/48

 

Il livore di un'aurora che non riusciva a far arrossire l'alba, rendeva il cielo luminoso come la vetrata turchese di una cattedrale gotica. Le montagne tutte intorno disegnavano il ciglio di una fossa, sui cui crinali la bruma scivolava fino a valle. Quei miasmi umidi del bosco facevano ingrossare le ossa come zeppe di legno a divaricare l'anima, che oramai a stento tratteneva un urlo di dolore.

 

Una strana inquietudine mi premeva il petto rievocando dall'oblio antichi fantasmi. L'istinto di fuggire per lasciarmi dietro paure e incertezze, rendeva trepidante l'attesa del futuro e quella notte mi aveva fatto rivoltare nella tenda per tutto il tempo, con gli orecchi tesi a cogliere il primo scricchiolio del nuovo giorno.

 

Il camper di Paolo aveva il motore acceso da parecchio tempo, quando decisi di uscire tirando su la cerniera del mio k-way. Saranno state poco meno delle cinque del mattino, ma un gran trambusto di gente già si agitava nel fermento della partenza imminente. Erano gli uomini accampati vicino al torrente che smobilitavano per andare alla battuta di caccia al cinghiale.

 

Jamil mi ordinò di aiutarlo a riavvolgere la tenda parasole del camper di Paolo. Quando tornai a guardare verso il loro campo, le luci dei fari accesi allungavano le ombre e macchiavano di luce l'erba del prato circostante. Le tende si erano afflosciate e rapidamente venivano ripiegate per essere caricate nei fuori strada. Immobile, rimasi in attesa di quanto non speravo nemmeno che accadesse.

 

-   Doberman, togli quel muso lungo, sarà per la prossima volta …

 

Mi disse Paolo, dopo che lo avevo visto arrivare premendo sui passi per risalire il declivio che portava al torrente. Indossava anche lui una mimetica e degli anfibi con una targhetta sulla giubba che indicava il nome del suo animale totemico: Lupo Bianco.

 

-   Gli metto io la museruola a questo qui …

 

Rispose Jamil al posto mio, usando quel suo solito modo antipatico con cui sapeva sminuire gli altri. L'animale totemico di Jamil era la civetta e il suo brutto muso ci somigliava parecchio. Paolo anche aveva nello sguardo ed esprimeva nella gestualità la fierezza di un misterioso lupo bianco. Mi era stato spiegato quanto lo spirito guida permei la radice della nostra anima terrena. Del resto io stesso avevo riconosciuto fin dal primo momento, qual era l'animale totemico di Franco: un orso grizzly, con il pelo dorato e la possanza che esprimeva la sua mole.

 

-   Jamil è un buon tracciatore, saprà insegnarti …

 

Paolo aveva tenuto una sorta di serata rituale prima della partenza con gli uomini del campo e ci aveva portato anche me. Fui presentato come suo figlio e durante la cena, quando il più anziano di quegli uomini domandò a Paolo come mai non gli aveva mai parlato di me, lui meditò allungo una risposta, poi abbandonò la forchetta nel piatto e mi cinse le spalle con il braccio. Disse che ero la risposta alle sue preghiere, allo stesso modo di quando il Signore inviò Seth ad Abramo per compensarlo della perdita di Abele. Sentii immediatamente il peso di quell'investitura e parve che anche gli altri se ne accorsero. Mi guardarono tutti in modo forse anche un po' guardingo, cercando d'indagare chi fossi per suscitare tanta stima nel loro venerando capo.

 

-   Ei vecchio bastardo! E chi sarebbe Caino?

 

Gli chiese Franco, dopo aver sputato una risata forzata e prima di allontanarsi bestemmiando peggio di un demonio. Paolo riprese la forchetta e infilzò la bistecca, di cui tagliò col coltello un altro brandello che poi masticò lentamente come nulla fosse accaduto e gli altri fecero lo stesso.

 

-   Farlo essere ancora un gregario alla sua età è un insulto …

 

Durante la serata scoprii che quelli non erano semplicemente una squadra di caccia al cinghiale. Alberto, ad esempio, era stato un commilitone di Paolo e lo aveva seguito quando abbandonò l'esercito. L'animale totemico di Alberto era il tasso, ma tutti lo chiamavano: vecchio tasso, per via della sua età. In quella che pareva essere una sorta di tribù pellerossa, Alberto ricopriva il ruolo del saggio che dispensa consigli al grande capo.

 

-   E' tuo figlio e dovresti avere più fiducia in lui …

 

La cena era continuata in un'atmosfera di baccanale intorno al crepitante falò. Ci sedemmo in gruppetti che continuarono la serata separatamente, ma fissando tutti chissà cosa che si agitava tra le fiamme. Paolo era seduto in terra con una postura informale che lo faceva sembrare più giovane, mentre Alberto aveva portato con sé una seggiola da campeggio. C'era anche Jamil con noi che per tutta la serata non aveva aperto bocca. Assaporavano insieme un grosso sigaro cubano dall'odore aromatico molto intenso. Il vecchio tasso stava intercedendo per Franco presso suo padre. Paolo pareva non ascoltarlo mentre seguiva con lo sguardo il figlio che si ubriacava di birra.

 

-   Lo sai che è proprio alla tua età che un giovane apache diventa uomo?

 

A un certo punto Paolo iniziò a parlarmi dei riti iniziatici che i pellerossa usavano compiere nel momento in cui un ragazzo della mia età diventava uomo. Alberto tacque, comprendendo quanto fosse impossibile rimuovere le convinzioni di Paolo su quel figlio che paragonava a Caino. Il vecchio tasso conosceva meglio di chiunque altro il lupo bianco, e capì che si sarebbe dovuto abituare alla mia presenza. Mimando una gentilezza poco acconcia alla sua figura rude, si rivolse a Polo sorridendomi per chiedergli se avevo già trovato il mio spirito guida.

 

-   Tua madre mi ha raccontato di quando il cane di tuo zio …

 

Rommel era il doberman che i miei zii avevano messo di guardia alla loro villa non lontana dal casale dei nonni. Loro non c'erano mai e al cane pensava la madre di mia zia, una donna alquanto singolare. Semianalfabeta, Amalia viveva in una dependance diroccata della bella casa della figlia. Aveva quattro cani, un numero imprecisato di gatti e un montone di nome Pasquale che le era più fedele di tutti e quattro i cani messi assieme. Usava parlare con i pomodori e ogni altra verdura del suo orto che poi andava a vendere al mercato del paese con un carretto dal manico lunghissimo.

 

-   Oi Ni', a 'ndò te ne vaje a cossì locco locco?

 

Usava dirmi ogni volta che mi vedeva vagare senza meta nel campo davanti casa sua. Mi offriva i fichi che faceva essiccare rivoltandoli pazientemente su una pietra bianca. Li prendevo direttamente dalle sue mani incartapecorite, dopo che con due dita ci aveva spinto dentro una mandorla sgusciata.

 

-   Il doberman ti rincorse …

 

Rommel era un cane assai mordace e non risparmiava nessuno. I padroni anche lo temevano e la stessa Amalia, dopo essere stata morsa, gli gettava il cibo oltre il cancello senza aprirlo. Nonostante tutte le precauzioni, il cane spesso trovava il modo di scavalcare il muro di recinzione e tutto il colle oramai viveva nel terrore di trovarselo dinanzi.

 

-   Fruscta via … fruscta via … sciò …

 

Non ricordo chiaramente cosa quel giorno Amalia aveva dimenticato nel cortile di casa, ma io lo trovai e pensai bene di rincorrerla per portarglielo mentre con il carretto si avviava al mercato. Correvo con tutta l'energia delle mie gambe di bambino e non sapevo quanto questo potesse aizzare un cane. Così, quando percorsi la strada davanti ai cancelli della villa, Rommel fu preso da una tale foga che scavalcò e mi rincorse.

Come sempre succedeva quando il doberman scappava, un tamtam d'allarme risuonò rapido da finestra in finestra e da una di queste si levò un grido di spavento. Io ero troppo preso dalla corsa e non mi accorsi di nulla, fin quando vidi Amalia venirmi incontro beccheggiando sulle sue gambe storte brandendo un bastone.

 

-   Fruscta via … fruscta via … sciò …

 

Mi bloccai e Rommel in quel momento avrebbe potuto sbranarmi; invece, quando mi voltai per vedere cosa Amalia stava cercando di spaventare con quel bastone, guardai dritto nelle iridi color nocciola il doberman che non mi sembrò inferocito … che non mi faceva paura. Dopo quell'istante in cui ci guardammo dritti negli occhi, il cane sternutì per liberarsi il naso dalla mia traccia odorifera e come niente fosse, se ne tornò indietro saltellando sulle sue unghiute zampe, facendo danzare lo stretto garretto dalla coda mozza.  

 

-   Ti tornò spesso in sogno dopo che fu ucciso …

 

Che sia stato davvero miracolato da qualche santo come sostennero tutti? Non lo so, certo è che le persone continuarono a raccontare l'accaduto aggiungendoci sempre qualche dettaglio più spettacolare. Sicuramente lo sguardo fisso delle iridi di Rommel s'impresse per sempre nella mia memoria e dopo che un altro zio, stufo della condizione di terrore in cui la bestia aveva ridotto il circondario, gli sparò un paio di fucilate … Rommel mi venne a trovare in sogno e mai in modo ostile; anzi, sovente mi proteggeva dagli incubi notturni che mi tormentavano. Per il vero ricordo chiaramente di aver confidato una sola volta a mia madre questo piccolo segreto, ma lei da allora non smise più di andarlo a raccontare a tutti.

 

-   E' matto come un dobermann …

 

Sghignazzò Jamil ad Alberto che invece prendeva quella storia molto seriamente. Jamil, però, quella volta mi sa che aveva ragione. Lele, senza conoscere la storia di Rommel, mi aveva appioppato il nomignolo di dobermann proprio perché diceva che mi veniva lo stesso sguardo da matto.

 

-   Ragazzo, non dar retta a queste dicerie, il dobermann è la sintesi di un soldato perfetto …

 

Precisò Alberto, prima d'iniziare a raccontarmi le imprese di Hans, un dobermann che riuscì a srotolare mille metri di cavo tra due reparti di trincea tedeschi sotto il fuoco di fila francese o Andy che guidò la compagnia M americana alla conquista di una postazione giapponese. Nessun marines in pattuglia guidata da un "Devil Dog" del First War Dog Platoon perse mai la vita in esplorazione. I dobermann erano implacabili inseguitori, tracciatori silenziosi e infallibili stana cecchini, intrepidi messaggeri ed eroici fino alla morte. Mentre ascoltavo quelle storie, mi si gonfiava il petto d'orgoglio.

Alberto concluse dicendo che Rommel era diventato feroce perché a un dobermann non devi mai togliere il padrone che ama visceralmente, sarebbe stato come levare un angelo dal paradiso che senza Dio diventerebbe un demonio … a stento trattenni le lacrime perché io mi sentivo proprio così.

 

"Fatemi venire con voi"

 

Non pronunciai queste parole ma al solito neanche riuscii a dissimulare il trambusto interiore che Alberto mi aveva suscitato. Paolo mi allungò una mano sulla spalla creando quel contatto umano di cui avevo bisogno. Mi disse che la prima lezione che avevo da apprendere era quella di saper aspettare e forse fu l'unica che non seppi mai imparare.

Tornato in tenda, trascorsi l'intera notte tormentato da un istinto che non sapevo definire. Era una sorta di trepidazione più forte di ogni altro tipo d'innamoramento. Era come se tra le fiamme di quel falò avessi scorto un barlume di memoria futura che ancora non sapevo riconoscere.

 

 

Seconda Parte

 

Uno dopo l'altro, i fuori strada mi sfilarono davanti senza accorgersi di me. La risacca acustica di quei motori che giungeva rapida e accecante, mi travolse allontanandosi; lasciando dietro di sé solo l'odore acre del diesel incombusto; un graffio sulla memoria di cui non mi sarei più separato.

 

Era trascorso meno di un mese da quando ero partito da Roma, eppure l'esistenza cui sarei dovuto tornare presto, appariva remota e inutile. La mia vita che continuava a scorrere a una velocità impressionante, rendeva quegli uggiosi giorni ancora più lenti.

Il bel tempo c'era stato giusto per un paio di settimane, ma già da prima che gli scout partissero, spesso nelle prime ore del pomeriggio in cielo si alzavano imponenti cirri, nella cui pancia qualche reboante scroscio d'acqua era sempre pronto a guastare qualsiasi iniziativa.

 

Dal bosco iniziarono a venire giù rigagnoli di acqua piovana che ristagnava nel prato del campeggio, formando delle pozze di fango nei punti dove l'erba era più rada. Il torrente era tracimato sulle zone alluvionali e una mattina gli agenti della forestale fecero trasferire tutti sul pianoro, dove sorgeva il chiosco. Paradossalmente la temperatura continuava a salire e solo nella speranza che questa facesse rimettere a bello la stagione, che qualche stoico turista ancora sopportava il disagio di quella situazione.

 

Le attività del campo sociale risentirono molto del peggioramento atmosferico, anche perché i temporali si lasciavano dietro una leggera pioggerella che continuava a cadere anche quando rispuntava il sole. Da quando poi Paolo se n'era andato, Jamil pensava unicamente a spassarsela con la sua amorosa e solo i disabili avevano ancora qualcuno che si occupava di loro. Tutti si radunavano al riparo nella tenda mezza sgonfia della Croce Rossa per trascorrere la giornata tra i giochi di società che organizzava Sandra, una scout rimasta con noi per assistere una ragazzina ceca.

 

Inspiegabilmente Sandra si era invaghita di me e usava Ado per intercedere per suo conto. La faccenda m'infastidiva molto perché così facendo si era infilata tra noi due. Lei era una ragazzetta della mia stessa età anche carina con la sua carnagione olivastra, i capelli ricci e degli occhi limpidi come un lago alpino. Apparteneva però a quel genere di persone che mi lasciavano completamente indifferente come se provenissero da un altro pianeta.

Ado si era intestardito nel volermi trascinare in quella situazione di convivialità, che li rendeva tutti sereni e felici. Tuttavia, per me era una condizione del tutto simile al momento della ricreazione scolastica. Quando le rassicuranti regole venivano meno, non riuscivo a espormi con quella temibile società aliena.

 

Per riuscire a legare con un gruppo, avevo necessità di persone in grado di formare una cima e una bitta d'ormeggio che mi trattenessero. Da solo non riuscivo a trovare una complementarità in grado di vincolarmi attraverso il bisogno.

Ado, nonostante avesse quei limiti fisici che lo rendevano dissimile dagli altri ragazzi, condivideva con loro i medesimi desideri. I quali li spingevano a legare le proprie cime d'attracco sulla bitta di un porto per darsi reciproco ristoro. I miei bisogni, invece, erano diversi e mi attraevano verso il mare aperto.

 

Navigando in solitaria, iniziarono a soffiare quei ragionamenti che, nel tentativo d'imbrigliare nelle vele una qualche rotta capace di governare le correnti oceaniche, mi condussero anche quella volta su una deriva interiore.

Avevo bisogno di punti di riferimento stabili, stelle fisse che non mi avessero abbandonato ogni qual volta superavo la linea equatoriale della mia sessualità.

In quei giorni era la bonaccia a gonfiarmi il petto d'inquietudine. Sarei voluto essere trascinato via, invece rimanevo immobile, allora analizzavo il recente passato alla ricerca di quegli Alisei capaci di condurmi verso nuovi approdi.

 

Amavo il bosco per la sacralità che m'ispirava la complessa architettura del creato. Mi perdevo insieme all'eco del cinguettio tra le volte delle navate che formavano i colonnati d'alberi. Mi pareva di respirare Dio quando un raggio di luce filtrato da una vetrata di chioma d'albero, fendeva l'aria illuminando il pulviscolo della vita in cui mi muovevo.

M'innamorai di Marica perché pareva comprendere l'immensità in cui mi sentivo abbandonato. Lei che nei suoi occhi aveva l'innocente spietatezza di una natura capace di guardare la morte senza lasciarsene impietosire. Marica era uno spirito silvano fragile e impalpabile come un filo di luce … eppure coriaceo e intangibile nella consapevolezza di essere parte di un insieme cui non sarei mai appartenuto.  

 

Sempre in quel bosco incontri l'orso, il predatore che della natura ne esprime la volontà. Se con Marica avevo trovato io un titolo alla magia con cui sapeva imbrigliare il mio cuore, Franco mi trascinò di peso in un racconto cui facevo parte mio malgrado.

Lui conosceva gli anfratti nascosti del corpo che sfuggivano al mio controllo, costringendomi ad abdicare alla loro dissennata ragione.

Mi diceva "toccami" e a quale ordine sarei stato più felice di obbedire? Mi diceva "guardalo" e una stretta allo stomaco accompagnava la visione di quanto mi era stato proibito. Si prese da solo quello che non avrei mai acconsentito a dargli, eppure non mi offendeva tanto la ferocia di quel suo grufolare sulla mia schiena, quanto la fretta con cui si tirava su le braghe, abbandonandomi ai vendicativi appelli dell'orgoglio ferito. 

 

"Almeno respira cazzo!"

 

Lui m'invitò a servirmi di quel suo corpo che troncava il fiato solo a guardarlo. Toccare ogni porzione della sua pelle, fu come svelare la serie d'ipocrisie con cui fino a quel giorno avevo mistificato la verità.

Si stancò presto di me perché sentirlo scavarmi la carne non mi produceva le reazioni che si aspettava.  Franco non m'impose mai nulla che non volessi anch'io e finì per farsi interprete anche dei no che non riuscivo a pronunciare. 

 

"Noi due apparteniamo alla stessa razza, capito?" Ribadiva battendo la sua fronte contro la mia, ogni volta che scrutava un dubbio nel mio silenzio.

 

Appartenevamo alla stessa specie non solo per quei gesti che ci accomunavano nel piacere fisico. Lui ragionava come me con una logica binaria; cioè, ogni pensiero si evolveva insieme alla sua nemesi, nel senso che ogni "sì" aveva in corpo il "no" che lo condannava. La sostanziale differenza tra noi stava nel fatto che io optavo sempre per la terza risposta suggerita dal buon senso. Franco, invece, irrideva ogni aspetto del conformismo e con piglio mefistofelico, escludeva la risposta più sensata solo per il gusto di negarne la validità.

 

Il piacere di lasciarci andare alle febbricitanti peripezie delle sinapsi provocate dall'hashish, c'impegnava per buona parte del tempo. Solo dopo, quando l'acme di una discussione si spezzava all'improvviso, la tensione intellettuale diveniva istantaneamente fervore che c'infiammava l'istinto. A quel punto lui mi aggrediva, quasi volesse con quel gesto farmi soccombere dinanzi all'incontrovertibile verità che aveva nel corpo.

 

"E che cazzo!Gliene avrei dati almeno un paio di più …".

 

Franco preferiva i maialini da latte perché la carne di porco gli faceva schifo - tradotto - Era attratto dai ninfetti ancora imberbi come Davide e prese a fare basse insinuazioni su cosa combinavamo quando rimanevamo soli in tenda per tutta la notte. Gli avevo lasciato credere di essere come lui sotto ogni aspetto e allora presumeva sempre dei secondi fini nella mia disponibilità verso gli altri. Fece di tutto per convincermi delle delizie cui mi sottraevo per meri preconcetti morali. Mi suggeriva i modi per irretire Davide e poi trascinarlo nel bosco, dove mi avrebbe insegnato a mordere la sua mela proibita. Oramai temevo che una notte di quelle lo avrei visto irrompere nella mia tenda, fu così che sottrassi qualche anno alla vera età di Davide e almeno questo lo spaventò un poco.

 

"Quegli stronzi se la presero solo con me, invece gli piaceva eccome a quel frocetto".

 

Franco si vantava di come perse la verginità abusando del fratellino durante le vacanze al mare. Paolo all'epoca era in Yemen per conto dell'ONU e la moglie era una suora laica votata alla salvezza delle puerpere keniote. Lui e il fratello vivevano in collegio da quei porci di preti e si ricongiungevano ai genitori solo per un breve periodo estivo, che trascorrevano in una graziosa villetta a Santa Marinella, tranquilla località balneare a nord di Roma.

 

Franco nutriva un amaro risentimento verso quei genitori così impegnati a salvare l'umanità, da non accorgersi d'ignorare i bisogni affettivi dei figli.

"Mamma, Franco ha detto questo" oppure "Papà, Franco ha fatto quest'altro"; il fratellino godeva nel metterlo continuamente in cattiva luce con quegli stronzi. I quali finirono per considerarlo migliore di lui che, invece, trascorreva quelle settimane nell'unico intento di dimostrargli il proprio disappunto.

 

"Il Generale non lo voleva in camera perché s'ingroppava la madonna santissima per tutta la notte".

 

Il fratellino aveva paura a dormire solo e fu così che gli sistemarono un letto nella cameretta di Franco. All'epoca lui stava sempre a cazzo dritto e appena sveglio se non gli tirava il collo almeno due volte, col cavolo che riusciva a fargli suonare l'ammaina bandiera.

Tutto iniziò proprio di mattina, quando il fratellino gli chiese cosa stava combinando. Franco preferì spiegargli lui cos'era una sega, piuttosto di lasciarlo fare a qualche prete bavoso, ma niente di più della teoria perché in pratica quello aveva tra le cosce una tellina ancora da schiudere.

Siccome al fratellino bastava un manico di scopa tra le gambe per partire all'impazzata in rodei scavezzacollo, Franco gli propose una variabile di quello spasso che lo divertiva tanto.

 

Franco mimò il gesto con cui si sistemò il fratello cavalcioni sul bacino e lo trattenne per i fianchi mentre lo sconquassava in groppa alla sua libido. La prima volta non accadde nulla d'irreparabile, ma a quel frocetto gli era piaciuto eccome cavalcare il suo bastone! La mattina dopo e anche quella a seguire gli chiese ancora di montare in sella e continuò anche dopo che iniziò a spingerglielo in corpo. Nonostante la spavalderia che ostentava, Franco non era orgoglioso di quello che aveva fatto e si sentiva in colpa, ma allo stesso tempo non accettava il biasimo cui il padre poi lo condannò a vita.  

 

"Come se non lo sapesse anche lui come va il mondo".

 

Franco mi raccontò una strana storia che disse di aver ascoltato in Africa. Prima che Maometto importasse la mala pianta dell'ebraismo tra gli arabi, questi diceva che erano dei gran porci e se lo buttavano nel culo peggio dei satiri greci. Loro non credevano in Adamo ed Eva, ma pensavano che il mondo fosse iniziato con una donna che si fecondava da sola attraverso un clitoride lungo come un serpente. Questa però partoriva solo femmine sterili come succede per le termiti e le api.

Quando la Dea Madre iniziò a partorire figlie storpie, si avvide che presto nel suo limo nessun seme avrebbe più germogliato; quindi si aprì il ventre con le mani e vi trasse due gemelle siamesi unite per la schiena. Le separò e cucì loro il sesso.  Alla prima lasciò fuori il clitoride così da permettergli di crescere, mentre all'altra lo tagliò definitivamente, lasciando poi solo un pertugio nella cucitura donde un giorno avrebbe accolto quello della sorella. Nacquero così maschio e femmina, entrambi sterili singolarmente, ma insieme erano capaci di procreare altri maschi e altre femmine incomplete.

 

Da questa credenza scaturirono diverse congetture, come quella che in alcune tribù africane faceva cucire la vagina per preservarne la fecondità o un'altra ancora più cruenta, che imponeva il taglio del clitoride temendo che inducesse le donne a usarlo per trarne piacere con altre femmine.

Diverse leggende derivarono per i maschi che formandosi femmine nella pancia delle madri, solo dopo parecchi anni dalla nascita sarebbero diventati veramente uomini. In questo periodo c'era un precetto da osservare per non pregiudicarne lo sviluppo corretto. Si dovevano salvaguardare come tesori le piccole uova fertili contenute nella vagina suturata, a tale scopo si proibiva di abusare dei bambini quando ancora erano considerati delle femmine.

Questo precetto era ispirato dalla convinzione che nell'ano ci fosse una sorta d'imene, il quale permetteva di avere un amplesso interno con la vagina suturata. L'imene dei bambini era soffice come un petalo di rosa e custodiva delizie particolari perché incorrotte dall'infezione del mondo, una tentazione cui era molto difficile resistere.

 

Forse quella storia ricavata da tante credenze popolari si raccontava veramente in Africa, di certo c'era solo che era stata messa insieme per alleggerire la coscienza da certi delitti. L'intento che spinse Franco a raccontarmela stava solo nel convincermi della relatività di quello che mi era stato insegnato come "sbagliato".

 

Dopo l'arrivo di Paolo e specialmente quando sopraggiunse la squadra di caccia al cinghiale, i nostri incontri clandestini s'interruppero. In seguito alla cena con i cacciatori, Franco mi cercò di nuovo, ma solo per vendicarsi di quell'investitura ricevuta dal padre. M'insultò perché lo avevo ingannato due volte: la prima volontariamente inducendolo a credere che fossi come lui, la seconda volta perché indirettamente lo avevo spinto a compiere quello stesso gesto che anni prima gli aveva sottratto per sempre la stima del Generale.

 

Successivamente alla partenza di Paolo, ebbi modo di guardare con un poco di prospettiva il recente passato. Provavo vergogna per il totale annichilimento cui mi aveva ridotto sia l'amore provato per Marica che mi aveva esposto sulla pubblica gogna, sia la potente volontà di Franco che alla fine mi aveva inflitto lo stigma del sodomita. Riconducevo tutto alla vulnerabilità di quelle prede create per soccombere tra le fauci dei cacciatori. Istintivamente ricorrevo ancora agli insegnamenti della Zia Pina, che mi spingevano a maneggiare con cinico distacco anche quanto mi avrebbe dovuto premere più dell'orgoglio.

 

In fondo Franco non aveva nessuna colpa. Fui io che lo fagocitai avvelenandomi delle sue certezze perché ne avevo bisogno. Ero confuso ed estremamente spaventato da quello in cui mi stavo trasformando così rapidamente. Mi sentivo come un X man che scopre di avere un potere negato al resto dei sapiens. Questo lo avrebbe reso agli occhi della gente un freak spaventoso o ridicolo e tra le due opzioni ritenni di gran lunga più dignitosa la prima.

 

Terza parte

 

Venne giù una notte d'apocalisse. Eppure negli ultimi giorni il caldo sembrava essersi ristabilito. Il vento sopraggiunse fin dal mattino e dopo pranzo fece levare dei nembi che finirono per oscurare il cielo. Verso il tardo pomeriggio iniziò a piovere intensamente, ma almeno le raffiche di vento parvero placarsi. Dopo cena, quando eravamo già tutti in tenda, presero a scrocchiare certe saette che illuminavano a giorno. Le raffiche di pioggia si fecero sempre più intense, rinforzate dal vento che scuoteva il telo della tenda come se ci fosse qualcuno che lo prendesse a calci.

 

Jamil venne a chiamarci e mi rimproverò per non aver pensato da solo ad abbandonare la tenda. Ado era probabilmente l'unico che quella notte era riuscito a prender sonno. Dovetti spiegargli io che stava venendo giù il diluvio universale. Gli ordinai d'infilarsi il Kway mentre non riuscivo a chiudergli i tutori sugli stinchi. Avrei voluto portarlo via di peso, ma figurarsi se accettava di farsi portare in braccio. Si agganciò i tutori da solo, ma quando fummo fuori dalla tenda comprese la gravità della situazione e si lasciò portare a cavacecio.

 

La scena era d'apocalisse con il cielo squarciato dai fulmini e il vento che ti prendeva a schiaffi con delle secchiate d'acqua capaci di scaraventarti a terra. I rigagnoli d'acqua che scendevano dal bosco erano diventati dei getti di fango che sparavano sassate micidiali, tanto che preferii passarci lontano, ma non è che l'altra via fosse più sicura. Il chiosco del campeggio, che era la sola costruzione in muratura, si trovava in fondo al piazzale il cui pianoro finiva con un declivio abbastanza scosceso sul torrente. Io evitai di guardare di sotto, ma sentivo chiaramente il roboante moto di quel mostro fluido che si rivoltava a pochi passi da me.

 

Le persone non ci stavano tutte nella piccola sala della tavola calda, anzi, già per entrare nel bar del chiosco dovetti farmi largo tra la gente che si era accampata per terra. Ogni volta che scrocchiava una saetta, si levavano urla atterrite e non solo delle donne. Il più spaventato era proprio il custode del campeggio che piagnucolava invocando la Madonna della Candelora con un cero acceso. Jamil aveva preso in mano la situazione e insieme a dei turisti tedeschi aveva organizzato una piccola squadra di pronto intervento.

 

-   Che cazzo stavi aspettando?

 

Jamil riprese a inveirmi contro appena entrai nel chiosco. Indubbiamente avevo indugiato troppo per venire via dalla tenda; anzi, se Jamil non mi avesse chiamato, probabile che ci avrei trascorso il resto della notte. Non che non mi fossi accorto del temporale, tuttavia Ado dormiva tranquillamente e la mia tenda seppur sconquassata non aveva dato segni di cedimento. Io neanche ci arrivavo a immaginare un cataclisma del genere!

 

-   Non funziona un cazzo qui dentro.

 

La situazione sembrava peggiorare e il timore che precipitasse in qualche evento catastrofico iniziava a innervosire persino Jamil. Oramai ci trovavamo in fondo a un catino che minacciava di riempirsi vorticosamente d'acqua. La parete del chiosco che dava verso la montagna era bersagliata da misteriosi colpi che si facevano sempre più frequenti. Tanto che la gente non ci voleva stare lungo quella parete, ma gli altri non accettavano di stringersi più di quanto non lo fossero già per accoglierli dal loro lato. Al solito il testosterone fece saltare i nervi a qualche maschio che pur di fare qualcosa, cercava di attaccare briga ma Jamil risolse l'anarchia nascente menandone uno … e finalmente la folla si sentì più sicura.

 

-   Doberman che si fa?

 

Mi disse Jamil solo per sentirsi coadiuvato da una squadra. Chiedere aiuto era la cosa più sensata da fare, ma figurarsi se il telefono non si era isolato. Mi venne in mente la radio CB modificata di Franco che riusciva a prendere anche le frequenze della forestale. Dedussi che stando tra quelle montagne anche il campeggio ne possedesse una … Sì, ce n'era una, però il custode ci disse che se il gruppo elettrogeno non ripartiva, senza corrente quella non poteva certo funzionare. Jamil pretese di vederla lo stesso perché sosteneva di saperla accendere anche con una batteria d'automobile. In realtà la radio era assai "moderna" ed era predisposta per andare a batterie … ben sedici torcioni da un volt e mezzo, praticamente una batteria d'automobile. Nel chiosco ne trovammo solo sette pacchi, ci mancavano altre due batterie. Io ne avevo ben sei nel mio stereo portatile e mi offrii subito per recarmi a prenderle, ma Jamil pretese di andarci lui.

 

La radio CB funzionò bene e la Forestale rispose subito al nostro appello, rassicurandoci che sarebbero arrivati appena possibile … Per fortuna la bufera si chetò improvvisamente e anche i torrenti che venivano giù dalla montagna diminuirono d'intensità. La Jeep della forestale arrivò verso le sei del mattino, quando tutte le persone nel chiosco avevano ceduto allo stress e sonnecchiavano una sull'altra. Ci dissero che dovevamo evacuare perché quel luogo non era sicuro.

Il campeggio era devastato da una colata di fango. I camper solo stavano ancora al loro posto e Jamil si sganasciò dalle risate a vedere la mia tenda che era rimasta in piedi come nulla fosse accaduto. Io non trovai divertente la faccenda e l'avrei buttata giù a calci quella caspita di tenda, che sembrava un monumento eretto in nome della mia diversità persino nella sciagura.

 

Un po' sui camper e un po' sui mezzi della forestale, fummo tutti trasferiti in un paio di pensioni di Pescasseroli, dove aspettammo il torpedone che la mattina seguente ci avrebbe riportato in città. Quella sera io e Jamil la trascorremmo insieme. Lui rideva parecchio e dire che non aveva neanche toccato un goccio. Io lo sapevo che aveva trovato l'hashish nello stereo, chi altro lo poteva aver sottratto dal suo nascondiglio? Certo però che accusarlo di starsi a fumare la mia droga fu una mossa alquanto azzardata …

 

-   Sporco ebreo!

 

Mi rispose, quando gli chiesi che fine aveva fatto l'hashish, a parte quello che s'era già fumato ovviamente. La sua ilarità lasciò immediatamente posto a un risentimento rabbioso. Disse che Paolo si poteva scordare che avrebbe insegnato qualcosa a uno della mia razza. Secondo lui appartenevo a una nefasta genia di macellai; anche se era lui che si dichiarava pronto a sgozzarmi nel sonno come un capretto. Seppure fossi al corrente del risentimento islamico verso gli ebrei, sapevo anche che Jamil era cristiano. Del Libano conoscevo solo quanto letto nei libri di geografia o le storie che raccontavano i telegiornali sulla missione di pace italiana … non potevo neanche lontanamente concepire gli accessi di violenza cui probabilmente Jamil era stato testimone.

 

-   Scusa, mi hanno detto che sei uno dei volontari del campo sociale.

 

Mi ero alzato quando Jamil dormiva ancora della grossa, solo per rovistare nelle sue tasche e riprendermi l'hashish. Quell'infame se l'era fumato quasi tutto! Così avevo rollato meno di uno spino per andarmelo a fumare sulla veranda della pensione davanti la reception. Lui lo notai subito quando scese dal suo UAZ. Aveva qualcosa di famigliare, ma non potevo certo sapere perché. Dopo qualche istante che era entrato nella pensione, tornò fuori e venne a chiedermi se ero uno dei volontari del campo sociale evacuato la notte prima.

 

-   No.

 

Beh, che c'è? Non ero mica uno dei volontari.

 

-   Strano perché ci sei solo tu e mi hanno detto … che uno dei volontari stava qui fuori … a fumarsi una canna.

 

E io che mi stavo bruciando il palmo della mano nel tentativo di non farmi sgamare!

 

-   Sai fiutare pure di cosa?

 

Gli dissi dopo aver aspirato e poi sbuffato il fumo.

 

-   In genere per scoprirlo noi usiamo i cani antidroga.

 

Cioe?!

 

-   Lo sai leggere questo?

 

Mi esibì un tesserino, ma lo ritrasse così in fretta che altro di memoria fotografica ci sarebbe voluto per leggere di cosa si trattava.

 

-   Il principio attivo di quello che mi sto fumando è inferiore al contenuto di lattosio nel baffo di cappuccino che hai sulla bocca.

 

Beh, che voleva arrestarmi per quella miseria di fumo che Jamil mi aveva lasciato? Lui mi fece persino tenerezza per l'imbarazzo che gli avvampò il viso, mentre con il palmo della mano si sbrigò a pulirsi la bocca …

 

-   A quanto pare sei abbastanza testa di cazzo per essere uno dei collaboratori di mio padre …

 

Padre! In che senso - Padre?

 

-   Il responsabile del campo è Jamil …

 

Stanza 666 e ora puoi andartelo a cercare dritto all'inferno. Fino all'ultimo cercai di convincermi che stava parlando di qualche altro padre.

 

-   Lui è doberman … il grandissimo figlio di puttana che non t'invidio come fratello.

 

Ehilà! Non potevo aspirare a una presentazione migliore.

 

-   Io sono Bruno …

 

Era Bruno! Rodeo con manico di scopa tra le cosce … frocetto che gli piaceva cavalcale eccome … Mister mamma Franco a fatto questo e quell'altro …

 

-   Io non ci trovo niente da ridere.

 

Accidenti alla ridarella chimica … Ma che ne so, sembrava una commedia degli equivoci.

 

Jamil mi urlò l'ordine di svegliare e radunare tutti al punto di concentramento prestabilito per l'imbarco sul torpedone in arrivo da Roma. Il bastardo ci godeva a esibire la sua autorità, però quella volta gli fui grato di smarcarmi da quella situazione imbarazzante.

 

-   Lo vedi che anche i cani bastardi sanno fare i pecorari.

 

Jamil commentò così la puntualità con cui avevo eseguito il suo ordine, tanto che era lui quello che giunse in ritardo, quando era già da una mezz'ora che stavamo aspettando sul piazzale. Fino a quel giorno avevo abbozzato la sua arroganza, ma ora iniziava proprio a irritarmi.

 

-   … e dove ti credi di andare con la tua roba pronta?

 

Ci godeva proprio a umiliarmi. Io avevo messo il mio sacco insieme con quelli di tutti gli altri, ma non sarei partito con loro.

 

-   Torniamo a casa insieme.

 

Mi disse Bruno per rabbonire la rabbia con cui trassi via la mia roba dal mucchio. Se c'è una cosa che m'infastidisce, è suscitare la compassione altrui. Gli porsi un vaffanculo con lo sguardo e mi feci dare le chiavi della sua macchina.

 

Ero così incazzato che mi dimenticai di Ado, ma lui seppe come farsi ricordare. Stranamente compresi tutto quello che aveva da dirmi con i suoi versi strambi. Voleva che quello non fosse un addio, invece per me lo era e avendo imparato come ascoltare le parole che non sapevo pronunciare, capoccione com'era, Ado pretese che gli annotassi il mio numero di telefono sul diario. Quelle pagine erano piene di frasi simpatiche scritte con calligrafie dagli accenti esagerati … il mio brevissimo nome e quei numeri dal tratto scarno e poco uniforme, parvero così inadeguati e fuori luogo. Tuttavia mi stupii il calore con cui anche tutti gli altri si fecero avanti per salutarmi. Certo non avevo fatto nulla per meritarmi il loro affetto, eppure ricordo ogni benevolo sguardo di quelle persone con cui condivisi un'estate straordinaria.  

 

Aspettai che il torpedone partisse seduto sugli scomodissimi sedili della macchina di Bruno. Ripartimmo alla volta del campeggio perché dovevamo recuperare quello che restava della tenda della Croce Rossa, che andava comunque restituita. Io mi rigiravo tra le mani la lavagnetta che mi aveva lasciato Ado. Ci aveva scritto il suo indirizzo con il numero di telefono. Avrei dovuto trascriverlo da qualche parte perché la polvere di gesso di quelle lettere si sarebbe persa presto nel tempo. Alla fine decisi di compiere il solo gesto che c'era da fare e cancellai tutto col palmo della mano.

 

-   Quel ragazzo non mi è parso così antipatico.

 

Nonostante quei due apparissero impegnati con le chiacchiere sul lavoro da fare, Bruno evidentemente mi stava tenendo d'occhio dallo specchietto retrovisore e quando mi vide cancellare la lavagnetta, mi disse qualcosa che sul momento non pensavo fosse rivolta a me. Fu così che Jamil si mise in mezzo di nuovo. Insinuò che essendo un caprone non avessi sentimenti e allora io gli spaccai la lavagnetta di Ado in testa. Quello si tenne la capoccetta tra le mani giusto il tempo di sincerarsi che non gliela avessi spaccata. Dopo si lanciò sul sedile posteriore deciso a suonarmele. Per fortuna che gli spazi angusti del fuoristrada non gli dettero modo di menare i colpi che ben avrebbe potuto infliggermi. Ne risultò invece una zuffa che comunque gli dette ragione. Mi torse un braccio fino quasi a staccarmelo per riuscire a immobilizzarmi.

 

Quarta parte

 

"Sappiamo che uno più uno fa due, ma se il mondo vuole credere che faccia tre, anche noi fingeremo che sia così". La Zia Pina mi aveva sempre messo in guardia dalle mie stranezze. Sosteneva che nessuno racconta quello che pensa, proprio perché deve fingere di essere come gli altri. "Devi imparare a temere il giudizio della gente" mi diceva. "La Zia si è messa al collo questo crocefisso" una bella croce d'oro con un brillantino su ogni stigmate del buon Gesù "proprio perché è un simbolo di appartenenza che ti mette al riparo da chiunque voglia additarti come diverso".

 

Il campeggio era completamente deserto e le cose rimaste della permanenza degli esseri umani, parevano le vestigia di un'antica civiltà spazzata via da qualche cataclisma biblico. Il torrente, anche se ancora impetuoso, era rientrato nel suo alveo mentre gli enzimi gastrici del bosco avevano cominciato nuovamente la loro lenta digestione. Solo la mia tenda incardinata sui suoi paletti, sembrava avulsa da quella palingenesi.

 

Nessuno di noi aveva voglia di rimanere in quel posto più dello stretto necessario e ci mettemmo subito a lavoro. Quello che restava della tenda della Croce Rossa era diventato dello stesso colore del fango che aveva ricoperto tutto. Bruno convenne con Jamil che se volevamo riaverla ancora in grado di essere riparata, avremmo dovuto procurarci dei badili.

Quando loro due tornarono in paese per comprarne un paio e rimasi da solo, per la prima volta provai paura verso quel bosco da cui gli scout avevano sempre cercato di mettermi in guardia.

 

Il sospiro degli alberi si levò con un silenzio che pareva celare minacce invisibili. Mi asserragliai nel chiosco con un certo panico che mi faceva tremare curiosamente le mani mentre cercavo di mettere insieme la cena. Iniziava a far buio e non c'era luce elettrica, quindi uscii per andare a prendere la lampada a gas abbandonata nella mia tenda. Quando fui lì dentro e ritrovai le cose come le avevo lasciate … non so bene cosa mi prese. Rimasi paralizzato dal terrore e non fui più in grado di tornare fuori. Richiusi la cerniera della tenda e mi sdraiai nel vano tentativo di respirare normalmente.

 

Erano anni che non provavo più quell'orribile sensazione di asfissia. Da bambino era il buio popolato da Loro, esseri di forma liquida che mi schiacciavano ottenebrando la ragione, a indurmi incubi notturni e panico diurno. Credevo però di esserne in qualche modo guarito insieme alla tonsillite, l'intossicazione di antibiotici e le conseguenti febbri debilitanti.

Era il rumore del torrente che mi paralizzava. Il ricordo della notte prima, quando lo sentii agitarsi come un'entità grande quanto l'infinito stesso, lo amplificava al punto che dovevo impedirgli d'incunearsi dentro di me attraverso il respiro, esattamente come accadeva con Loro.

 

Bruno e Jamil mi trovarono mentre cercavo istintivamente di resistere a tutto questo irrigidendo ogni muscolo del corpo, una pratica che mi faceva tremare come un epilettico. Esattamente come tanto tempo prima era la mano di Angela che poteva rassicurarmi, mi tenni a quella di Bruno che lentamente mi tirò fuori dalla buca emotiva in cui ero finito. Beh, sarebbe potuta essere la mano di chiunque, sta di fatto che quella volta fu la sua.

 

-   Sono solo delle crisi nervose.

 

Così mi era stato insegnato a dire e in questo modo cercai di spiegare quello che era accaduto.

 

-   Tu sei matto.

 

Risolse Jamil masticando a bocca aperta la pasta scotta condita con una passata di pomodoro troppo acida.

 

-   Non posso mangiare la roba rossa.

 

Risposi a Bruno che mi aveva chiesto perché non stavo mangiando.

 

-   Te l'ho detto che è matto.

 

Ribadì Jamil sghignazzando. Stanco delle sue provocazioni, mi alzai per andarmene a dormire in tenda ma Bruno mi fermò perché voleva che restassi con loro nel chiosco.

 

-   Lui non dorme mai …

 

Jamil disse che se rimanevo lì, lui se ne sarebbe andato a dormire in macchina.

 

-   Lo abbiamo visto con tuo fratello Franco …

 

Se facesse dell'umorismo arabo non saprei dirlo, ma Jamil sostenne che con Franco si erano accorti che fingevo solo di andare a dormire, ma in realtà passavo la notte nel bosco come una sorta di licantropo.

 

-   Questo è posseduto e ci ammazza nel sonno.

 

Mi stava dando del demonio rendendomi in qualche modo responsabile anche del nubifragio che c'era stato, adducendo come prova il fatto che avrei aspettato al sicuro nella mia tenda "stregata" fino al mattino, quando oramai loro sarebbero stati morti.

Stavo sperimentando il lato terrorizzante che esercita il freak mostruoso sulle persone che temono la diversità come un sintomo del caos.

 

-   Jamil ora basta!

 

Gli disse Bruno, credendo che stesse solo vendicandosi del bernoccolo che gli doleva in testa.

 

-   Chiediti perché questa roba che ti ho cucinato … io non l'ho mangiata.

 

Se voleva sputtanarmi come un demonio, allora avrebbe anche dovuto cominciare a temermi. Jamil sputò nel piatto e poi tentò di aggredirmi, ma Bruno lo fermò in tempo. Me ne andai come avrei voluto fare fin dall'inizio, curandomi di farlo con calma perché le bestemmie che ruminava in quella sua lingua per cammelli, erano un alleluia per la mia gloria di dannato.

 

Certo che potevo anche fingere che tutto questo mi rendesse più forte, ma in realtà finiva per evocare altri fantasmi. Ero ancora stato dipinto come il piccolo mostro che andava a riscuotere il soldo dell'usuraia ebrea. Avrei dovuto sapere almeno io che le cose non stavano così, eppure è difficile non specchiarsi nel riverbero che lo sguardo degli altri ci appiccica addosso. E' sempre la paura che ha la meglio sulla ragione ed è così che i vigliacchi si gratificano della propria meschina e paranoica esistenza.

 

Spezzai in due l'ultimo frammento di hashish per cercare di fumarmi tutte le etichette che presto o tardi la gente mi avrebbe appiccicato, compresa quella di "drogato".

 

-   Quella merda non ti farà stare meglio.

 

Bruno mi raggiunse in tenda con una coperta e senza chiedermi se poteva restare, si distese sul materassino. Io rimanevo seduto perché avevo una spalla dolorante. Era da un pezzo che mi faceva male per via di un placcaggio durante gli allenamenti di rugby, ma la colluttazione con Jamil della mattina aveva reso il dolore lancinante.

 

-   Non sono cazzi che ti riguardano.

 

Bruno non faceva altro che parlare, parlare e parlare … mentre io cercavo d'ignorarlo perché era così … bello. Mi dicevo che dovevo proprio essere un mostro se lo trovavo attraente ... dopo quanto c'era stato pure con suo fratello. Sarò stato frocio ma cazzo … anche con lui! E dire che persino Polo non mi lasciava indifferente … insomma, mica potevo farmi tutta la mia nuova famiglia, o sì?

Bruno fisicamente aveva ripreso dal padre: né alto né basso, muscoloso quanto bastava per non essere smilzo, portava i capelli rasati allo stesso modo ma ovviamente non erano grigi. Gli occhi, invece, anche se dello stesso colore, erano diversi da quelli autorevoli del padre o folli del fratello. Bruno aveva degli occhi buoni che proprio non gli riusciva a nasconderli dietro uno sguardo distaccato.

 

-   Adesso basta con sta mondezza!

 

Ma vaffanculo! Di punto in bianco mi risvegliò dagli sragionamenti sfilandomi dalle dita quello che rimaneva della canna e la gettò fuori dalla tenda.

 

-   Innomineiddio! Ma non vedi come ti riduce?

 

Se Franco il mondo lo avrebbe volentieri tirato giù nel cesso, Bruno andava predicando la salvezza dell'anima manco fosse San Domenico.

Certo che stavo un po' intronato, però non era certo a causa di quella mezza canna. Erano quasi due giorni che campavo di cracker e in bocca avevo solo il retrogusto metallico della rabbia mal digerita di Jamil.  Mi ci mancava proprio lui con le sue prediche … ma chi era? Chi lo conosceva? Da dove si era partito a …

 

-   Aoh, mi stai a sentire?

 

"Aoh" lo dicevo io a lui! Ma non mi menò una sberla perché sosteneva che stessi per svenire.

 

-   Quel bastardo mi ha slogato una spalla.

 

Il dolore fisico è sempre più semplice da raccontare in due parole; almeno trovai qualcosa dove Bruno potesse concentrare la sua vocazione alla salvezza dell'umanità.

 

-   Rilassa il muscolo … ecco, così … va meglio?

 

Direi che andava "divinamente". Si era sistemato dietro di me e sostenendomi con un braccio, con l'altro mi faceva compiere dei movimenti rotatori alla spalla.

 

-   Sdraiati che ti faccio un massaggio.

 

Pure! No, visto che c'era poteva anche farmi un lavoretto di mano, perché nel frattempo me lo aveva fatto venire durissimo …

 

-   Ti faccio tanto ridere?

 

Ma no … erano le cazzate che mi passavano per la testa a farmi ridere. Lui era fin troppo gentile. Roba che manco me lo ricordavo se c'era mai stato qualcuno che si fosse presa tanta pena per me.

 

-   Avanti … raccontami qual è la tua incredibile storia.

 

In che senso?

 

-   Tutti quelli che hanno a che fare con mio padre ne hanno una.

 

Beh, diciamo che Paolo mi si era un po' ritrovato compreso nel pacco di mia madre.

 

-   …

 

Che avevo detto di così strano da farlo ammutolire improvvisamente?

 

-   Hai conosciuto Franco?

 

Direi di sì.

 

-   Che impressione ti ha fatto?

 

Dopo tutto mi aveva aperto gli occhi su cos'ero veramente … forse sbagliando … forse aveva scelto il modo meno indicato per farlo; tuttavia era ancora troppo presto per capirlo e in quel momento sentivo di volergli in qualche modo bene.

 

-   Allora gli devi proprio aver fatto una buona impressione.

 

Paolo aveva parlato prima con i figli del proposito di adottarmi e Franco si era opposto con forza. Certo che potevo immaginare la veemenza con cui sostenne le proprie ragioni.

 

-   … anche per me non è facile capire questa sua decisione.

 

Evidentemente non conoscevano bene mia madre e la sua paranoia di dovermi procurare un cognome decente.

 

-   …

 

Beh, le cose o me le diceva tutte o se le poteva pure tenere per sé. Se gli stavo sulle palle, bastava dirlo. In fondo era comprensibile il timore che la loro torta si stesse dividendo in porzioni più piccole; anche se si sbagliavano, perché non avrei mai accettato neanche una briciola caduta dalla loro tavola di merda … e poteva pure smetterla di lisciarmi il pelo. Almeno Franco il suo disprezzo aveva avuto il coraggio di sputarmelo in faccia.

 

-   … sembri tua madre che …

 

Eccone un altro! Magari se avesse parlato, chiaramente, non sarei finito per saltare a delle conclusioni affrettate.

 

-   E meglio riparlarne domani quando saremo entrambi meno agitati.

 

Il signor "ne riparliamo domani"a me sembrava fin troppo calmo. Per quanto mi riguardava quel discorso si poteva già dichiarare chiuso.

 

-   Ne riparleremo domani e ora mi fai il favore di dormire … sempre se non hai intenzione di andare nel bosco a ululare alla luna …

 

Uh, che ridere! A me non sembrava proprio il caso di …

 

-   Zitto! E dormi.

 

Quinta parte

 

Facile dormire quando non hai il crampo della fame che ti rivolta lo stomaco per tutta la notte. Verso le quattro del mattino andai al distributore automatico a spendere gli ultimi spiccioli che avevo in tasca. Tornai in tenda con un paio di Mars e un disgustoso tè in lattina che mi avrebbe provocato dei rutti acidi.

Bruno russava quanto un vecchio camion e misi in pratica quello che avevo visto fare sempre a mia madre con Primo, cioè gli tappavo il naso fino a quando non sbuffava con le labbra. Era comico ed era anche curioso come quell'estraneo mi apparisse famigliare. Sembrava un bambino mentre dormiva e con due dita della mano sfregava la coperta … lo stesso vizio che aveva Vanni che non andava da nessuna parte senza la sua copertina di Linus. Bruno riprese presto a ronfare però ne fui contento, era rassicurante sentirlo mentre, finalmente, scivolavo in un delizioso dormiveglia.

 

Ero persino riuscito ad addormentarmi quando sobbalzai sentendomi strattonare per un piede. Era Bruno che mi chiamava. Se ne stava accoccolato sulle gambe all'imbocco della tenda con un bicchiere di carta in mano.

 

-   Jamil ha scassinato il bar e ci ha preparato un bel cappuccino caldo.

 

No, grazie. Il caffè mi uccide e poi la nausea per la reazione chimica tra il tè e il caramello, mi avrebbe tolto la fame almeno fino a mezzogiorno.

 

-   Ma devi mangiare qualcosa!

 

No, non mi andava di dirgli che nottetempo ero andato al distributore automatico di schifezze, chissà cosa avrebbe pensato di me. Io non ero un fottuto licantropo. Mi gettai i capelli lunghi davanti per nascondere un imbarazzante rossore che mi avvampò il viso.

 

-   Almeno un tè …

 

Sì, come no! La doveva piantare con tutte quelle premure … non c'ero abituato e mi mettevano in imbarazzo. Legai in fretta le stringhe sui rivetti degli scarponi da trekking per cavarmi via da quella situazione il più presto possibile … ma come avrei fatto se prima lui non si fosse spostato da lì?

 

-   Allora?

 

Allora, cosa?

 

-   Pe … per favore … mmi fai uscire.

 

Ecco, ci mancava pure che la pecora ricominciasse a singhiozzare. Non so cosa mi prese, ma per tutto il giorno cercai di ripetere che non era così, che era tutto riconducibile a quello che avevo provato con Franco, che poi mi passò non appena si era tolto dalla mia vista. Dovevo solo lasciar passare del tempo e non c'era nulla da preoccuparsi se la sua vicinanza mi faceva venire il morbo di Parkinson …

 

-   Ei Mo, passami quella fune … attento però alla spalla.

 

Dannato lui e la sua gentilezza. Stava sempre a preoccuparsi di me e non mi chiedeva qualcosa senza prima avermi chiesto scusa. Uffa, preferivo Jamil che mi dava del caprone, almeno riuscivo a mandarlo affanculo senza balbettare; invece quel suo sorriso che gli faceva strizzare gli occhi m'incasinava la sinapsi del cervello.

 

Nel pomeriggio tuonò di nuovo un temporale e anche Jamil iniziò a guardare preoccupato i rigagnoli d'acqua che ripresero a scendere dal bosco. Disse che non ci sarebbe rimasto un'altra notte in quel posto ed io approvai.

Lavorammo sotto la pioggia e prima di sera quella dannata tenda era sgonfia e piegata al punto da riuscire a entrare nel carrello attaccato dietro la jeep di Bruno. Eravamo zuppi fradici, ma in un certo senso felici. Jamil mi parlava non più come a un ebreo e ora gli screzi avuti sembravano unirci. Ripartimmo che mi sentivo proprio bene, riconciliato con il mondo intero.

 

Ci fermammo alla stessa pensione dove avevamo pernottato la notte dopo il diluvio universale. Avrei preferito che Bruno mi avesse preso una singola solo per me o almeno una stanza con tre letti, invece ne prese due e quindi significava che io l'avrei divisa con lui.

Eravamo inzaccherati oltre che bagnati ed era ovvio che la prima cosa da fare era una doccia … appunto.

 

-   La doccia è tutta tua … togliti da quella finestra che l'umidità …

 

Zitto, porca miseria! Sarò stato pure libero di buscarmi un raffreddore, o no? Avevo fatto male i conti e forse sarebbe stato meglio fare io per primo la doccia.

 

-   Sbrigati che il bagno è ancora caldo e poi tu fumi troppo ragazzino.

 

Gna … gna … gna. Si fosse piuttosto vestito invece di andarsene in giro per la stanza in mutande. No, era proprio meglio correre in bagno e levarsi da quella situazione.

 

-   Tu sei uno che parla poco, vero?

 

Sotto la doccia invocai il Signore che sta in alto nei cieli affinché lo facesse stare zitto, invece, no! Continuava a dire a chiedere a fare congetture sulla "nostra" nuova situazione famigliare. E sì, io parlavo poco.

 

-   Bruno non lo sai che gli ebrei mangiano solo patate lesse?

 

Avevo ordinato un'insalata di patate lesse, che c'era di strano? Ma no, Jamil doveva per forza prendermi in giro anche per questo. E poi ero ebreo nella stessa misura che lui poteva essere alto biondo e teutonico, cazzo!

 

-   Bau … Bau … ringhia proprio come un doberman.

 

E lui rideva proprio come una fottuta civetta.

 

-   Non so cosa ci trova tuo padre in questo stupido caprone.

 

Stupido un par di palle. La cosa più fastidiosa è che anche Bruno rise di me, quando dissi a Jamil che neanche in dieci vite avrebbe potuto leggere tutti i libri che io conoscevo già. Ero stato bocciato a scuola, ok … ma questo non significava niente. Insomma, quei due mi stavano giudicando per quello che non ero e allora affanculo.

 

-   Dove vai, caprone … te l'ho detto Bruno che gli ebrei non sanno stare agli scherzi.

 

Mavammoriammazzato.

 

Me ne tornai in camera deciso a non rivolgere più la parola neanche a Bruno. Presi l'ultima cannetta rimasta e la mischiai alla penultima Marlboro. Era proprio giunto il tempo di tornare in città. La mia vita non mi parve più distante come qualche giorno prima, ero pronto a ricominciare e soprattutto volevo riprendermi il titolo di secchione.

 

-   Ho notato quante cartacce ammucchiate che ne avevi in tenda.

 

Bruno mi seguì in camera e mi portò due Mars! Aveva dedotto quanto mi piacesse quella divina delizia dagli incarti vuoti sparsi nella mia tenda. Beh, ora però che aveva da guardarmi in quel modo? Oddio, non è che gli sembravo un cane cui avevano lanciato il biscottino!

 

-   Ma no … è che sembri più grande … invece … quanti anni hai? Quindici? Sedici?

 

Tecnicamente sarei stato un uomo se fossi nato tra gli Apache.

 

-   Vedo che mio padre ti ha già trasmesso la sua fissazione per i nativi americani.

 

Dopo mangiato, una canna è proprio quello che vi vuole.

 

-   Quella merda ti procurerà un sacco di guai … soprattutto con il Generale.

 

Paolo avrebbe fatto bene a preoccuparsi di quanta se ne fumavano i suoi fidi scagnozzi … e specialmente Franco.

 

-   Mio fratello andrebbe internato in un manicomio.

 

E cosa gli avevano fatto di male quei poveri matti per meritarselo?

 

-   … non puoi fumare davanti a me … insomma … dovrei impedirti di rovinarti con …

 

Ma quanto parlava! Era dunque lui Abele, il figliol prodigo … mi chiedevo perché Paolo credeva che Caino lo avesse "rovinato".

 

-   Doberman, giusto? E' la prima volta che sento di un doberman come animale totemico ...

 

Bruno stava seduto sul ciglio del letto con lo sguardo di chi è messo alla sbarra. Era lui l'uomo ma in quel momento la sua fragilità mi rendeva il più forte. Volevo ricominciare il discorso sospeso la sera prima, invece lui cercò di dirottare la conversazione sulla stranezza del mio animale totemico.

 

-   Che vuoi che ti dica? Oramai non ci aspettavamo che si risposasse … la morte di mia madre fu per lui …

 

Bruno abbassò lo sguardo quando iniziò a parlare della madre. Sì vedeva chiaramente quanto le aveva voluto bene e il suo ricordo gli immalinconisse il cuore. Lei morì in un incidente stradale in Africa, ma il padre fu sempre convinto che si trattasse di un attentato ordito da qualche stregone delle tribù locali, i quali ritenevano le occidentali missionarie portatrici del malocchio.

 

-   … ha ragione Jamil a dire che sei presuntuoso e arrogante …

 

Ok, era un argomento delicato e avrei fatto bene a tenere per me il mio sarcasmo … però non gli pareva di stare a prendere il discorso un po' troppo da lontano?

 

-   Mio padre ha lasciato l'esercito per mettersi a dare la caccia ai suoi assassini … lei era la sua unica ragione di vita e pensavamo che sarebbe rimasto fedele alla sua memoria.

 

Adesso capivo anche perché a Franco quel Madonna di madre gli stava tanto sulle palle.

 

-   Tua madre è così diversa da lei.

 

Beh, che c'è? Quella santa donna di "sua madre" i bocchini li faceva solo in ginocchio?

 

-   Smettila … sembri Franco quando parli così.

 

E lui che doveva piantarla di trattare mia madre come una fruttarola di seconda scelta.

 

-   Scusami … scusami … sto sbagliando tutto … perdonami, non volevo …

 

Non la piantava più di scusarsi, quando in realtà c'ero andato giù duro e non se lo meritava … ecco che mi faceva sentire in colpa … uffa!Lo sapevo che avere mia madre in casa poteva essere una vera sciagura, ma che ne sapevo io perché suo padre se n'era innamorato … magari era una dea del sesso e Paolo era stufo di aversi fatto il nodo al pisello?

 

-   Lo sai che è molto facile dimenticarsi che sei solo un ragazzino con evidenti problemi affettivi?

 

Ragazzino un par di palle.

 

-   Ti conosco da poco, ma capisco solo ora che genere di "caprone" il Generale abbia sempre desiderato per figlio.

 

Che Jamil mi desse del caprone poteva anche farmi piacere, ma perché lui? Cosa gli avevo fatto in quei due giorni da meritarmi tanto disprezzo?

 

-   Mio padre forse è anche più matto di Franco … del resto è stato lui a ficcargli in testa tutte quelle follie come gli animali totemici.

 

Santo cielo! Quel giovane uomo aveva i lucciconi agli occhi mentre cercava di ringhiare una rabbia che non sapeva esprimere. Avevo dinanzi il ragazzino che fece di tutto per smentire la convinzione di un padre che non lo riteneva abbastanza virile. Immaginavo lo sforzo che aveva fatto per guadagnarsi quel tesserino da carabiniere e che pure non era valso a niente. Caino aveva reso Abele una debole, tenera, amabile … appetitosa preda.

 

-   Vedo che ti ha iniziato a istruire anche sulla storia dei predatori e … immagino che ti senta molto orgoglioso di essere uno … stronzo come loro.

 

Veramente era stato suo fratello a "istruirmi" più di quanto avrebbe mai potuto fare Paolo con tutte le sue convinzioni etiche, usate solo per imbellettare una realtà al solito ben più squallida nella sua crudezza. Mi chiedevo fin a che punto quella storia africana raccontatami da Franco, trovasse credito nella famiglia cui ero entrato a far parte, perché spiegava perfettamente il motivo che spingeva Paolo a pensare che il suo figlio prediletto fosse stato compromesso nella propria virilità quando era ancora un bambino.

 

-   Io non fumo neanche le sigarette.

 

Ma che bravo ragazzo! Mi voleva forse far credere di non averci provato a fumare quegli affascinanti sigaroni di papà, nel vano tentativo di convincerlo che si sbagliava sul suo conto? Lui e suo fratello, due fallimenti rimpiazzati da Seth … era questo che gli faceva rodere il culo a tutti e due.

 

-   Che stai facendo?

 

Esattamente quello che suo fratello aveva fatto a me. Feci ardere bene la canna e poi mi avvicinai, pretendendo che ispirasse direttamente senza trattenere il fumo in bocca, ma non aveva capito ancora cosa intendevo. Ciccai delicatamente, poi misi il braciere della canna in bocca e gli soffiai una lunga tirata di fumo. Ingoiò tutto senza fare una piega, gli tenni la mano sulla bocca perché lo trattenesse e quando espirò, non uscì che un alito di quanto aveva respirato. Neanche un colpo di tosse. Mi guardava fisso solamente. Io gli sorrisi, anche un po’ deluso per quello che doveva essere un colpo di teatro.

 

-   Soddisfatto?

 

Quella volta aspirai prima io tutto il fumo e glielo porsi direttamente dalle mie labbra. Schiuse gli occhi mentre ispirava. Sentii le sue mani risalire lungo l’incavo dei miei fianchi, fin sulla schiena. Non avevo più fiato da dargli, quando le sue labbra si unirono alle mie. Gli tenevo le mani sulle spalle, nel gesto di respingerlo, ma rimasero inermi. Solo quando sentii le sue braccia stringermi troppo a sé, quando sentii repulsa nell’umido della sua lingua che forzava le mie labbra, m’irrigidii incapace di qualsiasi reazione. Non era quello il gioco che avevo fatto con Franco … era completamente un'altra cosa e non ero pronto e … forse neanche la volevo. In fondo ero solo un ragazzino presuntuoso e arrogante …

 

-   Innomineiddio!

 

Mollò subito la presa e iniziò ad andare su e giù per la stanza tenendosi la testa tra le mani. Mi prese per le spalle, poi le mollò come se si scottasse. Mi chiese scusa e anche di perdonarlo. Disse che era colpa di quella roba che gli avevo fatto fumare. S’incazzò e m’intimò di smetterla con le canne. Poi, finalmente uscì dalla stanza e scomparve per tutta la notte.

 

Finalmente avevo capito perché Franco mi respinse quella volta che fui io a provare a baciarlo.

Avevo fatto tutto quello che c'era da fare con un uomo, ma baciarne uno era stato troppo. Mi sentivo disorientato. Avrei voluto non averlo fatto. Avevo scherzato col fuoco e c’ero rimasto scottato. Cercai di dimenticare fumandomi il resto della canna, ma ci rimediai solo un sonno tormentato. Pensavo che peggio di così non potesse andare. Almeno speravo che fosse finita là, ma era solo l’inizio.

 

Per tutta la notte tentai di dare forma con delle parole a un opprimente senso di colpa. Nella mia testa, la ragione indagava furiosamente su indizi e tracce che non mi portavano da nessuna parte.

Era ancora quel confine invisibile che passa tra l'affetto amicale e l'amore che non riuscivo a identificare. Volevo bene a tutti e avrei ben potuto scoparmi l'umanità intera eppure l'amore no, quello era un'altra cosa. Quel bacio era lo stesso che mi aveva unito a Marica senza sconvolgermi. Dove stava la differenza? Che confusione!

 

L’istinto del capidoglio mi toglieva ogni possibilità di fuga, dovevo affrontare il problema a costo di spiaggiarmici sopra.  

Alle sei del mattino ero già in piedi e lo trovai seduto al bar della pensione a ingollare altro cappuccino puzzolente. Chiesi solo un bicchiere d'acqua.

 

-   Sempre mattiniero, ragazzino.

 

Bevvi l'acqua in un sol sorso senza rispondergli.

 

-   Sto parlando con te, ragazzino.

 

Posai il bicchiere sul bancone e provai ad accendermi l'ultima sigaretta del pacchetto di Marlboro, ma non riuscii a mettere in fila quei semplici gesti.

 

-   Ragazzino, sto parlando con te …

 

Non stava dicendo le cose giuste. Credeva forse di risolvere tutto fingendo che non fosse accaduto niente? Me ne andai a fumare sulla veranda.

 

-   Ei, ragazzino!

 

Ragazzino un cazzo. Lo spintonai lontano da me. Almeno Franco aveva avuto il coraggio di dirmi in faccia quello che pensava di me. Ero furioso e nemmeno io sapevo cosa mi stava facendo imbestialire. Il cuore mi pompava adrenalina in ogni parte del corpo e avevo l’affanno peggio che se avessi appena fatto cento metri di corsa. Lo fulminai costringendolo ad ammettere il suo gioco fasullo rifuggendo il mio sguardo.

 

-   Ti prego non mi rovinare … sono sposato … ho un figlio piccolo.

 

E chi se ne frega! Che caspita di film si era fatto in testa per tutta la notte? Cioè, non capivo e non lo sapevo mica cosa mi stava succedendo, maledetto stronzo. Rivoltai un paio di tavolini mentre me ne andavo chissà dove. Mi sarei messo a correre, ma col cazzo che gli davo la soddisfazione di vedermi scappare via. Mi sentii trattenere per un braccio, manco a dirlo, era quello dolorante. Mi voltai di scatto e lui capì che mi aveva fatto male.

 

-   …

 

Non diceva niente il figlio di puttana.

 

-   Dove vai? Partiamo tra una mezzoretta …

 

E chi se ne importa, mi dissi continuando per la mia strada.

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Silverselfer

 

Floppy 05/49

 

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La vita mi aveva insegnato a temere il passato e m'illusi di poterlo dimenticare; invece, lo affogai nella palude oscura che già inquinava il fondo di me stesso, animandola di nuovi spettri senza nome. Ombre minacciose che ancora oggi mi costringono in un instancabile stato d’allerta. Per quanto ci si sforzi d'imbrigliare la paura con la ragione, è una tagliola che quando scatta non ti lascia spazi di manovra … se non le ubbidisci, ti aggredisce.  

 

Altre volte ho tentato di calarmi nell'oblio alla ricerca di questi demoni, ma temo oramai sia come rovistare in un ossario, dove i vermi del presente digeriscono le membra del passato, rendendolo una plasmabile creta capace di prender qualsiasi forma per incasellarsi nella teoria dei fatti. Io non credo sia più possibile ricostruire quei tragici eventi, tuttavia proverò ugualmente a riagganciare gli avvenimenti da cui scaturirono, come fossero i pesanti vagoni di quel treno che alla fine deragliò.

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«Il dolore costituisce la sensibilità del corpo: amabile quando è lieve come una carezza e shoccante se giunge con l'irruenza di un insulto; c'è una soglia oltre la quale si smette di patire ogni strazio, è allora che si finisce in un angolino remoto, da cui il corpo pare un'appendice dalla consistenza gommosa».

 

Il riflesso trasparente sul vetro di un armadietto dei medicinali ritraeva un’immagine distorta di me. Il volto era sformato da gonfiori ridicoli. Gli occhi erano scomparsi sotto il peso dei sopraccigli. Il naso viola era diventato grosso come una patata e qualcosa trattenuto in bocca mi riempiva le guance premendo sulle labbra che, non combaciando, lasciavano colare della saliva rossastra.

 

«Superata la soglia del dolore, ci si lascia travolgere come se fosse naturale abdicare alla ferocia che ci sta sbranando; se sopravvivi, ci metti parecchio tempo a riallacciare tutti i tendini della tua volontà di esistere».

 

Un’infermiera mi puliva le scorticature del volto con un batuffolo di cotone pregno di disinfettante, mentre un’altra ci cavava via il calcinaccio con delle pinzette. Il medico mi premeva delicatamente il torace per cercare di capire se c’era qualche costola rotta, a me facevano male tutte allo stesso modo.

 

«Forse anche la memoria funziona attraverso lo spettro emotivo determinato dalla modulazione del dolore e perdendo la sensibilità smette di registrare gli eventi; si rinsavisce insieme allo scemare del torpore fisico, quando inizi a ricordare il nome degli oggetti che ti stanno attorno».

 

Plafoniera … lampada al neon. La luce al neon esaltava il bianco della tinteggiatura dei muri. Lettiga … ruote di gomma. Il marrone delle croste di ruggine sulle ruote della lettiga era simile al colore delle macchie di sangue sulla tuta della squadra di pallanuoto. Elastico … fango. Erano sporchi di terra i pugni serrati sull'elastico strappato dei pantaloni.

 

«Non serbavo coscienza di come ci fossi giunto in quel luogo dove si stavano prendendo cura di me; continuavo ad aspettare non so cosa, allo stesso modo di quando ero riverso a terra e il silenzio notturno mi aveva avvolto nella sua coltre di tranquillità».

 

Poi arrivarono anche due carabinieri, uno dei quali se ne andò a prendere un caffè. Quello rimasto a sbrigare l’incresciosa grana della serata, taccuino alla mano mi chiese le generalità. Gli rispose spazientito il medico mostrandogli la tessera della piscina. Quando lo sentii scandire il mio nome all’agente, smisi di essere solo un fantasma e istintivamente avvertii il pericolo che mi aveva raggiunto fin dentro quell'ambulatorio.

 

«C'è una relazione stretta tra il dolore e la paura, fu grazie a questa se rinsavii dal torpore in cui ero affogato».

 

Il carabiniere voltò il foglio sul taccuino e mi porse la pagina pulita per farmi scrivere un numero di telefono. Il candore di quel foglio bianco mi diede la sensazione di ritrovare un angolo d’intimità.

I pugni stretti sull’elastico rotto dei pantaloni si allentarono per afferrare la penna. La punta del pollice doleva per la quantità di terra che premeva sotto l'unghia. Avrei dovuto scrivere dei numeri, ma osservai la mia mano tracciare sul foglio delle lettere che non si combinarono, dando forma a una parola estranea.

 

«Essere riconosciuti e concretarsi nello sguardo di chi ci sta dinanzi, ci restituisce un'identità difficile da sostenere quando ci si trova in situazioni mortificanti».

 

Dopo aver mollato l’elastico strappato della tuta per prendere la penna che mi porgeva il carabiniere, dopo aver sporcato l’immacolata intimità di quel foglio con una parola misteriosa, gli occhi s'incendiarono di un pianto che disegnò sulla bocca una smorfia grottesca. Venne via tra le labbra un boccone di sangue mischiato a terra con qualcosa di pendulo in mezzo.

Nella colluttazione con i miei aguzzini, i denti avevano tranciato un pezzo di lingua rimasto attaccato per un esile lembo di carne saturato dalla terra, quella che avevo morso mentre facevano scempio del mio corpo.

 

«Finalmente un ago trafisse il braccio e il limbo mi pervase».

 

Seconda parte

 

 

-          Tutti possono far finta che non sia successo, ma tu no.

 

Mi risvegliai bloccato in un letto d'ospedale, con un collare al collo e il braccio destro immobilizzato in una sorta di saluto fascista. Non mi accorsi di essere ricoverato in un reparto per malattie infettive. Avvertivo solo la distanza siderale che lo sguardo sfuggente di mia madre m’infliggeva. Man mano che il dolore defluiva dal corpo, ne montava uno diverso, era indecifrabile e m’ispirava una profonda vergogna.

 

-          Tanto lo so cosa ti hanno detto, che tutto passerà, che è meglio dimenticare, che stanno facendo tutto il possibile per te. Beh, non è così. Tu ora per loro sei solo un problema che non va risolto.

 

Lo psicologo, quello che PVC avrebbe spavaldamente definito “il pusher del terzo millennio”, si chiamava Jury e lo avevo incontrato la prima volta al pronto soccorso. Era arrivato quando l’infermiera stava cercando inutilmente di farmi mollare la presa sull’elastico rotto dei pantaloni della tuta.

Era il tipico psicologo che pretende di sapere cosa stai pensando. Si aspettava che gli rivelassi la storia che mi avrebbe condannato ... mi ricordai allora di quando Pino decise di diventare muto pur di non confessare il peccato del padre.

Jury si sbagliava quando sosteneva che lo shock mi aveva fatto rimuovere la memoria di quanto accaduto. La memoria è come un libro ed io decisi lucidamente di dimenticare il numero delle pagine su cui c'erano scritti quegli incresciosi ricordi.

 

-          Vorrei anch'io proteggerti da questo schifo, ma hai subito un feroce stupro che per poco non ti uccideva. Sei stato abbandonato sui gradini di un pronto soccorso come un sacco dell'immondizia. Questi sono fatti cui solo tu puoi dare una risposta. Io sono qui per aiutarti a elaborare qualcosa che ormai esiste e devi conviverci. Purtroppo non è possibile fingere che sia stato solo un brutto sogno perché diventerebbe un incubo che ti avvelenerà il resto della vita … tu non ne hai colpa.

 

«La verità bisogna costringerla nel corsetto di qualche mendace virtù per purificarla della sua colpa».

 

Il primo test per l’HIV fu negativo e finalmente la profilassi medica si allentò. Fu un piacere ritrovarmi in una normale corsia d'ospedale accanto a una fabbrica di bollicine che continuava a iniettarmi beatitudine.

Qualcuno venne anche a farmi visita nonostante solo i famigliari stretti fossero a conoscenza di dove mi trovassi.

 

-   Quel povero figlio mio ne ha passate già tante … troppe. Lo capisci?

 

La signora Bianchetti apparse dal nulla con i suoi grandi occhiali ambrati; seduta al mio capezzale mi parlò con glaciale deferenza.

 

-   Quella vostra è una brutta malattia che vi ammala il cervello. Tutte le abbiamo provate … medici, psicologi … persino in America lo abbiamo mandato; ma non c'è stato niente da fare. Quel povero disgraziato di mio marito l'ha riempito di sganassoni, ma niente … niente. Triste a chi capita una croce in famiglia così perché se mi fosse nato storpio, almeno qualcuno mi avrebbe compatito.

 

Ma cosa voleva da me quella donna che si sentiva in diritto di parlarmi dei propri guai? L'avevo incrociata al massimo una decina di volte e non mi aveva mai rivolto il saluto prima. Certo che sapevo chi era. Era la madre di Giacomo, la "sfranta" che faceva marchette con Marcello.

 

-   Non ti stare a credere perché io so tutto. Giacomino mi dice ogni cosa. La rovina di mio figlio è stata l'amico tuo. Giacomino prima non si prendeva quelle schifezze … è stato per quella mondezza che … che … non riesco manco a dirlo cosa s'è messo a fare per comprarsi quella roba! Si vergognava quel povero figlio mio di venirli a chiedere a me i soldi, capisci?

 

Mai sottovalutare il potere di negazione di una madre.

 

Marcello aveva confidato a Giacomo di quanto si era reso complice e lui era corso a chiedere aiuto alla madre che, dopo aver consultato l'avvocato, era venuta da me per sondare la faccenda. Lei non sapeva in che misura suo figlio era coinvolto nella mia brutta storia, ma era consapevole dello sputtanamento che ne sarebbe venuto se lo avessi nominato.

 

-   Te lo dico come se accanto a te ci fosse mio figlio. Voi due avete una buona famiglia alle spalle … a tutto c'è rimedio. Quello là è un drogato figlio di assassini e faremo un favore a tutti se lo togliamo dalla circolazione, capisci?

 

Chissà se Giacomo aveva già risposto di sì alla proposta della madre per incastrare Marcello. Certo era che non potevano farlo senza la mia denuncia … Ero io che avevo il colpo in canna e il dito sul grilletto. Io ero la vittima e per di più minorenne. Quella stronza ma chi si credeva di essere per venire a propormi quella schifezza di accordo? Perché mi sarei dovuto sporcare le mani di merda per risolvere un suo problema? Suonai il campanello e quando arrivò l'infermiera, le scrissi sul taccuino che usavo per comunicare, che quella donna mi stava importunando. Se solo avessi potuto fare lo stesso anche con lo psicologo!

 

-   Ma che sto dicendo? Tu non sei una vittima … quelli che ti hanno dato una ripassata sono i tuoi compari … però hanno fatto male i conti, non è così? Avrebbero dovuto ammazzarti perché ora li tieni tutti per le palle.

 

Jury aveva parecchia fantasia e sicuramente sapeva ricostruire il profilo psicologico di un criminale. Quando iniziai a parlargli raccontando quanto mi era stato chiesto di dire, lui usava le mie parole come i pezzi di un puzzle per ricomporre immagini nascoste. Sovente ci metteva troppo del suo, ma altrettanto spesso ascoltavo dalla sua bocca una verità che neanche io fino a quel momento avevo saputo riconoscere.

 

«Lo vidi sulla porta grattarsi la testa, sintomo dell’imbarazzo che stava provando; si appoggiò al capezzale e poi strizzò gli occhi per abbozzare un sorriso di circostanza … Bruno era solo un codardo venuto a offrirmi la soluzione che lo avrebbe messo al riparo da ogni coinvolgimento».

 

-   E' stata aperta un'indagine … t'interrogheranno, vorranno sapere tutto. Qui non stiamo mica giocando!

 

Che squallore ascoltarlo mentre fingeva di preoccuparsi per me. Si sentiva tanto diverso da quegli altri in fila al mio capezzale, venuti solo per sussurrarmi di non metterli nei guai.

 

-   Io dirò la verità e dovrai farlo anche tu …

 

Avrei dovuto sostenere la sua verità, quella che naturalmente gli avrebbe parato le chiappe.

 

-   Io … non puoi negare che ho fatto tutto il possibile per tenerti lontano da quei brutti ceffi.

 

Erano sempre gli altri i cattivi che avrei dovuto sacrificare all'altare della giustizia dei buoni.

 

-   Innomineiddio! Li difendi ancora dopo quello che ti hanno fatto?

 

Andavo assolto dalle mie responsabilità solo perché mi avevano rotto le ossa? Faceva comodo a tutti separare l'effetto dalla sua causa perché se parlavo delle mie colpe, avrei denunciato anche i loro peccati.  

 

-   Alla meno peggio perderei il lavoro … mia moglie mi lascerà sicuramente e Francesco … penserà che suo padre è un pedofilo … un mostro che stupra i … Tu lo sai che non è così, giusto? Allora aiutami … giuro che sparirò dalla tua vita … chiederò un trasferimento …

 

La sola persona cui pensavo di poter chiedere aiuto, mi supplicava di salvarlo. In fondo aveva ragione a dire che la sua unica colpa era stata quella di volermi bene. Lo avrei voluto abbracciare mentre piagnucolava seduto accanto al letto, rassicurarlo che mai e poi mai gli avrei fatto del male.

 

«Mi sentii così sozzo da ritenere io per primo impronunciabili le mie colpe …».

 

-   Ti hanno già sistemato in questa clinica per ricconi, dove un medico firmerà tutte le perizie che gli metteranno sotto il naso. Beh, ragazzino almeno non ti credere furbo perché quello che ti stanno facendo è forse peggio di quanto hai già subito. Ti porteranno via da questo ospedale dalla porta d'uscita dell'obitorio, pensaci …

 

Jury non lo riuscii mai a ingannare. Giocai con lui tutto il tempo come Tom e Jerry: mi costruiva le trappole in cui io fingevo di cadere per convincerlo della giustezza di alcune sue ipotesi che mi facevano comodo. Tuttavia si accorgeva del subdolo inganno e allora, piccato, mi diceva in faccia la verità sperando inutilmente che la sua versione fosse più cruda di com'ero solito raccontarmela da solo.

Su una cosa però mi stupì, effettivamente l'ambulanza che venne per condurmi in clinica, scese dalla rampa dove i carri funebri usavano caricare i morti dall'obitorio.

 

Terza parte

 

 

«Era facile letteratura il prototipo del ragazzino che si lascia trascinare in storie di droga dall'amichetto malvagio, fino a prostituirsi per procurarsi un piacere che lo trascinerà nelle grinfie dei propri aguzzini, tuttavia individuava un volto da dare al male che non deve appartenere alla società dei giusti».

 

Malattia infettiva in clinica significava avere una stanza tutta per me con le tende alla finestra, quadri alle pareti che ritraevano rassicuranti paesaggi bucolici, mobili di legno e un bel lampadario al posto delle plafoniere al neon. Da lì dentro il mondo appariva un po' più lontano e anche le incresciose decisioni da prendere per risolvere il mio problema, divennero più facili da accettare.

 

«Raccontai quanto mi aveva suggerito Bruno, certo non per desiderio di giustizia come sosteneva lui … ma per "quieto vivere". Indicai solamente le teste che poi caddero come mele mature non per quanto mi era accaduto, ma per altri affari che gli cucivano l'abito della colpevolezza addosso».

 

Giunto in clinica, fu divulgata la causa ufficiale del mio ricovero: ero rimasto vittima di un incidente in motorino. Durante la prima settimana di degenza, mi passò dinanzi tutto il parentado in parata d'onore, con la mamma che raccontava in modo così accorato la sua pena, da sembrare crederci anche lei a quell'accozzaglia di raffazzonate menzogne.  

 

-   Lasciate che vi presenti un ragazzo d'oro, lui è il miglior amico …

 

Venne a farmi visita anche quel ragazzo d'oro di Toni e non lo stavo riconoscendo con i capelli spettinati e la barba castana sulle guancie, mentre la mamma lo presentava a tutti come il mio miglior amico. Ero felice che non si fosse presentato anche lui all'ospedale per chiedere venia al mio capezzale.

 

Se non ci fosse stato Jury a dirmi che avevo superato "il primo test contro l'AIDS", a me non lo avrebbe spiegato nessuno perché mi trovavo in un reparto di malattie infettive e gli inservienti si mettevano i guanti prima di toccarmi.

Del test Elisa non sapevo nulla e credevo semplicemente di averla scampata dopo il primo test negativo eseguito in ospedale. C'erano, invece, da superare gli altri due test durante il famigerato periodo finestra. Di tutto questo me ne parlò proprio Toni e solo per spiegarmi il motivo per cui non voleva avere contatti intimi con me.

Lui era veramente un ragazzo d'oro e non si meritava certo di essere trattato come uno svuota coglioni. Sembrerà anche brutto a raccontarsi, ma avevo le mie ragioni per insistere tanto.

 

Trascorsa la prima settimana "glam" con la gente a fare la fila fuori alla porta per farmi visita, nella mia stanza ci entravano solo i medici e il mio campanello risuonava in infermeria come un calcio nel culo. Per non pisciare nel pappagallo dovevo rotolare giù dal letto a causa di un busto che mi bloccava dall'altezza dei fianchi al collo, riuscivo appena a tenermi il pisello in punta di dita! Per giunta quell'affare mi dava un prurito maledetto che mi faceva venire crisi claustrofobiche.

 

Mia madre veniva tutte le mattine per aiutarmi a lavare perché non volevo che quell'oggetto non ben identificato dell'inserviente mi ravanasse le pudende, ma poi si rivedeva la sera e se non ci fosse stato Toni sarei potuto impazzire in quel letto. Lui stava con me tutti i giorni. Puntuale come un orologio svizzero, arrivava dopo pranzo e svolgevamo i suoi compiti di scuola. La domenica mattina mi comprava yogurt greco e biscotti, la mia colazione preferita. Sopportava ogni crisi di nervi e con la sua faccia da schiaffi suppliva ai miei deficit comunicativi con il personale della clinica.

 

Toni mi accontentava in tutto e aveva anche portato del potpourri profumato. L'avevo chiesto decine di volte a mia madre, ma non me lo comprava perché era un costume che mi aveva insegnato la Zia Pina. Lei me lo regalava sempre quando da bambino ero malato ed io non glielo avevo mai fatto mancare durante i suoi ultimi giorni di vita … perché la malattia puzza e attira gli sciacalli … e ora volevo quel cazzo di potpourri e nessuno me lo portava.

 

Insomma, ero infinitamente grato a Toni e non volevo certo mancargli di rispetto quando gli chiesi di farmi una sega. Se poteva inzuppare i biscotti nello yogurt e imboccarmi, poteva anche darmi una mano in quel senso, no? In effetti, non era la stessa cosa ma quella non sarebbe neanche stata la prima volta che …

 

-   Beh, mettiti un guanto di gomma …

 

E uno non ci pensa mai a questo tipo di esigenze, ma erano quasi due mesi che non potevo masturbarmi. A parte le prime settimane che ovviamente trascorsi ben lungi da certi pensieri, poi sopraggiunsero le disgustose polluzioni notturne e non so se esista umiliazione più grande di vedere la propria mamma pulire la sborra rappresa che t'incrosta le palle.

 

-   Lo vedi anche tu che con quest'affare che mi blocca le spalle non riesco manco a prenderlo in mano per pisciare!

 

Nello stesso istante in cui vidi Toni, mi venne duro e ne fui felice perché Jury sosteneva che non sarei più riuscito a farmi toccare da qualcuno. Per provarmelo mi aveva carezzato la guancia ed effettivamente fui scosso da un brivido violento come una scossa elettrica. Jury mi aveva minacciato dicendo che non esistevano medicine per quel genere di malattia, che mi sarei dovuto curare da solo … ed io non volevo perdere tempo.

 

-   Tanto faccio subito che sto pieno come un litro in una bottiglia da un quarto.

 

La prima volta si mise un guanto di gomma senza farsi pregare molto perché andava anche a lui, però quel maledetto di Jury aveva ragione e dovetti allontanare la mano di Toni abdicando alla volontà del mio corpo. Esiste un'intelligenza atavica nelle nostre cellule che si esprime nel linguaggio elementare del dolore e la paura che questo scatena nell'istinto rettile del nostro cervello. Il patimento sofferto da ogni oncia della mia carne mi troncò il respiro dal terrore e quella volta ci volle l'infermiere per sedare il panico in cui piombai.

 

-   Solo tu puoi aiutarmi.

 

E lo so … lo so che era da bastardi costringere Toni facendo leva sul suo buon cuore. Tuttavia non potevo certo passare il resto dei miei giorni a tirarmi seghe da solo. Toni, poverino, la prima volta si era preso uno spavento tale che mi ci vollero un paio di giorni per convincerlo a riprovarci.

Pretese però di fare a modo suo: per gradi. Iniziò a carezzarmi semplicemente la mano e devo dire che la misura era talmente colma che eiaculai lo stesso.

In barba ai nefasti auspici profetizzatemi dallo psicologo, superai facilmente quell'accidenti di brivido terrorizzante e fin dal primo "successo", chiesi a Toni il bis e il giorno dopo non volli aspettare neanche un minuto per riprovarci, così via fino a sentirmi veramente liberato quando feci dei veri e propri fuochi d'artificio.

 

-   Sei proprio scemo …

 

Mi disse Toni, ma non gli avevo certo chiesto io di succhiarmelo … doveva aspettarselo maneggiando un arnese sotto pressione …

 

-   Oltre che stupido pure stronzo …

 

Beh, almeno era sintomo che stavo guarendo.

 

-   E spavaldo.

 

Ok, può bastare.

 

«Come ogni adolescente cercavo una vita di cui fossi il solo protagonista; né in quei momenti e tantomeno dopo, ebbi coscienza che è il confronto continuo con gli altri a farci diventare quello che siamo».

 

Gli enzimi invisibili che avevo imparato a riconoscere nel bosco sembravano volermi bene e digerirono in fretta ogni cicatrice sul mio corpo. Il viso tornò bellissimo come me lo ricordavo, solo i sopraccigli erano leggermente asimmetrici, quello destro specialmente rimaneva sollevato in un'espressione esterrefatta, ma niente che non potessi controllare stendendo la fronte. La spalla destra, invece, fu risistemata chirurgicamente, tuttavia anche quella tendeva a prendere una postura sbilenca se non la risistemavo continuamente.

 

Abbandonai l'ospedale convinto che il peggio fosse passato, invece, a distanza di tanto tempo ormai, devo ammettere che Jury aveva ragione su tutto ed eccomi qui ancora a cercare di riordinare le pagine senza numeri su cui ci sono scritti i ricordi di quegli ultimi mesi.

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Silverselfer

Floppy 05/50

 

Casa cos'è?

 

Arrivati in quella che doveva essere la mia nuova casa, al citofono una voce di bambino chiamò Bruno "papà". La serratura elettrica ronzò giusto il tempo di far scattare lo sgancio meccanico; le molle nei cardini del cancelletto lo fecero richiudere lentamente, quando avevamo già attraversato un vialetto tra delle azalee e Bruno mi stava tenendo aperta l'anta del portone di vetro-alluminio per aiutarmi a passare con il sacco a pelo sulle spalle. Seguivo i passi di Bruno da quando eravamo scesi dalla sua jeep e mi guidarono fin davanti alla porta dell'appartamento di Paolo. Quel breve tragitto durò un lunghissimo silenzio imbarazzante, interrotto dal cattivo italiano di Aileen, la colf filippina che venne ad aprirci.

 

-   Madonna santissima … sembri un barbone!

 

Mamma era in cucina intenta a preparare la cena. Disse che le sembravo un barbone della Stazione Termini e, in effetti, lontano dal contesto silvestre del campeggio, io stesso rimasi disorientato davanti allo specchio. Ero dimagrito parecchio, la barba lunga sul mento pareva quella di una capra e con quei capelli che incorniciavano il ritratto ieratico di un eremita, mi resi conto di quanto il travaglio interiore di quegli ultimi mesi, mi avesse cambiato anche esteriormente e mi spaventò il pensiero delle inevitabili ripercussioni che questo avrebbe comportato.

 

-   Qui dentro ci ho trascorso tanto di quel tempo!

 

Bruno mi aiutò a portare la roba in camera. Aprì la portafinestra che dava sul terrazzino e si affacciò alla balaustra per godersi la vista famigliare sulla strada silenziosa. Quando rientrò, mi disse che quella stanza era piena di suoi ricordi. Era una bella cameretta luminosa e accogliente, però mi ci sentii subito un estraneo e Bruno se ne accorse. Fraintese il mio imbarazzo per una questione di gusti personali e mi propose di vedere anche quella di Franco … ma quella no, in quella non volevo neanche entrarci.

 

-   Tu lo prendi molto zuccherato, giusto?

 

Le due camerette avevano per pavimento una moquette verde prato che rendeva l'atmosfera ovattata. Erano adiacenti e nel mezzo condividevano un piccolo bagno senza finestra. Mi lavai giusto le mani e cercai inutilmente di rassettare i capelli in una coda di cavallo. Quando uscii dal bagno, trovai Aileen che disfaceva il mio sacco. La fermai forse anche sgarbatamente perché lei abbassò lo sguardo e scappò via. Io non volevo spaventarla ma non avevo mai permesso neanche a Evelina di toccare le mie cose.

Aileen tornò quasi subito per dirmi che mi aspettavano in cucina. Mamma aveva preparato il Te per me e il caffè per loro. Mi sedetti sulla sedia più distante. Il tavolino era di marmo con le zampe di legno massello e le sedie avevano una spalliera altissima … la Zia Pina lo avrebbe sicuramente apprezzato.

 

-   Tu lo prendi molto zuccherato, giusto?

 

Bruno metteva appena una goccia di caffè nel suo zucchero. Il mio Te invece era ancora troppo caldo nonostante fosse stato allungato con dell'acqua fredda.

Bruno stava raccontando cos'era accaduto al campeggio nella notte del nubifragio. Io mi limitavo ad annuire ogni volta che chiedeva conferma a qualche sua ipotesi. Mia madre ringraziò il signore per non aver fatto accadere qualcosa d'irreparabile … trovai questa sua ultima affermazione fastidiosamente ipocrita.

 

-   Ho preparato le polpette di carne che piacciono tanto a Francesco …

 

Bruno si congedò presto … abitava al piano di sopra. Mia madre lo trattava con i guanti di velluto e lo accompagnò alla porta come se non conoscesse la strada … continuava a far moine per raccomandarsi di non arrivar tardi per la cena che stava preparando per tutti. Appena richiuse il portone, riascoltai finalmente il suo famigliare ciabattare affaccendato. Quell'incedere sulla moquette diventava strisciante e particolarmente minaccioso. I passi percorsero l'appartamento in lungo e largo, poi sentii Aileen uscire da casa. A quel punto il ciabattare si diresse in cucina, dove tornò improvvisamente a far schioccare i passi sulla ceramica del pavimento.

 

-   Svergognato …

 

Che stesse solo fingendo alla presenza di Bruno lo avevo capito fin da subito. Tutta quella sua gentilezza era la stessa che le avevo sempre visto esibire quando avevamo ospiti. Non appena Aileen uscì per chissà quale commissione, il suo ciabattare mi giunse da dietro menandomi un colpo secco sulle spalle, poi l'ira di mamma iniziò a schiaffeggiarmi sulla testa.

 

-   Mi fai schifo …

 

Credo che nessuno al mondo sappia imprimere tanto sdegno nella parola "schifo" come sa fare mia madre. Il suo sguardo acuminato mi si appuntava nelle cornee e al solito non ero capace di reagire.

 

-   … brutto sozzone! Sono sprofondata un palmo sotto terra quando ho ricevuto la telefonata … e Paolo e Gesù santissimo! In parrocchia e Don Angelo! Sputati in faccia, porco!

 

Era furiosa per la storia di Marica, ma a me pareva che m'insultasse anche per il resto, per quello che era accaduto con Franco e ancora di più, per quanto desideravo che accadesse con Bruno.

 

-   … non avrei fatto un soldo di danno a buttarti di sotto la Rupe Tarpea …

 

Le sentii pronunciare tutte insieme le invettive che conoscevo a memoria da una vita. Del resto se le ricordò tutte quelle altre volte che l'avevo insultata con i miei comportamenti da depravato, da quando giocavo a calarmi le mutandine nel locale serbatoi con Lalla e le altre ragazzine del condominio a quando sorprese Lidia in casa nostra.

 

-   Tu sei malato …

 

Secondo lei ero malato ogni volta che facevo qualcosa da maschio. Da ragazzino mi faceva una scenata anche quando trovava la tavoletta del water closet sporca di pipì e come si usa fare con i cani, mi ci strofinava le mani nude sopra per "igienizzare" quella sozzeria; tanto che ripresi a farla in piedi solo dopo aver cominciato ad andare nei bagni della scuola.

 

-   Zitto, zitto! Devi stare zitto …

 

Poteva starne certa che ero molto più schifoso di quanto potesse anche solo concepire e allora doveva piantarla di starmi addosso. Se non voleva sporcarsi del mio lordume, doveva smetterla di toccarmi e anche solo rivolgermi la parola.

 

-   Io me ne torno a casa mia …

 

Apriti cielo! Quando le dissi che se non ero degno di rimanere in quella santa casa dove l'avevano accolta, sarei stato ben felice di tornarmene in quell'altra che aveva comprato mio padre.

 

-   Ah Ah … "suo padre" … sentitelo … quante volte te lo devo ripetere che è stata quella serpe della tua cara zietta a costringere i suoi ad accendere il muto per la casa? Quegli ebrei pagano per tenerti lontano da loro, chiaro?

 

Ero abbastanza grande da sapere come stavano le cose, disse lei, prima di snocciolarmi per l'ennesima volta le nefandezze che quei senza Dio le avevano inflitto.

 

-   Sei una povera pazza che ne ha raccontate tante di balle in vita sua da aver dimenticato la verità.

 

C'era di nuovo che non ero più disposto a credere "a quello che dice la mamma". C'era di nuovo che se ero abbastanza grande da sapere la verità, lo ero anche per ricordare le sue mancanze.

 

-   Tu sei un Giuda che sputa nel piatto in cui mangia.

 

E sarò stato pure un Giuda, ma lei non era certo quella martire come le piaceva dipingersi.

 

-   Zitto, per Dio!

 

Dov'era il suo altruismo tutte le volte che aveva sbattuto la porta di casa lasciandomi con chi non voleva saperne niente di me? Quale nome si doveva dare a quel suo coraggio che mi aveva costretto a vivere una vita di menzogne?

 

-   Zitto!

 

Le bloccai la mano che stava per colpirmi di nuovo e le dissi che non mi sarei fatto più toccare da una zoccola che non era certo più pulita di me, o credeva che non mi fossi accorto anche della storia che aveva avuto con il padre di Vanni "quella persona così squisita" e di come i suoi nonni ci allontanarono poi da lui.

 

-   … marcio ... marcio … hai nelle vene del sangue marcio.

 

Non mi facevano male quelle sue parole che oramai non potevano più offendermi, ma era il suo gridare a denti serrati che m'irritava fino a farmi impazzire di rabbia.

 

-   Basta!

 

Urlai riuscendo ad ascoltare la mia voce di uomo. Picchiai un tale pugno sul tavolo di marmo che per poco non lo aprivo in due, perché dovevo fermarla prima che si avvicinasse con quel mestolo di legno in mano o l'avrei uccisa.

 

Nessuno dei due si era accorto che in casa non eravamo più soli. Ebbi un sobbalzo quando sentii le mani di Bruno stringersi delicatamente sulle mie spalle. Mi fece sedere in salotto usando dei gesti mosci, privi di volontà ... come si usa fare con le bestie feroci per non indurle a reagire. Stette lì, accoccolato davanti a me senza dire una parola. Aveva ancora la testa bagnata perché sicuramente Aileen, rientrando, era corsa a chiamarlo quando stava ancora sotto la doccia. Sapevo cosa stava pensando. Aveva negli occhi lo stesso sguardo di quella giudice che mi aveva timbrato come un disadattato sociale.

C'era anche sua moglie, Adele. Era proprio bella! Aveva i capelli corti, biondi, grandi occhi azzurri; era alta e snella, poco seno ma con delle gambe slanciate.

 

-   Tua madre è un po' scossa …

 

Si sedette accanto a me e stringendomi una mano, mi disse simpaticamente, come se stesse raccontando una favola, che mia madre era ancora un po' scossa e mi chiese se avevo voglia di stare da loro quella sera, così avrei conosciuto il mio primo "nipotino".

 

Seconda parte

 

 

Ero così grato ad Adele per non avere paura di me. Accettai il suo invito e, mentre uscivamo, ordinò a Bruno di tornare a prendere le mie cose.

 

-   Se mi vede così, si spaventerà.

 

Intendevo il bambino. Glielo dissi mentre scendevamo dall'ascensore e lei mi sorrise anche un po' per prendermi in giro. «Tranquillo che sei bellissimo» Continuò sbertucciando la mia vanità «a voi uomini il selvatico dona molto». Sì, ma Francesco si rincantucciò in un angolo quando mi vide e certamente la presentazione di Adele non mi aiutò: «Lui è un Big Foot delle foreste» così gli disse e il bambino mi sa che ci credé. «Dovrai adattarti nel lettino di Francesco … è vero Fra che presti il tuo letto al Big Foot?». Il bambino ci seguiva tenendo una distanza di sicurezza, però era affascinato dall'abominevole uomo delle foreste canadesi e annuì concedendomi il suo giaciglio.

 

Bruno mi liberò il bagno delle sue cose e poi mi mostrò dove teneva sapone da barba e lamette. Era sfuggente … era imbarazzato di avermi in casa. Nel vapore del bagno c'era il suo odore e nella doccia che aveva abbandonato in fretta e furia, c'era ancora la schiuma che tratteneva in sé qualche pelo del suo corpo. Mi vergognai come un ladro quando la voce di Adele mi sorprese facendo quei pensieri. Attraverso la porta mi esortava a usare il suo balsamo per capelli per pettinarli meglio.

 

Quando abbandonai il bagno e mentre raggiungevo la cameretta di Francesco, li ascoltai tutti e tre ridere e scherzare nel grande salotto … tutta quella serenità mi offendeva. Mi faceva sentire proprio un mostro. Avevo paura di essere esattamente come mi descriveva mia madre. Temevo che il mio sangue marcio avesse finito per infettare la vita di quelle brave persone.

Ero seduto sul ciglio del letto a contemplare le dita dei miei piedi, perso in quell'orgia di odori che mi si era appiccicata addosso: il dopobarba di lui, lo shampoo di lei, in quella stanza che profumava di bambino; quando irruppe  Adele con la sua gioia cameratesca. «Le tue gesta di atleta ti precedono ormai» Disse per distogliermi dai pensieri e avvertirmi che era lì a guardarmi. «Questo è meglio che lo portiamo in lavanderia o l'odore di natura domani mattina appesterà casa» Intendeva il mio sacco da campeggio. «Ti fa male?» Mi tenevo il polso con la mano sinistra, ma era un tic nervoso più che altro. «E certo che fa male, hai menato un tale colpo su quel tavolo!» Adele prese una sacca di ghiaccio e poi una benda elastica con cui fece una fasciatura stretta. «Adele è stata una tennista semiprofessionista, se ne intende di polsi fasciati» La canzonò Bruno che assisteva alla scena appoggiato allo stipite della porta, con Francesco che sbirciava da dietro. «E' invidioso perché lui a rugby era una schiappa, non come te che sei un fuori classe nella pallanuoto» Le sorrisi senza avere il coraggio di prendermi quel complimento sperticato. «Se non vuoi, puoi restare a cenare con Lucy» Mi sentivo tremendamente in colpa per quella scenata con mia madre. «Lei è Lucy, è americana e studia belle arti, lavora da noi come ragazza alla pari» Non avevo fame. «Stai scherzando! Un Big Foot grande e grosso come te se non mangia diventa pericoloso» Detesto quando non riesco ad accettare la generosità delle persone … qualcosa scatta nella mia testa come quando da bambino dovevo dire di no alla Zia Pina che mi chiedeva di rimanere a mangiare da lei. «Non temere Lucy e Adele seguono una dieta macrobiotica» commentò Bruno. «Sei vegano! E come fai a sopravvivere con la cucina di tua madre?» Adele fu entusiasta di apprendere che anch'io tenessi a una buona alimentazione … ma quant'era stressante stare dietro all'agitata sinapsi di quella donna!

 

Lucy cenò con il libro aperto davanti ma in compenso, lei fingeva di tenere all'alimentazione solo per compiacere la sua datrice di lavoro perché, dopo aver consumato la minestra insipida, quando le chiesi se fumava, mi sorrise e superato qualche istante d'indecisione per capire se poteva fidarsi, annuì. Andammo in camera sua, dove si accedeva dalla lavanderia e mi offrì una Marlboro insieme a una birra con degli squisiti fiocchi di formaggio fritti. Da quel momento fu tutto più facile e quando la lavatrice terminò il lavaggio, andammo a stendere il bucato sul terrazzo condominiale. La magia della notte romana conciliò qualche confidenza e lei si dimostrò assai comprensiva su quanto mi stava accadendo. Nel piccolo spazio che Lucy si era ritagliata, mi trovai subito a mio agio perché la sua situazione famigliare faceva più schifo della mia e come me era abituata a vivere nascosta dentro se stessa.

Verso mezzanotte, quando sentì il portone aprirsi, mi cacciò dalla sua stanza e la vidi rimettersi frettolosamente in faccia la maschera della brava ragazza americana.

 

«Ti ho portato le medicine» Disse Bruno quando venne a portarmi il Tavor che gli aveva dato mia madre. «Non ho più bisogno di quella roba …» Io non ero un fottuto malato del cazzo come mi voleva far passare mia madre. «Tua madre dice che ne hai bisogno per riuscire a dormire» Balle … per tutta la sera gli aveva sicuramente parlato delle mie crisi nervose e dello sciroppo calmante con cui mi aveva rincoglionito fin da bambino. «… non ti ho mai visto dormire più di qualche ora» Io dormo poco e questo non vuol dire che soffro d'insonnia. «La crisi nervosa che hai avuto in campeggio non era certo una paranoia di tua madre» Mi disse puntandomi minacciosamente l'indice contro. Tanto lo sapevo cosa stavano pensando, che ero matto e per questo che avevo trattato in quel modo mia madre. «Smettila con quest'atteggiamento … nessuno ti sta facendo la guerra … stiamo solo cercando di aiutarti» Doveva smetterla lui di spararmi pistolotti … se quelle medicine erano per me allora perché mamma doveva mentire per farsele prescrivere? «Stai parlando di tua madre! Sembri uno di quei matti con le manie di persecuzione» L'aveva detto finalmente … faceva comodo a tutti pensarmi matto, ma poteva andarsene affanculo perché io non ero matto e se non mi voleva in casa poteva dirlo chiaramente, quindi me ne tornai seduta stante da quella stronza di mia madre che, dopotutto, era la sola famiglia che avevo.

Bruno ci rimase parecchio male e Adele certo non si meritava quell'ulteriore trambusto. Mamma, invece, per poco non mi gettava le braccia al collo quando mi vide sulla porta, allora le chiarii che al più preso me ne sarei tornato nell'unica casa che avevo, cioè quella del mio padre ebreo e amen.

 

Trascorsi la notte a montare un modellino d'idrovolante che trovai chiuso in una vecchia scatola sopra la libreria della cameretta di Bruno. Inserire il pezzo A nell'intersezione B, con il tassello passante dal punto X a Y barra uno, mi tenne occupato il cervello che si era messo a recitare un mantra ossessivo con tutte le frasi più dolorose della giornata. Terminai il lavoro verso le cinque del mattino e una benefica sensazione di appagamento mi donò del riposo ristoratore. Quando riaprii gli occhi, vidi Bruno che stava esaminando attentamente il suo aeroplanino.

 

«Questo me lo regalò mio padre la prima volta che andai in Canada … ma io non sono mai riuscito a montarlo» Beh, non era stato facile neanche per me. «In alcuni stati del Canada questi sono il solo mezzo di trasporto per raggiungere …» Non avevo fatto caso che in quella stanza c'erano poster del Canada, souvenir del Canada e persino la bandiera del Canada appesa sopra il letto … che a Bruno piacesse il Canada? «Ok, ora potrai prendermi in giro anche tu per la mia fissa del Canada» E perché? «Secondo me ti piacerebbero le montagne della British Columbia … ho fatto uno splash down sull'Emerald Lake con uno di questi idrovolanti …» Si mise a raccontarmi di questa e quell'esperienza e poi di un tratto mi chiese scusa per la sera avanti. «In fondo è meglio che stai qui, no?» In che senso? «Ma niente … insomma … ora questa è diventata la tua stanza, no?» NO. «Non fraintendere subito …» Che c'era da fraintendere? «Hai capito benissimo di che parlo» Speravo di non capire … ma cosa stava insinuando? «Avanti che sappiamo bene che fumi anche quella roba e …» E certo, se fumavo maria ero drogato invece se m'impasticcavo, ero solo un malato mentale che andava compatito. «Non è per noi, ma per il bambino» No, mi stava proprio dando del depravato che insidia i bambini … mavammoriammazzato! «Lo vedi che con te non si può parlare» Fino a prova contraria era lui che aveva baciato me, chiaro? «E' stato un momento di debolezza, per favore dimenticalo!» Ah, sta a vedere che ero io ad aver ritirato in ballo la faccenda. «Ok, ho sbagliato … scusami, sono proprio uno stupido, ma ora vediamo di metterci una pietra sopra … tra qualche ora torna il generale e anche tua madre è d'accordo nel tenerlo fuori dal putiferio di ieri, facciamo finta che non sia successo niente, OK?».

 

 

Terza parte

 

 

-   A me piace tanto quel delizioso agriturismo …

 

Paolo e Franco ebbero un contrattempo e rientrarono solo a pomeriggio inoltrato. Io poi un paio di Tavor le avevo prese, tanto per smorzare la tensione e riuscire a morire per qualche ora dopo pranzo.

 

-   … almeno possiamo pernottare e partire con calma il giorno dopo …

 

Aileen venne a svegliarmi quando Paolo telefonò dall'autogrill … ci voleva almeno un'altra ora per il suo arrivo e decisi che per sopportare lo stato d'agitazione in cui era mia madre, avevo bisogno di un altro paio di Tavor. Fu così che il mondo prese a emettere quel leggero rumore di fondo, una specie di ronzio che m'impediva di concentrarmi su qualcosa in particolare. Dovevo proprio avere un aspetto rincoglionito perché Paolo mi chiese subito se stavo male, lasciai rispondere la mamma per me … era più comodo.

 

-   Affittiamo un pullman per gli invitati che li prende e li riporta in città …

 

Franco prendeva continuamente in giro mia madre con complimenti sperticati, ma a lei non dispiaceva rispondergli a tono e se la rideva di gusto quando quello la chiamava "mammetta". Io mi sentivo così fastidiosamente inadeguato seduto su quel divano, col problema di dove nascondere lo sguardo per non richiamare l'attenzione di nessuno.  

 

-   Quella cappella è perfetta per sposarci …

 

Le cose non migliorarono quando sopraggiunsero anche Bruno e famiglia. Francesco si mise a fare un gran baccano con un accidenti di pistola giocattolo e Adele mi venne a chiedere se avevo la febbre. Per fortuna che c'era la mamma a dare spiegazioni … era normale che avessi qualche linea di febbre per via di qualcuna delle mie numerose allergie.

 

-   Paolo, vieni a raccontare ad Adele del nostro delizioso agriturismo.

 

Il matrimonio. Dopo le nozze civili, mia madre stava organizzando il matrimonio religioso per la fine di settembre, nel giorno del suo compleanno. Sembrava una ragazzina mentre discuteva con Adele ogni dettaglio della cerimonia. L'idea di dovervi partecipare mi toglieva il respiro e quando fu chiamato in ballo Paolo, scappai letteralmente via prima che si avvicinasse.

 

-   Per favore smettila!

 

Mi gettai di traverso sul letto e mi persi tra le fronde dei rami del pino marittimo che, dalla strada, arrivavano a un passo dalla portafinestra del balconcino. Sarei voluto morire e senza un particolare motivo, così … tanto per non dover più sopportare la fatica di respirare.

Sentii Franco pisciare nel bagno e sapevo che sarebbe passato da me, quindi finsi di dormire. La porta scorrevole del gabinetto scivolò nel muro e dopo qualche istante il peso greve del suo corpo fece una fossa sul ciglio del letto. Provò a chiamarmi un paio di volte, alla terza infilò la mano da dietro le cosce e mi afferrò energicamente per le palle. Ovviamente ebbi un sobbalzo e lo pregai di smetterla, ma tanto non c'era verso di farlo sentire in imbarazzo e di tutta risposta mi pizzicottò un capezzolo; lui si divertiva a vedermi sclerare e continuò a provocarmi cercando di farmi reagire dallo stato di torpore mentale in cui ero finito.

 

-   Fatti un pacco di cazzi tuoi, ok?

 

Di punto in bianco mi chiese cosa mi ero fumato per ridurmi in quello stato. Io che cercavo semplicemente di usare il minor numero di parole possibile per spiegarmi, gli dissi di farsi un pacco di cazzi suoi. Non mi ero accorto però che sulla sua faccia era scomparso il solito sorriso beffardo. Mi tirò a sé per gli avambracci e dopo averli esaminati, mi tirò in basso l'elastico della tuta e a nulla valse cercare d'impedirgli di sbragarmi, le sue mani da orso facevano sempre quello che volevano.

 

-   Te la sniffi?

 

Stava per tirarmi via anche la fasciatura al polso quando, esausto di tenermi a bada, mi chiese se me la sniffavo. Dovevo proprio avere un aspetto di merda se mi credeva un fattone. Appena pronunciai la classica frase da eroinomane: "Io non mi faccio di quella merda", Franco ebbe la conferma che aspettava e pretese che gli dicessi dove la nascondevo.

 

-   Ti fracco le ossa …

 

Forse era la mia più totale incapacità di reagire che lo imbestialiva tanto … ma parlava troppo in fretta e non riuscivo a pensare le parole che avrei dovuto dire … e lui si arrabbiava di più, convinto com'era che fosse colpa dell'eroina se ero in quello stato confusionale.

 

«Si può sapere che ti è preso?» Gli chiese anche Paolo per capire il motivo di tanta collera. «Ma non lo vedete che sta fatto come una cocuzza!». Stavano tutti lì davanti come una giuria di qualche tribunale a fissarmi ed io non volevo. Non avevo fatto niente, non avevo detto niente, avevo ubbidito come farebbe un bravo bambino e non ero stato sgarbato con nessuno … ma perché andava sempre tutto storto? Che dovevo fare per scomparire definitivamente? «Piantala di frignare come una fighetta» Voglio andare a casa mia. Volevo tornare nel mio buco … nell'unico posto dove potevo scomparire. «Smettila Franco, il ragazzo prende delle medicine» Lo esortò Bruno mentre Adele mi abbracciava per darmi conforto.  «Il nostro medico gliele prescrive fin da quando era bambino, se non le prende gli vengono delle brutte crisi nervose … Bruno, diglielo anche tu». Franco pretese di vedere le medicine e quando le ebbe in mano, le mostrò orgoglioso al padre come una prova inconfutabile.  Paolo ebbe una reazione glaciale come forse non avrebbe avuto neanche se si fosse trattato di eroina: «E come si chiama questo medico che lo sta avvelenando da quando era solo un bambino?».

 

Paolo dispose che Adele mi accompagnasse a fare una passeggiata mentre lui si preparava a fare giustizia con mia madre. A cena il generale aveva già riportato nei ranghi le truppe e deciso il da farsi. «Il ragazzo deve abituarsi gradualmente» Disse «ed è sacrosanto che pretenda di abitare nella casa che gli ha lasciato il padre». Mi chiese se poteva avere il piacere di ospitarmi da lui quando tornava dai suoi frequenti e lunghi viaggi di lavoro, nel frattempo le cose potevano restare esattamente com'erano andate avanti fino a quel momento. Riguardo alle mie "medicine" la pensava alla stessa maniera di Franco, quella "mondezza" era il modo in cui la società dei vili cercava di sopire la forza degli spiriti volitivi.

 

 

Quarta parte

 

 

-   Passaggio alto … bello di mammina tua … alto!

 

Nell'immediato le cose restarono com'erano, tuttavia fermarsi in casa di Paolo da semplice ospite, alleggeriva la mia posizione, scremandola dei suoi doveri e così la permanenza divenne come una vacanza.

 

-   No … no, no, no … non a zio Franco … lui è un troll brutto e cattivo!

 

Paolo partì subito per il Kenya, dove c'erano tutti gli interessi di famiglia e soprattutto teneva la sua agenzia di sicurezza, una sorta di Metronotte per i ricconi occidentali che decidevano d'investire nel continente più ricco e selvaggio del mondo. Mamma era il suo luogotenente in campo e si occupava di tutti noi, affrancandoci da ogni contingenza quotidiana.

 

-   Vai … vai, vai, vai!

 

Adele era il collante della famiglia e ogni giorno aveva una novità che ci coinvolgeva tutti. Lei e Francesco vivevano praticamente da noi e Lucy era più che altro una sorella, anche se mamma non la vedeva di buon occhio … forse la infastidiva il fatto che spesso mi vedeva appartarmi con lei.

 

-   Adele smettila di giocare sporco …

 

Franco era invece una sorta di sorvegliato speciale sempre in attesa di ordini dal generale che ne disponeva completamente. C'era poi la figura di Federico, il cugino orfano della sorella della ex moglie di Paolo. Aveva condiviso ogni momento della sua vita con Franco e Bruno, anche se poi scelse di entrare in seminario per diventare prete. Misteriosamente, celebrata la prima messa, tornò in canonica e si tolse per sempre l'abito talare. Viveva in parrocchia ma prima che arrivasse mamma, si era sempre occupato lui della contingenza famigliare e forse per questo era quello che pativa di più la nostra intrusione.

 

-   Passa … passaggio alto, dai …

 

Francesco si affezionò subito a me. Mi succede sempre con i bambini che mi guardano come se riconoscessero qualcuno che anch'io ignoro. Più sono piccoli e maggiore è questo indecifrabile effetto che, comunque, può anche spaventarli, ma non fu questo il caso di Francesco. Mi considerò un fratello maggiore, adorandomi completamente. Io ero una sorta di Dio per lui e a volte Adele mi pregava di evitare o, al contrario, di tenere certi comportamenti perché lui automaticamente iniziava a imitarli.

 

-   Meta!

 

Franco, anche se non mi chiese mai scusa per gli insulti che mi aveva sputato addosso in campeggio, continuava a considerarmi come una rarità genetica che corrispondeva alla sua. Mi portò in giro per il Colle Aventino e mi fece conoscere "la buca", uno dei pochi luoghi dove la gente del posto s'incontrava per bere una birra e guardare insieme le partite della A.S. Roma. Franco era un grande amicone ma non ho mai ben capito se le persone fingessero solo di amarlo perché lui parlava male di tutti.

 

-   A zio Franco gli rode perché il suo nipotino è un quarterback più bravo di lui.

 

Quando i turisti se ne andavano, verso le sei del pomeriggio, si andava sempre a fare qualche lancio al giardino degli aranci. Era un momento veramente magico con il tramonto che infiammava il panorama mozzafiato della città eterna. Francesco era un quarterback eccezionale e i suoi tiri millimetrici finivano per invogliarci per qualche corsa scavezzacollo verso una meta. Adele giocava sfacciatamente sporco per farsi passare la palla ovale dal figlio.

 

-   Franco! Non oserai prendertela con una povera fanciulla indifesa … madre e … ah!

 

Se Franco era propenso ad azzuffarsi con chiunque, Adele faceva il suo gioco provocandolo continuamente. Spesso Franco la rincorreva per farsi giustizia di qualche sua furbizia … capitava che bisticciassero anche seriamente, perché poi Franco le mani apposto non sapeva proprio tenerle, in ogni modo la sfida tornava sempre in campo con Francesco pronto a dare la palla per una nuova sfida.

 

-   E tu piccola pulce, non credere di farla franca!

 

Un lancio tira l'altro e succedeva che si rimanesse in giardino fino a quando la luce dei lampioni si accendeva. In quel caso arrivava puntualmente Federico a riportarci all'ordine, ma quando Bruno smontava prima dal servizio, veniva lui a chiamarci per la cena. Se non era proprio tardi, si lasciava sedurre dalla moglie per qualche lancio extra e puntualmente si finiva per litigare perché lui e Franco proprio non si potevano soffrire.

 

-   Papà ... aiuto papà!

 

Franco si spupazzava volentieri il nipote e siccome non era capace di risparmiarlo dei suoi scherzi pesanti, tipo "mangiarsi il suo pisello" … erano cose innocenti ma Bruno non era disposto a passarci sopra.

 

-   Mettetelo giù che poi vomita … cazzo!

 

Francesco non avrà avuto manco dieci anni all'epoca e non era neanche grande di statura, così capitava che Franco me lo lanciasse come fosse un pallone da rugby e a lui piaceva perché se la rideva fino a scompisciarsi. Successe così che quella sera iniziammo a passarcelo per far dispetto a Bruno che aveva ricominciato con la sua solita solfa.

 

"Splash"

 

Adele ebbe la poco brillante idea di raffreddare i suoi bollenti spiriti con un gavettone, tentando poi una fuga solitaria … solitaria perché Bruno rimase impietrito e prese altresì la via di casa senza dire una parola. A nulla valsero i richiami di Adele che poi ordinò a Francesco di salirle cavalcioni e lo rincorse senza salutarci.

 

-   Meglio che si siano sciacquati dai coglioni, così ci facciamo uno spino prima di risalire.

 

Fumarsi una canna sulla loggia del giardino degli aranci poco prima che chiudessero i cancelli era un po' come gustare la fragola del monaco sospeso nel vuoto della novella di Lao-Tze. Abbandonare quell'incanto era come piantare un seme di desiderio che rendeva dolcemente malinconico il rientro a casa.

 

-   Ho le palle piene come un litro in una bottiglia da un quarto …

 

Beh, a ognuno la propria ispirazione "poetica". Franco lo aveva sempre in tiro ed io ero il suo vuota coglioni. Mentirei se dicessi che si approfittava di me … il nostro era un rapporto alla pari. Eravamo due esemplari della stessa razza e questo ci dava licenza di usare i nostri corpi per avere soddisfazione reciproca. Era un gioco che per quanto proibito, per noi era scevro da ogni colpa morale.

 

-   Ti aspetto sotto la doccia?

 

Franco da ragazzino si era approfittato sia di Bruno sia di Federico e in qualche modo credo che loro intuissero la natura del nostro rapporto. Lo capivo dal fastidio che leggevo sui loro volti quando accettavo di seguirlo in camera dopo cena. Magari era solo una mia fisima o in realtà conoscevano solo l'abitudine di Franco di fumarsi una canna prima di andare a letto.

Sicuramente per me era la parte migliore della giornata starmene con lui a sragionare su Plutone se era un pianeta o solo un asteroide e le fesserie che questo comportava riguardo agli studi astrologici. Chissà se poi stava sul serio ad ascoltare tutti i miei vaneggiamenti cervellotici o aspettava solo il momento per chiedermi se lo avrei raggiunto sotto la doccia.

 

-   Da bravo mungi il toro …

 

Certo era che se non me lo chiedeva nel modo giusto non se ne faceva niente. Quale modo poi era quello giusto non saprei dirlo. Mi piaceva il suo corpo sodo eppure non era per quello che dopo un po' lo seguivo in bagno. Lui non aveva alcun potere su di me e volevo che questo fosse chiaro quando entravo sotto lo scroscio d'acqua della doccia. Non c'era nulla di scontato ed è per questo che per lui era una conquista ogni volta che mi poteva trattenere di nuovo, costringendomi anche sadicamente a godere delle sue attenzioni.

 

-   Porco disse! Fammi sbrodare come una vacca …

 

Adoravo sentirlo grugnire come un animale quando poggiava le mani contro la parete e a gambe divaricate, aspettava che lo mungessi da dietro come fosse un toro. Le fantasie lo eccitavano più di ogni altra cosa e imparò subito a concedersi completamente alle mie. Arrivare non era il fine dei miei giochi, l'eccitazione stava nel trattenere il desiderio di raggiungere l'inevitabile orgasmo. La scommessa di spingere sempre un attimo dopo l'acme di quel piacere che volevo controllare fin negli ultimi spasmi, lo faceva impazzire ma ero io a tenere in punta di dita il morso che lo penetrava mentre sollecitavo le briglie di un sesso che voleva correre e allora aizzarlo era la mia passione che fustigava il suo fremere per soccombere in dei fiotti liberatori come una vittima sacrificale felice di sanguinare sotto la spada del suo sacerdote.

 

-   Quando ritorni?

 

Lui non sentì mai il bisogno di abbracciarmi, anzi, se stravolgevo troppo i suoi sensi, mi aggrediva e insultava rabbiosamente puntando la sua fronte contro la mia e ogni volta mi spaventava quella follia negli occhi che non sapevo se sarebbe defluita in tempo prima che mi strangolasse …

 

-   Per Dio! Mi fai pisciare sborra come un fottuto cammello …

 

Quella era l'ultima sera che passavamo insieme perché l'indomani sarebbe ripartito per l'Africa. Avevamo trascorso forse più di una settimana in completa simbiosi e avevo bisogno della sua compagnia per non sentirmi un estraneo nel mondo. L'idea di tornare a vivere da solo mi spaventava e in quel momento lo avrei seguito anche all'inferno.

 

-   Quando ritorni?

 

Forse Franco considerava la mia domanda come una smanceria da fighetta ed era per questo che lo metteva in imbarazzo. Aprì l'acqua e poi strizzò la spugna per farne uscire della schiuma per detergersi l'interno cosce. No, c'era qualcos'altro che gli impediva di rispondermi e che lo immalinconiva.

 

-   Ritorni?

 

Poteva anche mentirmi, ma dovevo saperlo. Lui diresse lo scroscio d'acqua sul piede destro con cui stava cancellando le tracce del piacere appena provato dal piatto della doccia. Io aspettavo una risposta e quel suo silenzio mi faceva persino pensare che non sarebbe più tornato.

 

-   Tanto non me ne frega un cazzo se non torni …

 

Franco mi strizzò la spugna addosso e la schiuma scivolò rapida sulla pelle mentre mi sciacquava con la mano. Non voleva rispondermi. Mi gettò sulle spalle lo stesso telo di spugna che aveva usato per asciugarsi, mi ci strofinò energicamente anche la testa e ridendo per il modo come lo avevo appena respinto, mi disse di seguirlo perché quella sera avremmo dormito insieme.

 

-   La solitudine fa paura a tutti.

 

Era eccezionale come Franco riuscisse a tenere la sua stanza in disordine nonostante Aileen la rassettasse ogni mattino. Si sdraiò sul letto e mi fece cenno di seguirlo, rassicurandomi che non c'era niente di vergognoso ad avere paura della solitudine. Quel letto era già piccolo per lui allora mi trasse a sé per assicurarsi di non farmi scivolare giù dal bordo del materasso.

 

-   Profumi come una puttana …

 

Mi annusò i capelli dicendomi che profumavo come una puttana, allora gli ricordai che avevamo appena fatto la doccia insieme e sghignazzando asserì che evidentemente eravamo due zoccole. Intanto, però, ancora non mi aveva risposto se sarebbe tornato.

 

-   Tanto lo so che ti vuoi scopare l'americana.

 

Lucy mi piaceva, che c'era di male? Non sarà stato mica geloso!

 

-   L'americana me la ripasso da quando ha messo piede in casa …

 

Franco era un porco e forse era proprio per questo che mi sarebbe mancato. Mi serviva sapere che al mondo c'era qualcuno assai peggio di me. Perché non voleva rispondermi?

 

-   Zitto e dormi.

 

Era piacevole dormire sul suo braccio, ma dopo un po' il suo fiato sul collo accentuò il caldo che già emanava quell'enorme corpo di orso. Era notte fonda quando scivolai via dal suo abbraccio e decisi di ritrarlo nell'incanto lunare, mentre l'innocenza di Morfeo lo rendeva incapace di mentirmi. La matita s'insinuò in ogni dettaglio del suo corpo e scavò nel chiaroscuro di quella sua anima primordiale.

 

-   Chi ti ritrae ti ruba l'anima …

 

Alle prime luci dell'alba quel disegno mi spaventò, non volevo tenerlo e quindi glielo regalai. Franco mi raccontò che in Africa pensavano che i ritratti rubassero l'anima, ma non voleva offendermi perché disse anche che era il più bel regalo che gli avessero mai fatto.

 

-   … non ti può rispondere perché neanche lui lo sa ...

 

Franco indossò la sua mimetica con un cappello da ranger che gli dava un aspetto buffo e mise in spalla l'enorme sacco militare con tutte le sue cose. All'aeroporto ci salutò prima di andare a fare il checkin … nonostante fosse grande e grosso, mi sembrò così piccolo e solo da far spavento. Lo vidi allontanarsi incamminandosi verso una casa che non aveva luogo perché senza limiti. Gli affetti formano le pareti che circoscrivono lo spazio che altrimenti ci disperderebbe. Tracciare i propri limiti è fondamentale per creare la nostra casa. Franco abitava in quella cameretta perché era solo là che ritrovava quegli affetti imposti dai trascorsi famigliari, per il resto continuava a perdersi nello spazio esterno … chissà se in quel momento sapevo già che c'ero io in quella sua divisa.

 

-   L'agenzia di mio … di "nostro" padre opera in zone molto pericolose.

 

Sulla via del ritorno dall'aeroporto lo chiesi a Bruno se il fratello sarebbe tornato. Quella domanda ebbe su di lui un effetto persino più rabbuiante, tanto che decisi di non insistere ulteriormente. Forse si accorse della frustrazione in cui mi gettava quell'incertezza, perché dopo un po' mi spiegò che il lavoro di Franco era molto pericoloso e non mi aveva risposto perché portava sfortuna prima di una missione prendere qualsiasi impegno.

 

-   Ti mentirei se ti dicessi che ci si fa l'abitudine …

 

Capii solo in quel momento la pena che dovevano aver provato lui e Franco ogni volta che i genitori partivano senza sapere se sarebbero tornati, specie dopo che la madre morì in quel modo tragico. Importa poco l'affetto che si è capaci di dare ai propri figli, quando non accetti il limite che t'impongono a scapito di tutto il resto.

 

-   E' proprio per questo che io non l'ho voluto fare e non perché sono senza palle come sostiene Franco …

 

Esistono due forme di coraggio. La prima, quella di Franco, è animata dalla paura di affogare che fa sparare al pirata la prima cannonata sul fondo della propria nave, per assicurarsi che nessuno si sottrarrà all'arrembaggio. La seconda, quella di Bruno, era la scelta degli eroi di sacrificarsi per uno scopo che quasi mai è compiuto per se stessi.

 

-   Quando sei un bambino non puoi capire perché i tuoi genitori non ti reputano abbastanza importante da rimanerti accanto … non accetti che rischino di morire … di lasciarti.

 

Bruno picchiava la mano sul volante come se quelle parole non avessero ancora finito di combattere la loro battaglia di essere ascoltate. Se non ci fosse stato lui che aveva accettato di vivere entro i limiti che gli imponeva l'affetto per Francesco, la casa di Paolo non sarebbe esistita. Ora capivo anche quei dubbi che portavano i figli di Paolo a chiedersi perché aveva deciso di sposarsi di nuovo, se non aveva intenzione di smettere di dire addio ogni volta che partiva, se non aveva intenzione di accettare i limiti che gli imponeva l'amore di mia madre che, poveraccia, credeva di nuovo di aver trovato il principe azzurro.

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Silverselfer

Floppy 05/50

 

 

 

Coriandoli

 

Le persone che incontriamo sono per lo più come quei coriandoli fatti con la carta riciclata dei giornali; il cui ricordo è il piccolo frammento di una storia tranciato in forme bizzarre. Il destino ne fa una manciata d'inutile allegrezza, lanciata per aria per colorare un momento.

 

 

 

Capitolo Primo

 

 

Quello era stato proprio un anno assurdo anche dal punto di vista climatico. Si era aperto con delle nevicate da record e temperature fino a venti gradi sotto lo zero, tutto poi rimase incantato in un'estasi tropicale. La mia vacanza montana, conclusasi con un vero e proprio nubifragio, era ben lungi da quella che stava affrontando la città, con temperature che sembravano non voler più scendere sotto i quaranta gradi.

Il telegiornale invitava solo bambini e vecchi a non uscire da casa, ma l'asfalto molliccio delle strade scoraggiava chiunque dal farlo. Le mascherine contro le polveri sottili dello smog erano diventate molto trendy e se ne vedevano in giro anche in tinte fluo. I romani scoprirono a cosa servivano i condizionatori d'aria, che divennero subito un nuovo status symbol e tra vicini di casa si faceva a gara a chi lo avesse più grosso; molti però preferivano i condizionatori portatili per utilizzarli senza il fastidio dell'istallazione, questo li rese subito una merce rarissima e Bruno aveva usato tutte le sue conoscenze per riuscire ad accaparrarsene due, uno dei quali destinato proprio a me.

 

Salutato Franco e dopo la partenza di mamma e Paolo per la loro luna di miele prematrimoniale, mi ritrovai per diversi giorni nella più assoluta, asfittica, ammorbante solitudine. La prima cosa che facevo al mattino era rollarmi una canna mentre, seduto sopra la tazza del cesso, ascoltavo musica dal mio walkman. Fumavo troppo e l'hascisc che mi aveva lasciato Franco si consumava rapidamente; lui si era raccomandato di comprarlo solo dal tizio che mi aveva presentato alla "buca", ma si era però dimenticato di lasciarmi i soldi. L'argomento soldi era una questione che avrei dovuto chiarire meglio con mia madre perché ero rimasto completamente al verde e mi vergognavo di chiederne a Bruno. Anche per questo che me ne rimanevo tutto il giorno chiuso in camera ad aspettare che Aileen mi chiamasse per i pasti.

Aileen continuava a fare la spesa quindi le avevano lasciato dei soldi e provai a chiederle se ne avesse ricevuti anche per me, ma lei mi guardò come se stessi per aggredirla e rapinarla.

Adele, invece, quando non poteva essere ospite del suocero, era solita trasferirsi dai suoi che in quel momento erano al mare nella loro casa in un consorzio di Ladispoli. Bruno mi disse che non potevano ospitarmi perché già erano un esercito accampato alla ben in meglio, tuttavia me lo spiegò quando venne a portarmi il condizionatore d'aria portatile … solo dopo essere spariti senza neanche salutare.

 

-   Telefono tutte le sere ma non rispondi mai …

 

Era dunque lui che rompeva le palle fino a notte inoltrata! Era un compito di Aileen prendere le telefonate durante il giorno e a parte la solita chiamata di mamma, tutte le altre volte riguardavano la gente di casa, per questo motivo non rispondevo quando rimanevo da solo.

 

-   Hai fumato ancora!

 

No che non era vero che mi puzzava l'alito di tabacco perché mi sciacquavo la bocca col dentifricio proprio per evitare le sue paternali e anche gli occhi non potevano essere arrossati, visto che il collirio non mi mancava. La doveva smettere di trattarmi come un drogato!

 

-   Innominiddio! Certo che esci la sera, altrimenti come faresti a procurarti quella merda?

 

Aileen, come tutte le domestiche del mondo, gli spifferava ogni cosa e quindi facevo bene a prenderla a calci in culo ogni volta che provava a mettere le mani tra le mie cose.

 

-   Mettiamo in chiaro che tu sei il ragazzino ed io sono quello che si è assunta la responsabilità di accudirti, ergo, tu mi ubbidisci … capito?

 

Mi faceva tenerezza quando, esasperato dalla mia indolenza, Bruno cercava d'imporsi alzando la voce. La verità che si nascondeva dietro quel condizionatore portatile era che si sentiva in colpa di avermi lasciato solo in città. La storia della casa al mare troppo affollata non stava in piedi, ma non doveva preoccuparsi perché sapevo di essere un estraneo ed era chiara la pessima opinione che si era fatta me.

 

-   … mio suocero è un vecchio bacchettone e non capirebbe i tuoi comportamenti troppo …

 

I miei comportamenti? Forse mangiavo con le mani o non sapevo tenere una conversazione senza ricorrere alle parolacce?

 

-   Mio suocero è rimasto agli anni cinquanta e pensa che portare i capelli lunghi sia da delinquenti.

 

M'infastidiva sicuramente la ragione dei mediocri, ma trovavo più offensivo chi mi escludeva preventivamente.

 

-   Ora non rigirare la frittata perché ti ci chiudi da solo qui dentro … dove stanno i tuoi compagni di squadra? Chiamali, non pretendere che siano loro a riverirti … smettila con questa tua superbia.

 

Bruno non ci capiva niente di elettronica e alla fine il condizionatore lo avviai da solo. Nel momento che la ventola iniziò ad andare, mi ferì profondamente accusando di orgoglio la solitudine in cui vivevo, quasi la usassi solo per farlo sentire in colpa. Avrei voluto spiegargli che il mio più grande cruccio era di non desiderare vivere, ma potevo prendermela con il resto dell'umanità se non avevo le palle di ammazzarmi?

La piscina era rimasta aperta tutta l'estate per via del caldo eccezionale, dovevo solo andarci per imbastire quelle relazioni sociali che avrebbero rassicurato tutti … ma non avevo i soldi.

 

-   … mi farò dare il turno di notte così al mattino passo e ti porto in piscina … la sera te ne torni con i mezzi e "Innomineiddio" la sera prendi quella cornetta del telefono e mi rispondi, chiaro?

 

Chissà perché quell'uomo si prendeva tanta pena per me. I soldi non me li scuciva temendo che li spendessi per comprare l'hascisc, ma allo stesso tempo si complicava la vita pur di aiutarmi. Lo avrei voluto abbracciare … esortarlo a non mollare mai con me … però il mio affetto lo spaventava e come Aileen fuggì il mio sguardo come se lo potessi sbranare da un momento all'altro.

 

 

Seconda parte

 

L'Orco

 

A me la piscina non è mai piaciuta, me lo ricordai nel momento stesso che ci rimisi piede. Me l'aveva imposta la psichiatra quando da bambino dovevano salvarmi da un principio di autismo; grande idea quella di costringere un ragazzino sovrappeso a relazionarsi con gli altri mettendosi in mutande.

 

-   Ti va di farmi una pompa?

 

Ora non avevo più le guance a meletta, ma anche se sapevo di essere diventato un bel manzo, la brutta sensazione d'inadeguatezza era rimasta tale e quale a quando avevo il ventre che mi calava sul costumino.

 

-   Sei annato in vacanza a Osford, a've'?

 

La gente che man mano rientrava dalle ferie rimaneva scioccata dalla canicola cittadina e si riversava a flotte nelle piscine. In mezzo a quella folla individuai subito Lele che si era trasferito in pianta stabile nel mio centro sportivo.

 

-   Se non ti va, basta dirlo.

 

Lele aveva capito che in quel posto poteva smerciare molta più roba che in piazza a Santa Maria delle Mole. Ovviamente sapeva che un alpeggio così appetibile aveva già il suo buon pastore, quindi aveva smesso di fare l'autonomo e si era messo a lavorare per Brusco.

 

-   E' che dopo la brecfst mi rovina la digestione.

 

Era così che ora non faceva più colazione ma il "breakfast" e chiamava tutti "Darling" e ti dava appuntamento "after dinner". No che non si prendeva sul serio, faceva semplicemente "public relation"; sapeva che in quel posto poteva rendersi popolare solo ostentando i propri limiti; per esempio, non riuscendo a imparare a nuotare, esibiva un paio di braccioli rosa shocking con la serigrafia dei Miniponi. In costume le sue quattro ossa mettevano ancora più in risalto il testone col cespuglio di cheratina? Ecco dunque che indossava un'assurda cuffia da mare per signore degli anni cinquanta, di quelle con i fiori di plastica attaccati … insomma, si era creato un personaggio esilarante acclamato da tutti.

 

-   Per favore togliti la cuffia, non riesco a parlarti con sto cesto di fiori in testa.

 

Quando lo vidi, mi approcciai a lui con il "mood" da borgataro, allora iniziò a tirarsela pavoneggiando il suo nuovo ruolo "glam". Voleva mostrarmi quanto era cambiato e soprattutto che non potevo più trattarlo come l'ultima volta. Ultima vota che corrispondeva alla festa di maturità di Carmelo, quando l'avevamo escluso facendolo sentire una merda. Le cose erano cambiate e stava solo aspettando di prendersi la rivincita su ognuno di noi.

 

-   Che te credi ... lo so che faccio ride, ma almeno non me schifa più nessuno.

 

Quando gli chiesi di togliersi quella cuffia assurda, reclamai l'amico di un tempo e riuscii così a offendere tutti i suoi sforzi per rendersi popolare. Calata la maschera, mi disse di seguirlo negli spogliatoi dove, infischiandosene del cartello: "Porta allarmata", spinse il maniglione antipanico dell'uscita d'emergenza che dava nell'intercapedine. Ci sedemmo sulle scale che risalivano fino al piano stradale e poi gli vidi sfilare una canna già rollata da sotto la cuffia.

 

-   A sti damerini gliele devo venne già rollate.

 

Mi allungò lo spinello parlandomi come se anch'io provenissi da una borgata.

 

-   A zio l'hanno parato e mo se deve fa' 18 mesi de domiciliari, 'n casino co' la pula de ronda dentro casa. Qu'a poraccia de mi madre a fa li straordinari coi bronzi che poi mica pagano, st'infami.

 

Gli chiesi come stavano i suoi e al solito le cose dalle sue parti continuavano ad andare sempre peggio, ma per lui era normale e non sembrava accorgersene.

 

-   Me sta girà bene co' Brusco, è 'na brava persona, onesto, ce sto a mezzi colla roba e ho chiuso co' quer cori cori pe' trovà er fumo. Mo solo roba de prima, ha stai a sentì, sì? Mica er puzzone de 'na vorta. C'ho pure 'n po' de smercio all'ingrosso che me rende bei sordini e se continua così, me sto a mette i sordi ar pizzo pe' compramme un buchetto da ste parti … allora sì che ciao borgatari, me metto a fa la vita dei granosi, e no!

 

Mi chiese come me la passavo e se vivevo ancora da solo con la serva in casa. Gli spiegai che mia madre si sposava alla fine del mese con un Generale che mi aveva adottato, quindi in quel momento stavo in un appartamento sull'Aventino. Era inutile pretendere che compatisse le mie problematiche, dal suo punto di vista la mia vita era un susseguirsi di colpi di culo.

 

-   Ma che c'avrai tanto da lamentatte, armeno tu madre se ne fa uno pe' vorta, anzi, se je n'avanza uno, dije che o passasse a mi madre, così m'adotta e me posso pure io fa li problemi dei fiji de papà come te.

 

A tal proposito si giungeva al problema contingente: i soldi. Gli spiegai la difficile congiuntura economica che attraversavo per via di quel nuovo fratello che voleva redimermi.

 

-   Ce l'hai le pasticche?

 

No, dopo il diktat di Paolo mia madre non si azzardò a ridarmele.

 

-   E queste so' grane! Me sa ch'è meijo rimane' orfani, a've'?

 

Mi passò il "polletto", cioè il mozzicone della canna appena fumata, dicendomi di aspirare lentamente perché gli affari non si possono mischiare con l'amicizia, specie ora che non lavorava più in proprio e un sacco di altre menate. Voleva solo farmi sentire la punta del coltello che la sorte gli consegnava finalmente dalla parte del manico.

 

-   Permetti che uno s'incazza, ma è possibile a chi tanto e a chi niente? Ogni vorta che te guardo me fai 'na invidia co' sti capelli colli riflessi d'oro, ste labbra che te vie' voija de ciancicalle … e sta ciccia che te aritrovi tutta ar posto giusto; armeno stai a diventà peloso ma accidenti a te, pure li peli te stanno bbene!

 

Se voleva farmi pagare in natura, non c'era bisogno che mi cantasse tutto quel panegirico. Sembrava che gli piacesse mettermi in imbarazzo mentre con le dita sfiorava la propria ispirazione poetica. In fondo glielo avevo proposto fin dall'inizio una pompa in cambio di un po' di fumo. Stavo pure bello carico e gli avrei riempito la bocca di sborra proprio come gli piaceva.

 

-   Bastardo maledetto, me fai ingrillà ancora de più quanno parli zozzo.

 

Stavamo finalmente entrando nel cuore delle trattative, quando imboccarono due ragazzini dalla porta d'emergenza. Non dovevano essere molto più giovani di me, ma sembravano poco più che bambini. Lele sobbalzò perché stava in pieno trans erotico ed ebbe una reazione esagerata. Gli dette dei rompiballe e poi li rimproverò perché non dovevano seguirlo mai quando stava concludendo un affare. Per il vero, quei due ragazzini erano lì a proporgli un affare ben più redditizio del mio, poiché gli sganciarono due scudi a testa per un solo micragnoso spinello!

 

-   Per favore … devi dire prima "per favore".

 

Dopo essersi leccato i baffi lasciati del mio latte e con gli occhi ancora stralunati, Lele mi porse due canne … ma io che ci facevo solo con due spinelli? Probabile che mi si lesse in faccia il poema di vaffanculo in dodecasillabi bizantini, perché Lele si scompisciò dalle risate coinvolgendo anche me in una ridarella che per poco non ci uccideva. Solo dopo un quarto d'ora tornammo a respirare con lo stomaco contratto e un dolore lancinante che ci perforava le mandibole.

 

-   Grazie.

 

Lele andò a prendere cinque grammi, ma prima di darmeli pretese che glieli chiedessi per favore. Io non ne facevo certo una questione di buona educazione e dissi anche grazie quando la piccola fettina di hascisc scivolò nella mia mano. Lele sembrava che volesse addomesticarmi con il biscottino come si usa fare per i cani. Nei suoi gesti non c'era più la spensieratezza goliardica di un tempo. Era diventato come quella sua cuffia buffa da clown, sotto di cui celava la droga che vendeva a peso d'oro ai bambini.

 

-   Darling, ci vediamo in suimminc …. Bye bye.

 

Prima di tornare in piscina m'infilai sotto la doccia e provai parecchio schifo mentre mi sciacquavo le palle dalle bave di Lele. Mi avevano fatto particolarmente impressione quei due ragazzini alti un soldo di cacio, cui al confronto Lele mi sembrò un grottesco orco da fiaba.

Avevo voglia di dimenticare quanto appena fatto e il modo migliore era spingere sull'acceleratore del tempo, cioè facendo immediatamente accadere qualcosa di nuovo.

 

Fine parte Seconda

 

-   Sei solo in casa?

-   E chi ci dovrebbe essere?

-   Hai fumato di nuovo!

-   Ma che ora senti la puzza pure attraverso la cornetta del telefono?

-   Lo capisco dalla tua voce …

-   E come sarebbe?

-   … lo capisco e basta. Vorrei solo capire come fai a procurarti la roba.

-   Non ti preoccupare che non vado a rubare i soldi alle vecchiette.

-   Allora chi te la dà?

-   Ma ti pagano per stare tutta la notte al telefono?

-   Questi non sono affari che ti riguardano.

-   Neanche come mi procuro il fumo è un affare che ti riguarda.

-   Invece mi riguarda eccome e se …

-   Aho, ma non possiamo cambiare discorso?

 

Parte terza

 

La Lucertola

 

Il giorno dopo Lele mi chiamò a far parte della sua corte e lì ci trovai Stefy. Lei era magrissima e aveva i tendini del collo molto evidenti, tanto che le procurarono il nomignolo di lucertola. Noi eravamo stati compagni di classe alla scuola primaria, condividendo un destino da reietti. Poi, alle medie, quando non frequentavamo più la stessa classe, la sua popolarità ebbe un picco perché pareva che prendersi un passaggio con lei fosse fin troppo facile.  

Stefy frequentava anche il Circolo Canottieri e per un po' fece parte della squadra di nuoto sincronizzato, dove entrò nel cerchio di amicizie di Lidia. La sera della festa di maturità di Carmelo c'era anche lei e si distinse per aver vinto la gara di corsa a pelo, cioè cavalcando senza mutandine la schiena nuda di un ragazzo. Quello che non sapevo ancora era che nel frattempo si era fidanzata ufficialmente con Pontesilli Giorgio, proprio il troll ex capitano della mia squadra di pallanuono.  

 

-   Deve essere proprio brutto quando il tuo miglior amico ti frega la fidanzata.

 

Trascorsi l'intera mattina con le ragazze che mi aggiornarono sulla vita di tutti mentre, contemporaneamente, cercavano di carpire nuove informazioni sul mio conto. In quel gruppetto c'era anche Margherita, una di quelle tipe con la faccia da dure che non si mettono mai in costume. Per qualche misteriosa ragione le stavo antipatico e tra uno sguardo di sufficienza e una risatina polemica, compatì lo stato d'animo di chi scopre il miglior amico mettersi insieme alla propria fidanzata.

 

-   Mi sento solo, triste, abbandonato e ho tanto bisogno d'affetto …

 

Risposi piagnucolando siffatta disgrazia e abbracciandomi Stefy che, incredula di quanto stava accadendo, mi accolse tra le carezze e sdilinquendo insieme a tutte le altre, mi consolò dandomi del poverino eccetera.

In piscina non conoscevano il mio lato "paraculo", sviluppato nelle mattinate di sega scolastica in villa. Erano abituate al superboy che vinceva tutto e che degnava della sua compagnia solo pochissimi eletti. Rimasero quindi piacevolmente sorprese nel constatare il mio interesse per loro.

 

-   Ma allora tu eri tanto più piccolo di Lidia!

 

Ora che mi stavo proponendo sul borsino dei "fidanzabili", intorno a me si alzò subito un coccodè generale, cui sapientemente lanciavo il becchime giusto per stimolare il naturale razzolare della loro curiosità.

 

-   E' vero che sembra più grande?

-   E' l'altezza che inganna.

-   Mado' io te ne davo almeno diciassette.

-   Sarà per il fisico sviluppato, è vero Margherita?

-   Ma che non la vedete la faccia da ragazzino?

 

Le ragazze avevano solo due opinioni riguardo Lidia: una buona e una cattiva. C'era chi come Stefy la adorava e chi, come Margherita, trascorreva la sua mesta esistenza a commentarne causticamente i comportamenti troppo libertini.

Il mio fidanzamento ufficiale con Lidia aveva sollevato un vespaio di opinioni contrastanti e, altrettanto, il modo disinvolto come lei pareva averci messo fine. In realtà il nostro fidanzamento finì la sera stessa della sua consacrazione sociale, cioè al galà delle premiazioni degli atleti dell'anno al circolo canottieri, quando mia madre dette il suo pollice verso e mi allontanò immediatamente da tutti.

 

-   Eravate una coppia troppo bella!

 

Ciò nonostante, quando in campeggio ebbi la piccola love story con sua sorella, stavamo ancora tecnicamente insieme perché Marica era terrorizzata all'idea che lei lo venisse a sapere. Anch'io in fondo ancora mi aspettavo di dover affrontare il discorso con Lidia, invece, proprio in quel momento ero venuto a sapere che si era messa con Mattia già prima che lui partisse per il ritiro estivo della squadra di pallanuoto.

 

-   Ma allora tu non lo sapevi proprio, che bastardi!

 

Era facile giungere a delle conclusioni affrettate, portati come si è a immedesimarsi nel ruolo di vittime. Dal mio punto di vista sfruttai la commiserazione delle ragazze per strusciarmi un po' con tutte. Stefy in particolare si mostrò subito molto disponibile. Del resto le ero sempre piaciuto anche da grassottello. Ricordo che in quinta elementare fu al settimo cielo quando la scelsi nel comitato mensile addetto alle letture di fine giornata scolastica, mentre alle medie ci rimase malissimo il primo giorno che le detti buca per tornare a casa insieme perché Vanni non la poteva soffrire.

 

-   Margherita ma che vai dicendo? Noi siamo solo amicissimi!

 

Iniziare qualsiasi storia con una di quelle ragazze mi sarebbe costato tempo e fatica mentre con Stefy si poteva andare subito al sodo. Fremeva di gioia nello scoprire quanto la sua bellezza mi turbasse e me lo dimostrò infilando un dito nell'elastico del mio costume, notando che mi stringeva un po' …

Dettagli che non sfuggirono alla custode dell'etica moralizzante, cioè Margherita che se la prese manco fosse lei il fidanzato che Stefy si preparava a cornificare.

 

-   Ha ragione Lidia sull'invidia che rosica tutte ste linguacciute.

 

Oramai avevo compiuto la mia scelta e di conseguenza ci separammo dal gruppo appena si liberò una sdraio a bordo piscina. Ci arrivammo di corsa e senza alcun imbarazzo lei mi si coricò accanto appoggiandosi su un gomito. Si cominciò a parlare del ti ricordi questo e quell'altro ed io le chiesi finalmente scusa per quella volta che la lasciai fuori dal portone della scuola ad aspettarmi. Mi rispose che era una vecchia storia e l'importante era solo il presente, ed io ora stavo lì con lei.

 

-   Gio' mi dice sempre che se voleva una santa, non si metteva certo con me.

 

Stefy mi confessò quanto le ero sempre piaciuto, fu allora che tirai il freno a mano. Non volevo che si aspettasse chissà quale impegno da parte mia, quindi iniziai a far leva sul senso di colpa verso il mio "ex capitano" nonché suo fidanzato. Lei trattenne un sorriso come se avesse capito il mio gioco prima che lo iniziassi a imbastire. Mi spiegò quanto poco romantici fossero i presupposti che spinsero il suo futuro marito a infilarle la fedina al dito.

 

-   Ti ricordi Iannucci Valerio? Mado' che bono!

 

Mi piaceva parlare con Stefy perché condividevamo quel piccolo passato che iniziava a delineare la nostra identità. Lei si ricordava anche di cose che le avevo detto e che ora mi tornavano indietro come messaggi in una bottiglia direttamente dal passato.

 

-   Ho avuto sempre un debole per i bei tenebrosi "stronziiiisiimiii".

 

Le chiesi dunque perché Giorgio le aveva detto che se voleva una brava ragazza si sarebbe fidanzato con un'altra.

 

-   Beh, era la sua festa e aveva invitato tutta la classe e, scema, pensavo di essere stata automaticamente invitata anch'io; invece gli sfigati non li avrebbero fatti entrare nel locale. Però non era stato proprio Valerio a dirmelo, ma quegli stronzi di amici suoi e pensavo che avrebbe apprezzato un gesto romantico. Lo dicevi pure tu no? "L'amore è una stella e per raggiungerla dobbiamo farla cadere con la forza del nostro desiderio".

 

"Se ci s'innamora di una stella, il solo modo di raggiungerla è farla cadere con la forza del nostro desiderio". Mi sorpresi a riascoltare quella frase perché l'avevo scritta sulla prima pagina del diario che avevo tentato di regalare a Giada per la festa del suo compleanno e che poi strappai lanciandolo oltre la balaustra di Ponte Sisto.

 

-   Gli comprai lo stesso il regalo e mi presentai alla pizzeria dove festeggiava. Dio mio! Divento ancora rossa dall'imbarazzo. Sono andata dritta al suo tavolo e gli ho dato il pacchettino, era una sciarpa della Roma come ne avrà avute chissà quante, però mi disse grazie e m'invitò a sedermi.

 

Mentre raccontava, Stefy si agitava moltissimo come sempre. Faceva svolazzare la mano in aria che poi adagiava sul mio petto quando il racconto le faceva pesare le parole da pronunciare.

 

-   Nessuno mi rivolse la parola. Mangiai per tutto il tempo e mi ubriacai di Coca Cola perché era la sola cosa che potevo fare. Andai al bagno a fare pipì. Il bagno stava in un posto assurdo … nell'interrato. Ci trovai quegli stronzi di Spezzali e Marcantonini e iniziarono a dirmi facci questo e quell'altro. E lo sai che c'è, mi sono detta, tanto se aspetto le stelle cadenti, rimango zitella tutta la vita e gli ho fatto una sega in tandem.

 

Era dunque andata così? Stefy aveva masturbato quei due che andarono a raccontarlo a tutti, gonfiando l'accaduto fino a trasformarla in una puttana?

 

-   Non m'importa di quello che pensa la gente, l'importante è divertirsi, no?

 

Poi conobbe Lidia che teneva le fila del club delle cattive ragazze e si rese conto di quanto ipocrita fosse il mondo delle donne e pavido quello degli uomini. Terminata la sua confessione, mi sussurrò all'orecchio se mi andava di divertirci un po'. Ammetto che l'intraprendenza di una femmina metteva in crisi anche me.

 

-   Lo conosco io un posticino tranquillo.

 

A nulla valse accampare scuse sull'immediato e mi ordinò di seguirla senza dare nell'occhio. I bagni del settore B erano sotto gli spalti riservati al pubblico, però Stefy non si diresse verso i cancelletti delle gradinate, bensì percorse l'intero perimetro della piscina per andarsi a infilare nel corridoio della piccola sala pesi. Prima di giungervi si voltò un attimo per indicarmi la direzione dove svoltare. Conoscevo bene quel corridoio ma non mi ero mai accorto che dietro una porta si celavano delle scale che conducevano fino al tetto.

Stefy salì di corsa perché quando entrai nella tromba delle scale, già sentii la molla della porta di sopra richiudersi. Saltai sui gradini e quando entrai nel corridoio superiore, vidi la sua chioma svoltare sulla sinistra. In ogni modo non eravamo i soli a compiere quel percorso, sulla svolta a destra del corridoio che dava sulle scale d'emergenza, c'era una combriccola che rideva e sbevazzava, mentre lungo il tragitto dei bagni incontrammo altre persone, uomini per lo più, che procedevano a passo lesto e sguardo basso, lo stesso che teneva Stefy che si toccava la fronte chinando la testa ogni volta che ne incrociava uno.

 

-   Che fai lì impalato!

 

Giunti davanti ai bagni, Stefy mi fece cenno di aspettare e subito dopo riuscì rimproverandomi perché ancora non entravo. Quei bagni erano molto grandi e i lavandini si stendevano davanti alla lunga fila delle porte dei gabinetti, da cui proveniva un inequivocabile rumoreggiare.

 

-   Mettiti di spalle alla porta …

 

Una volta dentro un gabinetto, Stefy mi spinse contro la porta perché non c'era la serratura ed evidentemente le era capitato che qualcuno la aprisse assai inopportunamente. Tutta quella situazione non mi andava bene. Forse era per la concitazione ma Mr Wigly proprio non voleva saperne di svegliarsi …

 

-   Fa troppo caldo qui dentro …

 

Sì, ci si squagliava dal caldo lì dentro e poi non potevo certo dirle che non lo sapeva succhiare bene.

 

-   Non vuoi neanche che ci riprovi?

 

A conti fatti neanche mi andava una pompa. Insomma, volevo fare e non ricevere, solo che l'imbarazzo per la debacle m'impediva di comprenderlo e volevo solo togliermi da quella situazione.  

 

-   No, qui no!

 

Comunque anche il caldo claustrofobico di quel gabinetto aveva avuto la sua parte, perché una volta fuori mi sentii subito meglio e la afferrai per la vita mettendola seduta sul piano dei lavandini.

 

-   Se entra qualcuno …

 

E va bene, lì in mezzo ci avrebbero sicuramente visto, ma tanto era chiaro che in quel posto ci si andava tutti a fare la stessa cosa.

 

-   Nooo, nuda nooo …

 

Era veramente difficile cogliere il concetto di nudità di Stefy, visto che indossava un triangolino che celava solo quello che al momento andava necessariamente scoperto; ma non ci fu niente da fare perché lei si tenne stretto il costumino e allora io mi chinai tirandomela contro la faccia.

 

-   Ma sei matto!

 

Ero matto se desideravo annaspare con la faccia tra le sue cosce? Volevo sprofondare in quella sua soffice, turgida morbidezza … assaporare e poi annegare in quel lago di miele. Riemersi ubriaco di ambrosia e tenendomi a quegli amabili seni, avevo bisogno di tornare a respirare attraverso il suo alito.

 

-   No che hai la faccia che puzza di figa …

 

Avrei voluto baciarla, ma lei mi respinse, allora le piantai due dita dritte contro la parete rugosa della sua prostata primordiale. La vidi tirare su un sorpreso e lungo respiro mentre d'istinto mi spalancò le cosce davanti. Le tenevo il capo a un palmo dalla mia faccia perché volevo rapirle ogni anelito di quella deliziosa tortura.

 

-   Oddio!

 

Il primo "Oddio" giunse comprensibilmente sussurrato nel momento che non potendo più trattenere il fiato, ricominciò a respirare. Dopo però ci fu proprio una stura in crescendo di gemiti che la fecero letteralmente ululare. Nel momento che allentai la morsa sul suo sesso, scattò come una molla raggomitolandosi tutta, con alle gambe una sorta di tremore nervoso.

 

-   Oddio … Dio … Dio … Dio …

 

Continuava a invocare Dio con una voce stranamente più profonda del solito, mentre lentamente si ricomponeva cercando di evitare il lago di umori su cui scivolava. Cercai di aiutarla, ma reagì come se il mio contatto le desse la scossa.

Iniziavo a preoccuparmi, ma dopo essersi calata goffamente lo slippino e lasciatasi cadere con il culo in un lavabo, cominciò a rinfrescarsi con il getto d'acqua gelida … allora iniziò a ridere.

 

-   No! Tu va a lavarti di là, questo è il bagno delle donne.

 

Si rimise in piedi ma barcollava come se fosse ubriaca. Mi rimproverò quando mi vide intenzionato a lavarmi perché quello era il bagno delle donne … e certo, che scemo a non averci pensato prima.

 

-   Ci vediamo di sotto passero mio …

 

Mi fece strano quando mi salutò davanti ai bagni degli uomini nello stesso modo con cui usava chiamarmi Lidia.

Comunque non era finita là perché il bagno degli uomini del settore B era un capitolo a parte. Se le donne usavano portare i ragazzi nel bagno delle femmine, che motivo avevano gli uomini di farsi due rampe di scale e un centinaio di metri a piedi per andare a pisciare in quei cessi così fuori mano? La domanda mi sorse spontanea appena misi piede nel bagno e ci trovai un certo movimento in punta di piedi. Non ci detti troppo peso e iniziai a sciacquarmi il viso, faceva proprio caldo e avrei voluto abbondare con l'acqua, ma il rubinetto a molla mi costringeva ogni volta a interrompere l'abluzione rigenerante. Stavo per ripetere l'operazione del cazzotto sul rubinetto, quando qualcuno lo fece per me.

 

-   Aveva ragione Marcello a dire che sei pericoloso.

 

Maurizio … era Maurizio. Chi era Maurizio? E' una storia lunga e che neanche io conosco fino in fondo. Lui, Marcello e Bea formavano un misterioso triangolo. Bea detestava Maurizio e lo omaggiava dei più svariati epiteti nella variabile tra "frocio" e "culattone", tuttavia gli ubbidiva con una strana devozione. Marcello, al contrario, non lo nominava mai invano e teneva al suo giudizio come se fosse il verbo del signore.

 

-   Sarai orgoglioso di averle fatto intonare l'Aida …

 

Maurizio era grande, ma non saprei dire quanto perché alla mia età mi sembravano "adulti" tutti quelli che erano sposati. Bea mi aveva raccontato che si erano incontrati in un gruppo di ascolto per ragazzi con trascorsi di violenze famigliari, ma non mi fu mai ben chiaro se lui era uno di loro o se faceva parte dei volontari che li seguivano. In ogni modo, la storia del frocio culattone risaliva a quando Maurizio fu accusato di molestare un ragazzino minorenne che abitava nel suo condominio.

 

-   Nessuno scrupolo di coscienza, vero?

 

Certo che con Maurizio ci conoscevamo, ma i nostri rapporti erano sempre stati molto formali. Si era diplomato all'Isef e aveva anche provato ad andare all'Università, ma dovendo lavorare alla fine mollò gli studi di scienze motorie. Credo che fosse proprio in quel frangente che Marcello mi chiese se al Circolo servivano bravi istruttori. Io lo dissi a Primo e da allora lavorava qui e là nell'ambito delle attività del Circolo.

 

-   Penso che avresti qualche problema, se qualcuno lo andasse a dire a Giorgio.

 

Maurizio si rivelò un bravo istruttore e diversi clienti del circolo lo assunsero come preparatore atletico personale. Tanto di cappello, ma a me non era importato mai nulla e, anzi, da quando l'amicizia con Marcello s'incrinò, lo avevo evitato come la peste. Lui, invece, sentì sempre molto il debito di gratitudine verso Primo e cercava di sdebitarsi impicciandosi dei miei affari.

 

-   Ti apparti con Lella, oggi ti fai la fidanzata del tuo ex capitano …

 

Avevo avuto modo d'incrociarlo sia il giorno avanti mentre tornavo negli spogliatoi con Lele e poco prima, quando entravo nella tromba delle scale che conduceva agli spalti.

 

-   Aoh, ma che cazzo vuoi?

 

E mi stava spaventando con tutte quelle chiacchiere! Lo svicolai per andare a mettermi contro un orinatoio, sicuro che almeno lì non avrebbe potuto continuare a rompermi le scatole. Dovevo pisciare ma, senza l'intimità di una porta sprangata, ci metto sempre parecchio tempo a trovare la concentrazione giusta per farla. Speravo che in quella posizione potessi aspettare che le cose si risolvessero da sole, invece, il tizio che stava qualche orinatoio più in là, fece un balzo davanti a quello accanto al mio e poi mi accorsi che sbirciava piuttosto platealmente … me lo guardai cercando d'imbruttirgli, ma di tutta risposta allungò una mano!

 

-   Francamente pensavo a qualcosa più all'altezza della tua fama.

 

Lo so che avrei dovuto respingere quel tizio, ma sul principio ci rimasi proprio di sasso e dopo … beh, dopo c'era il fatto che con Stefy non avevo quagliato e quella stretta virile era tutt'altro che spiacevole. Avvampai dal pudore quando Maurizio mi si accostò, quell'altro levò subitaneamente la mano e lui commentò sardonicamente le misure della mia erezione.

 

-   Cerchi rogna? E tu la pianti per favore!

 

Sì, ero proprio spaventato e gli chiesi di lasciarmi stare e dissi pure a quell'altro di piantarla perché nel frattempo aveva riallungato la mano come nulla fosse. Maurizio di tutta risposta iniziò a pisciare con il pisellone di fuori … quindi ricacciai il mio nel costume e presi in fretta la via della porta d'uscita.

 

Fine Parte Seconda

 

-   Com'è andata oggi?

-   Ma niente, cose strane …

-   Cioè?

-   Un tizio nel gabinetto ha tentato di masturbarmi.

-   Che! Hai chiamato qualcuno?

-   Perché?

-   Come perché?

-   Non era così spiacevole.

-   …

-   Pronto, ci sei ancora?

-   Sì.

-   Ti sei mai fatto fare una sega da un ragazzo?

-   …

-   Ehi!

-   Possiamo cambiare discorso?

 

Parte terza

 

Il Santone

 

 

-   Ma anvedi questo, cinque grammi pe' 'na pompa e che ce l'hai d'oro?

 

Quando arrivai la mattina dopo, trovai Lele ad aspettarmi e dopo essersi congedato dagli altri elargendo benedizioni papali, facendo sganasciare dalle risate tutti, mi fece cenno con il capo di seguirlo negli spogliatoi.

 

-   Er buon giorno se vede dar bocchino e tu me ne devi uno moltiplicato pe' cinque grammi.

 

Lele era stranamente offeso e non poteva certo essere perché non onoravo l'accordo dei cinque grammi di hascisc per cinque bocchini. Avrebbe ben potuto reclamare quello che gli spettava anche il giorno prima, invece si lamentava perché non me l'ero filato per tutto il tempo e del fatto che se volevo rimettermi a fare marchette con quelle "sgallettate", lui non mi avrebbe più fatto da ricettatore di collanine da quattro soldi.

 

-   Le collanine le vanno a venne i tossici e se permetti er sottoscritto non ce n'ha bisogno.

 

Facevo davvero fatica a riconoscermi nella figura che Lele stava cinicamente tratteggiando. Quello ero io, lo ero stato almeno un tempo? Oppure quella era una figura funzionale che avevo usato per gestire il rapporto con lui? Quanto conta alla fine l'opinione che gli altri hanno di noi? Avevo paura di dimenticare chi ero e finire per credermi quello che gli altri pensavano di me.

 

-   …

 

Era sorprendente come riuscissi ad avere comunque un'erezione nonostante l'aria fosse stagno fuso che mi solidificava il respiro. Quasi fossi attaccato a un meccanismo a corde che si tendeva fino a farle saltare una dopo l'altra, perdevo progressivamente i nessi logici per comprendere i moti del mio corpo.

 

-   …

 

Non riuscivo a eiaculare e allora mi penetrò con le sue dita lunghissime ed è brutto sentirsi dentro qualcuno che non stimi e non vorresti che ti sporcasse. Eppure il corpo è un congegno che ha bisogno di una volontà e in quel momento il mio ubbidiva a Lele.

Quella giornata per me era finita prima di cominciare e filai dritto nello spogliatoio degli atleti per farmi la doccia e andarmene via. Ma perché? Perché? Mi chiedevo mentre insaponavo inutilmente la mia coscienza.

 

-   Dove cazzo stai andando?

 

Infilati pantaloncini e magliettina, misi il borsone in spalla e presi la direzione della porta di servizio, quando mi sentii rincorrere e poi chiamare. Era Stefy completamente in preda al panico, che la rendeva ancora più sopra agitata del solito.

 

-   … è stata tutta colpa tua e ora non puoi lasciarmi in mezzo ai guai …

 

Maurizio aveva ragione e il giorno prima qualcuno ci aveva visto … forse anche più di qualcuno. Poco ma sicuro che in tanti ci udirono e secondo Stefy anche chi non la conosceva scoppiava a riderle dietro.

 

-   Stamattina viene Gio' … se te ne vai, io gli dico che mi hai violentato, bastardo!

 

Femmine. Non puoi pensare di scopartene una senza tirarti dietro una caterva di guai. Stefy minacciò di raccontare che l'avevo abusata e a quel punto il panico venne a me. In fondo era preferibile una scarica di botte da Pontesilli che l'ennesimo scandalo in famiglia.

 

-   … ma come facciamo adesso!

 

A Stefy premeva soprattutto che il fidanzato non la lasciasse e non la smetteva di parlare impedendomi di mettere insieme una storia credibile che la affrancasse da ogni responsabilità.

 

-   … sei sicuro di volerlo affrontare da solo?

 

Le proposi di tornarsene a casa, tanto scema com'era, avrebbe solo complicato la situazione. Tornai in piscina per rendermi meglio conto di come stavano le cose e magari ricevere un consiglio sul da farsi. Lele scoppiò a ridere e tutti gli andarono dietro. Mi sedei lo stesso ad ascoltare le loro opinioni, ma l'unica cosa assennata la disse Margherita che mi consigliò di lavarmene le mani, tanto "quella" la dava a chiunque ed era ora che il suo ragazzo se ne rendesse conto.

 

-   Dovresti sapere che è proibito entrare in acqua senza cuffia …

 

Mi avvicinai al ciglio della piscina e feci un piccolo balzo in avanti, così, giusto per controllare se lo stagno fluido che continuavo a ingollare, mi aveva reso abbastanza pesante da affogare. Immerso in un altro elemento, riuscii a sospendere l'assordante acciottolarsi dei secondi, l'unico problema era che non affondavo, al contrario, faticavo a trattenere l'acqua che mi respingeva in superficie.

 

-   Vaffanculo.

 

Alle scalette di risalita ci trovai Maurizio. Mi ero già accorto di lui perché stava accoccolato sul bordo della piscina ad aspettare che riemergessi. Avevo la mia gatta da pelare e non gli detti modo di ricominciare a parlarmi in quel suo modo morboso. Filai dritto in mezzo agli altri, ma non c'era più spazio per sedersi neanche sui teli per terra.

 

-   … scambiamo solo quattro chiacchiere e poi te ne torni qui.

 

Maurizio mi propose di seguirlo nella sala pesi per fare quattro chiacchiere e non seppi trovare nessuna scusa.

 

-   Darling! Vie' 'n po' qua …

 

Lele ci rincorse saltellando sui suoi originalissimi zoccoli di spugna e mi tirò da parte.

 

-   'Ndo stai annà co' quello? Bada, acqua 'n bocca cor santone ch'è 'na busta gialla.

 

Persino con quel cesto di fiori in testa e una maschera di bellezza al cetriolo in faccia, Lele riuscì a trasmettermi la seria minaccia di quanto mi stava dicendo e quando ripresi lo stesso il cammino verso la sala pesi, mi richiamò nuovamente …

 

-   Pe' sta mattina stamo pace, vabbe'?  Lo sai che scherzo sempre … c'avevo solo voija … scordamose tutto, vabbe'?

 

Ci mancava poco che mi pregasse di non andare con Maurizio e alle brutte mi abbuonò persino i cinque grammi di fumo.

 

-   Lella che aveva da raccomandarsi tanto?

 

Con Maurizio ci accomodammo nel piccolo stanzino dell'amministrazione.

 

-   Perché lo chiami Lella?

 

Se c'è una roba che m'infastidisce, è quando sento denigrare i miei amici, così glielo chiesi chiaro e tondo perché disprezzava tanto Lele.

 

-   Lella è una checca che semina lo scompiglio nella vita delle persone.

 

Che strano! Solo in quel momento mi accorsi che le eccentricità di Lele rientravano nei cliché di una checca.

 

-   Ti sta ricattando, vero? Gli devi dei soldi per la droga per questo ti costringe ad appartarti con lui, giusto?

 

Acqua in bocca.

 

-   Tu non sei uno che se la canta. Marcello ti ha istruito bene sul codice d'onore della mala, non è così?

 

Aveva ragione quella giudice a considerarmi un disadattato sociale perché i fatti conducono inevitabilmente a logiche conclusioni. Avevo attraversato tutti quei disagi sociali che ora identificavano una persona che non riconoscevo più.

 

-   Di che droghe fai uso?

-   Che!

-   Oltre a quelle legali, ovviamente.

 

Era stato sicuramente Marcello a parlargli del Tavor.

 

-   Non prendo più quella merda.

-   E' stato Marcello a iniziarti all'hascisc?

-   Fumo solo qualche canna, non ci sto mica a ruota!

-   E allora perché arrivi a fare marchette per procurartela?

 

Facevo marchette! E' strano ma finché non te lo senti dire in faccia da un perfetto estraneo è difficile rendersene conto.

 

-   Lele è solo un amico.

-   Come la ragazza di Pontesilli? Ti sembra normale scopare con tutti i tuoi amici?

 

Se ti agiti troppo, finisci per attirare l'attenzione di persone come Maurizio: buoni samaritani sempre con il cerino pronto per appiccare il fuoco alla pira.

 

-   Che vuoi da me?

-   Nulla di quanto stai pensando.

-   …

 

Avevo una paura dannata che quel discorso finisse con la necessità di salvarmi andando a raccontare tutto a Primo.

 

-   Ti tengo d'occhio da quando hai conosciuto Marcello e Bea, ma evidentemente loro non mi dissero tutto e non voglio neanche pensare come ti abbiano potuto rovinare fino a questo punto.

-   Come stanno?

-   Hanno intrapreso una strada da cui tornare indietro è impossibile.

-   … si drogano?

-   Fosse solo questo.

-   Sono diventato come loro, vero?

 

Decontestualizzando i fatti e prendendoli per il significato stretto delle azioni compiute, ero diventato violento come Marcello e non riuscivo a tenermi le mutande tirate su esattamente come Bea.

 

-   Io posso aiutarti solo se me lo permetterai.

 

Tra le tante attività che svolgeva, Maurizio teneva un gruppo d'ascolto nell'ambito di un consultorio.

 

-   … ci sono anche altri tuoi ex compagni di squadra …

 

Maurizio si dava proprio da fare e aveva già portato nel suo centro di recupero, altre due mie conoscenze. Il primo era Luca Marfori e l'altro … niente poco di meno che Agostinelli Carmelo!

 

-   Noi ci riuniamo una volta a settimana, ma teniamo altre attività che potrebbero piacerti.

 

In sostanza mi stava offrendo una soluzione a tutti i miei disagi sociali. La proposta era allettante perché chi non vorrebbe diventare normale?

 

-   Con Pontesilli ci parlerò io, ma tu ora te ne torni a casa e qui dentro non ci metti più piede.

 

Maurizio era un non-omosessuale che promulgava la soluzione al suo "problema" attraverso la tesi cattolica del sesso, cioè da praticarsi solo a scopo procreativo anche nell'ambito matrimoniale. Con questo presupposto aveva impalmato la consorte e ora si sentiva un santo per essersi imposto la castrazione anale.

Secondo la sua opinione, la promiscuità induceva gli uomini a quel sesso bulimico causa di dipendenza alla stregua della droga. Era quindi un male sociale da curare attraverso l'istituto della famiglia che santificava l'atto lussurioso e con il suo frutto era capace di affrancare l'uomo dall'istinto bestiale.

La sodomia era l'emblema della sciagura, la pratica del male che abita nelle viscere più putride del corpo. L'atto diabolico che si fa incubo del maschio e dal cui parto nascerà lo scandalo.

 

 

Fine Parte terza

 

-   … e perché non ti va più di andarci?

-   Mi sono stancato di stare a mollo e poi tra un po' ricomincio gli allenamenti.

-   Invece questo posto dove vuoi andare dove sta?

-   Vicino casa mia, al Teatro dell'Orologio ma è una roba sociale, neanche si paga.

-   Lo hai detto a tua madre?

-   Non potrebbe rimanere una cosa tra noi?

-   Ragazzino, ma non si tratterà mica di un centro sociale pieno di tossici!

-   Ecco, tu sei come lei.

-   Non se ne parla tu non ci vai.

-   Si tratta di un centro d'ascolto con tanto di assistenti sociali.

-   …

-   Sei svenuto?

-   No … è che non pensavo …

-   Ma se mi dai continuamente del drogato!

-   Senti … fumare le canne è sbagliato, ma in quei posti ci vanno le persone malate.

-   Ho paura.

-   Di cosa?

-   Combino sempre casini … sono stanco di sentirmi sbagliato … voglio curarmi.

-   … non hai niente di sbagliato …

-   Lo dirai a mia madre?

-   Mi stai chiedendo di mentire su qualcosa che sicuramente disapproverebbe.

-   Sei una cima quando ti ci metti!

-   Si tratta di una volta a settimana, giusto?

-   Il gruppo d'ascolto sì, ma vorrei seguire anche un corso di trend autogeno che tiene l'amico di Primo.

-   E che roba è?

-   Controllo della respirazione … Maurizio dice che l'ansia si controlla con la respirazione ed è colpa dell'ansia se fumo.

-   …

-   Maurizio ha ragione … lui sa come mi sento …

-   A me questo tizio non piace.

-   Bruno, se non trovo una soluzione finisce che m'ammazzo, chiaro?

-   …

-   Allora?

-   Domani ti porterò al mare con me.

-   E perché?

-   E' evidente che non puoi stare da solo.

-   Non ci vengo al mare in mezzo a gente che non conosco e non mi vuole tra i piedi, ok?

-   Innominiddio! Che devo fare?

-   Lasciami andare in questo consultorio, che vuoi che mi succeda?

-   Alla fine bisogna sempre fare quello che decidi tu, mi sembra ovvio.

 

Parte Quarta

 

Il Ragioniere

 

 

Il gruppo di ascolto non somigliava per niente a quello che mi aspettavo che fosse. Io ero cresciuto con i telefilm americani e credevo di dovermi sedere in circolo a raccontare in qualche modo il mio problema. Invece in quella stanza trovai le sedie disposte in fila davanti a un tipo che celebrò una lezione sugli effetti nefasti del cattivo controllo sulle pulsioni del proprio corpo.

 

"Quando non controllate più le pulsioni … avete perso il controllo della vostra vita".

 

Maurizio mi aiutò a compilare un ciclostilato prima d'incontrare lo psicologo. Sulla sezione delle aree d'interesse Maurizio sbarrò quelle riguardanti il disagio famigliare, disturbi comportamentali e tossicodipendenze. Oltre alle domande più ovvie che servivano a identificarmi come sesso, età e quant'altro, trovai fastidioso rispondere a quesiti del tipo se andavo a messa la domenica, qual era il mio progetto di vita oppure se mi piacevano i fiori e se attraversavo la strada sulle strisce pedonali.

 

"Qualsiasi dipendenza che sia per il cibo, per il gioco d'azzardo o la droga … vi isola e allontana".

 

Mi misi in fila fuori la stanza dello psicologo con un post-it in mano, su cui alla reception avevano scritto un numero. Sembrava di fare la fila per una visita medica della mutua con la gente che scambiava notizie sul medico.

Lo psicologo era un uomo e aveva degli occhiali tondi su un naso dalla cartilagine posticcia. L'aspetto più inquietante era la sua voce che mi ricordava quella del mio vecchio medico di famiglia: il Dottor Carrisi.  

 

"Meno vi stimerete e più concederete spazio al piacere momentaneo … autolesionista".

 

Il Dott. Lonza mi salutò invitandomi a sedere e credo che volesse usarmi una particolare gentilezza quando mi pregò di dargli del tu. Quello che avvertii, invece, fu il cliché delle domande che tendevano a incasellarmi in delle patologie ben precise. Mi spaventò particolarmente quando mi chiese se mi ricordavo il nome del consulente famigliare che mi aveva seguito durante la pratica di adozione. Io non me lo ricordavo e allora si annotò i miei dati per scoprirlo da solo, fu allora che gli chiarii che ero là per risolvere dei problemi e non crearmene di nuovi.

 

"L'istinto ci riduce a bestie affamate incapaci di guardare al domani … distrugge il futuro".

 

L'incontro con lo psicologo durava venti minuti ma diminuivano assecondo il ritardo con cui era solito arrivare … sempre se arrivava, perché capitava che dopo l'attesa, telefonasse per rimandare a causa d'improvvisi impegni professionali. In tal caso, si passava il giorno dopo per prendere la ricetta … insomma, l'impressione era di assolvere una formalità per ricevere lo psicofarmaco adatto alla propria esigenza.

 

"La violenza e il sesso sono le principali valvole di sfogo di una personalità repressa".

 

Sostanzialmente il mio gruppo d'ascolto si occupava di dipendenze, ma salvo che non si alzasse la mano per chiedere una risposta sul proprio specifico, si ascoltavano solo delle lezioni che vertevano sul valore dell'autostima.  Il mio vero gruppo d'ascolto si formava durante l'attesa dello psicoterapeuta. Lì c'era gente con seri problemi comportamentali, ad esempio una signora piuttosto anziana era solita attaccar bottone, lo fece anche con me, sembrava molto simpatica e tutto, salvo che alla fine del discorso ti chiedeva se poteva "gentilmente" farti una sega.

 

"Rispettare un impegno anche piccolo come questo corso, è il primo passo per riprendere in mano la vostra vita".

 

Mi fu spiegato che un individuo è come un palloncino che man mano si gonfia di vita. L'educazione è la forma in cui esso si espande. La buona riuscita della crescita dipende essenzialmente da due fattori: la capienza del palloncino e la quantità di vita soffiataci dentro. Io mi gonfiavo troppo in fretta e il rischio che esplodessi era assai probabile. Tuttavia la mia capienza sembrava essere in grado di contenere l'eccezionale apporto di vita. Il problema era la forma in cui si cercava di educarmi. L'azione costrittiva induce il palloncino a trovare fessure dove sfogare la pressione interna, formando pericolose escrescenze.

La sessualità è una di quelle fessure dove la pressione nel palloncino trova sfogo. Nel mio caso lo psicoterapeuta fece risalire la costrizione esterna a mia madre e il desiderio per una figura paterna assente aveva determinato lo sfogo della pressione interna in una sessualità ancora in via di definizione. Insomma, ero violento per colpa di mia madre e frocio a causa di quel padre che non conoscevo … aveva proprio ragione Lele: meglio nascere orfani.  

 

-   Che stiamo aspettando?

 

Evitare lo psicologo era facile, bastava non andarci e quello neanche si ricordava di te. Il gruppo d'ascolto, invece, teneva un appello che si doveva firmare se si voleva accedere gratuitamente alle altre attività. In particolare era necessario per partecipare al gruppo di trend autogeno che teneva Maurizio e a me quello piaceva moltissimo.

Il corso di trend autogeno si teneva proprio sul palco del teatro e per questo fu facilissimo iniziare anche quello di mimo. Mi piaceva come in entrambi si scendesse nei dettagli dei movimenti interni ed esterni del corpo. Il problema era che ogni volta che si aggiungeva qualcuno, e capitava regolarmente, il programma subiva un arresto. Compresi che a nessuno interessava terminare quel percorso, tanto meno agli istruttori che lo consideravano solo il complemento di una terapia. Sì, perché tutto verteva al fine di darci i mezzi per sopportare l'effetto claustrofobico che ci dava la camicia di forza di un ruolo sociale.

 

-   Saliamo a casa tua …

 

Per il resto frequentare un posto del genere, aveva dei risvolti indirettamente nefasti, nel senso che in nessun altro luogo avrei potuto incontrare tante persone con problematiche anche più deleterie delle mie.

 

-   Al beveraggio ci penso io …

 

I miei ex compagni di squadra non li incontrai al gruppo d'ascolto che loro avevano già frequentato, bensì al corso di trend autogeno. Maurizio lo usava come un proprio consultorio e aiutava a suo modo i ragazzi per rimettere insieme i cocci di una vita altrimenti scombinata.

 

-   … dai che col ragioniere stasera ci sgarriamo dalle risate.

 

Fu bello rincontrare Carmelo che mi salutò bestemmiando il Padreterno perché aveva dato a me i centimetri che mancavano alla sua statura. Lui seguiva Maurizio da quando aveva iniziato a lavorare come stagista in uno studio commercialista. Odiava il lavoro e tirando ai venerdì, quelli che fino a quel momento erano stati dei divertimenti assunsero rapidamente la forma di dipendenze.

Tutto era cominciato quando con Mattia facevano le porcate, cioè masturbarsi in luoghi pubblici, allora frequentavano anche i sexy shop del padre di Lidia e fu in una di quelle bacheche per annunci che appese una polaroid del proprio cazzone con tanto di numero di telefono per essere contattato. Da allora la figa non gli era mai mancata, solo che a telefonargli erano sempre dei mariti disposti anche a pagare per guardarlo mentre li faceva cornuti. Mi raccontò che la trattativa si svolgeva sotto il ponte della Via Flaminia, dove ci sono anche i camper delle trans, fu così che dagli un'occhiata oggi e una domani, volle provare la "novità". Con loro scoprì l'intesa perfetta tra sesso e cocaina, però i soldi che alzava con le coppie sposate non gli bastavano per certi lussi. Finì per indebitarsi e alle strette chiese aiuto a Maurizio che non si tirò indietro.

 

-   Ma è sicuro che ci viene?

 

La vera sorpresa fu incontrare anche Giorgio! Erano trascorsi alcuni giorni dal fattaccio con Stefy e non nascondo che rimasi spiazzato dal suo saluto a dir poco fraterno. Tutto si spiega con il problema che Giorgio stava risolvendo con l'aiuto di Maurizio. C'è da dire che Maurizio era il suo personal trainer e quindi anche confidente, per questo non aveva bisogno di frequentare il consultorio per partecipare ai corsi, cosa che … sorpresa delle sorprese … faceva invece Stefy.

 

Lei frequentava il consultorio da anni! Scoprii da Carmelo che la storia della sega in tandem alla festa di compleanno di Iannucci Valerio era una balla; quella volta il suo principe azzurro le rise in faccia, altro che invitarla a sedere. Fu invece nei bagni della scuola che iniziò la carriera di "bocchinara" e ai cessi del suo piano c'era la fila peggio che a una "pompa" di benzina sul raccordo anulare, quando la prof la pizzicò con il passero in bocca e fu spedita in consultorio.

 

La storia di Stefy s'intrecciò con quella di Giorgio per intercessione proprio di Maurizio. Giorgio era sempre stato uno di quelli che sotto le docce ti tocca il culo per scherzo, ti strizza il capezzolo quando ti saluta e non parla d'altro che di figa in relazione al cazzo. Ora non so se fosse anche dedito alla pratica della manola "la mano che ti consola", però che gli piacesse l'amore di gruppo era risaputo per aver proposto a tutti di scoparsi una puttana in batteria. Era uno di quegli uomini che amano stare tra maschi e usano le donne solo per rinsaldare lo spirito del branco.

Quando Giorgio andò a studiare fuori sede all'Università, si trovò in una situazione che favorì questa sua inclinazione. I compagni di stanza divennero amici di letto e a casa loro c'era una festa ogni sera. Il risultato fu un ovvio disastro sotto il punto di vista degli esami e i suoi lo richiamarono a Roma, dove il buon Maurizio si accollò l'onere di rimetterlo sulla retta via. A tale scopo gli presentò Stefy e i due strinsero un patto più che un fidanzamento, attraverso il quale si dava una forma sociale rassicurante alle loro depravazioni. Ovviamente questo stava nei fatti ma non nelle intenzioni e quando Maurizio mi vide con Stefy, pensò che sarei stato la causa del fallimento del suo progetto "sanitario".

 

-   Sì che viene … me l'ha chiesto lui se poteva venire!

 

Luca Marfori era il compagno di squadra che al ritiro di pallanuoto aveva accostato la sua branda alla mia. Era un bravo ragazzo, da cui però non si poteva pretendere troppo a livello intellettuale. Come Giorgio, faceva parte di quella tipologia di maschi che hanno necessità di condividere la propria privacy con i compagni e per lui la masturbazione comune costituiva l'acme di un relazione amicale. L'adolescenza favorisce questo genere di rapporti tra i ragazzi, il problema giunse quando la morale di un'educazione sessuale integralista porta i giovani maschi a inibire ogni barlume di omosessualità. La maggioranza finge di dimenticare esasperando l'interesse per le donne, vincolando il linguaggio sessuale all'attrazione fisica ed escludendo la possibilità che esso possa giocare ancora un ruolo nella vita sociale tra maschi.

 

Luca non riusciva a fare a meno di quella catarsi sensuale. Viveva così all'insegna del divertimento cercando sempre pretesti per rimanere in giro con gli amici, tralasciando ogni impegno serio. La sua passione per la "manola" si espresse nei bagni tipo quelli del settore B in piscina, fu in questo modo che si lasciò "adescare" da Maurizio che, a quanto pareva, era un assiduo frequentatore di cessi pubblici. Il desiderio di redenzione di Luca era per il vero assai blando e il suo scopo era più che altro di trovare un metodo che limitasse la dissipazione di ogni propria energia nel cazzeggio sfrenato.

 

-   Eccolo che arriva!

 

Luca aveva partecipato alla festa di maturità di Carmelo e forse fu proprio lui che la fece diventare nell'immaginario collettivo un'orgia pazzesca. La festa l'aveva organizzata Lidia e sicuramente fu qualcosa di eccessivo sotto ogni punto di vista, però io vi partecipai in maniera assai dimessa; invece, il fatto che si svolse a casa mia, mi lasciò appiccicata la nomea di gran porco dedito a ogni sorta di dissolutezza. Giorgio e Luca appena mi videro in quel posto arrivarono alla conclusione che, come loro, messo alle strette dalla contingenza della vita, cercassi di darmi una regolata con gli eccessi. Giorgio in particolare, che non aveva partecipato alla famosa festa, si convinse di poter trovare con me e a casa mia quella dimensione orgiastica che aveva costruito lontano dalla sua famiglia.

 

Dopo l'incontro con Maurizio si era soliti fermarci un po’ nella Piazza dell'Orologio. Fin dalla prima sera Giorgio portò il discorso sulla festa di Carmelo, che al solito non lesinò in dettagli sulla folle notte. Giorgio aveva della marijuana e propose di andarcela a fumare a casa mia che stava praticamente dall'altra parte della piazza. Nessuno di noi ebbe alcuno scrupolo di coscienza a rompere il percorso virtuoso intrapreso con Maurizio. Anzi, girare la chiave nella toppa del portoncino del palazzo ebbe su di me un effetto liberatorio, era come se solo in quel momento stessi tornando da un lunghissimo viaggio.

Appena Giorgio varcò la soglia di casa mia, se ne appropriò. Disse che avevo un culo esagerato a poter disporre di quel popò di appartamento. Iniziò a fare progetti per seratine da urlo eccetera. Io Giorgio non lo conoscevo abbastanza da dire che mi stava antipatico, però la sua espansività a limite della prepotenza m'intimidiva al punto da rendermelo insopportabile. Provai a dirgli di Bruno che mi stava col fiato sul collo e Carmelo anche cercò di aiutarmi sottolineando che ero ancora un ragazzino, ma lui oramai aveva deciso e iniziò a lisciarmi viscidamente il pelo. Si propose di riaccompagnarmi a casa prima della telefonata di Bruno e disse che da quel momento avrebbe pensato lui a ogni cosa.

 

-   Lei fa proprio il ragioniere?

 

C'era da chiamare la neuro per capire cosa intendeva Giorgio per spasso. Ci riunivamo dopo pranzo, ma fosse stato per lui avrei dovuto aprirgli casa pure prima, tanto che provò anche a chiedermi una copia delle chiavi!

Giorgio ricopriva il ruolo di un selezionatore all'ingresso invitando Tizio o Caio per iniziarli ai suoi "divertimenti". Questi erano una sorta di regressione infantile. Si sbevazzava giocando a Monopoli o a qualsiasi altra cosa che prevedesse un pegno da pagare con qualche scherzo goliardico. Nel videoregistratore c'era sempre un "pornazzo" che teneva alta la tensione erotica, la quale però non trovava sfogo perché di ragazze non se ne vide mai nessuna. C'era però continuamente qualcuno con le pudende di fuori a scatenare l'ilarità collettiva.

 

-   Ma chi te lo fa fare a sopportare sta manica di segaioli …

 

Carmelo non partecipava ai nostri pomeriggi tra amici perché doveva lavorare. Anche se poi nelle serate dopo i corsi pareva divertirsi, quando mi riaccompagnava a casa, si chiedeva sempre perché continuassi a frequentare quella manica di segaioli. In effetti, era evidente quanto poco mi svagassi a stare con loro. Per lo più me ne rimanevo con le cuffie dello stero in testa a registrare cassettine. Quella sera in cui salì con noi il ragioniere, Carmelo ed io stavamo proprio scegliendo della musica per una playlist, quando ci vedemmo irrompere in cameretta Luca …

 

-   Porco disse, glie sta a rompe il culo sul serio!

 

Il divertimento più "godurioso" consisteva nel portare alla festa un "soggettone" da sbertucciare nei modi più perfidi. Che cosa inducesse quei poveri disgraziati a farsi mettere alla berlina non lo compresi mai, tuttavia di carne fresca ce n'era ogni volta. Quella sera era toccato al "ragioniere". Il ragioniere era un signore sulla sessantina che frequentava il corso di Maurizio. La sua unica eccentricità stava nel vestirsi sempre in giacca e cravatta, da cui il soprannome di ragioniere. A renderlo un bersaglio era soprattutto l'età e quella timidezza che cercava di risolvere con l'aiuto di Maurizio.

 

-   Sei un fottuto bastardo!

 

In realtà nessuno sapeva il vero motivo che aveva spinto il "barbapapà" a rivolgersi a un consultorio, del resto neanche potevamo immaginare che avesse tentato di togliersi la vita. Il ragioniere aveva la forma esteriore di un padre e come tale non gli concedevamo la possibilità di avere problemi esistenziali.

 

-   A Carme' è stato lui, Gio' non c'entra …

 

Dopo i corsi, in casa potevamo starci giusto un'oretta perché io avevo il coprifuoco, così ci salivamo solo noi quattro, ma quella sera Luca aveva fatto il colpaccio invitando anche il ragioniere. Giorgio pregustava la serie di sfottò con cui lo avrebbe goliardicamente bersagliato solo per raccontarli il giorno dopo agli amici. Per il vero nessuno di noi aveva dato troppo credito alla possibilità che alla fine il ragioniere sarebbe venuto, e ci sorprese vederlo attraversare la piazza con la testa china e la spalla destra leggermente piegata dall'abitudine di portare una pesante ventiquattrore.

 

-   Brutto nano ma sei diventato scemo? Sto frocione ce voleva pure paga'!

 

Il piano era di metterlo in difficoltà davanti a un "pornazzo" ma né io né Carmelo avevamo voglia di vedere Giorgio e Luca che convincevano il ragioniere a menarsi l'uccello, così ci appartammo in cameretta ad ascoltare la musica. Non trascorse neanche troppo tempo che Luca ci venne a chiamare, entusiasta di farci assistere a qualcosa di assurdamente spropositato: Giorgio si stava inculando il ragioniere. Sulle prime pensammo a un'esagerazione linguistica per intendere uno sberleffo di eccezionale perfidia e stavo per riabbassare la puntina sul disco, quando Carmelo mi fece cenno di aspettare. Di là stava effettivamente accadendo qualcosa di grosso perché si sentiva il tavolo della sala da pranzo spostarsi sotto dei colpi e contemporaneamente dei rantoli esagerati con Luca che continuava a esaltarsi.

 

La scena che ci si parò dinanzi era inequivocabile: le gambe magre del ragioniere con le braghe calate e la sua panza squagliata sopra il tavolo della sala da pranzo, mentre con le mani si teneva ai bordi per resistere ai colpi feroci che gli stava infliggendo il cazzone oversize di Giorgio.

Io non sapevo che fare, ma Carmelo non ebbe dubbi e spintonò Giorgio e quando questi provò a reclamare, gli menò un cazzotto allo stomaco che lo fece piegare in due. Luca intervenne in difesa dell'amico e chiarì che era stato proprio il ragioniere a fargli la proposta oscena. Ne scaturì una di quelle bagarre che si risolvono a parolacce. Mi stupiva la reazione del cinico Carmelo, che accusò Giorgio di non aver imparato nulla dagli insegnamenti di Maurizio. Cioè, lui ci credeva seriamente alle cose che insegnava Maurizio … in quel momento mi resi conto che non stavo prendendo seriamente la storia dei corsi eccetera …

 

-   Si sente bene?

 

Intano che quelli continuavano a dirsene di tutti i colori, io mi avvicinai al barbapapà che era rimasto abbracciato al tavolo senza dare segni di vita.

 

-   La schiena … sono rimasto bloccato.

 

Quel troll di Giorgio lo aveva proprio sderenato …

 

-   Dov'è il bagno?

 

Il ragioniere era rimasto piegato quasi perfettamente a novanta gradi e riusciva appena a tenersi in equilibrio. Si tirò sopra le mutande, ma scalciò via i pantaloni calati alle caviglie perché aveva urgenza di andare in bagno. Lo accompagnai sostenendolo e una volta là, gattonò tenendosi al lavabo e poi al bidè per raggiungere la tazza del gabinetto. Io mi sbrigai a richiudere la porta e tornai di là intenzionato a mettere fine alla baraonda.

 

-   Non me ne frega un cazzo di chi è la colpa e tanto meno se al ragioniere piace prenderlo in culo … non sono cazzi che mi riguardano, chiaro? Quello che m'importa sono i vicini che sentono sto bordello e il fatto che non riuscirò più a mangiare sul mio tavolo senza pensare alla puzza di merda del ragioniere … quindi ora vi sciacquate tutti dai coglioni e basta.

 

Io non sono uno che s'incazza e non alzo la voce neanche quando mi arrabbio, tuttavia non ho mai avuto bisogno di convincere qualcuno che facessi sul serio. Giorgio si scusò mentre mi sfilava davanti per uscire e Luca abbassò lo sguardo, Carmelo mi chiese se doveva aspettare per darmi uno strappo a casa, ma sapevo che il giorno dopo aveva l'alzataccia per il lavoro e non sapevo per quanto ne avessi avuto ancora per rimettere in piedi il ragioniere.  

 

-   Tutto apposto?

-   … ragazzo, potresti passarmi i pantaloni?

 

Bussai alla porta del bagno per assicurarmi che fosse ancora vivo … poi andai allo sportello della cucina, dove si sono sempre tenuti tutti i medicinali di casa. Cercavo del Lasonil ma trovai solo un tubetto di Aspercreme.

 

-   Le ricordo che l'ho appena vista prenderlo in culo sul tavolo della mia sala da pranzo …

 

Ordinai al ragioniere di uscire da quel cavolo di bagno, ma questo dalla fessura della porta voleva ancora che gli passassi i suoi dannati pantaloni. Gli risposi di traverso perché trovavo il suo pudore assurdo e com'era successo poco prima con i ragazzi, pareva quasi che le mie parole potessero offendere di più dei loro gesti.

 

-   Ce la fa a stendersi sul letto?

 

Il ragioniere in mutande non era proprio un gran bello spettacolo con le sue gambe sottili e un pancione bello gonfio, mentre camminava tenendosi con un braccio al fianco destro e con l'altro alla parete del corridoio. Gli tolsi la cravatta e aiutai a sbottonarsi la camicia, arrossì quando poco delicatamente non chiesi il permesso di sollevargli la maglietta della salute, e scoprii il suo ventre tondeggiante. Era mai possibile che un ragazzetto di quindici anni provasse tenerezza per un uomo che poteva essere suo padre?

 

-   Se le faccio male lo dica …

-   No … no … va benissimo, grazie.

 

Gli spalmai la crema sulla schiena pelosa e massaggiai energicamente. Siccome pareva gradire il massaggio, anche se non fiatava minimamente, estesi il movimento delle mani fin sopra alla cervice e quindi il collo. Fu allora che finalmente lo sentii rilasciare un sospiro.

 

-   Era la prima volta …

 

Interruppi lo strofinamento perché si moriva dal caldo. Aprii la finestra e quando mi voltai, mi presi un mezzo spavento a ritrovarmelo seduto come una divinità indù con la schiena dritta contro la spalliera del letto. L'aria della sera era dolce e portò nella stanza un gradevole profumo di cucina. Il ragioniere mi guardava fisso, poi strizzò un sorriso con gli occhi e m'invitò a sedermi sul ciglio del letto.

Mi chiese come mai alla mia età già vivevo da solo e altre menate del genere. Aveva una bella voce e soprattutto degli occhi grandi che si emozionavano facilmente.

 

-   Era la prima volta …

 

Sentì il bisogno di dirmi che quella era la prima volta che lo faceva. Mi raccontò che ai suoi tempi ti portavano nei bordelli a perdere la verginità, ma lui pagò la puttana affinché mentisse a suo padre che lo aspettava di fuori. A venticinque anni le donne del paese iniziarono a nicchiare il disappunto per il suo scarso interesse nei loro riguardi. Fu quando tutti i suoi cugini iniziarono a sposarsi, rendendo orgogliosi i propri genitori con frotte di nipotini, che cedette alle insistenze di famiglia affinché si ammogliasse. C'era una zitella con una gamba più corta dell'altra che accettò la sua corte. Lui sperava che quello fosse un buon affare per entrambi, ma le pretese della donna non erano inferiori a quelle di una qualsiasi altra moglie. Arrivò ad accusarlo in famiglia di non assolvere i suoi doveri coniugali, un'umiliazione che sperò di lavare il giorno in cui riuscì a metterla in cinta. Invece, neanche il sopraggiungere della figlioletta mitigò l'astio della consorte che per vent'anni ebbe per lui solo parole di sdegno. Il ragioniere però non la rimproverava perché non era mai stato capace di farle una carezza senza provare ribrezzo.

 

-   Lui aveva qualcosa di speciale …

 

A sedici anni aveva incontrato questo lontano cugino che era militare di stanza ad Ascoli. Nei giorni di licenza si fermava a casa loro perché non poteva tornare al sud dalla famiglia. Quel ragazzo mise in subbuglio un cuore già incerto e il desiderio per quel genere d'interesse non lo abbandonò mai più. Il peso della colpa crebbe con ogni menzogna pronunciata che coinvolgeva sempre più persone fino a diventare un intrigo d'inganni assai difficile da sostenere. Si dava dell'egoista perché non riusciva a dimenticare quelle labbra di soldato neanche in nome dell'affetto di una figlia che forse non amava abbastanza perché arrivò a cercare conforto nella morte, quando avrebbe dovuto pensare a lei prima di tutto.

 

-   Non so cosa mi è preso quando quel tuo amico mi ha toccato nei bagni.

 

Ecco come Luca lo aveva convinto a salire da me. Il cruccio del ragioniere non era comunque essere stato sodomizzato, quanto non averne tratto nessun sollievo. Nelle sue fantasie si era continuamente fatto sbattere e alla fine s'illuse bastasse questo per placare l'antico desiderio di quel bacio perduto. Ora, invece, aveva perso anche quella speranza perché le cose non stavano come sosteneva Maurizio. Quella sera il ragioniere aveva capito che i culattoni non erano i maschi cui piaceva prenderlo in culo, ma erano degli uomini che amavano altri uomini e questo non si può curare con nessun comportamento virtuoso.

 

-   Ci si deve curare solo da quanto ci procura dolore e morte ...

 

Gli dissi e che a farlo soffrire non era l'amore perduto ma la convinzione che questo fosse sbagliato. Mi guardò come se fossi una creatura aliena e poi si dette nuovamente dell'egoista perché se non fosse stato troppo vecchio e brutto, sarebbe uscito a cercare ancora quel bacio e allora perché insistere, perché continuare a trascinarsi fino al giorno della propria morte, tra il ludibrio di chi non può capire?

 

-   Si è fatto tardi …

 

Mi dispiaceva interromperlo ma dovevo tornare prima della telefonata delle undici e mezzo o chi lo sentiva a quell'altro rompiscatole.

In fondo, il ragioniere mi sembrava più sereno di quanto mai lo avessi visto prima. Quando si rimise la cravatta e spianò le maniche della camicia sotto la giacca, mi parse persino allegro.

 

Fine quarta parte

 

-   Come mai hai fatto tardi?

-   Mi sono fermato a parlare con un signore omosessuale.

-   Certo che gente normale in quel posto non se ne trova …

-   Ho imparato una cosa nuova.

-   Che cos'è?

-   Ai froci non basta uno stantuffo nel culo per essere felici, ma è certo che li mette di buon umore.

-   Che? Anzi no! Non voglio manco sapere come sei giunto a una tale conclusione …

-   Bruno, perché quella volta mi hai baciato?

-   Ancora con questa storia?

-   Lo sai che un giorno, quando sarai grasso e vecchio, potresti avere dei rimorsi?

-   Te l'ha detto il signore omosessuale?

-   Me l'ha detto un uomo sposato con una figlia … che è omosessuale.

-   Io non sono omosessuale.

-   Però mi hai baciato.

-   Ero strafatto!

-   Per un paio di tiri di canna?

-   Finiscila o riattacco.

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Capitolo Secondo

 

 

Quinta Parte

 

Il fantasma della Zia

 

 

-   Se solo tua zia potesse vederti …

 

Zio Gerardo venne a bussare alla porta di casa in uno di quei pomeriggi di spasso con la combriccola di Giorgio. All'epoca era già stato colpito da un paio d'ictus cardiaci, quelli che lentamente lo avrebbero costretto in un letto a morire tra le piaghe di decubito. Forse era la malattia che lo rendeva particolarmente incline alla malinconia, perché io me lo ricordavo come un uomo brillante, invece quel giorno pianse per tutto il tempo.

Mi portò delle chiavi che pudicamente si rivoltò nelle mani fino al momento di consegnarmele. Disse che non sapeva cosa farci perché non avrebbe mai voluto consegnarle ai figli. Io ero ancora troppo giovane per quella responsabilità, tuttavia sapeva che nessuno meglio di me conosceva gli "affarucci" della zia. Mi chiese dunque di aiutarlo a liberasi della roba che ormai da anni stava ammuffendo in un magazzino di Trastevere.

 

-   Bastava un gesto per farvi intendere!

 

Avrei dovuto rifiutare quelle chiavi, però mi spettavano di diritto perché la zia era morta lasciandomi solo con una scomoda verità.

 

-   Non voglio saperne niente … restituisci tutto.

 

E certo … era facile fingere che la sua fortuna professionale provenisse solo dal Padreterno, vero? Non voleva sapere come la moglie si procurava i favori, guadagnava la fiducia delle persone giuste, accumulava ricchezze. Era bello continuare a vivere nel mondo perfetto che la zia gli aveva confezionato.

 

-   … voi due …

 

Che cosa "noi due"? Voleva ricordarmi com'ero diventato il piccolo mostro dell'usuraia? Forse credeva che non lo sapessi di essere stato una delle tante cambiali in bianco che sua moglie gestiva strizzando soldi alla famiglia di mio padre?

 

Nel magazzino di Via della Longara a Trastevere ci trovai le ultime vestigia della zia: maniglie in porcellana di Boemia, zampe “en cabriole”, pannelli in rovere, tek coloniale, riccioli d’ebano rococò e acero occhilinato, lacche cinesi e bronzetti settecenteschi. C'era anche tanta paccottiglia che la zia affibbiava agli arricchiti in cerca di lusso che li facesse apparire meno cafoni.

Tutto era diligentemente inventariato in un registro. Accanto a ogni pezzo c’erano la data di consegna e un numero di telefono. Trascorsi un’intera mattinata a prendere contatto con i proprietari per proporgli il riscatto dei loro pegni. Per convincerli a riprendersi la roba offrivo il prezzo senza tasso di usura e il trasporto gratis … la zia si sarà sicuramente rivoltata nella tomba.

Il ricavato lo consegnai allo zio, ma un paio di pezzi li tenni per me. Mi presentai a nome della zia dal signor Porsetti, un antiquario di Via dei Coronari, e gli vendetti uno stipetto edoardiano in noce con uno chiffonier neorinascimentale. Se solo non avessi temuto che andasse a cinguettare all’orecchio dello zio quanto stavo combinando, avrei potuto farmi il giro degli antiquari e sicuramente avrei spuntato un prezzo più alto.

 

La zia comunque aveva ragione a sostenere di svolgere una vera e propria funzione sociale perché mi bastarono quelle telefonate per rimettere in moto il business. In quei giorni parecchia gente invece di comprare mi offriva altra roba in pegno. Ovviamente non volevo "rilevare" l'attività della zia, però quando mi vidi arrivare Sandrocchio, un vitellone che viveva molto al di sopra delle sue possibilità, che dal suo Porche tirò via un fagotto con dentro un bellissima Icona di chiara fattura cipriota, mi feci sedurre dall'affare. Non avevo i soldi che mi chiedeva, ma intuii subito a cosa gli servivano: cocaina, sia per sniffarla sia per pagare debiti regressi. Sandrocchio frequentava il Circolo Canottieri e quindi la droga gliela vendeva Brusco che più di un pusher era un amico di famiglia. Io lo conoscevo fin dai tempi della bisca che bazzicava Marcello, ma era passato tanto tempo e preferii tirare dentro l'affare anche Lele.

 

-   Questo sì che è un vero atleta, farà strada te lo dico io!

 

Brusco di sport non ci capiva proprio niente, ma di coca agli atleti ne doveva vendere a vagonate.  Lo avevo lasciato nel retro di una sala da biliardo e lo ritrovai padrone di un centro sportivo sulla Collina Fleming, frequentato da star della televisione e calciatori.

Appena mi vide si ricordò immediatamente chi ero perché partecipava a tutte le serate di gala del Circolo Canottieri e c'era anche lui all'ultima premiazione dell'atleta dell'anno. Mi presentò in pompa magna a Heather Parisi con cui stava conversando, sembrò voler darsi un certo tono mostrandomi la soubrette televisiva.

 

-   Sei sicuro di voler rilevare il debito di Sandrocchio?

 

Sandrocchio stava fuori per una bella cifra e allora chiesi del tempo per valutare se il gioco valeva la candela. Del resto di Icone false di buona fattura era pieno il mondo ed io non ero certo in grado di distinguerle. Chiesi a Brusco una deroga sulle scadenze per accertarmi di rientrare con l'investimento. Lui mi dette un buffetto sulla guancia e disse che ero sempre stato un ragazzo giudizioso.

Sapevo dove piazzare l'Icona, il conte M. ne aveva una collezione importante e lo conoscevo bene dai tempi del ricevimento del giovedì dalla principessa.

 

-   Santo cielo, ma sei proprio tu!

 

Il conte mi stava molto simpatico perché si era sempre divertito ad ascoltare le mie teorie bizzarre. Si stupì molto sentendosi proporre l'affare e mi gelò il sangue nelle vene quando mi chiese se Paolo era al corrente di quei miei loschi traffici. Io avevo creduto di essermi lasciato alle spalle i tempi che frequentavo il palazzo Della Torre, invece scoprii che anche Paolo vi era legato e non ricordavo assolutamente che mi era stato addirittura presentato prima che diventasse mio padre.

 

-   Concluderemo l'affare, ma solo alle mie condizioni …

 

Parlai al conte con falsa sincerità e lui mi concesse di mostrargli la merce. Portammo l'Icona da un professore suo amico e rimanemmo tutti basiti dal fatto di trovarci in mano un pezzo "fuori mercato", tanto che il conte non se lo poteva permettere … o voleva alzarci anche lui dei soldi, in ogni modo chiuse la trattativa con un collezionista molto facoltoso. Il prezzo della mia transizione fu consegnato a Paolo che me lo accreditò su un conto bancario …

 

-   I tuoi soldi rimarranno al sicuro fin quando non compirai diciotto anni.

 

Lasciai credere al conte che il mio committente fosse lo zio, così da comprendere da solo il modo in cui quella merce era arrivata nelle nostre mani; mentre Sandrocchio non capì mai il valore di quanto mi aveva ceduto; anzi, mi baciò mani e piedi per avergli estinto il debito con Brusco.

La notizia dell'affare milionario si sparse subito tra quella piccola società bene legata ai palazzi del centro storico, dove il mito del tesoro dimenticato in soffitta è un miraggio inseguito da molti. Forse il conte mantenne il segreto, però a queste persone non sfuggì la coincidenza dell'apparizione del fantasma dell'ebrea convertita con quell'eccezionale colpo di fortuna e improvvisamente tutti si ricordarono anche di me.

 

-   … sei dunque venuto qui per offendermi ancora!

 

Il conte ebbe parole molto dure per il modo come a suo tempo disdegnai la benevolenza della principessa e pretese che andassi a scusarmi con lei. Il contenzioso che era successo tra noi risaliva a un pregiato orologio che la madre mi aveva regalato. Di doni ne avevo ricevuti diversi, di cui però si era sempre occupata la zia, invece quell'orologio mi fu messo direttamente al polso. Si trattava di un Rolex d'epoca facente parte di una collezione appartenuta al padre della principessa. Quel dono così particolare mi fu dato in occasione del mio ingresso in società che la Zia Pina voleva organizzare prima di calare nella tomba.

 

Successe che tra le tante lettere che consegnavo, un giorno ne passai una proprio al maggiordomo della principessa. La Zia lo incaricava di farmi il "corredo". Gli spifferi di quei corridoi raccontarono subito la storia che arrivò all'orecchio di Matteo, il principino, il quale si prese il ghiribizzo di occuparsi personalmente della faccenda. Mi portò dal suo sarto e mi vestì come se giocasse con un bambolotto. Spese l'ira di Dio, ma come poteva accorgersene uno che di soldi ne aveva così tanti da non doverne maneggiare?

 

La Zia trovò sconveniente l'interesse di Matteo e mi mise in guardia dall'invidia di certi ambienti. Disse che in quel momento ero un bersaglio facile e, infatti, rimasi invischiato in una ragnatela di chiacchiere che andarono a scavare nel mio giovane passato. La Zia stessa, che in quel momento era immobilizzata dalla malattia e aveva l'impellenza di occuparsi del suo trapasso, perse quella maschera di bon ton tanto stimata da tutti. Fu così che divenni il piccolo mostro dell'usuraia ebrea.

 

La Zia aveva studiato il mio ingresso in società in maniera che passasse inosservato perché non avevo i crediti per celebrarne uno vero e proprio. In uno dei ricevimenti della principessa, sarei dovuto rimanere seduto sul canapè accanto alla padrona di casa per essere presentato a chiunque si avvicinasse e dalla volta successiva avrei salutato tutti come un conoscente qualunque. Il mio ingresso in società si limitava a questo. Invece, tutto quel vociferare lo rese una tagliola pronta a scattare.

Se tutto fosse andato come programmato, quella formalità si sarebbe svolta assai affettuosamente.   Le cose, però, erano cambiate da come se le ricordava la Zia. La stessa padrona di casa era indispettita perché sospettava un raggiro dietro il dono di quell'orologio cui teneva particolarmente.  

Quando al ricevimento vidi arrivare la madre della principessa che si teneva al braccio di Giada, avrei dovuto comprendere il chiaro intento di farmi un dispetto, ricordandomi il modo com'ero giunto in quel luogo esclusivo.

 

Matteo fu la ciliegina sulla torta. Lui che notoriamente disprezzava il salotto della madre, si degnò di parteciparvi per porgermi i suoi saluti. Sperava che tale gesto mi potesse aiutare, però mi dette solo il colpo di grazia.

Qualcuno osservò apposta il bel taglio del vestito che indossavo e qualcun altro domandò se era vero che era merito del "noto" buon gusto del principino. Matteo ci cascò con tutte le scarpe e cedette alle lusinghe. Intanto ero stato fatto alzare e piroettare come un cagnolino ammaestrato, mentre tutti nicchiavano cattiverie tendenziose sulla poca virilità di Matteo e la mia sfacciata avvenenza da arrampicatore sociale.

Probabile che uno di quei maliziosi bisbigli giunse all'orecchio della padrona di casa, perché non si spiegherebbe altrimenti il suo gesto plateale di presentare a tutti anche Giada e con il titolo di mia "fidanzatina"! Giada divenne rossa come un peperone anche per il disprezzo come si era liberata di me. La principessa, invece, insisteva con i particolari della nostra "tenera" storia di amabili fanciulli. Io da quel punto non ci capii più niente, ero ormai in balia degli eventi che alla fine fecero il botto.

 

Matteo di punto in bianco si mise a litigare con la matrigna tirando in ballo la storia dell'orologio. Non c'entrava niente e non c'era motivo alcuno perché rendesse pubblico quel contenzioso. Volarono certi stracci che misero tutti in imbarazzo, al punto da farli sfilare discretamente senza salutare. Il maggiordomo mi prese e accompagnò all'uscita laterale del palazzo e poi, come profeticamente annunciato prima da Matteo, mi mise in mano un assegno intestato alla Zia con cui la sua "padrona" voleva ricomprare l'orologio che portavo al polso. Io gli strappai quei trenta denari sotto il muso e quando mi disse che per un po' non avrei dovuto farmi vedere da quelle parti, gli risposi che potevano andarsene allegramente tutti all'inferno.

 

-   Questo è un giorno troppo bello perché sia sprecato a ricordare inutili spiacevolezze …

 

Quando tornai a scusarmi con la principessa, pensai di riportarle il mal torto. Invece ci mancò poco che si offendesse. Dopo però mi fece una carezza e disse che le ero mancato moltissimo. Si scusò per il pasticcio di quel triste giorno e poi mi spiegò quanto indissolubile fosse la mia affiliazione in quella casa, ora che Paolo mi aveva reso ufficialmente suo figlio.

 

-   Tu eri poco più di un bambino paffutello, quando ti consegnò quel prezioso sigillo.

 

No, le cose non erano andate come me le stava raccontando lei. Mi ricordavo perfettamente quando la Zia mi dette "quello che mi spettava" per averla aiutata col padre di Giada ad avere delle concessioni edilizie per la principessa. Del resto quella era la prima volta che mettevo piede a palazzo ed eravamo soli: la zia, lei ed io che poi fui spedito da Matteo perché dovevano parlare di cose serie … magari proprio con Paolo che, invece, non aveva voluto conoscere il figlioccio che si prendeva dandomi quella patacca da appendere alla giacchetta.

 

-   Si è chiuso in quella soffitta da mesi e temo possa compiere qualche gesto avventato.

 

La principessa era molto preoccupata per Matteo che da quando aveva rotto il fidanzamento con una sua cara cugina acquisita, si era richiuso in una soffitta del palazzo senza voler vedere nessuno. La matrigna temeva una qualche follia, anche perché non era nuovo a certi gesti plateali. Mi chiedeva dunque di provare a raggiungerlo nel suo eremo facendo leva sul quel particolare affetto che aveva sempre provato nei miei confronti.

 

-   Se la tua proverbiale discrezione non ti avesse già preceduto, ti crederei uno dei tanti spettri che mi fanno visita solo per dannarmi l'anima.

 

Trovai Matteo molto cambiato con una barba che lo faceva più adulto di quanto non era. Per il resto era rimasto il solito melanconico dalla spocchia di chi ti guarda dall'alto del suo dolore. In ogni modo mi ricevette subito nella sua squallida soffitta … all'anima di squallida! Aveva trasformato il sottotetto del palazzo in un enorme open-space addebito a laboratorio d'artista. C'erano tele e colori, sculture di ogni tipo ma, tutto rigorosamente ordinato e igienizzato.

 

-   Vedo che continui a fare da piccione viaggiatore a pagamento.

 

C'era che aveva proprio ragione e mi ero rotto i coglioni di fare le cose per compiacere gli altri, quindi ciao bello! Ma chi si credeva di essere il gobbo di notre dame? Ma vammoriammazzato a te a chi non te ce manna.  Girai i tacchi e me ne stavo andando senza batter ciglio, quando mi richiamò.

 

-   No, aspetta! Scusa … ti ho anche preparato il te allo zenzero che ti piace tanto.

 

Te allo zenzero … quale ambrosia divina!

 

-   Non so come tu faccia a bere questa brodaglia …

 

Beh, sarà stata buona quella sua melma di caffè turco.

 

-   … forse solo tu puoi comprendermi.

 

Fine Quinta Parte

 

 

-   Da adesso sarai la mia ombra e …

-   Non ho ucciso nessuno e non puoi arrestarmi "stupido carabiniere".

-   Innominiddio se ti metto le mani addosso ti disfo.

-   Stai diventando melodrammatico … per cosa poi?

-   Sei un bugiardo!

-   Vaffanculo.

-   Io mi sono fidato di te … ti ho pure coperto con la storia del centro sociale e ...

-   E' un consultorio.

-   Ma tu non ci sei mai andato, mi hai mentito!

-   Non è vero. Ci sono andato … spesso.

-   Dovevi dirmelo, così mi hai fatto passare per un imbecille col Generale …

-   Ah, ecco che ti rode … papino lo ha rimproverato!

-    … (clic).

1 … 2 … 3 …

-   Se proprio lo vuoi sapere il traffico di opere d'arte rubate è un crimine per cui dovrei denunciare te e a quella masnada di signoroni del cazzo, va bene così?

-   Quante volte ti dovrò chiedere scusa per farti smettere con questa solfa?

-   Dovevi parlarmene … Okay?

-   Perché mi avresti permesso di farlo?

-   No!

-   E allora lo vedi anche tu che non potevo parlartene.

-   Io non lo so che devo fare con te … lo capisci che non puoi sempre fare quello che ti pare?

-   Ho fatto solo un favore a mio zio.

-   Balle … mi pare che ci hai guadagnato parecchio.

-   Per quei quattro soldi che neanche posso spendere?

-   Questo lo puoi raccontare a chi non ti conosce.

-   Ma va …

-   A sì? Allora dimmi come ti paghi la bella vita di società senza un soldo in tasca?

-   Ma di quale vita di società parli?

-   Piantala per favore che papà mi ha spiegato che genere di ambiente è quello che frequenti.

-   A parte che non è vero, ma ti ricordo che anche tuo padre esce da quel mazzo.

-   Ma che ne sai tu?

-   Hai ragione … ne so pochissimo di voi e sarebbe il caso che iniziaste a spiegarmelo.

-   …

-   Tuo padre come ha conosciuto mia madre?

-   … per via della fondazione … quella dei bambini di borgata, la conosci no?

-   Lo sapevi che tuo padre era una specie di mio padrino?

-   … sì.

-   Due coincidenze non fanno mezza verità, però è strano che poi incontri mia madre e se la sposi.

-   Senti; queste cose dovresti chiederle a lui.

-   Lo vedi che è inutile parlare con te.

-   Scusa …

-   Scusa un cazzo … (clic).

 

Sesta Parte

 

Il Principe di Elsinore

 

 

Essere o non essere … questo era il problema che affliggeva Matteo giunto sulla soglia della maturità di scegliere cosa fare della propria vita. L'istinto di rimanere ibernato in un'eterna adolescenza, gli faceva apparire persino bello il ricordo di un'infanzia melanconica trascorsa in collegio.

 

-   Non te la ricordi! Eppure frequentavate lo stesso corso di disegno nel doposcuola.

 

La fidanzata di Matteo si chiamava Domitilla ed era una nipote di non so quale grado della matrigna. Io me la ricordavo ma preferii fingere di no per non dover esprimere un'opinione su di lei. A quanto pareva, loro avevano sempre condiviso la passione per l'arte e quando decisero di frequentare l'Accademia di San Luca, lei si trasferì a palazzo ed era stata sua l'idea di costruire una tana in quel sottotetto.

 

-   Abbiamo trascorso un anno bellissimo!

 

Il costume sociale vuole che due individui di sesso diverso formino una coppia quando condividono lo stesso spazio vitale.  Esserlo o non esserlo non fu il risultato di una decisione, ci diventarono e basta.

 

-   Era tutto un inganno ordito da quella maledetta megera!

 

Domitilla era una pedina sulla scacchiera della principessa? Costituiva l'ultima mossa per portare in seno al casato le ricchezze della famiglia di Matteo? Se poi il piano machiavellico corrispondesse al vero, non saprei dirlo perché Matteo era da quando lo conoscevo che ravvisava cospirazioni della matrigna.

 

-   Era solo una laida bugiarda che il diavolo se la porti!

 

Complotto o no, l'amicizia di Domitilla aveva sempre nascosto il secondo fine di sistemarsi nel letto di Matteo. Lei proveniva da una di quelle famiglie con un passato importate che non serve a migliorare un presente assai disgraziato e, in sostanza, sopravvivevano con le briciole che cadevano dal tavolo della principessa. 

 

-   Le sue erano calunnie … solo calunnie.

 

Domitilla era cresciuta in quel ruolo di futura moglie e fu indotta a credersi realmente innamorata. La menzogna si finse verità anche con lei che reagì all'ipocrisia in cui affogava accanendosi contro l'inadeguato principe azzurro.

 

-   E' mai possibile che tu debba sempre fare l'avvocato del Diavolo!

 

Matteo con Domitilla aveva condiviso anche i giochi e in particolare quello di travestirsi, lei da uomo e lui da donna. Lo facevano solo per ridere, ma per Domitilla quel divertimento confermava dei dubbi covati da tanto tempo.

 

-   Non capisci che quei pezzenti ridevano di me?

 

Dubbi sulla virilità di Matteo li avevano tutti in famiglia di Domitilla. Del resto quale maschio non avrebbe neanche tentato di approfittare delle grazie di una fanciulla che aspettava solamente di essere deflorata? Fu così che iniziò un vociferare che di bocca in bocca raccoglieva i più banali sospetti. Matteo comunque non se ne avvide fin quando la sua aspirante moglie lo iniziò a deridere con i comuni amici di accademia.

 

-   … e se avessero ragione?

 

L'inclinazione all'autolesionismo di Matteo finì per scavare ulteriormente la profonda ferita nel suo orgoglio. Fallito il goffo tentativo di togliersi la vita, decise per una morte civile richiudendosi in casa per il resto dei suoi giorni.

 

-   Dovrei forse rotolarmi nel fango e andare a caccia o no so … sputare per terra, allora sarei abbastanza uomo?

 

Nonostante Matteo sembrasse non avere poi una gran stima della virilità, il cruccio di non possederne lo dannava al punto da costringersi a imitarla … almeno ci provava. Sarà stato anche superficiale da parte mia ridurre la definizione di maschio a una mera questione di feromoni, tuttavia Matteo sembrava non accorgersi del pensiero comune che considerava uomini solo i consumatori seriali di figa.

 

-   Io sarei frocio solo perché amo dipingere dei nudi maschili?

 

Bah, che quelli fossero dei nudi maschili lo capiva solo lui; in ogni modo ci sarà stato un motivo per cui Botticelli aveva dipinto la nascita di Venere e Michelangelo invece aveva scolpito il Davide, o no?

 

-   Francamente ti facevo molto più intelligente …

 

Non era il mio metodo di giudizio che tentavo di proporgli, quanto piuttosto cercare di fargli capire che si sbagliava a ragionare in termini filosofici per poi risolvere tutto in una questione di "look". La rozzezza di quel mondo che fuggiva stava proprio nel non tenere conto dell'essere in sé, quanto piuttosto di concepirlo in una serie di paradigmi supportabili in semplici equazioni sociali.

 

-   Allora se da domani mi mettessi a dipingere nudi femminili …

 

La questione non era cosa dipingesse, ma il motivo per cui a vent'anni non aveva ancora sentito il desiderio di baciare un altro essere umano.

 

-   E' una colpa non voler scadere nella banalità di un istinto bestiale … pretendere l'amore?

 

A tal proposito, frequentando il consultorio mi stavo convincendo che l'amore era più che altro un artificio metafisico creato per imbrigliare la più selvaggia delle pulsioni umane.

 

-   Ma di che stramberie parli?

 

Matteo si masturbava sulla tazza del cesso. Sì, proprio così! Seduto sul vaso di ceramica, s'infilava una mano tra le cosce e si liberava di quel bisogno allo stesso modo di qualsiasi altra necessità fisiologica. Aveva obliato ogni pulsione del corpo declassandola a merda e sublimando l'eros nella ricerca di una perfezione "igienica". I modelli che posavano, lui s'imponeva di guardarli attraverso il filtro della sua tela.  Ricopriva di tempera il sesso che lo attraeva per caricarlo di un contenuto gestibile intellettualmente che poi definiva amore …

 

-   Quindi secondo te cosa dovrei fare?

 

Gli dissi di spogliarsi, guardarsi allo specchio e poi farsi una sega, giusto per rendersi conto che avere un corpo non significa solo lavarlo delle sue impurità e poi coprirlo con quelle eleganti casacche che ne celavano qualsiasi funzione erotica.

 

-   Tu sei matto!

 

Lui non accettò di spogliarsi e allora lo feci io. Mi dette del maniaco quando iniziai a strizzarmi l'uccello attraverso le mutande. Avrebbe dovuto esserci quel pomeriggio a casa mia, quando ci fu una gara a chi sborrasse prima davanti a un noiosissimo porno che conoscevamo tutti a memoria … quando fallendo l'intento di colpire lo schermo del televisore con qualche schizzo, Luca ci sputò sopra scatenando l'ilarità collettiva.

 

-   Sei osceno …

 

Essere o non essere … accettare di diventare quanto socialmente è denigrato o non essere, rifiutando il proprio corpo e nobilitare dei banali gesti, facendoli diventare amore per l'arte, amore per il Padreterno, amore e ancora amore purché non coinvolga l'oscenità di un corpo che ubbidirà sempre e solo all'istinto primordiale della parte rettile del nostro cervello?

 

-   No … che fai? Non mi piace essere toccato … almeno lavati prima le mani.

 

Matteo aveva fatto crescere intorno a sé un ginepraio di paranoie simile al roveto del castello della bella addormentata nel bosco. A superare il suo però non fu un cavaliere animato da nobili sentimenti, ma un orco deliziato dell'oltraggio che andava a compiere.

Sulle prime rimase rigido come un manico di scopa ma collaborò lo stesso per sbottonarsi la casacca di lino. Serrò gli occhi quando maldestramente strattonai quella dannata cinghia dei pantaloni. Lo sentii prendere un lungo respiro appena gli carezzai la piccola erezione negli slip. Mi sorrise quando lo baciai sulla punta del naso per costringerlo a riaprire gli occhi.

 

-   E' … è …

 

Stava lì a balbettare la parola che più temeva. Il bello che desiderava era lungi dalla metrica dell'arte, ma sicuramente era anche molto più a "portata di mano". Mi toccò timidamente giusto per qualche attimo, poi si abbandonò al mio gesto che del resto anche quello non durò molto. Il suo spasmo giunse rapido e si risolse con un tendersi in una smorfia per trattenere il gemito del corpo. Lo abbracciai per evitare che l'orgoglio lo aggredisse per aver scoperto il fianco al nemico. Sentii la morbidezza della sua barba inumidirsi in un bacio sulla pelle della mia spalla.

 

-   Dunque avevano ragione loro?

 

Loro avranno ragione fino a quando le persone saranno disposte a negare se stesse per compiacerli. Usano deridere chi non ha la forza di mettere delle briglie alla propria volontà, solo per timore di essere derisi essi stessi per quella verità che arde tanto più quanto è spesso lo strato di cenere conformista sotto cui è sepolta.  

 

Fine Sesta Parte

 

 

-   Io sono sposato.

-   Questo vuol dire che gli uomini sposati non si masturbano?

-   Non dovrebbero averne bisogno.

-   Non dovrebbero?

-   Perché accontentarsi d'immaginare quello che si può realmente fare?

-   Io non potrei mai fare tutto quello che immagino.

-   (Risata)

-   A cosa pensavi quando ancora ti masturbavi?

-   … alle solite cose.

-   A quando ti saresti sposato e messo in cinta tua moglie?

-   … ma guarda te se …

-   E ma sarebbe logico se ora non hai più bisogno d'immaginare altre cose.

-   Non ho neanche il tempo di pensarci.

-   Inizio a credere che il segreto di ogni virtù stia nel non pensare.

-   Certo che chi non fa niente tutto il giorno ha fin troppo tempo per masturbarsi.

-   Ora et labora … la santità dei pappagalli e dei muli.

-   Come mai questi discorsi?

-   Ma niente … mi sto solo tirando una sega.

-   Che?

-   Non sono sposato, non lavoro e tanto meno ho una moglie o un figlio cui pensare …

-   E allora devi farti una sega proprio quando parli con me al telefono?

-   Parlo con te tutta la notte … da non mi ricordo quanti giorni ormai …

-   A perché tu di notte … e certo, come ho fatto a non pensarci!

-   Sono un adolescente … ho le polluzioni notturne.

-   (Risata)

-   Fai sesso tutte le sere con Adele?

-   Non sono fatti tuoi.

-   Quant'è stato l'ultima volta che l'avete fatto …

-   Stai diventando inopportuno … specie poi se penso a quello che stai facendo.

-   Un giorno fa? Due giorni …

-   Piantala, Okay?

-   Una settimana fa? Due settimane …

-   Non ti rispondo neanche …

-   Un mese fa? Due mesi …

-   Sì, sta a vedere un anno fa.

-   Addirittura!

-   Sicuramente lo faccio più spesso di te.

-   Quando eri in collegio con chi ti segavi?

-   Ehi ragazzino, stai esagerando!

-   Quando andavo al doposcuola al collegio, un tizio me l'ha succhiato nel bagno.

-   Ma guarda te se uno …

-   E poi quel gran figlio di puttana è andato a dire in giro che ero stato io a fargli una pompa.

-   Begli amici che avevi!

-   Non era un mio amico, gli vendevo i giornaletti sozzi.

-   Oddio, ma … quanti anni avevi?

-   Nel tuo collegio non giravano?

-   Ispezione degli armadietti ogni volta che tornavamo da casa.

-   Giusto un fesso li nasconderebbe lì.

-   Era il solo posto che non condividevamo con gli altri.

-   E allora dovevate per forza farvi le pippe insieme.

-   Ah, ma stasera hai il chiodo fisso!

-   La sera in camera?

-   Ogni volta che sporcavamo le lenzuola ci toccava espiare con un rosario.

-   Azz …

-   E nei bagni c'era il frate guardiano che contava quante volte te lo sgrullavi.

-   Addirittura!

-   L'unico posto era il confessionale.

-   Che!

-   Almeno espiavi mentre facevi, no?

-   Okay, hai vinto tu.

-   Ma dai, non vorrai farmi credere che uno come te …

-   In un confessionale mai … e poi che vuol dire uno come me?

-   Hai la coda di paglia?

-   Ho la coda in mano …

-   (Risata)

-   Una volta mi sono fatto pisciare sulle mutande da mio cugino Pino.

-   … ti piace spararle grosse.

-   Prima sua sorella lo aveva chiesto a me, mi ha incuriosito come le piaceva e allora …

-    … e ti è piaciuto?

-   Sì, ma di più pisciare sulle sue di mutande.

-   Sue di chi?

-   Di Pino, anche su quelle di sua sorella, ma con Pino di più.

-   …

-   Ho vinto io?

-   Pari. Chiedevo di andare in bagno pochi minuti prima della campanella del refettorio, così nessuno poteva accorgersi della mia assenza e con l'andirivieni il frate non si ricordava chi era entrato o uscito nei gabinetti con la porta.

-   E allora?

-   … ero un ragazzino.

-   Ti eccitava sentire la pipì cadere?

-   Ma guarda te che mi fai dire!

-   Ti segavi?

-   Un po' …

-   E sì, ora uno si sega giusto un po' e un po' dopo …

-   (Sbuffo) Un po' tanto.

-   …

-   Che stai combinando?

-   Un attimo solo …

-   Cosa?

-   Uffa, sto cercando di allungare il filo del telefono …

-   Per fare cosa?

-   … aspetta solo un secondino … senti un po' …

-   … non ci posso credere!

-   Sccc … ascolta e zitto.

-   (Risata)

-   Beh, allora?

-    … tu … tu stai fuori!

-   Guarda che non è mica facile pisciare a cazzo dritto con un telefono in mano …

-   E lo immagino, spero solo tu non abbia schizzato sul muro.

-   No, devo ancora schizzare …

-   Sì, va bene … con te uno deve sem…

-   Ti è venuto un po' duro?

-   Aoh, ma stai a scherzà?

-   Okay, menti. Dimmi che ti è venuto un po' duro.

-   Ti stai masturbando sul serio?

-   Sì … ce l'hai duro?

-   (Sbuffo) Accidenti a te.

-   Strizzalo.

-   Ho il collega in guardiola.

-   Tanto quello dorme … toccati.

-   … fammi sentire il rumore.

-   Il rumore della sega?

-   Sì

-   Aspe' che lo bagno col sapone …

-   …

-   …

-   Sei venuto?

-   Sì … ora sì che ho schizzato sulle maioliche.

-   (Risata)

-   Tu?

-   Ho solo sporcato il fazzoletto.

-   Bla … tra il moccio.

-   E beh, volevi che schizzassi in faccia al collega che dorme?

-   Sei perverso, lo sai?

-   Ma! Che? Tu ..

-   (Risata)

-   Ma guarda te che mi fai dire … e fare!

-   Comunque avevo ragione io e tutti gli uomini si masturbano sposati o no.

-   Tu sei il Diavolo, lo sai questo?

-   Le corna le hanno quelli sposati, io sono solo un angelo con la coda …

 

 

Settima Parte

 

Sandrocchio

 

 

Sandrocchio era cresciuto nell'ambito del Circolo Canottieri diventando anche un discreto atleta. Primo lo conosceva bene perché s'incontravano spesso intorno al tavolo verde del poker e siccome Sandrocchio ufficialmente studiava ancora ingegneria, gli chiese di darmi ripetizioni di Fisica. Fu così che la nostra amicizia divenne qualcosa di più di una semplice conoscenza.

 

-   Da retta a zio tuo che dei piaceri della vita se ne intende.

 

Le nostre lezioni di fisica erano molto formali e devo dire che riuscì persino a migliorare la media dei miei voti. Lui però si accorse presto che il mio reale problema era una scarsa frequenza scolastica e invece di correre a raccontarlo a Primo, m'insegnò ad avere "giudizio" nel gestire le assenze.

 

-   Lavorare con le donne è una vera e propria arte.

 

A Sandrocchio piaceva molto parlare del suo reale lavoro ed io lo ascoltavo molto volentieri. Lui che viveva ancora a trent'anni suonati sulle spalle del facoltoso padre, conduceva una vita assai dispendiosa ed era dedito anche al gioco d'azzardo che spesso lo conduceva sul lastrico.

 

-   Io non ci vado mica con i maschi! Quelli si chiamano marchettoni e se permetti il sottoscritto fa lo gigolò.

 

Mi spiegò che certo non ci pagava neanche un pieno al suo Porche con i soldi delle mie ripetizioni. Aveva accettato quel lavoretto solo per tenersi buoni i genitori, felici ogni volta che lo vedevano in qualche modo interessato allo studio. Era, invece, già da parecchio tempo che coltivava la sua reale vocazione, cioè le donne.

 

-   E' chiaro che lavorare con i maschi è più facile, con quelli "din din" so' soldi veri.  Con le donne invece è tutta un'altra storia. La femmina va conquistata. E' una preda, capisci? Te la immagini una pecora che paga per farsi mangiare dal lupo?

 

Sandrocchio aveva iniziato la sua carriera di gigolò molto presto e nel più classico dei modi: facendo l'istruttore di tennis. Seppure avesse un fisico d'atleta, non si poteva certo definirlo un Adone. Si preoccupava poco di come piacere alle donne, dal suo punto di vista era lui che le sceglieva, anche se poi le corteggiava incondizionatamente tutte.

 

-   Il sesso certo che è importante, ma vuoi mettere la scommessa di quando ti proponi la prima volta? E più lei dice di no, più fa la stronza e più la posta in gioco sale. Dopo, quando alla fine dice sì e dicono sempre "Sì", da retta a zio tuo, la castighi con più gusto.

 

Il gigolò ci si ritrova a farlo senza accorgersene. Per Sandrocchio successe proprio così. Sulle prime non ci pensava minimamente ad avere un tornaconto dalla sua agitata vita sentimentale. Solo quando sistematicamente si cacciava in qualche guaio, si accorgeva che quelle amanti potevano risolvere i suoi problemi economici.

 

-   Alla donna non le puoi andare a ribattere i quattrini. Ci rimedieresti solo un paio de sberle. La prima volta piansi sul serio … stavo proprio inguaiato! Quella sera non mi girava una carta buona … perdevo venti cocuzze su passa novanta, manco potevo lamentarmi; ma non sapevo a chi chiederli tutti quei soldi. Il mio vecchio lo conosci pure tu, quello sganciava ma poi mi faceva le chiavi di cioccolato! Beh, sta gran signora mi firma un assegno e mi manda via con un bacio.

 

Fu mettendo in pratica le storie del mio insegnante di Fisica che nelle mattinate di manca a scuola iniziai a sfilare qualche "pegno d'amore" alle ragazze. Sandrocchio diceva che alle donne piace sentirsi necessarie perché le rassicura. Fin quando avrai bisogno di loro, sanno che non le lascerai.

 

-   Un uomo che va a puttane se ne sceglie una diversa tutte le volte. Con le donne è diverso. Loro vogliono l'amore, magari per finta, ma deve funzionare così.

 

Sandrocchio non faceva marchette, lui viveva per donne. Se ne prendeva cura, coccolandole e mimando con loro un rapporto galante fatto di anniversari e uscite a cena speciali. In cambio le sue clienti lo pascevano in quei vizi di cui non sapeva fare a meno.

 

-   E' un gioco di fino. Chiaro che non parli con loro delle altre, ma allo stesso tempo non le devi illudere con false speranze.

 

Sandrocchio era bravo a non lasciarsi coinvolgere e lo faceva anche per il bene delle clienti. Era qui che sbagliavo perché a differenza di Sandrocchio che amava soprattutto avere il loro corpo, io mi lasciavo affascinare dalla particolarità di ognuna allo stesso modo di un naturalista che studia una nuova specie di uccello del paradiso. Alla fine il gioco si complicava e finivano per non capire cosa volessi realmente da loro … perché non avevo vizi da cui essere salvato e non possedevano nulla di cui non potessi fare a meno.

 

-   In fondo non stiamo tutti qui per goderci i piaceri della vita?

 

I piaceri della vita … dal loro continuo baratto si è evoluto l'uomo. Il desiderio di accaparrarsene il più possibile prima che la morte giunga a toglierceli tutti, è solo questo a tenerci uniti e allo stesso tempo a dividerci. Sandrocchio con la sua vorace voglia di vivere, mi faceva tenerezza e potevo capire quelle donne che lo perdonavano ogni volta. Era bello poter carezzare almeno con lo sguardo l'imperfezione che mi mancava per aver anch'io bisogno di qualcuno.

 

Fine settima parte

 

-   Domani torna a casa Adele.

-   …

-   Hai risolto il problema della scuola?

-   …

-   Non parli?

-   Ci vieni tu a scegliermi un vestito per il matrimonio?

-   E da quando in qua hai bisogno di qualcuno?

-   Se non ti va, basta dirlo.

-   Ti porto da un mio amico … ha roba da giovani.

-   Non esistono cravatte da giovani.

-   Si può sapere cosa ti rode stasera?

-   … non mi va di tornare a casa di mia sorella.

-   Puoi sempre rimanere, dove stai, con la scuola si troverà una soluzione.

-   …

-   Adele potrebbe occuparsi anche di te.

-   Non dire cazzate.

-   Cos'è? Ora ti sta antipatica anche Adele?

-   Lei è tua moglie e con Francesco sono la tua famiglia, io no.

-   Sei mio fratello.

-   Ma dai!

-   …

 

Ottava Parte

 

I Barbari

 

-   Come li chiamava Giuseppa?

 

Feci il mio "report" alla principessa sulla situazione del figliastro e, per il vero, non apparve sorpresa dall'omosessualità di Matteo. Provenire da un'antica famiglia, la aiutava a perdonare le molte "debolezze" di un uomo. Confidava nel mio aiuto per far comprendere a quel testone che nessuno glielo avrebbe fatto pesare, se questo non avesse arrecato scandalo o leso interessi particolari.

 

-   Barbari! Li chiamava proprio così …

 

Il ricevimento del giovedì non si teneva più. In nome del progresso, Roma perdeva rapidamente i suoi vecchi costumi. Persino le famiglie più conservatrici abbandonarono l'abitudine di aprire i propri palazzi nel tradizionale giorno di ricevimento settimanale. Un'abitudine legata a delle opportunità che oramai prediligevano scambiarsi cortesie in altri luoghi.

 

-   Io non voglio adeguarmi a certe scostumatezze!

 

Anche se lei sosteneva di no, quel nuovo mondo giunto con i barbari milanesi che governavano i ministeri dello stato, l'aveva già cambiata molto. Era ben lungi da quell'immagine eterea che mi colpì la prima volta che la vidi, ora indossava abiti pret-a-porter e usava sporcarsi la pelle diafana del volto con il fondo tinta.

 

-   Sono di moda i salotti, dove ci chiamano "vecchie mummie".

 

Nelle sue parole c'èra tutta l'invidia di un potere caduto in disgrazia. Le "signore socialiste" della Milano dabbene o "da bere" avevano commissionato ai loro architetti maghi del design, salotti con vista sulle borghesi terrazze romane; dove si sedevano i nuovi potentati dal piglio democratico radical-chic.

 

-   Mi sembra di assistere a del becero avanspettacolo, ma che dico? Oramai siamo al circo dei nani e delle ballerine …

 

La principessa si lamentava di quel progresso che andava di pari passo con l'accorciarsi delle gonne. Si appellava alla buona creanza, la stessa che aveva saputo relegare nelle borgate i rivoluzionari anni settanta, lontano dai collegi blasonati e fuori dalla porta dei palazzi del centro storico.

 

-   Finiremo per chiamare moderno quanto di più sarà insolente e sgarbato …

 

La borghesia milanese, arrogante e molesta, sfoggiava orgogliosa la maleducazione con cui si guadagnava da vivere. Roma, cui l'aristocrazia aveva imposto la tonaca sui propri vizi, sembrava felice di scivolare nei bagordi e precipitare così in quella sua indolenza millenaria di meretrice attempata.

 

-   Ho cercato di dargli quanto avrei desiderato per il figlio che la sorte non mi ha concesso.

 

La principessa era sinceramente addolorata del disprezzo che gli dimostrava il figliastro. Aveva a cuore il suo bene quando mi chiedeva di convincerlo a tornare sui propri passi e accettare la mano di quella ragazza che, essendo stata educata nella sua stessa forgia, era la sola donna capace di gestire l'ufficio muliebre di un uomo importante, benché questo si sia di fatto trattato di un vedovato bianco.

 

-   … temo si lasci forviare da qualcuno di questi "ballerini" che si danno arie da intellettuali.

 

Francamente non credevo di appartenere a quel modo "ben educato" di concepire la vita. Tuttavia ero in grado di comprendere quanto la forma può essere sostanza e Matteo era un pesce che non poteva nuotare in mare aperto. Per il suo bene si sarebbe dovuto struggere per il resto della vita in un falso matrimonio, così da non odiare se stesso e vivere almeno in pace quei pochi attimi di gioia che l'amore può dare affrancandoci dal dolore.

 

-   … avevo dimenticato la disarmante schiettezza dei vostri giudizi.

 

Accadeva spesso che una mia analisi giungesse troppo rapidamente alla conclusione e risultasse così come un fendente glaciale per chi cercava di arrivarci con delicatezza. Succedeva allora che un amichevole "tu" si trasformasse in un imbarazzato "voi".

La principessa mi aveva proprio stancato e aspettavo con ansia il momento di congedarmi da lei e da quel palazzo di vecchie mummie. Se proprio dovevo scegliere da che parte stare, preferivo la dissolutezza dei barbari all'ipocrisia di un mondo che faceva e viveva allo stesso modo con la spocchia di credersi migliore.

 

Fine ottava parte

 

 

-   Come ti ha convinto?

-   Me l'ha semplicemente ordinato.

-   Alla fine anche tu hai detto signor sì al Generale … secondo me non vedi l'ora di sfilare davanti a tutti.

-   Stai cercando di sfottermi?

-   Sei la persona più vanitosa che conosca.

-   Dopo di te, signor Tait.

-   Ma sta zitto che ti sei scelto un vestito color pisello!

-   Per me è un verde Kawasaki …

-   Salvo che quel giorno saremo tutti in tight e …

-   Come sei conformista …

-   E' un matrimonio! E dovrai portare tua madre all'altare …

-   Per mia sorella si tratta di alto tradimento.

-   Deve essere una situazione difficile per te.

-   Lo è più per lei che una famiglia l'aveva.

-   Ti manca la tua famiglia?

-   Era la sua famiglia, non la mia.

-   Te l'ha detto lei?

-   Lei odia nostra madre perché ha lasciato suo padre e ora l'ha con me perché sto tradendo l'affetto di chi mi ha cresciuto per seguirla.

-   Perché non torni qui da noi?

-   Angela ha bisogno di me.

-   Non mi pare se …

-   Angela è sola come me … mamma se n'è andata e Primo non c'è mai stato; noi due ce la siamo sempre cavata …

-   Mi dispiace per tua sorella, ma non è vero che tua madre ti ha lasciato.

-   Dopo il matrimonio se ne andrà in luna di miele per ritornare a Natale … secondo me non sentirà la mia mancanza.

-   Ci siamo noi.

-   … me la caverò da solo.

-   Siamo noi la tua nuova famiglia e non sei più solo.

-   … balle.

 

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Coriandoli

 

Diseducazione Sentimentale

 

 

Capitolo Terzo

 

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Nel tempo delle ideologie si recitava a campanella il buon senso ispirato dall'etica, ricevuta in eredità dai grandi pensatori. Le pulsioni individuali lasciavano il passo agli interessi della comunità, la quale metteva in guardia dall'effimero e tributava gli onori a quanti ponevano innanzi all'amore per le proprie cose, i favori di un sacrificio per il futuro.

Ogni epoca celebra il proprio Dio con i suoi miti e il pantheon di nuovi eroi. Noi stavamo vivendo l'alba dell'era di Amore e si celebravano i desideri come muse ispiratrici delle gioie commerciabili. Il mito dell'Amor Cortese divenne il solo metro con cui si regolava la morale pubblica. L'intento di perseguire un sentimento che non alleviasse l'appetito del desiderio, santificava l'edonismo che ci rese consumatori bulimici di gioie estemporanee, trasformando il cuore nel ventre ulceroso in cui si consumava l'araba fenice di un presente imperituro.

______________________________________________________________________

 

Giunsi a metà settembre senza sapere quale scuola avrei frequentato. Lo chiesi prima a mia madre che era convinta se ne fosse occupato Paolo, ma neanche lui ne sapeva nulla e chiamò l'avvocato, il quale non aveva ricevuto mandato per questo genere d'incombenze, ma chiarì bene a che punto era effettivamente arrivata la mia causa di adozione … cioè ben lungi dall'essersi risolta. Sì perché i rinvii dovuti a una nuova legge, che dal 1983 avrebbe dovuto "sveltire" i casi come il mio, finirono per rimpallare di udienza in udienza degli atti ormai puramente burocratici. Allo stato dei fatti per me significava non avere più un cognome perché nel frattempo la causa di disconoscimento di Primo aveva avuto corso. Ora mi chiamavo con il cognome di mia madre, ma poiché nel subbuglio legale nessuno si era preso il ghiribizzo d'iscrivermi a scuola, Angela solo si ricordò di suo fratello non come un'espressione anagrafica e mi andò a segnare allo stesso istituto dell'anno prima, però utilizzando dei documenti che oramai erano dei falsi. Nessuno se ne avvide e fu così che trascorsi un anno scolastico da clandestino.

 

-   Ma che pozzo da di' de uno che …

 

Ripresi a frequentare il tecnico industriale in provincia. Atterrare dietro quel banco ogni lunedì mattina era come risvegliarsi in una realtà ostile. Rispondere presente a un nome che non era più il mio, contribuì a dissociarmi da quegli abiti di scena che indossavo come in una sorta di passerella pubblica. Oramai la mia identità dipendeva solo da cosa ne pensavano gli altri.

Ero terrorizzato dal giudizio tagliente dei miei compagni di scuola. Loro erano i buoni, forti delle rassicuranti convenzioni che gli assegnavano un nome e un ruolo, magari un giorno anche un lavoro, una casa, dei figli. Io non avevo un passato cui appellarmi e il mio presente era privo d'istinti naturali capaci di aiutarmi a trovare un gruppo di appartenenza.

 

-   .. aoh, te tico a que'a pischella je tiri e tu niende?

 

Avevo quattro o cinque amici, ma non perché li avessi cercati io. Uno di loro mi considerava un suo parente perché era fidanzato con la nipote della moglie di un nipote di Primo. Roba che manco un Hobbit si sarebbe sognato di considerare un grado di parentela, ma a me faceva comodo perché questo ragazzo era un boss rispettato e riverito … non uno di quei bulli che vanno in giro a fare prepotenze, al contrario era assai tranquillo, anche se non si tirava indietro quando c'era da menar le mani. Mi prese a parte di un piccolo gruppetto di ripetenti, in realtà eravamo solo in tre, oltre a me c'erano lui e un altro ragazzo occhialuto dall'apparenza innocua, ma era temerario e non si spaventava di combinarne di ogni.

 

-   A me ghe me freca che dicono latri … tu pello sottoscritto s'i frocio. Chiaro, sì?

 

Qualche pomeriggio ci s'incontrava per studiare a casa di un altro ragazzo che aveva a disposizione l'ex sartoria di suo padre. Una mansarda dove trascorrevo il tempo a guardare le scie dei jet che tracciavano bave bianche sull'arancione del tramonto. Non fui mai veramente loro amico perché l'amicizia è un po' come un amore casto e richiede la condivisione. Li ascoltavo e dispensavo consigli che spesso erano loro d'aiuto, tuttavia non raccontavo niente di me.

 

-   Aoh, io non giò mica niende condro li froci. Chiaro sì?

 

Mi ero inserito bene e stavo nel gruppo di chi non deve chiedere permesso a nessuno, ma non ero "normale". Io non cercavo di farmi la ragazza, durante la ricreazione non cercavo compagnia, potevo stare con tutti ma non mi andava di stare con nessuno … ero semplicemente solo, senza un motivo riconosciuto per esserlo.

 

-   Sembre a 'n passo dar culo mio, ma chesso che vordì?

 

Fui grado a un tizio … un brutto tizio, orgoglioso della sua altezza perché: "E' mezza bellezza, nullo dico mica io, a've'?". Era così magro che la protuberante nasca di naso gli faceva curvare in avanti il collo, in armonia con una cifosi che presto avrebbe iniziato a dargli fastidiose emicranie. Non era stupido e andava anche bene a scuola, aveva pure la fidanzata … una bruttissima fidanzata. Durante una mattinata di manifestazione, mi avvicinai al gruppetto dove lui sedeva appollaiato tipo cornacchia su una transenna. 

 

Stavamo giocando a chi avesse la faccia più tosta ad abbordare le ragazze. Si stupivano sempre tutti per il modo sciolto e affatto timido con cui osavo avvicinarmi per fare le domande più sconce, riuscendo spesso anche ad attaccar bottone. Tuttavia sbagliavano per questo a darmi del gran marpione. Gli altri ragazzi si mettevano in gioco per un'occasione di conquista amorosa.  Io ci riuscivo meglio di loro solo perché non rischiavo nulla.  

 

Forse fu proprio il mio distacco da quella morsa dei sensi cui tutti parevano essere vittime, a causare la reazione della cornacchia appollaiata sulla transenna. In fondo non mi aveva mai visto sdilinquire per due "boracce" o fingere svenimenti al passaggio di un "par de chiappe" e di punto in bianco ramazzavo numeri di telefono alla faccia sua e di quella cozza che si portava al guinzaglio.  Ma sì, credo che tutto iniziò proprio dalla sua ragazza. C'era una sua amica che avrebbe voluto conoscermi, una che io neanche ricordo, ma che a sentire la cornacchia indossava minigonne a prova di recchione.

 

Mi dette del frocio davanti a tutti e non perché avesse in mano la prova che mi piacessero i ragazzi, anche perché la popolazione maschile locale mi era del tutto indifferente. Io difettavo nel non manifestare con la giusta enfasi l'etero esibizionismo di una società gallista. Sbagliai a chiedergli in ritardo notizie di quel "pezzo di figa" dell'amica della fidanzata, gli detti solo modo di continuare a insultarmi; facendoci una pessima figura anche con tutti gli altri. I quali mi guardavano atterriti dalla situazione in cui mi ero cacciato. Un'accusa quella che nessuno avrebbe mai voluto sentirsi rivolgere.

 

Solo dopo qualcuno mi disse di lasciarlo stare a quello, che era solo uno sceso dalla montagna con la piena eccetera … la verità è che lo pensavano tutti. Io ero strano forte. Che cosa avrei dovuto fare? Ero diverso e sarei stato un idiota a non riconoscerlo. Da quel giorno smisi di cercare il consenso di un gregge che non si accorge della canizza di pregiudizi cui ha bisogno per sentirsi tale.

 

La vita in provincia divenne solo una tappa scomoda della mia sconclusionata esistenza di nomade. In città avevo il mio appartamento, dove mi sentivo a casa, ma nessuno pareva amare quel posto. Angela lo considerava al pari di una prigione da cui era evasa, Primo neanche se lo ricordava e per mia madre rappresentava l'origine di tutte le sue vergogne. A ben vedere, quelle mura racchiudevano un passato abbastanza mesto anche per me, ma era il solo che avessi e ora che anche mia madre aveva preso il volo per l'emisfero australe, quelle stanze con i loro oggetti, le ombre animate dagli incubi di una vita insonne e le mensole su cui riposavano i miei padri fatti di carta ingiallita, tutti insieme riuscivano a concretare un sedimento in grado di dar forma a una gravità in cui ricadere.

 

Sul versante prettamente scolastico si delineava un anno di protesta a causa dei tagli previsti dalla riforma della ministra Falcucci. Saremmo passati agli annali della storia come i ragazzi dell’85. Fu la prima volta che un movimento nazionale coinvolse in maniera unitaria gli studenti delle scuole superiori. Giornali e Tv rievocarono date come il 68 nel tentativo d'identificare una generazione che adottava per simboli le griffe dei guru della moda o i logo delle band musicali, come i paninari in Monkler o i darkettoni alla Robert Smith.

Gli adulti temevano che gli stessimo chiedendo conto del futuro che si stavano mangiando a nostra insaputa. Pianificavano di farci scomparire come un errore sociale partorito da una stagione storica di mera contrapposizione capitalista/comunista. Saremmo dovuti rimanere giovani per sempre, vitelli di allevamento soddisfatti da cure mediche odontologiche, oculistiche e otorinolaringoiatriche con lo psicologo di famiglia e la lampada trifacciale inserita tra i diritti civili; invece, ci rivoltavamo usando i mezzi lasciatoci in eredità da quegli studenti che negli anni settanta non avevano compreso il grande disegno del mercato finanziario globale.

 

In realtà non ne sapevamo niente di tutte queste paturnie politiche. Noi cercavamo solo un modo per celebrare il mito di una gioventù che pretendeva di essere rinnovata a ogni consiglio per gli acquisti. Rifiutavamo le ideologie perché non le conoscevamo, del resto le biblioteche erano preistoriche istituzioni che minavano le capacità di socializzazione dei giovani moderni. Le feste erano il luogo deputato per la realizzazione dell'individuo. L'edonismo del single rampante era il modello sociale di riferimento e la cocaina dei broker aveva soppiantato l’eroina dei fricchettoni, perché ogni epoca ha la sua droga e quelli erano tempi in cui c'era bisogno di apparire spietati, cinici e soprattutto mostrandosi sempre voraci come squali.

 

Tutto era dopato, compresa la realtà del revisionismo hollywoodiano che esorcizzava ogni sconfitta attraverso il cinema d'azione tutto muscoli ed esplosioni pirotecniche. Jane Fonda era nella sua fase fitness e metteva al bando la terza età con tisane purificanti e psicofarmaci. La semplificazione del messaggio elevò gli istinti primari a principi democratici della società dei consumi: mangiare, dormire, un regolare transito intestinale e l'amore, il sesso … Dio. Questi i temi trattati in trame non più lunghe di uno spot pubblicitario o un videoclip su MTV, non più complesse dei vari livelli di un videogioco e che esprimevano miti i cui panegirici erano sintetizzati nelle sigle dei manga giapponesi.

 

Noi eravamo solo i figli di quel miraggio capitalista proiettato dal cono d’ombra del muro di Berlino. Tuttavia il cattivo odore della realtà iniziava a trapelare dalla cloaca delle menzogne vestite a festa. Le rockstar ci parlavano della fame oltre i confini del blocco occidentale e Sting ricordava a tutti che il pianeta terra stava morendo. Nessuno si sarebbe aspettato da noi un’azione studentesca capace di occupare centinaia di scuole da Trento a Catania.

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Le forme sono tracciate dai loro limiti e i volumi che contengono danno sostanza a un'identità di genere. Secondo logica geometrica, una forma dal perimetro netto e lineare identifica un chiaro e determinato gusto con cui orientarsi per combaciare meglio. Attraverso la similitudine delle forme si creano degli insiemi in cui è più facile la comunicazione empatica di gruppo.

Per quanto li cercassi, i miei confini continuavano a rimanere fissi su una sfuggente linea d'orizzonte e mentre rincorrevo albe e tramonti, disegnavo una personalità "borderline" il cui unico desiderio era andare oltre. Diventò una sfida trovare la mia fine e motivo d'orgoglio quel gusto temerario scambiato per desiderio.

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-   Ciao!

 

Certo che lo sapevo. Lidia frequentava il liceo psicopedagogico Vittoria Colonna, ma non me lo ricordavo in quel momento, quando le giunsi davanti con il cuore in gola per la corsa scavezzacollo. Mi ero introdotto clandestinamente nella sua scuola per assistere alla riunione d'istituto durante la quale si sarebbe decisa l'occupazione dello stabile.

 

-   Ehm … così questa è … studi qua no?

 

Quell'anno avevo trovato un nuovo modo per evitare le lezioni: lo sciopero. Era facile perché nelle fatiscenti scuole italiane c'era sempre qualcosa che non andava bene. In poco tempo divenni uno specialista delle norme di sicurezza e igiene negli istituti scolastici e mi bastava trovare un pretesto per infarcire di retorica un bel volantino da fotocopiare e distribuire. In quel clima di mobilitazione generale, ci pensò Toni a rendermi un rispettato attivista politico e se la direzione scolastica di un istituto si mostrava particolarmente capace nel reprimere la rivolta, comparivamo noi a fornire dei pretesti per lavorare ai fianchi i presidi.

 

-   Dopo quello che hai combinato, te ne stai qui a corteggiare questa stronza?!

 

Io al solito mi ero appartato durante l'assemblea per fare un giro a caccia di anomalie da usare per una protesta. L'edificio era vecchio e tra le tante irregolarità che annotai, c'era anche la mancanza di planimetrie appese ai muri per il deflusso in caso d'incendio … accidenti a loro mi persi in quel dedalo di corridoi, finendo in bocca a una bidella idrofoba. La pazza mi piombò addosso strappandomi di mano gli appunti per il volantino. Le dissi che stavo esercitando solo il diritto alla sicurezza degli studenti, ma quella tenendomi per un braccio era intenzionata a trascinarmi in presidenza. Non avrei voluto, ma la spintonai nel tentativo di divincolarmi dalla sua presa e la feci ruzzolare giù per le scale. D'istinto risalii la gradinata … dove certo non avrei trovato una via di fuga. Corsi lungo un corridoio e nel tentativo di orizzontarmi, cercavo le finestre che davano sulla piazza del Monte di Pietà. Fu proprio dentro a un'aula perimetrale dell'istituto che mi ritrovai davanti a Lidia. Stava in un gruppetto di ragazze che fumavano accanto alla finestra.

 

-   Sto con quelli del Tasso e … un mezzo casino, ecco.

 

Fu come se la vedessi per la prima volta. Nel senso che mi tornò la tachicardia, le gambe molli, l'occhio da triglia, esattamente come quando m'innamorai di lei … ma era passato tanto tempo da allora ed erano successe una caterva di robe che non potevano essere ignorate. Tuttavia, rimasi imbambolato, impietrito, completamente immobilizzato al suo cospetto. Era bella come non lo era mai stata prima con quei capelli lunghi e poi quegli occhi e due tette in quel golfino attillato!

Spiccicai qualche parola solo perché dovevo per forza dirle qualcosa. Lei se ne stava zitta ma si vedeva che non era dispiaciuta. Insomma, al solito mi trovavo in una situazione imbarazzante e poi le sue amiche ridacchiavano come se mi stessi rendendo oltremodo ridicolo.

 

-   Aoh, ti sei scimunito? Dobbiamo scappare.

 

E poi spuntò fuori Toni. Al solito aveva il polso della situazione e non solo sapeva che avevo appena tirato giù per le scale una bidella, ma disse che avevano chiamato l'ambulanza e certamente insieme con quella sarebbe arrivava anche la polizia. Dovevamo correre per mischiarci alla folla che stava sgomberando o avrei fatto la fine del topo. Aveva sicuramente ragione, ma che ne so … mi aspettavo qualche parola da lei. Lidia aveva aperto bocca solo per sfanculare Toni che le aveva dato della stronza e poi sbuffò una zaffata di fumo volgendo lo sguardo fuori dalla finestra.

 

Una volta lontano dallo sguardo magnetico di Lidia, tornai in pieno possesso delle mie facoltà motorie. Il portone era presidiato e alla fine fummo costretti a una fuga a testa bassa. Nonostante non c'inseguì nessuno, continuammo a correre fin oltre Ponte Sisto e non ci fermammo prima di essere al sicuro tra i vicoli di Trastevere. Toni collassò per terra ed io anche avevo il cuore che mi martellava in testa, ma ero felice … assurdamente felice.

 

-   Tu sei tutto scemo … se ci rivedono, siamo fritti.

 

Quello che facevo poteva essere deprecabile sotto molti punti di vista, ma credevo alle robe che scrivevo nei volantini ed era scandaloso come i dirigenti scolastici cercassero di tenere in sordina il disagio che quella riforma avrebbe peggiorato ulteriormente.  Qualche tempo dopo al liceo Vittoria Colonna ci fu uno sciopero per la totale mancanza di un programma antincendio e volevo esserci anch'io. Toni temeva addirittura che ci arrestassero e mi accompagnò solo fino a margine della piazza.

 

-   Io non lo so, guarda! Certa gente che c'entra con noi, no? Io dico …

 

Lo sciopero era riuscito, ma al solito tra i capannelli di studenti c'era chi si contava perché qualcuno era entrato in aula e le cassandre non mancavano di predire sventure se tale prof avesse reagito in questo o quel modo.

 

-   Cioè, sappiamo tutti come sono andate le cose, quando aprono le gabbie all'Elettronica ne esce di ogni, vero?

 

Quella mattina mi ero messo in tiro: anfibio lustro, skinny con fibbia borchiata e T-shirt con la "A" di anarchia argentata comprata ai Cantieri del Nord in Via del Corso; tutto rigorosamente in nero e gran tocco di classe erano i capelli lunghi piastrati.

 

-   Santo cielo! A qualcuno oggi è morto il gatto?

 

Mi avvicinai a Marisa che era una rappresentate degli studenti molto intraprendente e a cui sapevo di essere simpatico. Mi salutò appena mi vide da lontano e fui presentato a tutti gli altri, anche se alcuni li conoscevo già. Stavamo proprio sul portone dell'istituto e dall'altra parte della soglia sicuramente mi avevano riconosciuto perché mi arrivavano certe occhiatacce. Scorsi Lidia appoggiata al muro sotto l'arco del Monte di Pietà, a due passi dall'ingresso della scuola. Mi defilai dal gruppo che discuteva animatamente su come organizzare uno sciopero bianco che poteva preludere a una possibile autogestione.

 

-   Ciao Lidia.

 

Lei non rispose al mio saluto neanche quella volta. Era evidente che non voleva parlarmi. Sarei dovuto andarmene … ma se lo avessi fatto, non avrei più avuto modo di spiegarle cos'era accaduto durante la serata delle premiazioni al circolo.

 

-   Ti posso parlare solo cinque minuti?

 

Tutte quelle persone con lei sapevano chi ero. Lo capivo dagli sguardi clandestini che si scambiavano e poi avevano smesso di parlare come se stessero guardando uno show. Solo un tizio non la smetteva di lanciarmi frecciatine. Un grassone brutto come la peste che sparlava peggio di come si vestiva. Teneva i libri sotto un braccio mentre faceva svolazzare l'altra mano in aria per nascondere dei sorrisetti maligni come una dama del settecento.

 

-   Certa gente proprio non lo capisce quando non c'è trippa per gatti … neeeri.

 

Cosa mi rimaneva da fare se lei si ostinava a non rispondermi? Avrei dovuto supplicarla? Intanto me ne rimanevo inchiodato come uno stoccafisso ad aspettare, con i suoi amici che parevano più imbarazzati di me. Poi c'era quel tizio che non la smetteva di punzecchiarmi, agitando discorsi sciocchi con la pretesa di alludere a chissà quali verità nascoste.

 

-   A bello, non vorrai rimanere qui a reggere il moccolo tutto il giorno?

 

Poi mi attaccò frontalmente, mi disse di smammare chiedendomi se avevo intenzione di rimanere lì a reggere il moccolo tutto il giorno. Accompagnò la brillante battuta di spirito con un gesto denigratorio. Mi agitò la mano davanti e mi venne d'istinto afferrargliela. Lo strattonai brutalmente in mezzo al vicolo. Quello non solo non la smise, ma dopo aver pateticamente perso l'equilibrio schiantandosi a terra, iniziò a urlare. Non volevo guai, ma neanche mi andava di lasciare mestamente il campo sotto lo sguardo di Lidia. Lui continuò minacciando di andare a denunciarmi per aver aggredito la bidella. Io allora lo afferrai per il collo e lo bloccai contro il muro.

 

-   Lascia stare quest'imbecille.

 

Ero sicuramente molto arrabbiato con quel botolo di grasso, ma volevo solo spaventarlo … purtroppo è difficile in certi momenti capire quando è opportuno fermarsi. Mi ricordai di Lidia quando mi ordinò di lasciare stare quell'imbecille.

 

-   … ma non lo vedi che c'ha solo la bocca per parlare.

 

Lidia mi rassicurò che quelle del tizio erano solo delle minacce vuote, ma poi si voltò per andarsene e non volevo che smettesse di parlarmi. La trattenni per un braccio, forse la strinsi troppo forte perché m'intimò di lasciarla. Avevo bisogno solo di cinque minuti, non stavo certo chiedendo chissà cosa! Ma lei proprio non voleva concedermeli e in fondo me li doveva dopo che si era messa con il mio miglior amico.

 

-   C'hai la faccia come il culo a rinfacciarmi sta cosa … dopo che ti sei scopato mezza Roma.

 

Mi disse sul grugno che non avevo alcun diritto di rimproverarla dopo averla umiliata in tutti i modi possibili. Tentai di chiederle scusa per come avevo rotto il fidanzamento, lo feci a voce bassa solo perché oramai tutta la piazza ci stava guardando.

 

-   Che fai ti vergogni? … te la fai pure con mia sorella, brutto pezzo di merda.

 

Sì, mi vedevo con sua sorella Marica ma, dopo quanto accaduto al campeggio, l'avevo incontrata solo un paio di volte in campagna. Andavamo a cavallo per tutto il tempo e lei non voleva altro da me. Mi piaceva e ci volevamo bene, ma era qualcosa di diverso da quanto mi succedeva con Lidia. Era comunque troppo complicato da spiegare e lasciai la presa convinto che ormai la situazione fosse irrecuperabile.

 

-   …

 

Mi allontanai mezzo intontito e su Ponte Sisto mi sedetti in terra, stanco come se avessi combattuto contro un esercito di automi di Lord Fener. La luce autunnale allungava le ombre di una Roma dalla bellezza malinconica. Coprii pudicamente l'anima dietro le palpebre mentre sentivo lo scalpitio dei turisti che mi scansavano, probabilmente senza capire se era il caso di gettarmi una monetina. Riaprii gli occhi solo dopo aver sentito il tonfo della sua tracolla Invicta piena di libri cadermi accanto.

 

-   Tipico … al solito molli un gran casino e poi scompari.

 

Lidia si sedette in terra, mi trasse a sé passandomi un braccio sulle spalle e, con la testa sul suo seno profumato, prese a carezzarmi il capo.

 

-   Tagliati i capelli … non vado in giro con uno che sembra più gnocca di me.

 

Si lamentò perché dopo aver fatto quella piazzata, le ero scomparso sotto il naso. Non so cos'altro mi sarebbe rimasto di fare, ma quanto pareva mi ero volatilizzato un attimo prima che mi gettasse le braccia al collo … almeno così sosteneva lei.

 

-   Bada che il look dark è superato e poi è roba da sfigati …

 

In ogni modo ora era lì con me e non m'importava più se si era messa con Mattia, a me bastava averla accanto e sentirle la voce vibrare nel petto.

 

-   Ti ricordi quella volta che ti volevi buttare di sotto perché la tua principessa ti aveva dato il due di picche? L'ho rivista sai? Ha messo su un culo peggio di un autocarro col rimorchio.

 

Pareva che il tempo si fosse fermato lì su quel ponte, mentre tutto il mondo continuava a girarci vorticosamente attorno.

 

-   Io voglio bene solo a te ma devi giurare che non prenderai più a cazzotti Mattia … non puoi neanche immaginare quanto ci sta male per come lo tratti.

 

Nulla è più ingannevole delle parole. Per me quegli attimi stavano trascorrendo in silenzio e avevano in sé l'intensità di un fiume che tornava a scorrere.

 

-   Papà ci odia tutte e ci sta piazzando come fossimo delle vacche al mercato.

 

Lidia mi descrisse il padre come un losco individuo. Era noto come "O Matto" perché da piccolo giocando con una granata della seconda guerra mondiale, questa era esplosa lasciandogli nel corpo tante piccole schegge, una delle quali in testa. Paradossalmente la sua irrazionale avventatezza gli procurò rispetto in certi ambienti, dove gli affari richiedono una personalità priva di scrupoli.

 

-   Non farò la fine di mia madre che ha trascorso la vita a sfornare figli …

 

Tredici figli e quattro aborti fanno tredici anni trascorsi col pancione, non mi stupivo se sua madre non godeva di una buona salute.

 

-   Se non avessimo avuto Olga che ci comprava gli assorbenti …

 

Di tutta la covata di figli, solo quattro nacquero maschi e ogni volta che veniva al mondo una femmina, la madre doveva allattarle di nascosto. Anche da grandi era buona regola che se ne restassero chiuse in camera quando il padre era in casa. O Matto era ipocondriaco e aveva la paranoia dei microbi, considerando le mestruazioni origine d'infezione, non voleva pensare che in casa ci fosse bisogno di assorbenti e quindi era Olga, la primogenita, che li acquistava facendoli circolare come merce di contrabbando.

 

-   Ti ricordi che faceva la babysitter anche nel tuo palazzo?

 

Mi ricordavo di sua sorella Olga. Fin da ragazzetta aveva tenuto i bambini del circondario. Mi ricordavo chiaramente di una conversazione in cui la zia Pina diceva a mia madre - non è per il valore in sé - perché dalle case in cui andava a lavorare sparivano cose apparentemente futili come cosmetici o, immagino, assorbenti per signore.  

 

-   Erano tutte malignità, ci hanno sempre goduto a sparlarci dietro …

 

Purtroppo un rione romano funzionava come un piccolo borgo medievale, con le finestre una accanto all'altra e i vicoli in cui anche i passi felpati di un gatto rimbombavano. Le faccende di una famiglia si venivano sempre a sapere e poi il genere di commerci che si tenevano nei locali del padre, favoriva le dicerie malevole sul loro conto.

 

-   Si dovevano sciacquare la bocca prima di sparlare di Olga …

 

Io non lo so quanto di vero ci fosse stato nella chiacchiera che Olga si attaccasse anche alle bottiglie di liquore. Sicuramente però si trattava di una cattiveria quella d'insinuare che fosse lesbica per i suoi modi maschili e l'aspetto androgino. Quando si diventa argomento di discussione, si finisce sempre per fare da bersaglio di ogni maldicenza. Fu così che il gazzettino delle portinaie allontanò Olga da tutti i condomini.

 

-   Tutta colpa di quella bastarda di tua madre …

 

Io avevo sottovalutato il fidanzamento con Lidia. Il matrimonio era un concetto avulso alla mia concezione di vita e non mi ero reso conto di quanto, invece, fosse seria la faccenda in cui mi ero infilato. Del resto non credevo si potesse pensare seriamente a certe cose a soli quindici anni. Al contrario, Primo e il padre di Lidia avevano "investito" sulla nostra futura unione e Lidia stessa aveva creduto di finire all'altare con me.

 

-   Io voglio bene solo a te ma …

 

In fondo mi lusingava sapere che mi avesse scelto come suo futuro marito, ma non potevo lo stesso fare a meno di sorridere al pensiero di noi due sposati. Io la conoscevo troppo bene e seppure mi piacesse molto, solo un'idiota poteva credere di trattenerla nel proprio letto più allungo di una luna di miele.

 

-   … ci sta piazzando tutte come vacche al mercato …

 

Ora che sapevo quanto serie erano state le sue intenzioni, non solo capivo la reazione di mia madre, ma in cuor mio mi sentivo graziato dal suo intervento.

 

-   Se non mi trovavo subito un buon partito, Roberto sarebbe toccato a me …

 

Roberto, il futuro sposo di Marica, era stato scelto per rimpiazzarmi e Lidia, data la sua età oramai considerata da zitella, non si poteva permettere di rifiutarlo. Fu così che trovò da sola una valida alternativa portando a casa Mattia.

 

-   Mi serve …

 

Finché rimaneva fidanzata con lui, suo padre riteneva opportuno farla studiare per permetterle di entrare in quella famiglia altolocata. Se così non fosse stato, avrebbe seguito la sorte di tutte le altre sorelle: semianalfabete e destinate a rimanere chiuse in casa ad accudire marito e figli.

 

-   Marica è una gatta morta …

 

Mi chiese cosa provavo per sua sorella e le risposi con sincerità. Le raccontai delle nostre passeggiate nel bosco e di quanto trovassi magiche le sue manine da strega. Pur avendo accuratamente evitato di scendere nei dettagli dei nostri incontri al campeggio, Lidia a un certo punto mi tirò forte i capelli, intimandomi di smetterla.

 

-   Bada che Roberto ti fa la pelle …

 

Sbagliai a sottovalutare gli avvertimenti di Lidia, credendo che provenissero solo dalla sua feroce gelosia. Seppure avesse solo parole buone per le sue sorelle, s'intuiva subito quanta rivalità ci dovesse essere tra loro.

 

-   Voglio diventare ricca e famosa.

 

Ci sentivamo un po' tutti delle rockstar, ma pochi erano determinati a diventarlo come lo era Lidia.

 

-   … se necessario, mi scoperei il diavolo in persona.

 

Se necessario … per incastrare il demonio avrebbe ricorso alle stesse ecografie false con cui aveva raggirato anche Mattia che, dopo il provvidenziale aborto, non seppe più come tirarsi via dall'impaccio. Se solo fosse riuscita a procurarsi quelle false prove di gravidanza in tempo, c'era d'esser certi che non si sarebbe fatta scrupoli a usarle anche con me. Chissà perché pensavo che Lidia non fosse realmente quella grandissima stronza da cui cercava di mettermi in guardia Toni.

 

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Durante i primi cinque anni di vita s'impara il linguaggio come comunicazione di affetti. A quei tempi in casa mia vigeva il regime del terrore, da cui scaturiva solo un silenzio emotivo.  So di aver imparato a parlare tardivamente e in seguito ebbi altri problemi di espressione verbale. Negli anni le cose peggiorarono a causa della malattia che mi debilitò al punto da indurre una disfasia nel linguaggio. Le parole non sempre si combinavano nel giusto ordine perché i pensieri si formavano un attimo prima di acquisire una metrica grammaticale. La logopedista e la psichiatra mi diagnosticarono un principio di autismo, ma erano loro che non capivano la potenza di quel gorgo in cui era risucchiato il mio ragionamento. I pensieri privi di parole sono emozioni incantatrici e potevo restare per ore a volteggiare in quel limbo. Fu merito del tormento dei precetti medici che mi costringevano a concretare i pensieri in una forma comunicativa, se presi coscienza della profondità del pozzo in cui mi dilettavo a lasciarmi cadere.

Non sono mai guarito completamente dal "vizio" di abbandonarmi alle emozioni prive di parole, trascinando nella realtà delle fobie che mi fanno apparire più strano di quanto non lo sia già.

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Il matrimonio non avviene solo tra i due contraenti, attraverso quelle promesse si sposano dei principi di vita cui si acconsente per continuare a perpetuare il mondo così com'è. Per Lidia era un pericolo da scampare, mentre per molte altre ragazze costituiva un mezzo per emanciparsi. Io ci vedevo solo una ridicola farsa attraverso cui la cultura etero formante ci poneva sulla sua linea di montaggio.

In quell'ultimo mese, prima che rincontrassi Lidia, c'era stato il matrimonio di mia madre. Certo che le sue nozze non erano paragonabili a quelle di Cana, dove Gesù legittima l'alcolismo come mezzo di sopravvivenza al vincolo sacramentale; tuttavia si preparavano con la stessa serietà biblica. Io ero pieno di rancore verso quella società che pareva biasimare ogni aspetto di me e non potevo che esprimere sarcasmo per una celebrazione che mi escludeva pur costringendomi a parteciparvi.

 

-   Possibile che non ti rendi conto della gravità di quanto hai commesso!

 

Prima del ritorno a casa, Paolo aveva portato mia madre nella magione pugliese della sua famiglia. Mamma ne ebbe un'impressione talmente entusiasta, da renderla ferocemente apprensiva per ogni dettaglio del matrimonio. Il mio vestito verde Kawasaki la mandò fuori di testa e allora mi accusò di volerle rovinare la vita com'era il mio solito; al che le risposi che potevo anche fare a meno di accompagnarla all'altare; quindi apriti cielo, in quanto si riapriva la questione che il nonno si era rifiutato di portare una figlia di secondo letto davanti al padreterno. Ne venne fuori una cagnara che Paolo risolse ordinando a me di seguirlo nel suo studio.

 

-   Con quei soldi ci arrederemo la nuova ludoteca per i disabili.

 

Paolo era furioso soprattutto per il losco affare portato in porto con l'aiuto del conte. Aveva già ammonito lo zio Gerardo di non coinvolgermi in altre incombenze troppo onerose per un ragazzino della mia età. Gli disse che ora avevo un padre che si sarebbe occupato di ogni aspetto delle mie necessità. Paolo conosceva la zia Pina, sapeva anche dei suoi intrallazzi e certamente mia madre lo aveva redarguito sul ruolo che aveva avuto nella mia triste vicenda. Il suo monito allo zio aveva l'intento di chiarire che da quel momento non gli avremmo dovuto più nulla.

Il suo gesto mi riempiva d'orgoglio e mi sarebbe piaciuto azzerare il passato, ricominciare da capo, diventare come mi voleva lui, smetterla con le mie stranezze ed essere finalmente come tutti gli altri, ma allo stesso tempo sapevo di non potergli declinare ogni aspetto della mia confusa esistenza.

 

-   Quella donna era una losca faccendiera e a quanto pare ti ha insegnato bene il mestiere.

 

Paolo non era uno che alzava la voce, ma i miei silenzi lo facevano impallidire dal disappunto e divenne caustico nel giudicarmi. Risolse che non avrei più dovuto frequentare quella famiglia e dei soldi ricavati dalla vendita dell'Icona, decise di farne una donazione alla parrocchia. Forse avrebbe preferito che mi ribellassi alla sua decisione, ma a me non importava nulla di quei soldi.

 

-   Ci stai beffando tutti, non so ancora come, ma … sei sicuro di volerlo fare? Intrighi e menzogne dove ti condurranno? O devo pensare che tua madre ha ragione nel definirti diabolico?

 

Beh, non era escluso che mia madre mi avesse trasmesso la sua follia … in ogni modo ero io che mi sentivo manovrato da qualche presenza occulta che si divertiva a infilarmi in situazioni progressivamente sempre più assurde.

 

-   Un ragazzino della tua età deve stare con dei suoi coetanei.

 

Paolo mi proibì di frequentare anche la principessa e specie suo figlio, un ragazzo problematico che non gli era mai piaciuto. No, non si riferiva alla sua omosessualità, quanto piuttosto alle sue manie suicide. Poteva anche chiudermi in camera per il resto dei miei giorni, ma non poteva pretendere che frequentassi i ragazzi della sua benemerita associazione parrocchiale.

 

-   Perché no? Sono ragazzi come te e fanno cose che sono giuste per la tua età e … e non ti piacerebbe rincontrare quella ragazzina del campeggio?

 

Marica mi aveva scritto una lettera cui avevo risposto subito e c'eravamo messi d'accordo per incontrarci tutti i giovedì all'agriturismo del padre per andare insieme a cavallo. Lei non ci andava più con gli scout e la terza media l'avrebbe presa alle serali perché oramai aveva un uomo che non voleva correre il rischio di perderla. La cosa buffa è che lei non ci trovava nulla di strano a fidanzarsi ufficialmente a poco più di tredici anni con un uomo di dodici più grande.

 

-   Tutti noi vorremmo in qualche modo aiutarti.

 

Aiutarmi? Lui? Loro? Chi! Probabile che fossi veramente un demonio e potevo discernere solo il marcio del mondo, ma per quanto avevo potuto toccare con mano, la sua famiglia perfetta era un'illusione coltivata durante le sue lunghe assenze. Le filippiche da buon samaritano le avrebbe dovute declamare al momento giusto a suoi veri figli, quando preferì farli crescere da chi non poteva certo insegnargli cosa era normale per un ragazzo di quindici anni. Gli dissi comunque che non volevo complicarmi ulteriormente la vita e avrei fatto tutto quello che volevano per la loro dannata festa.

 

Con Paolo e la mamma erano saliti dalla Puglia tutti i famigliari più stretti dello sposo. Nonostante alloggiassero in albergo e mia madre non fosse certo una sposina di primo pelo, fu ritenuto indecoroso che ci mostrassimo già una famiglia di fatto. Noi due tornammo a casa mia e mi dovetti dare un bel po' da fare per cancellare le tracce dei pomeriggi di spasso con Gio' e compagnia bella.

Con mia madre le cose non andavano male quando rimanevamo da soli. Nessuno dei due pretendeva che l'altro comprendesse ciò che faceva e insieme ci beavamo di una normalità sorprendentemente facile da sostenere. Del resto io andavo a scuola in provincia e tornavo giusto il tempo di prendere il borsone da ginnastica per recarmi agli allenamenti in piscina. Quando rincasavo, era abitudine trovare Toni a intrattenersi con lei sui preparativi della festa. Per quanto assurdo, quei pochi giorni di tregua furono molto rassicuranti e in cuor mio pensai che potessero rappresentare una speranza per il futuro.

 

I congiunti di Paolo erano un residuato preistorico di famiglia patriarcale. La madre era una signora minuta che nonostante l'età mostrava ancora una certa avvenenza. Il fratello, invece, sembrava uscito da una di quelle cartoline d'epoca che descrivevano il tipico picciotto meridionale. Poi c'era la sorella che somigliava molto alla madre, aveva gli stessi occhi celesti come il mediterraneo.

Il suocero, come lo chiamava mia madre, era il vero osso duro della famiglia. Prima d'incontrarlo mi furono raccontate storie terribili sul suo conto. Pareva addirittura che una volta per punire Paolo di una marachella, lo avesse legato a un ulivo dove lo prese a scudisciate fino a farlo svenire. Dunque mi meravigliai molto quando mi ritrovai davanti un ometto assai più piccolo di statura dei suoi figli. Aveva un paio di dodici pollici per occhiali da vista, dietro le cui lenti oscurate si celavano degli occhi piccoli e acquosi. Portava sempre il cappello, una scoppola siciliana in casa e un Borsalino a tesa corta per andare a passeggio. Passeggio per modo di dire, perché aveva un grave problema alle ginocchia e camminava a passi brevissimi con l'ausilio di un bastone; per lo più rimaneva seduto ma devo ammettere che nonostante gli impedimenti fisici, riusciva comunque a esprimere molta autorevolezza. 

Il signor Francesco era una di quelle persone che per qualche strana ragione mi paiono famigliari fin dal primo approccio. Gli sorrisi e lui contraccambiò, un attimo dopo si parlava come due amici, senza alcuna deferenza generazionale.

 

-   Sei patetico …

 

Solo un'altra persona mi aveva dato del patetico prima di allora, era stato il fratello di mia madre durante una bisca dopo il cenone di capodanno, perché non mi andava giù che mi avesse sgraffignato un deca a sette e mezzo.  Quando me lo disse Paolo nella piccola sacrestia della cappella dell'agriturismo, m'indispettii ancora di più, ma stavolta perché sapevo che era vero.

 

-   Non voglio essere fotografato …

 

Non volevo essere fotografato e meno che mai filmato ed effettivamente era complicato dato che dovevo accompagnare mia madre all'altare. Si trattava solo di compiere neanche dieci metri sotto i riflettori della ribalta e mi rendevo conto che la mia richiesta potesse apparire un cipiglio da ragazzino o, peggio, nascondesse l'intento di far dannare mia madre, la quale nel frattempo immagino stesse azzannando le caviglie dei paggetti.

 

-   Sei patetico …

 

Quando raccontai allo psicologo del consultorio che a una certa età, con metodica premeditazione, feci scomparire ogni foto che mi ritraeva fin dalla prima infanzia, lui disse che era stato un gesto di ribellione. In sostanza non volevo più far parte della memoria di quella famiglia da cui mi sentivo tradito. La mia fobia verso gli scatti fotografici derivava dunque dal timore di una nuova perdita e quindi da una mancanza di fiducia nel prossimo. Bah, quella spiegazione non mi aveva mai convinto del tutto perché nello stesso periodo che bruciavo le fotografie, non riuscivo neanche più a guardarmi nello specchio. Secondo me, la mia fobia era scatenata dal riflesso di un'identità che ritenevo sempre più mostruosa.

 

-   Sei patetico …

 

Non era vero che volevo rovinare la festa e la consapevolezza che tutti lo stessero pensando mi distruggeva. Non so come dovessi apparire in quel momento, ma Paolo sentenziò che ero patetico. Come facevo a spiegargli che per me espormi in quel modo era come soffrire di vertigini? Credo che Paolo stesse sul punto di cavarmi via da quella sacrestia a calci in culo.

 

-   Le interessa più farsi accompagnare dal figlio … ossia carusa pe' la fotografia?

 

A un certo punto nella stanzetta giunsero anche i passi strascicati del signor Francesco. Paolo corse subito a sorreggerlo tenendogli il gomito, ma lui lo respinse, al che tutti i figli e nipoti e forse anche la statua di gesso della Madonna, impallidirono. Nel silenzio più ossequioso il vecchio domandò cosa stava impedendo lo svolgimento della cerimonia. Io mi sarei preso a schiaffi da solo e mai avrei sperato che il signor Francesco capovolgesse la questione, individuando il problema nella vanità di mia madre.

 

-   Io so' veccio ma tu s'i uno vagnone forte e teni paura? O Padreterno non t'ha fatto nascire con sta faccia pe' scunnilla. Fossi come tia, sai quante zite mi facessi!

 

Il signor Francesco mandò tutti via con un impercettibile gesto che neanche seppi cogliere, poi mi chiese il motivo per cui ero sempre triste. Mi parlava con una tale calma che sembrava irridere ogni preoccupazione terrena. Al solito non trovai le parole per rispondergli ma lui, come Paolo del resto quando non aveva l'onere di farmi obbedire, sapeva leggermi in faccia quello che neanche io conoscevo. Riuscì a chetare il subbuglio di quei momenti anche nella mia testa e mi accompagnò fuori dalla sacrestia. Bruno ci venne incontro e lo prese sottobraccio, indicandomi la porta della cappella dove avrei dovuto accogliere mia madre.

 

Terminata la cerimonia, adoperai ogni espediente per diventare invisibile e ci riuscii al punto che nessuno si accorse più di me. Era quello che volevo, ma allo stesso tempo mi faceva tanta rabbia non riuscire a divertirmi come gli altri. Avrei voluto essere come Toni che rideva e scherzava con tutti. Invidiavo Bruno seduto al tavolo con un braccio appeso alla spalliera della sedia e l'altro che gesticolava mentre discorreva con gusto. Sarei voluto andare con gli altri giovani che ridevano facendo sempre incavolare le ragazze. Invece, usavo i miei super poteri per diventare invisibile, rimanendomene in disparte, cavalcioni allo steccato del recinto degli struzzi a stordire la voglia di vivere con una canna di maria. 

 

[continua]

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Imparai presto che la metafisica della contrapposizione tra il bene e il male mi avrebbe privato del piacere affettivo per delle persone tecnicamente malvagie. Nietzsche e Tolstoj m'insegnarono che i buoni sono una casta tenuta insieme dalla trama degli interessi reciproci, da cui scaturisce l'etica sociale dei giusti. Al contrario, i cattivi sono una massa sconnessa pronta a disperdersi al primo sternuto del fato, perché l'egoismo è la sola morale possibile di chi prende senza avere nulla in cambio da dare. 

I cattivi mi somigliavano perché come me non sapevano chiedere e allora rubavano quanto l'appetito delle proprie deficienze affettive esigevano.

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-   Si può sapere che cazzo vai cercando?

 

Le persone hanno bisogno sempre di nuovi stimoli per coltivare il desiderio e Brusco, dopo aver messo su un centro sportivo, ambiva a surclassare il blasonato Circolo Canottieri. Considerando che il solo fiume che scorreva nei pressi del suo club era un fosso, non poteva certo far concorrenza ai suoi rivali con il tradizionale sport del canottaggio. Ci provò quindi con il tennis, ma si accorse presto che era un'attività agonistica in declino e convertì i campi per il nuovo sport del calcio a cinque. Questa intuizione gli fece triplicare le iscrizioni, guadagnandosi l'interesse delle nuove leve della società bene cittadina.

 

-   Che vuoi da me?

 

Brusco si elevò da semplice pusher a vero e proprio faccendiere di rango. Il suo circolo inaugurò un ristorante che crebbe con una seconda sala, tante erano le richieste dei personaggi noti che frequentavano il suo circolo per celebrare i loro eventi. Presto si vide necessario scavare anche una piscina e a quel punto a Brusco tornò il ghiribizzo di battere il Circolo Canottieri.

 

-   Mi stai attaccato come una piattola ai coglioni!

 

Quello che mancava a Brusco era la pazienza, voleva tutto e subito. Ci voleva troppo tempo per crescere degli atleti, per non parlare dell'intuito che serve a valorizzarne le potenzialità. Troppi casini per uno che in fin di conti s'intendeva solo di come far arrivare la droga dalle borgate ai quartieri ricchi della capitale. Preferì fare a modo suo e approfittando di un amico di un amico che conosceva quel vizietto in cui quell'altro si era infognato, prese il controllo di una squadra di palla nuoto dell'hinterland.

 

-   Allora?

 

Brusco era il confessore da cui prima o poi tutti i peccatori andavano a chiedere un'assoluzione e lui caritatevolmente elargiva mietendo favori nel tempo. Questa fu la tecnica con cui fece anche la campagna acquisti degli atleti. Carmelo fu uno dei primi che arruolò nella sua squadra e lo usò per convincere anche me. Il suo pallino era riformare la coppia vincente della trascorsa stagione agonistica, cioè Mattia e il sottoscritto. Lo scopo era infliggere un cocente smacco alla concorrenza.

 

-   Mi vuoi sucare l'uccello?

 

Io ero quello più abbordabile. Conosceva bene Primo e i vizi per cui gli aveva prestato spesso soldi a strozzo e conosceva me fin dai tempi della sua bisca, quando Marcello raccontava che ero suo cugino. Poi mi vide gestire il debito di Sandrocchio ed ebbe conferma che appartenevo al suo mondo. Non so bene cosa raccontò Primo riguardo alla mia mancata iscrizione alla nuova stagione agonistica del circolo, ma tutti ci videro subito dietro qualche manovra occulta di Brusco e oramai si aspettavano da un momento all'altro la mia defezione.

 

-   Ti sei innamorato di me?

 

Dopo i fatti che coinvolsero "il ragioniere" a casa mia, io detti un taglio netto a tutta la situazione che si era venuta a creare. Feci passare la decisione per una condizione imposta dal ritorno a casa di mia madre, ma dopo il matrimonio, quando lei ripartì per l'Africa, Giorgio ricominciò a lisciarmi il pelo. Io non gli detti mai modo di parlarmi direttamente e non mi avvidi che ero diventato la posta in gioco di una riffa.

 

-   Lo facciamo st'affare?

 

Carmelo e Giorgio si stavano contendendo la posta in gioco messa in palio da Brusco per chi mi avesse convinto a iscrivermi al suo club. Quei due erano in guerra fin da prima perché Carmelo aveva invitato Giorgio per una seratina da un suo cliente, si scoparono in tandem la moglie del guardone cornuto, ma dopo Carmelo scoprì che quell'altro continuò ad andarci anche senza di lui, tanto che il cliente non lo chiamò più. Era furioso per questo fatto perché lui ci campava con le marchette, mentre per Giorgio era solo un divertimento.

 

-   Io do una cosa a te … e tu fai una cosa per me … facile no?

 

Carmelo stava sempre al verde. Odiava il lavoro di stagista in quello studio commerciale e odiava il padre che gli scuciva i soldi col contagocce. Amava, invece, la maniacale cura del corpo, le chincaglierie feticiste, le trans e la cocaina … tutta roba assai costosa. Mi ero accorto benissimo che mi riaccompagnava a casa solo quando mettevo benzina al suo A112 Abarth, altrimenti accampava scuse come quella che il padre gli controllava i chilometri percorsi. E non m'infastidiva nemmeno quando, giunti sotto casa, mi domandava se avevo una cannetta da rollare, da cui staccava sempre uno spino da fumarsi da solo al rientro. Mi piaceva restare in macchina con lui … anche quando mi rincoglioniva con i suoi problemi. Alla visita di leva lo avevano fatto rivedibile per via dell'altezza, ma non crebbe mai i centimetri necessari richiesti per diventare soldato. Sta cosa lo faceva impazzire di rabbia e si era messo in testa che Paolo potesse aiutarlo. Gli dissi che una volta riformato alla visita di leva non si poteva fare più niente, allora cominciò a insistere per chiedere a Paolo di arruolarlo nella sua agenzia ed io lì a spiegargli che prendeva solo ex militari di carriera perché era un lavoro assai rischioso … ma niente, aveva sempre una richiesta nuova da farmi. Tanto che non badavo più a chi mi metteva in guardia dai suoi secondi fini. Era fatto così e a me bastava che continuassimo quel gioco in cui lui mi mostrava bicipiti e addominali o l'ultimo slippino fetish che portava sotto i jeans … niente di più.

 

-   Io a te non ti capisco cazzo … non ti capisco cazzo!

 

Le cose precipitarono dopo il rientro di Mattia. Mi accorsi di quanto realmente mi avesse infastidito che si era messo con Lidia, nel momento in cui mi rivolse il saluto negli spogliatoi. Ebbi una sorta di capogiro tanto il rancore mi offuscò la ragione. Lo avrei sbranato, ma non lo feci. Luca, con cui ero solito andare per locali, mi raccontava divertito di come ogni volta lo trattavo da pezzo di merda. Giorgio, che probabilmente stava cercando d'irretire anche Mattia per convincerlo ad accettare l'offerta di Brusco, tentava di farci da paciere. Carmelo, invece, me ne diceva peste e corna su entrambi.

 

-   Sei solo un bamboccio …

 

In questo clima avvenne il primo scontro diretto tra noi e la squadra di Brusco: Mattia ed io contro Giorgio e Carmelo. Vincemmo con uno score a dir poco umiliante. Il punto debole della loro squadra si rivelò proprio Carmelo. Era evidente che non si allenava abbastanza e fu sostituito a metà partita. Giorgio al solito iniziò a giocare sporco e ricevetti l'ordine di contenerlo; nonostante ci rifilammo ogni sorta di scorrettezza, ogni volta che ci fischiavano un fallo, prima di andare nel pozzetto delle penalità, lui mi sorrideva e usciti dall'acqua mi abbracciò dandomi del grandissimo figlio di puttana. La piscina dove giocammo aveva gli spogliatoi comuni e figurarsi se Mattia non ne approfittava per sbertucciare gli ex compagni di squadra. Con una bomboletta di schiuma da barba a mo' di microfono, s'improvvisò cronista sportivo con cui faceva domande imbarazzanti agli avversari sconfitti miseramente.

 

Era evidente che Mattia aveva Carmelo nel mirino, ma non so fin quanto in realtà lo scherzo era stato pianificato con Giorgio. Sta di fatto che quest'ultimo aspettò il momento propizio in cui Carmelo era immobilizzato dal costume calato sulle ginocchia per prenderlo alle spalle mimando una sodomizzazione. La stazza di Giorgio con quella minuta di Carmelo fece sì che il primo si portò l'altro in giro per il piccolo spogliatoio come un trofeo. Ridevano tutti, specie perché il pisellone di Carmelo sembrò gradire parecchio lo sconquasso creato dai colpi di reni di Giorgio. Al culmine dell'eccitazione generale, Mattia prese la testa del suo ex amico e con la bomboletta tra le cosce finse di sborrargli in faccia.

 

-   Io non t'ho chiesto niente e la prossima volta vedi di farti i cazzi tuoi.

 

Sembravano tutti contro di lui e mi venne naturale intervenire. Spintonai forse troppo violentemente Giorgio che cadde a terra. Strappai la bomboletta di schiuma da barba dalle mani di Mattia e non so come, la usai per menargli un pugno facendolo sanguinare. Venne giù il gelo e quel silenzio mi diede coraggio quando Giorgio si rialzò minaccioso. Avrei fatto tutto quello che c'era da fare e lui lo capì, commentando sarcastico che finalmente si era capito perché difendevo tanto la "mia mogliettina". L'improvviso silenzio e il successivo rapido defluire dei ragazzi, fece sopraggiungere gli allenatori e compagnia bella. Mattia disse che era scivolato, però mi guardò in tale modo truce che mi piombò nel senso di colpa. Avrei voluto espiare immediatamente con una confessione pubblica … ma era troppo tardi e alla fine mi ritrovai da solo ad aspettare Carmelo.

 

-   Te ne devi annà … frocio … pussa via!

 

Carmelo si era infilato nelle docce e non si decideva più a uscire. Tra poco sarebbe tornato qualcuno a chiamarci perché il quarto tempo alla tavola calda non sarebbe durato ancora molto. Decisi di andargli a portare l'accappatoio che aveva lasciato nel borsone. Non volevo essere inopportuno. Ci scambiavamo spesso gentilezze del genere. Lui si stava scorticando con la spugna … gli chiesi se l'acqua era ancora calda … non rispondeva … accennai al ritardo che stavamo facendo ma non per mettergli fretta … lui mi strappò l'accappatoio di mano e usandolo come un asciugamano se lo strofinò sommariamente addosso e poi me lo lanciò con fare di sfida.

 

-   Ma chi cazzo ti crederai mai di essere …

 

Non so cosa aveva rimuginato per tutto quel tempo sotto la doccia, ma sicuramente era giunto alla conclusione che l'intera faccenda fosse colpa mia. Mi chiese cosa cazzo andavo cercando da lui, che si era rotto le palle di avermi appiccicato ai coglioni come una piattola, mi dette del frocio e poi mi offrì di succhiargli il cazzo. Forse non sarei dovuto intervenire perché finii per ridicolizzarlo ancora di più. Però mi fece proprio tanto male con quelle accuse che mi flagellavano perché erano tutte domande cui non sapevo dare una risposta. Mi vergognavo a confessargli quanto bene gli volevo e non sapevo perché le cose stessero così. Non volevo nient'altro da lui … neanche succhiargli l'uccello.

 

-   Mi fai solo pena …

 

Carmelo sosteneva che non aveva senso e capisco che dal suo punto di vista ci doveva essere un motivo per cui mi spendevo tanto per lui. Probabile che avesse anche ragione ed ero solo un ragazzino troppo cresciuto e soprattutto pasciuto nella bambagia, tanto da non sapere neanche io cosa desiderassi. Ero frocio? Sì, mi piaceva e quindi lo ero … ma non per questo o magari proprio per questo che trovavo offensivo il modo come mi chiedeva di prendermi quello che volevo in cambio della mia defezione dalla squadra. Al solito aveva bisogno di soldi e cercò di vendersi. Chissà da quanto tempo stava cercando di farlo e ogni volta si sentiva umiliato da quella che poteva apparire indifferenza.

 

-   Ma sì ... vattene … non so che farmene di un pezzo di merda come te …

 

Sta di fatto che in quel momento ero io il vincente che nel suo silenzio lo stava progressivamente umiliando sempre di più. Ora lo so, ma in quei momenti le sue rimostranze suonavano come insulti che lapidarono quanto ancora era rimasto scoperto della mia anima. L'amore è un esercizio che non si può compiere da soli e diventa umiliante per chi lo riceve quando comprende di non poterne disporre.

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Mi accorsi fin dai tempi della scuola primaria che il mio problema con gli altri erano le situazioni ludiche. Il trillo della campanella della ricreazione ristabiliva l'istinto naturale del branco, in cui la partecipazione empatica sostituiva la mediazione dei rapporti tra ruoli sociali prestabiliti, ed io perdevo ogni possibilità di comunicazione. Non conoscevo ed ero spaventato da quel linguaggio, il cui lessico nasceva direttamente da pulsioni istintive.

Questi sentimenti collettivi non richiedono l'elaborazione di un pensiero individuale e rotolano via urtandosi a volte in maniera violenta o combinandosi costruendo forme geometriche sociali, tutto in una sorta di gioioso caos. Le così dette feste sono proprio i luoghi dove le persone si abbandonano a questo tipo di orge empatiche.

Per quanto desiderassi ardentemente iniziare un dialogo con gli altri, mi mancava la fiducia di lasciarli incastrare con me. Rimanevo chiuso nello scafandro che indossavo e non capivo che buona parte di quella gioia che provavano gli altri, stava proprio nel denudarsi pubblicamente.

Svestendo le pudende della propria anima, scoprivano quegli incastri che permettono alle deficienze affettive di colmarsi vicendevolmente.

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-   Ma tutti sanno cosa significa: veni, vidi, vici!

 

Toni si ripresentò sulla porta di casa mia, come se vi fosse uscito solo un attimo prima. Fu un caso, ma poi chi può saperlo, se ad aprirgli fu mia madre che nel frattempo era partita e tornata sia dall'Italia, sia da quella che presto sarebbe diventata la sua nuova casa … e questo fece sembrare l'estate appena trascorsa come un brutto sogno mai accaduto. Anche se non glielo dissi, fui proprio felice di averlo di nuovo tra i piedi. Scoprii quanto è importante avere una persona cui poter confidare ogni dettaglio della propria vita. Forse non era neanche giusto che gli scaricassi addosso tutte le mie disavventure, però mi serviva il suo punto di vista perché mi dava modo di guardare concretamente la mia vita. Lessi nei suoi occhi lo sgomento che avrei dovuto provare io, quando gli confidai quello che mi era accaduto durante il campo estivo con Franco. E poi mi spiegò il motivo per cui mi sentii disprezzato dalla sua indifferenza durante la festa del matrimonio.

 

-   Sta pure scritto sul tuo pacchetto di Marlboro …

 

Toni interpretò quelle che per lui erano le mie mancanze … quegli incastri che andavano riempiti, dandomi piacere, da cui trarre l'entusiasmo capace di mettere in moto il desiderio che mi avrebbe reso uguale a tutti gli altri. Gli altri erano i suoi amici … per lo più compagni di scuola: gente del liceo Tasso. Non ricordo di chi era la festa, probabile che non si trattasse neanche di una festa. Salimmo un sacco di scale, chissà perché non prendemmo l'ascensore. Eravamo in uno di quei palazzi dietro Via Veneto. Strano che ci vivesse qualcuno, in quei palazzi ci sono solo banche o uffici di rappresentanza. L'appartamento non era grande e neanche lussuoso, ma esprimeva lo stesso un certo benessere … soprattutto una ricchezza culturale. Non saprei neanche dire perché, ma ne ebbi questa impressione. Era popolato di giovani della mia età, sbucavano da ogni stanza e Toni si dileguò in quella corrente scrosciante di chiacchiere. Non era una festa … non c'era un buffet o un protagonista cui riservare dei saluti speciali. Barcollai su qualche passo fino a cadere su un angolo del divano, da dove cercai di prendere informazioni sui personaggi di quello spettacolo.

 

-   Non conosci Plutarco!

 

C'era un tipo smilzo che importunava tutti e prese di mira anche me. Era uno di quelli dallo sguardo nervoso e il fare spavaldo. Le ragazze dovevano tenere a bada la sua intraprendenza e nessuna lo avrebbe mai preso per fidanzato. Parlava di coca e canne, magari era vero che ne facesse uso, ma certo non conosceva le storie dietro ogni scudo di roba che comprava chissà da chi. Erano loro i ragazzi che facevano le cose che si addicevano alla mia generazione? Paolo sarebbe stato contento di vedermi lì, eppure non capivo cosa avrei dovuto farci. Di tanto in tanto qualcuno mi chiedeva chi fossi e allora mi affrettavo a presentarmi, dicendo poi che ero con Toni, ma non erano certo le mie generalità che mi stavano chiedendo.

 

-   Ma lo sanno pure all'asilo cosa significa …

 

Domani c'è lezione? Assemblea d'istituto? Ma hai visto quella stronza di … Quel divano era un piccolo invaso di chiacchiere che rapide riprendevano la corrente che scorreva per tutta casa. La più desiderata delle ragazze, che chiamerò Sabrina perché tutti le riconoscevano una certa somiglianza con la soubrette Sabrina Salerno, mi sedette accanto cercando di carpirmi notizie. Per loro era chiaro che sarei entrato a far parte della comitiva e, specie le ragazze, si domandavano quale ruolo vi avrei giocato.

Sabrina aveva due tette esagerate, ma alla Salerno somigliava anche di viso e specialmente per quel piccolo strabismo di venere. Presto intorno alle sue domande si coagulò un piccolo gruppetto di curiosi. Io rispondevo in maniera molto circostanziale perché erano tutti studenti di uno dei più rinomati licei della capitale, mentre io frequentavo l'istituto professionale con la peggiore nomea e come se questo non bastasse, di una succursale di provincia. Le chiacchiere sfuggivano continuamente tornando nelle dinamiche scolastiche, parlavano di greco e latino, di filosofi che non conoscevo e in termini didattici a me astrusi. Li invidiavo profondamente e pensavo che Vanni doveva essere proprio come loro. Pensavo all'eventualità che mi era sfuggita quando tutti si aspettavano che fossi diventato il più brillante studente del liceo Visconti … invece …

 

-   Sta scritto anche sul tuo pacchetto di Marlboro …

 

Appena Toni si avvide del gruppetto che mi si era radunato attorno, corse in mio soccorso. Mi atterrò accanto e cercò di parlare in mia vece. Poi, Sabrina, che era anche una studente modello, parlò di Plutarco e non mi ricordo come, mi mise in imbarazzo perché non sapevo cosa significasse la nota frase cesarea "veni, vidi, vici".

Conoscevo meglio di ognuno di loro quali erano i pericoli in cui s'incorre durante una conversazione mondana, è preferibile esibire dignitosamente la propria ignoranza come un'orgogliosa sprezzatura di sé, piuttosto di dissimularla pateticamente inorgogliendo chi ci interroga. Questo era vero in un contesto tra adulti, ma tra studenti le cose funzionavano in maniera diversa. Ebbi la percezione dell'imbarazzo che corse via tra gli astanti quando dichiarai di non conoscere il latino. Sabrina rise discretamente di me dichiarando che non bisognava certo conoscere il latino per sapere cosa volesse dire la nota frase di Cesare. Toni persino mi chiese stupito se stessi scherzando, mostrandomi la scritta che c'era sul mio pacchetto di Marlboro.

Riguadagnai punti quando Toni ci mise una pezza raccontando i miei successi sportivi. Identificarmi nel ruolo dell'atleta giustificava l'ignoranza e questo riportò le cose nell'alveo della normalità.

 

Quelle seratine si organizzavano rapidamente appena qualcuno aveva casa a disposizione. Capitava sempre che qualche genitore fosse impegnato e quindi non c'era settimana in cui non ci si riunisse da qualcuno. Toni organizzò da me quando ormai avevano imparato tutti a non farmi domande cui non avrei risposto. Io avrei preferito riceverli a casa mia, ma Toni mi stupì nel definirla buia e scomoda, quando poi decise di zittirmi, la bollò come uno squallido ex portierato. Al contrario, l'appartamento all'Aventino era perfetto in quanto moderno, lussuoso e con un effetto speciale garantito: il proiettore che da una nicchia nel muro permetteva di guardare la televisione su un'intera parete del salotto. Il colpo di teatro sortì l'effetto desiderato e dopo quella sera entrai ufficialmente nel giro. A nessuno importava più quale scuola frequentassi e con la storia dell'occupazione del Liceo, ebbi anche modo di dimostrare di non essere un Cacasenno qualunque.

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La mia affettività era rimasta muta e quando, durante l'adolescenza, avrebbe avuto bisogno del proprio trascorso famigliare per identificare quei nuovi bisogni emotivi necessari all'emancipazione, il mio passato si dissolse completamente.

Il mondo di rappresentazione epicurea, mi permetteva di ridurre ogni scelta al gusto che ne potevo trarre. Nella mia realtà così volubile, era rassicurante identificare la gioia con la breve intensità di un'eiaculazione.

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Dopo l'occupazione del Liceo, nella comitiva ci si divise in diversi gruppetti che proseguirono a frequentarsi come prima, nonostante dediti a svaghi differenti. Alcuni personaggi come Sabrina facevano parte di diversi gruppi, mentre Toni proprio non ci riusciva a tollerare certi atteggiamenti che considerava sconvenienti. Io mi relazionai con il gruppetto degli alternativi, dove conobbi Lavinia.

Grazie alle autogestioni si entrava e usciva liberamente da ogni liceo occupato, era così che si poteva trascorrere un paio di giorni qui e un paio di là, conoscendo gente nuova. Lavinia frequentava il liceo artistico di Via di Ripetta. Il padre era un antiquario e la madre una gallerista newyorkese. Lei si definiva pittrice, anche se non nel senso tradizionale del termine. Dipingeva con le dita preferendo alla tela la pelle umana. Fu lei ad avvicinarmi, chiedendomi di poter lavorare su di me. Non compresi subito cosa intendesse, almeno fino a quando non mi chiese di togliere i jeans. Dopo la posa mi fece degli scatti fotografici e non mi dispiacque! Tanto meno dispiacque a lei l'erezione che ebbi mentre mi usava come una tavolozza per i colori. Fu così che diventammo scopa - amici.

 

Lavinia non era quella che si può definire una bellissima ragazza. Era abbastanza in carne e la faccia tonda sembrava ancora più grassottella con quel caschetto di capelli corti e dritti. Portava anche degli occhiali da vista dalle lenti piuttosto spesse, ma per il resto era carina. Il fisico conservava delle forme sensuali nella loro abbondanza, ma soprattutto era il suo carattere estroverso che lo rivestiva di un'aura accattivante.

Era anche fidanzata, del resto frequentava l'ultimo anno e sarebbe diventata maggiorenne proprio in ottobre. Fu per questa importante ricorrenza che i suoi le lasciarono festeggiare il compleanno per un intero fine settimana nella casa sul lago di Sabaudia.

 

Lavinia non faceva parte della nostra comitiva e frequentava solo il gruppetto degli alternativi. Oltre a me, ne faceva parte Fiore (Fiorella), Lia (Camilla), Dodo (David) e Gigi (Luigi). Alla festa però fu invitata anche Sabrina che la conosceva tramite la sua amica del cuore, cioè Fiore. Gigi era, invece, il ragazzetto segaligno dallo sguardo spiritato che si vantava di essere gran conoscitore di ogni sostanza stupefacente. Con Lia ebbi anche un filarino, ma niente di più di chiacchiere di comitiva e solo perché era un'atleta come me; giocava in una squadra ufficiale di pallavolo di Pomezia e condividevamo una dieta strettamente vegetariana, anche se lei si concedeva più di qualche trasgressione. Dodo era danese ed era bellissimo con i suoi capelli lunghi e riccioli come John Tempest degli Europe; oltre alla somiglianza fisica con il leader della nota band heavy metal scandinava, c'era anche il fatto che suonava la chitarra elettrica e si vestiva da metallaro.

 

Ci mettemmo d’accordo che li avrei aspettati lungo la via Appia, visto che casa mia in provincia era di strada per Sabaudia. Saremmo scesi con Lino (Pasquale), il fidanzato di Lavinia. Lui era il più alternativo di tutti. Viveva nel suo Ford Transit bianco trasformato in camper in una sorta di comune nel vecchio gasometro della Magliana. Era anche lui un artista, ma non di roba tradizionale. Per campare faceva tatuaggi, però girava tutte le fiere europee praticando piercing estremo come il body suspension. Lino era grande di età e non stava volentieri con gli amici troppo giovani della ragazza, così anche quella volta ci diede buca all'ultimo minuto.  

 

Quel sabato non andai a scuola avendo una giustificazione firmata veramente da uno dei genitori o, come nel mio caso, da chi ne fa le veci. Era proprio una bella giornata! Mi sentivo alla grande quando mi sedetti sotto la pensilina della fermata dell'autobus con il costume nello zaino e la mia playlist preferita dei Depeche Mode nelle cuffie, deliziato dal sound del mio nuovissimo walkman Aiwa autoreverse con doppio filtro antifruscio Dolby System.

Venti minuti di ritardo ci potevano pure stare e non mi pesarono, ma quando iniziarono a diventare due ore, cominciai a considerare l'eventualità di una mega sola. Percorsi un chilometro a piedi per arrivare a una cabina telefonica sulla via Appia che ovviamente non funzionava. Ero ormai sul punto di andarmene quando una Volvo che scoreggiava smog nerissimo, si fermò e vi discese Fiore che mi chiamò con una fretta indiavolata.

 

In macchina c'era anche Lavinia che era tornata a Roma per ridiscendere di nuovo insieme al ragazzo che, invece, le diede buca e per questo avevano litigato lasciandosi per l'ennesima volta. Cercando di dimenticare la zuffa, si era scolata non so quante birre, di cui era una fine conoscitrice. Fiore non era triste, al contrario era letteralmente elettrizzata. Mi disse che non dormiva da tre giorni, allora le chiesi se si era fatta di fedimetrazina, vantandomi al solito di chiamare le chicche con il loro principio attivo. Al che partì lo sfottò dell'autista rasta bergamasco, ma quando gli passai una Plegine capì che non ero un bluff. Ne volle una anche Lavinia che mandò giù con un sorso di Adelscott direttamente dalla mia bocca.

 

Ci impiegammo non so quante ore per arrivare a Sabaudia e non perché non conoscevamo la strada, ma semplicemente perché Lavinia si capottò con me sul sedile posteriore e poi Fiore con il tizio della Volvo e quello poi scese a pisciare e quando tornò si unì a me e a Fiore che, insaziabile, nel frattempo mi si era gettata addosso approfittando dello sbratto di Lavinia che stava con la testa fuori dallo sportello dell'auto. Quindi si andò avanti fino a sera, senza capire chi stava con chi e non escludo che feci qualcosa anche con il bergamasco rasta.

 

Parcheggiata la Volvo, Lavinia si domandò se quella che aveva davanti fosse veramente casa sua perché le finestre erano tutte chiuse, le luci del giardino spente e vi regnava un silenzio tombale. Fiore le dette della rincoglionita, ma neanche lei si ricordava qual era il cancelletto giusto cui suonare, mentre avevamo tutti iniziato a grattarci vistosamente. Furono le bestemmie del Brusa (il bergamasco) ad avvertirci dell'eventualità che i cani del proprietario della Volvo avessero appestato i sedili di pulci. Le ragazze sbroccarono di brutto, però confesso che anch'io fui colto da un certo panico, specie quando Fiore iniziò a svestirsi in mezzo alla strada perché, secondo lei, da come pungevano quei parassiti, poteva trattarsi anche di zecche o persino piattole!

 

Lavinia ruppe gli indugi e suonò al campanello di quella che era sicuramente casa sua. Ci aprì Sabrina e ci precipitammo lungo le scalette del vialetto che conducevano all'ingresso della villa. Fiore sfanculò l'amica del cuore perché non la piantava d'invitarci a fare silenzio. Avevamo urgente bisogno di una doccia che, però, le ragazze pretesero di non fare insieme con noi maschi, spedendoci nello scomodo bagnetto adiacente alla cucina da basso. Avevamo le pulci e per esser certo di non fornirgli anfratti dove nascondersi, proposi al bergamasco di rasarci. Lui si procurò dell'aceto da cucina per lavarci i capelli lunghi e quando si rese conto che al contrario di me, i suoi erano troppo intrecciati da potersi lavare accuratamente, non esitò un solo attimo ad afferrare un paio di forbici e sbarazzarsi di quelle ciocche rasta che gli erano costate sicuramente anni di fatica per far crescere.

 

Quando tornammo da tutti gli altri, il nuovo look completamente depilato del Brusa fece scalpore. Ero stato proprio bravo e gli avevo lasciato anche due baffetti molto sexy. Poi anche Lavinia sfanculò Sabrina che continuava a rompere con i suoi "scccc" per invitarci a parlare sotto voce. Il silenzio era dovuto al fatto che i vicini ci avevano mandato i vigili urbani, ma soprattutto perché lei temeva si rifacessero vivi degli spasimanti conosciuti durante il raduno di Harley Davidson che si teneva in quei giorni nel vicino comune di San Felice Circeo. Sabrina sosteneva che lei e Lia non gli avessero fatto credere nulla in cambio di un pomeriggio a cavallo delle loro bellissime motociclette, invece quelli si erano messi in testa di passare insieme anche la serata e quando li mollarono fuori di casa, dettero di matto iniziando a prendere a sassate le finestre … solo dopo i vicini mandarono i vigili urbani.

 

Lavinia non era intenzionata a farsi rovinare il compleanno per le paranoie di quella fanatica nonché imbucata di Sabrina e che in sua assenza aveva trasformato la "sua" festa in un proprio ricevimento; quindi aprì le tende della vetrata che dava sulla loggia prospiciente il lago, riaccese le luci in giardino e cacciò nello stero la cassettina di una compilation estiva, esordendo con un'improbabile break dance sulle note di Rock me Amadeus di Falco. Tutti colsero con gioia il cambiamento di regime e si levò un'atmosfera ridanciana che intrecciava come su di un telaio le tante storie che stavano animando la villa. Un intrigo troppo complicato che mi respinse in un piccolo invaso di vita sulla grande terrazza. Cercai di attaccar bottone con una tipa che rimestava malinconicamente il ghiaccio nella sua Coca Cola. La stavo sicuramente importunando perché alla prima occasione mi scaricò per tornarsene dagli altri.

 

Esiste qualcosa più imbarazzante di ritrovarsi solo in mezzo a delle persone che si divertono?  Provai di nuovo quella fastidiosa sensazione d'inadeguatezza che avevo dovuto fronteggiare al matrimonio di mia madre e non volevo ricominciare a flagellarmi. C'era un mazzo di carte abbandonato sul tavolo del salotto, lo presi e mi giocai la paraculata del cartomante … funziona sempre nelle feste. Mi bastò che uno sprovveduto si avvicinasse, dopo neanche dieci minuti un assembramento di persone m'interrogavano sul proprio futuro, ma soprattutto si stupivano di come indovinassi il loro passato. Io non ero un chiaroveggente e tanto  meno conoscevo un gioco di carte che mi raccontasse quello che stavo dicendo. Mettevo in pratica solo quanto mi aveva insegnato la zia Pina per irretire le persone di modo che inconsapevolmente fossero loro a raccontarmi chi erano. Per il resto disegnavo figure geometriche sul piano di cristallo: la piramide, il cerchio o inscenavo la casualità gettando a cazzo le carte sul tavolo.

 

Quando però un tipetto ricciolo pretese per l'ennesima volta che gli leggessi il futuro, colsi nel suo sguardo lucido il panico per tutta la sfiga che gli avevo già predetto. Ci credeva! Nel timore di non essere convincente, avevo abusato del potere di suggestione. Sollevai lo sguardo dalle carte e mi ritrovai in mezzo a sguardi attoniti e qualcuno aveva addirittura spento la musica dello stereo! Colsi dunque al volo lo scetticismo che Sabrina mi stava rifilando, per svelare l'inganno come fosse stato solo uno sfottò … non rise nessuno, ma almeno l'assembramento si disperse.

 

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La forza dei cattivi sta nella stoltezza di chi confonde la propria insensibilità per un vantaggio, che gli permette di compiere dei crimini senza averne coscienza. Cercai dunque di farmi crescere un callo sul cuore procurandomi ferite lancinanti. La forza che ne traevo era il coraggio ispirato da una sofferenza accecante, capace di onnubilare anche la ragione dei sensi.  

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Era accaduto qualcos'altro che agitava gli animi nella bella villetta sul declivio boscoso del lago di Paola. Ero stato in grado di coglierlo quando lessi le carte a Gigi. Lo avevo messo in guardia da certe amicizie che proprio in quel momento lo stavano coinvolgendo in guai legali. Io l'avevo buttata lì per indagare sul fatto che si vantava di conoscere certi brutti ceffi legati alla mala romana; invece indovinai il fattaccio che si stava consumando al piano di sopra. Lui e altri suoi compari avevano fatto ubriacare una tipa e proprio in quel momento se la stavano scopando a turno. Mi ci portò lui, con i suoi silenzi preoccupati e la tipologia di domande che mi poneva, sul discorso delle gravidanze indesiderate eccetera … Lo terrorizzai dando solo credito alle sue paure e in tal modo lo convinsi indirettamente a tornare di sopra e interrompere lui stesso lo stupro di gruppo.

 

Ovviamente l'accaduto ebbe uno strascico, ma di quel tipo che si preferisce sussurrare in un orecchio. Gigi improvvisamente disse che si stava rompendo le palle e si mise in cerca di gente motorizzata per andare tutti a un rave party che sapeva svolgersi a Latina. Nessuno si avvide del reale motivo per cui voleva togliere le tende e si trascinò dietro un sacco di gente.

La casa si ripopolò lentamente con nuovi arrivi, però mai come prima. Giunsero dei tipi addirittura da Torino … quei bastardi mi avrebbero rubato il mio bellissimo Aiwa con i Depeche Mode dentro.

 

Fui felice di vedere arrivare anche Dodo che era venuto con il suo miglior amico Fabio … nessuno sapeva che ne avesse uno, di miglior amico intendo. La cosa c'incuriosì e il nostro gruppetto romano degli alternativi si riunì intorno a loro.

Fabio era un ragazzone di provincia con pochi capelli in testa e una barba di quelle che sembrano sciatte, ma che sono difficilissime da tenere ben tosate. Aveva gli occhi buoni nonostante la mole mettesse in guardia dal contraddirlo. Era estremamente timido e quella sera non spiccicò nemmeno una parola. Dodo parlava per lui, ci disse che lo aveva conosciuto al Pantheon, che all'epoca era un noto punto di ritrovo di tutti i metallari capitolini. Lui non si sarebbe detto un fervente adoratore dell'Heavy Metal; tant'è che alla fine scoprii che gli preferiva i Queen e aveva fin da piccolo ascoltato i Beatles.

Avere Dodo e quello che fu subito ribattezzato "Bibi", fu un toccasana per me. Pianificammo subito la creazione di una nuova band che avrebbe elaborato un innovativo crossover tra metal e musica elettronica … un punk aggressivo - depressivo tra il goth e le nuove sonorità della new wave tedesca … insomma, ci capivamo solo noi. Lavinia andava e veniva, una pomiciata e mi lasciava la birra che teneva in mano … mi sa che ero anche un po' brillo ed era per questo che cercavo di comunicare, inutilmente, la mia idea di ritmo menando schiaffi sui nodosi braccioli della poltroncina in vimini intrecciati.

 

«Hanno spazzolato il frigo, ti prego dimmi che hai fame e stiamo andando in pizzeria»; mi disse Lavinia perché secondo lei la Plegine di quel pomeriggio la stava facendo planare storta. La verità è che non la piantava mai di mangiare e soprattutto bere: «Raga che ne dite di un giro di Tequila Bum Bum!». Persino Bibi stava quasi per pronunciare la parola "Sì", ma poi anche quella volta annuì solamente.

A noi ci lasciarono alla pizzeria perché stava per chiudere mentre loro andarono a cercare un Bar aperto per acquistare una bottiglia di Tequila. Lavinia si sbafò anche la mia pizza e nel frattempo mi offrì una rapida degustazione delle marche di birra che mi mandava a prendere nel frigo. Quando i carboidrati le ridettero il buon umore e l'alcool il coraggio necessario, mi chiese se poteva fidarsi di me. «Anche se si tratta di una roba illegale?», precisò prima di proseguire, allora le ricordai che non mi chiamavano PVC perché facevo il chierichetto in chiesa. Fu allora che mi raccontò quanto era successo con Gigi e quella povera ragazza. Pronunciò la parola “stupro” e mi spaventò parecchio. Disse che eravamo tutti nella merda se l'indomani, dopo la sbornia, quella "battona" fosse andata alla polizia. Alla festa l'aveva portata un amico di Lavinia, ma quello non si trovava più. C'era il sospetto che fosse stato proprio lui a farla ubriacare per scoparsela perché Gigi sosteneva di averla trovata nuda nel letto, quando si era appartato con gli amici per una tirata di coca. Secondo la sua versione, fu lei a saltargli addosso e questo certo non lo giustificava per aver avuto la brillante idea di scoparsela poi in batteria con gli altri.

Tuttavia il guaio era stato fatto e probabile che la tipa non si ricordasse nemmeno quanti le fossero montati sopra. «Uno schifo» sottolineò Lavinia, ma era nei guai perché lo stupro era avvenuto in casa sua e tutti i maschi, compreso me, correvano il rischio di essere quanto meno convocati dalla polizia. Il consiglio che mi stava chiedendo era se esisteva qualche pasticca capace di farle dimenticare tutto. Una chicca di Roipnol avrebbe risolto il problema e puta caso ne avevo una nella scatolina assortita che portavo sempre con me.

 

In barba ai cattivi pensieri, Lavinia prese a insegnarmi qualche passo di freestyle mentre aspettavamo gli altri in mezzo alla strada perché la pizzeria aveva abbassato la saracinesca. Dodo e Bibi sopraggiunsero con l'aria mesta perché l'unico bar ancor aperto pretendeva uno sproposito per la Tequila. «Niente panico» annunciò Lavinia, «Pago io». In fondo era il suo compleanno, no?

Io pensavo che Tequila Bum Bum fosse il nome di un cocktail e non un gioco di resistenza. Tornati a casa Lavinia urlò «Tequila Bum Bum! » e sistemò quattro bicchieri intorno al tavolo rotondo del salotto, dove ci sedemmo accerchiati da un tifo da stadio. Il primo che finiva sotto il tavolo era un infame perché chi gli sedeva accanto nel senso di bevuta, avrebbe tirato giù anche la sua parte. Il termine Bum Bum stava per il colpo che si menava col bicchiere sul tavolo prima di bere e subito dopo aver ingollato la Tequila rigorosamente tutta in un fiato.

 

I bicchieri erano riempiti solo parzialmente, ma quella roba faceva più di 70 gradi! Temevo una figura di merda per come tutti si aspettassero dipartite eclatanti; invece il primo Bum Bum della mia vita passò attraverso la gola senza problemi … il secondo anche … i giri, almeno i primi, andarono via rapidissimi come pretendeva la sfida. Al quarto mi sentii avvampare come la torcia umana dei fantastici quattro, facendo scompisciare dalle ristate tutti quanti.  

Il quinto Bum Bum di Lavinia rimase dispari e corse in bagno per vomitare scantonando tutti gli spigoli durante il percorso. Io le sedevo accanto ma nel senso di bevuta c'era Dodo. Dopo il sesto giro, il secondo Bum Bum di Dodo fu preceduto da dei lunghi sospiri preparatori, ma al settimo si rifiutò completamente di bere perché sgrottò vomito gassoso. Eravamo rimasti io e Bibi e nella bottiglia c'era ancora buono un quarto di liquido infernale che, però, grazie all'onere del doppio Bum Bum, si dimezzò dopo un solo giro e all'undicesimo mi arrivò la scolatura … pari!

 

A Bibi spettarono gli onori della vittoria e certo non si capiva come potesse rimanere ancora in piedi dopo aver bevuto più di tutti. A me andava il rispetto di avergli tenuto testa, anche se il mondo aveva perso improvvisamente il sonoro. Erano tutti così lontani … come se li guardassi da oltre una vetrata blindata. Cosa cazzo mi stava succedendo? Di certo c'era solo che dovevo vomitare e non volevo assolutamente che qualcuno se ne accorgesse. Galleggiai su dei passi che mi condussero sulla terrazza … l'aria fresca del lago parve farmi bene, ma appena cercai di muovermi, il mondo riprese a fluttuare. Se vomitavo mi sarei sentito subito meglio, mi dissi, allora cercai di raggiungere la riva del lago, dove nessuno mi avrebbe visto.

 

C'erano delle scale da scendere per raggiungere il giardino antistante alla loggia del belvedere, discenderle fu come vivere un'esperienza extra corporea, in cui dovevo riacchiappare continuamente la coscienza che se ne volava via. Riuscii appena a raggiungere la siepe in fondo al prato, c'infilai la testa dentro e sbrattai un fiotto d'anima. Dopo mi sentii sicuramente meglio, tanto che pensai di poter tornare dentro con gli altri. A farmi ricredere furono di nuovo le scale per salire sulla terrazza. Giunto all'ultimo gradino mi tornò violentemente il senso di vomito … ma non avevo più nulla da rimettere … del resto non mangiavo dalla sera avanti. Avevo urgente bisogno di trovare un porto dove gettare l'ancora. Non è che potessi andare lontano, feci solo qualche passo e mi lasciai cadere su una comodissima sdraia da piscina.

 

«Momo! » Mamma? «Mo, rispondi per Dio! ». No, mia madre piuttosto di bestemmiare si sarebbe fatta ardere viva come Giovanna D'Arco. Era una voce lontana … me la raffigurai come di qualcuno sulla curvatura della collina accanto al cimitero del vecchio casale dei nonni, quando vi fioriva quel meraviglioso mare di papaveri rossi, puntinati da quegli altri fiori di campo viola … correrci in mezzo era così bello e poi rotolarsi giù per il declivio a mischiare le macchie di colore col turchese del cielo … SBRATTO! A chi cazzo era venuto in mente di farmi bere del caffè? E chissà quanto me ne avevano fatto ingollare prima che lo risputassi addosso alla povera Lavinia, che disperata si sgolava chiamandomi a un palmo dal naso.

Si erano presi un grande spavento perché qualcuno mi aveva visto mentre andavo verso il vialetto che conduceva al lago, senza però accorgersi di quando risalii. La sdraio, poi, era rivolta di spalle alla casa e si accorsero dov'ero solo dopo aver temuto il peggio, cioè che fossi caduto nella riva melmosa del lago. Il sollievo di ritrovarmi durò poco perché più che dormire ero proprio svenuto … non era escluso che fossi scivolato in un vero e proprio coma etilico.

 

Lavinia bestemmiava come un demonio per sgomberare la strada a Bibi che mi stava strascicando in casa. Era intenzionata a trovarmi un letto, ma le camere erano al piano di sopra e la scala senza balaustra come da dettami architettonici anni sessanta, mi fece venire un mancamento ancor prima di salire il primo gradino. «Gesù Cristo ti prego non me lo far morire qui!» Lavinia urlò disperata, ma Bibi mi somministrò la medicina giusta mollandomi due sganassoni e prendendomi di peso mi portò su per le scale. Giunti in cima mi tornò l'effetto vetro blindato, ma stavolta anche distorto tipo gli specchi di un Luna Park. C'era un sacco di gente … o forse no … qualcuno c'era di sicuro e se ne stava in piedi contro il muro del corridoio e mi guardavano come fossi un appestato, terrorizzati di essere anche solo sfiorati.

 

A un certo punto Lavinia tornò e chiese a Bibi qualcosa, quindi mi lasciarono appoggiato contro il muro, però mi sentivo tutto sommato meglio del peggio di prima. Dovevo pisciare e davanti a me c'era proprio il bagno, non mi pareva di compiere chissà quale guaio entrandoci. Non accesi la luce, tanto lo sapevo trovare anche al buio Mr Wiggly. Filò tutto liscio e riuscii persino a centrare la tazza … solo che per trovare stabilità e prendere bene la mira, mi poggiai con una mano al muro e ci rimasi per non so quanto tempo. Poi la luce si accese e commisi l'errore di guardare la lampadina che mi flashiò di brutto. Nel bagno era entrata Sabrina che mi squadrava atterrita peggio che se avesse visto un fantasma … del resto quello non le sarebbe certo apparso con il cazzo dritto. Giuro che non mi stavo masturbando, si era drizzato da solo, io manco me lo ricordavo di averci un pisello! Chissà perché Sabrina raccontò quella stronzata. Sta di fatto che il piano di Lavinia di far spostare la stuprata nel letto matrimoniale di modo da metterci anche il comatoso più di là che di qua, si rivelò poco prudente. Sabrina, però, non voleva dividere la stanza con me qualora Lavinia avesse dormito con la stuprata e che palle! Bibi mi prese sotto braccio e mi riportò giù da basso. Dodo mi aveva sistemato un giaciglio chissà dove, ma oramai mi ero seduto sulla poltroncina di vimini e gli chiesi per favore di lasciarmi lì.

 

Riaprii gli occhi che era giorno. La luce del sole e il profumo del mare fluivano nell'etere e parevano lavare via ogni traccia della notte appena trascorsa. «Pota, te c'hai una sventola, è!» Mi ritrovai accanto il Brusa che mi chiese come mi sentivo … non mi ricordavo di lui … nel senso che non mi ricordavo che fosse tornato dal rave. Ruotai lentamente la testa per fare una panoramica dell'ampio salone fino a giungere al tavolo di cristallo … incredibile! Beh, sicuramente non erano le otto del mattino, ma non era certo trascorso molto tempo dalla sbornia di quella notte, eppure Bibi era seduto al tavolo dove stavano giocando a Traversone con una boccia di cinque litri di vino in mezzo. Quel gioco di carte funziona al contrario del Tresette, nel senso che con le stesse regole si deve perdere per vincere e chi vince, cioè perde, beve. «L'è una ponrcaria, quel carpougn mii rumpit e ball!», commentò il Brusa dopo avermi spiegato che Gigi aveva organizzato con gli altri di mettere in mezzo Bibi, nel senso di giocare tutti contro di lui … che continuava a bere.

 

Lavinia mi salutò teneramente con un bacio in fronte e rimproverandomi per averle fatto prendere un tale spavento! Mi chiese se avevo voglia di andare a prendere il sole sulle rinomate dune di Sabaudia e siccome ci andavano anche Dodo e il Brusa, accettai ma non fu una buona idea. Il post sbornia mi gettò nell'umore nero e mi urtava in particolar modo come le ragazze mi tenevano a distanza. Solo Lavinia mi parlava, ma dopo aver finito di raccontarmi i dettagli di come la pasticca di Roipnol aveva sortito l'effetto voluto, si scocciò anche lei della mia scontrosa puntigliosità, con cui le ricordai che la pasticca non aveva certo cancellato la verità; allora si unì agli altri che avevano invece ancora voglia di divertirsi. Alla fine decisi di andarmene e non so perché Lavinia impose a tutti di venire via. Le ragazze si misero a fare l'autostop e sbertucciandoci, ci lasciarono presto a piedi. Al che il Brusa chiese a me e a Dodo perché ce la facevamo con quella manica di snob … ed era una bella domanda.

In quel momento attraversavamo il lungo ponte sul lago e ci stavano passando sotto dei canottieri in vogata, mi fermai a guardarli … non era passato poi tanto tempo da quando Vanni ed io ci allenavamo per il due senza proprio in quello stesso lago. Quante volte passando sotto quel ponte avevo visto qualcuno guardarci … se si cresce in un certo modo, con certe persone, il punto di vista può anche cambiare, ma si rimane comunque a guardare la stessa cosa.

 

Tornati alla villetta, trovammo ancora i ragazzi seduti attorno al tavolo, con Gigi che si scompisciava dalle risate perché il povero Bibi aveva preso a parlare, svelando il motivo per cui evitava di farlo. Era sordo! Non completamente sordo e con l'apparecchio acustico ci sentiva, ma quando parlava sembrava abbaiare, specie quando era ubriaco. Dodo cercò di portarlo via dal tavolo, ma lui urlò che non si lasciava mai un posto scoperto quando si giocava. Io notai che la boccia di vino di cinque litri era ormai vuota e lui esclamò stupito che avevo proprio ragione! Ma voleva continuare a giocare lo stesso, cercando inutilmente di fermare gli altri che si stavano alzando. Gigi era proprio odioso mentre gli faceva il verso alle spalle come se si trattasse di un mongoloide. Il Brusa uscendo sulla terrazza lo spintonò di proposito con una spalla per attaccar briga, ma Gigi era bello carico di chissà quale stravizi e se la rise anche se per poco non finiva per terra.

 

Lasciammo Bibi a farsi prendere per culo e ci sedemmo in terrazza sulle sdraie da piscina. «Pota se sei strano!» esordì il Brusa, dopo che Dodo aveva finito di descrivergli la faccia che avevo dopo aver pareggiato al Tequila Bum Bum con Bibi. Beh, strano un cazzo! Che voleva intendere? Che ero frocio perché lo avevo aiutato a rasarsi le palle? Dodo si piegò dal ridere e schifandosi chiese conferma al Brusa di quanto avevo appena affermato; il quale imbarazzato gli diete del coglione ma poi continuarono a ridere insieme perché entrambi convenivano che ero "proprio strano". Mi stavano urtando e più mi vedevano infastidito, maggiori erano gli sfottò. Dodo gli disse allora che nessuno sapeva chi realmente fossi, che apparivo e scomparivo dal nulla e pareva non avessi né padre né madre. Fa male sentirsi spiattellare in faccia quello che dei presunti amici dicono di te alle tue spalle.

 

A quel punto Bibi caracollò fuori dalla vetrata, diretto non si sa bene dove, ma raggiunse solo l'angolo della casa e vomitò una fontana di bile alcolica; poi barcollò un po' di qua e un po' di là coprendo tutto il perimetro della terrazza, prima di andare a cadere sulla stessa sdraia che aveva raccolto me la notte prima. Ridevano tutti come degli invasati e nessuno si era accorto che un rivolo di vomito continuava a scorrergli via dall'angolo della bocca, anche se pareva aver perso i sensi. Insomma, la storia del rock è piena di gente soffocata dal proprio vomito! Cercai di farlo riprendere e con Dodo tentammo anche di metterlo almeno seduto, ma era troppo grosso. Il Brusa allora intervenne imbracciando un secchio d'acqua e gliela gettò in faccia. Bibi schizzò in piedi e anche se non capiva neanche dove si fosse risvegliato, si riprese subitaneamente. Quegli altri non la piantavano di sbertucciarlo e allora il Brusa riempì un altro secchio d'acqua fredda e la tirò addosso a loro. Ne nacque un diverbio assai animato corredato di spintoni. Gigi dette del pidocchioso al Brusa per via della Volvo che quella notte aveva infestato di pulci anche loro. Pure il Brusa ci andò giù duro con degli insulti che in bergamasco stretto si saranno capiti pure poco, ma acquisivano molta più violenza. Al che intervennero le ragazze, si erano rotte le palle dei nostri casini e ci cacciarono via tutti.

 

Dodo non aveva la patente e Bibi si reggeva a malapena in piedi, così il Brusa si propose di guidare lui, felice di non rimettere le chiappe nella Volvo del suo amico. La litigata appena avuta ci fornì un vivace argomento di discussione per il primo tratto del ritorno, ma poi Dodo e Bibi si appisolarono sul sedile posteriore e in macchina si sentiva solo cantare " ... l'estate sta finendo, un altro se ne va … sto diventando grande … e questo non mi va" dei Righeira, trasmessa da una radio locale. Quando giunsi in corrispondenza della stazione degli autobus di Latina, chiesi al Brusa di accostare sulla corsia d'emergenza per lasciarmi lungo la statale 148. Sulle prime credeva che stessi scherzando, allora mi sbrigai a spiegare che andavo a prendere l'autobus. Insomma, non era una stranezza delle mie … non stavo scomparendo nel nulla; era solo che l'indomani mattina dovevo andare a scuola, perché il martedì successivo avrei fatto manca per essere con la delegazione del Tasso alla riunione d'istituto del Liceo Vittoria Colonna … e con il sabato precedente, le assenze avrebbero così superato il numero di giorni consentito per una giustificazione senza certificato medico … arrivare a Roma per poi tornare indietro era assurdo, o no?

 

«Pota, ci si rivede!» Quella era una domanda o un'esclamazione? Nel bergamasco è difficile cogliere la differenza. Non gli risposi perché stavo cercando come un pazzo il mio walkman, eppure ero sicuro di averlo riposto nel taschino dello zaino. «Allora!» Allora che? Gli chiesi se aveva visto a casa di Lavinia qualcuno con il mio preziosissimo Aiwa autoreverse Dolby System. «Torinesi tutti appesi, è!» Erano stati loro a solarmelo, bastardi! E comunque no, l'adagio da curva sud romanista riguardava i Milanesi e, forse, anche i bergamaschi. Lo scazzo era tale che ne stavo dicendo di ogni, senza ricordarmi della probabile domanda che mi aveva fatto il Brusa. «Suta mii a ciaciarà, pota!» Che s'era incazzato? Anche questo non è facile capirlo con un bergamasco. No, non credo perché poi sorrise guardando la faccia che gli feci … quei baffetti che gli avevo ricamato erano ancora più sexy quando la faccia gli si piegava nella smorfia del ridere.

 

Voleva sapere se ci fossimo rivisti magari al gasometro della Magliana, così … per una birretta in compagnia. Me lo stava chiedendo perché gli avevo rasato le palle o addirittura gli era piaciuto quanto a me strusciarci sul sedile posteriore della Volvo? Ma no, era solo per amicizia … ma allora perché mi pareva di cogliere dell'imbarazzo in quel suo dialetto sgraziato? Mi stavo sbagliando … stavo ragionando come uno stupido frocetto che riflette sugli altri maschi le proprie debolezze. Gli dissi che tutto era possibile, cercando di apparire normale usando frasi di circostanza. Lui si ammutolì e forse si offese anche un po'.

Ci stringemmo il pugno dicendoci "alla prossima" e quindi scavalcai il guardrail senza più voltarmi indietro. Suonò il clacson quando mi superò ed io alzai la mano in un cenno di saluto mentre la Golf si confondeva rapidamente nel traffico diretto verso la capitale. Comunque no … non rividi mai più il Brusa.

 

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 Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

La realtà in sé è soggettiva e ha bisogno di essere interpretata per diventare percepibile in una visione d'insieme. Nell'era dei media di massa, la cronaca della verità è assemblata in format che seducono attraverso la volontà di rappresentazione. L'individuo tende così a immedesimarsi in stereotipi narrativi distanti dalla realtà soggettiva, percependo la propria originalità come una stortura asimmetrica nella rassicurante bellezza di un mondo standardizzato. In questo contesto, la diversità diventa visibile solo dopo aver trovato un ruolo nell'interpretazione mediatica. Io rimarrò un fantasma fin quando non sarò interpretato in un talk show, un telefilm o in un qualsiasi altro modo che mi permetta di ricevere un codice narrativo, attraverso cui essere percepito.   

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-   Spaccio, ricettazione, attività eversive! Tu … tu sei peggio di un delinquente!

 

Ero un delinquente solo perché mi avevano arrestato? Non importava se era giusto o sbagliato, non aveva alcuna rilevanza se in quella situazione c'ero finito soprattutto per la negligenza di chi avrebbe dovuto occuparsi di me.

 

-   Non puoi usare dei documenti falsi … Innominiddio … lo sai almeno con che razza di gente te ne vai in giro?

 

Chi se ne frega della verità quando si può ricorrere al preconcetto.

 

-   Certo che lo sai, è sto tizio che ti vende la roba … non è così?

 

Eccome no! Era Lele il cattivo ragazzo che nei telefilm vende la droga fuori dalle scuole.

 

-   Per Dio! Secondo te che ci faceva con il fumo steccato in tasca?

 

Lele non lo regalava mica o andava in giro a reclamizzare quanto è figo drogarsi. Chi la cerca la trova e allora che importanza aveva se a vendergliela era Lele?

 

-   Tu hai bisogno di una bella raddrizzata …

 

Ah, per quello lui ci riusciva benissimo perché quando s'incazzava preoccupandosi di me, lo trovavo talmente sexy che dovevo fare gli scioglilingua mentali per distogliermi dal desiderio di abbracciarlo.

 

-   Ti fai vivo solo quando hai bisogno di qualcosa …

 

A che serviva telefonagli se poi doveva sentirsi in imbarazzo con la moglie?

 

-   Sei ingiusto con noi … Adele ti vuole bene … Francesco stravede per te … e quando ti veniamo a vedere alle partite, ci degni appena di un saluto.

 

Avrei voluto essere bravo a dimostrare la soddisfazione che mi dava venendo a fare il tifo alle partite … eppure, quando me lo trovavo davanti, provavo solo l'invidia che mi faceva a vederlo sereno con la sua bellissima famigliola. Al confronto mi sentivo una cloaca, il cui puzzo presto o tardi gli avrebbe fatto turare il naso dallo schifo.

 

-   Starai con noi mentre vado in fondo a questa storia. Domenica andremo a Santa Marinella … usciremo in barca … ti piacerà.

 

Forse è meglio ricominciare da capo a raccontare com'erano andate le cose.

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Salutare è un'arte e chi la sa ben gestire ha in mano il doppio delle possibilità di riuscire nella vita. Bisogna sempre mostrare interesse per le persone, altrimenti queste penseranno che non le riteniamo alla nostra altezza.

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Tra gli istituti scolastici occupati si era formato un direttorio di specialisti, composto per lo più dai rappresentati dei licei maggiori della città, che forniva il know-how di come si realizza uno sciopero e spesso presenziava le assemblee d'istituto, soprattutto quelle degli istituti professionali perché erano i più restii ad aderire al movimento studentesco. Io non ne facevo parte, però conoscevo tutti e soprattutto era alle mie orecchie che giungevano per prime le voci di ribellione. Quella volta l'istituto da persuadere alle ragioni della rivolta era un tecnico commerciale e industriale all'Anagnina. All'epoca la metropolitana non si spingeva fino al grande raccordo anulare, così saremmo dovuti scendere al capolinea di Cinecittà e avventurarci con dei mezzi pubblici sconosciuti. Mi venne naturale chiedere a Lele di accompagnarci con la sua Visa Citroen appena riverniciata e di cui si stava vantando proprio in quel momento.

 

-   E' de seconda mano, ma ce l'aveva 'n vecchietto che nun l'ha mai usata …

 

Lui sostava regolarmente davanti alle scuole occupate come il venditore di gelati che nei film americani scampanella nei pressi di un asilo. Il Tasso però non era nella sua zona e quella mattina c'era venuto apposta perché sapeva di trovarmi e, al solito, mi usava per ampliare il proprio bacino di "utenza". Toni e Dodo lo conoscevano perché trascorrevamo le serate al muretto di Ponte Milvio, che era proprio la piazza principale di smercio per Lele. Dodo quella mattina non si era visto e Toni, invece, arricciò subito il naso appena lo vide arrivare, accusandomi di essere suo complice in quell'improvvisata e se ne andò scocciatissimo. Fu così che Lele mi si attaccò come una cozza e quando gli proposi di rendersi utile alla causa, non ci pensò due volte ad accettare.

 

-   … però famo a mezzi colla benza …

 

La scuola in cui ci recammo era un brutto prefabbricato grigio in mezzo a delle sterpaglie inaridite dalla siccità che si protraeva da mesi. I rappresentati d'istituto ci accolsero col piglio di piccoli boss di quartiere, dandoci ad intendere che non eravamo i benvenuti. Fu proprio Lele a mediare per noi, conoscendo meglio di chiunque altro il linguaggio di borgata. Riuscii a lasciare a quei ragazzi un vademecum dei punti principali che sarebbe stato il caso discutessero in assemblea; per il resto ci dissero che non era possibile farci entrare nello stabile e avremmo dovuto aspettare la fine delle lezioni per sapere com'era andata.

 

-   Annamoce a fa 'n giretto che me sto a scoionà …

 

Il tempo là fuori non passava mai e dopo aver fatto un giro in macchina, tornammo che era ancora troppo presto. Rollata l'ennesima canna, proposi a Digianantonio di scrivere sul muro della recinzione il nome della scuola con la sigla "occupata". Era importante perché, comunque sarebbero andate le cose, quella scritta avrebbe fatto credere che l'istituto era interessato alla protesta. La faccenda ci tenne occupati per una mezzora, ma servì solo a farci sentire ancora di più la noia quando tornammo a guardare le lancette dell'orologio. Allora Pistolesi, che era una ragazza, ebbe l'idea di andare a chiedere al custode a che punto era l'assemblea. Tornò di corsa sconvolta perché la quasi totalità degli studenti, compresi i rappresentanti d'istituto, aveva tagliato la corda approfittando del fatto che dopo l'assemblea non si sarebbe tenuto l'appello.

 

-   Che figli di puttana! E ora che si fa?

 

Eravamo delusi e sconfortati, ma il peggio arrivò solo dopo, quando la macchina di Lele rimase in panne. Nessuno di noi s'intendeva di motori e lasciammo l'auto lungo la Via Tuscolana, raggiungendo a piedi la stazione della metro di Cinecittà. Sembrava che ormai nulla potesse andare peggio, invece, ci piombarono addosso degli agenti in borghese.

 

-   Favorite i documenti …

 

Era vero che si stava seduti sul corrimano scorrevole delle scale mobili e questo è proibito, ma quegli agenti ci trattarono subito con una durezza esagerata. Quando ci misero con le mani al muro per perquisirci, Lele tentò una fuga disperata. Apriti cielo! In quattro e quattro otto ci ritrovammo in questura. Lele aveva provato a liberarsi del fumo, ma non fu difficile per gli agenti recuperarne una parte. Per fortuna la quantità di hascisc ritrovato, divisa per i cinque che eravamo, rientrava nella modica quantità permessa a uso personale. Tuttavia si accorsero che Lele era residente in casa di un pregiudicato per spaccio, arrivando così alla facile conclusione che anche lui lo era.

A tutto questo si aggiunse la mia carta d'identità "falsa". Sì perché tra i cambi di paternità vari, in quel frangente non mi chiamavo più col nome di Primo. Cercai di spiegarlo e del resto era tutto verificabile, ma quelli erano proprio prevenuti nei miei riguardi e pareva che stessero solo cercando dei pretesti per incastrarmi.

 

-   Guagliò, famme o piacere … vabbe'?

 

Mi ero insospettito delle loro reali intenzioni fin da quanto un agente mi ammonì che scrivere sui muri era un atto vandalico grave. Insomma, come facevano a sapere di una scritta fatta sul muro di una scuola a chilometri di distanza dall'arresto? Che poi non avevo materialmente fatto io, tant'è che la bomboletta di vernice spray era nello zainetto di Digianantonio, con tanto di mani sporche dell'interessato. Eppure se la prendevano con me.

 

-   Sapemm tutt' e ccose …

 

Avevo già avuto sentore che la protesta studentesca era a una svolta, quando in un paio di manifestazioni di provincia erano comparsi megafoni e slogan tenuti da ragazzi un po' troppo cresciuti per essere di qualche liceo. Tutto questo mentre nelle scuole si cominciavano a ventilare sgomberi forzosi facendo ricorso della polizia. Infine, senza capire chi lo avesse deciso, era spuntata fuori la data di una manifestazione nazionale come culmine e quindi anche fine della protesta. Era chiaro che dopo averci lasciato fare, il ministero degli interni mise in campo le sue risorse per impedire una pericolosa deriva politicizzata della protesta studentesca.

 

-   Se collabori …

 

Quegli idioti non credevano neanche che fossi minorenne! Non so cosa si fossero messi in testa. Pensavano che fossi una sorta di agente del KGB? Urlavano, strepitavano e credo che sarebbero arrivati persino alle percosse, se le verifiche sull'identità che avevo fornito non avessero trovato conferma. Dopo il primo interrogatorio, gli altri erano stati rilasciati ai rispettivi famigliari. Io, invece, ero stato messo in una stanzetta senza finestre o orologi che mi aiutassero a capire il tempo che trascorreva. Ero spaventato … molto spaventato … eppure davo l'impressione di rimanere impassibile. Lo so perché io stesso mi chiedevo come mai non piagnucolavo come Lele o imploravo il perdono come avevano fatto tutti gli altri mentre chiedevano di mamma e papà … beh, forse perché semplicemente non sapevo che fare e certo preferivo essere scorticato vivo piuttosto di chiedere aiuto a qualcuno dei miei presunti famigliari.

 

-   Se non collabori …

 

Mi sedetti su quella sedia e rimasi immobile senza neanche muovere un dito o agitare un pensiero nella testa. Bruno entrò nella stanzetta insieme ai suoi colleghi che ora mi sorridevano come se nulla fosse accaduto. Qualcuno m'intimò di rigar dritto e di lasciar stare certe cattive compagnie … Bruno rispose per me.

 

-   Garantisco io …

 

Era buio fatto e persino lo scomodo sedile dell'UAZ mi pareva più comodo della sedia dove ero rimasto inchiodato per tutto il pomeriggio. Mentre andavamo a casa sua, Bruno dette di matto perché quelli della speciale si erano degnati di aprire un fascicolo su di me. Io avrei voluto spiegargli che mai avrei creduto di diventare un pericoloso sobillatore scrivendo dei banalissimi volantini infarciti di retorica. Mi ero spinto nell'illegalità pensando che battersi per l'ottemperanza dei propri diritti civili comportasse il miglioramento del sistema, mentre quello era solo un baraccone tenuto in piedi dall'ordine precostituito di regole scritte allo scopo di preservare se stesse. Se Bruno si stava alterando perché temeva che avessi perseverato nei miei errori, si sbagliava. Mi era stata appena impartita una dura lezione di cinismo civico … di cui avrei saputo far tesoro.

 

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Non si può vivere senza respirare e non si può continuare a respirare senza vivere, rassegniamoci a questa ineluttabile verità e andiamo avanti.

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-   Tutta la storia del consultorio era per queste … vero?

 

Bruno mi sequestrò la scatolina dei sogni, quella dove tenevo le chicche. Agli agenti avevo mostrato il certificato che mi aveva fornito lo psicologo, ma ovviamente non valeva per il vasto assortimento di cui ero fornito. Quelli però non seppero distinguere una pastiglia dall'altra e neanche Bruno era capace di farlo; tuttavia, quel pezzo di carta a lui parve certificare l'inganno con cui lo avevo raggirato per frequentare il consultorio.

 

-   Pensi che io sia così stupido da crederti ancora?

 

Non era vero! Non ero andato al consultorio per farmi segnare le pasticche. Fu lo psicologo a prescrivermele e in segreteria mi rinnovavano le ricette senza batter ciglio. Fu Lele che poi mi raccontò di un tizio che ci alzava un bel gruzzolo con un ricettario in bianco. Così alla prima occasione che lo psicologo mi lasciò solo nel suo ambulatorio, gli rubai il ricettario. Forse non si accorse nemmeno dell'ammanco perché non fu preso alcun provvedimento. In ogni modo, le pasticche mi servivano più che altro per interpretare il personaggio di PVC, anche se quella sera, pur di riuscire a dormire, avrei volentieri ingoiato un Tavor.

 

-   Tutto al più, ti farò una camomilla.

 

Contrariamente a quanto si possa credere, quella notte, invece, dormii di un sonno talmente profondo che al mattino mi svegliò Francesco prima di andare a scuola. Chissà perché quel ragazzino mi aveva eletto suo super eroe preferito. Stavo ancora cercando di capire dove mi ero risvegliato, quando m'investì con la raffica di cose che avremmo fatto durante il fine settimana. Di tempo per stare insieme ne avremmo avuto parecchio perché a colazione Adele chiarì che mi sarei fermato da loro fino a data da destinarsi.

 

-   Forse è questo il motivo per cui non ti piace essere fotografato?

 

La sera Bruno si presentò a casa col fascicolo che la speciale aveva sul mio conto. Gli ero grato per averlo fatto sparire e se me ne avesse dato modo, lo avrei anche ringraziato; invece fu solo un motivo per ricominciare la filippica da dove l'aveva interrotta. Era comunque inquietante sapere di essere stato fotografato durante le manifestazioni e, chissà, forse anche pedinato! Ero già abbastanza spaventato e non c'era certo bisogno di aggiungerci un altro carico di ansia ma Bruno non la smetteva più ...

 

-   Innominiddio, ora mi dirai tutto …

 

Subire un terzo grado da Bruno era sempre meglio di starmene in questura, però nei suoi confronti avevo il dovere morale di fornire spiegazioni ... se non altro perché temevo come l'inferno che avrebbe spifferato tutto al padre e quindi a mia madre.

In quelle foto ero ritratto insieme a altra gente, ma che ne sapevo io chi erano? In quelle ultime settimane avevo incontrato una caterva di persone. Sì, forse avrei dovuto sospettare che qualcuno di loro potesse aver avuto qualche trascorso di natura sovversiva … ma, andiamo! Andavo in dei licei occupati non per organizzare scioperi e manifestazioni, ma per cazzeggiare, divertirmi e incontrare gente … appunto.

 

-   Conosci le parole: latitante, estremista ... clandestinità? Ah, certo che quest'ultima parola la conosci.

 

Ancora con la storia della carta d'identità col cognome vecchio! Io me la ritrovavo in tasca e solo per questo che la usavo. E la pericolosa estremista che quegli scatti fotografici ritraevano come una mia amica, era solo una signora che gestiva il bar vicino al gasometro della Magliana.

 

-   Che devo fare con te?

 

Bella domanda.  Adele arrivò in punta di piedi e rispose lei al marito. Disse che tutta quella storia era frutto di un equivoco grottesco. Seppe tradurre l'accaduto in un narrato dove la mia unica colpa era di essere un ragazzo brillante e capace. Siccome le avevo già confidato la mia determinazione a mollare ogni iniziativa studentesca, aggiunse con tono felpato che la sua opinione era di non peggiorare le cose perseverando nell'equivoco.

 

-   E sia … ma da oggi si fa a modo mio.

 

Bruno accettò di assumersi la responsabilità di non complicare la vicenda tirandoci dentro suo padre, ma pretese l'impegno solenne di non cacciarmi in altri guai.

 

-   E tagliati i capelli …

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Dal cielo la stella del nord condanna gli spiriti erranti.

La bussola nel mio petto trottola come un etoile impazzito.

Seguo la stella straziandomi il petto? Eclisso nell'ombra l'errabondo?

Il cuore … questo ebbro cantore di lubriche apparenze … ______________________________________________________________________

 

Adele oramai era diventata il mio coiffeur di fiducia e comunque era proprio brava! Mi fece un bel ciuffo davanti come usava farlo al marito e la barba mi consigliò di lasciarla con il pizzetto. L'insieme mi dava un'aria molto bohemien. Ero proprio strafigo!

 

-   La tua ragazza mi odierà …

 

Mi disse sghignazzando che Lidia si sarebbe arrabbiata con lei per avermi reso così affascinante. Sì, le avevo raccontato di Lidia, ma certo non che in realtà era fidanzata ufficialmente con un altro. Trascorsi due giorni interi con Adele che sapeva diventare un'ascoltatrice attenta. Dovetti essere accorto a non raccontarle cose che sia Bruno e i suoi colleghi non erano stati capaci di estorcermi.

Ci rimasi male quando notò che in quei giorni nessuno si era degnato di cercarmi. Era stata ingiusta a giudicare Angela, ma del resto conoscevo bene l'acredine che si era creata in occasione del matrimonio di mamma. Mia sorella non si preoccupava come non lo facevano loro quando non mi vedevano per diversi giorni. Ognuno pensava che fossi dall'altro e siccome non si potevano soffrire, evitavano di cercarmi.

 

-   In giro si parla solo di quello che vi è successo …

 

Solo Toni telefonò e poi venne a trovarmi. Chissà perché si prendeva tanta pena per me. Detestava i miei amici e non eravamo mai d’accordo su nulla, eppure trascorrevamo la maggior parte del tempo assieme. Al solito non mancò di ripetermi ogni suo "te l'avevo detto io" e si lamentò dello Stato Italiano perché avevano già rilasciato Lele. Disse che si parlava solo di me in giro e mi metteva in guardia dal non montarmi la testa, ora che ero diventato così popolare.

 

-   Ma piantala! Sei solo un fanatico narcisista che vuole sempre stare al centro dell'attenzione.

 

A me non è stato mai concesso un briciolo di autocommiserazione. Fin da piccolo mi sono sentito dare del "principe" che si lagnava quando il mondo non gli ruotava attorno. Eppure a me non pareva di passarmela così bene.

 

-   Pensi mai alle persone che si preoccupano di te?

 

Era inquietante quando Toni iniziava a parlare come mia madre, usava persino le stesse parole! Non so cosa lo infastidì, ma di punto in bianco mi dette dell'egoista e fece il sarcastico sulla gita in barca. Io ne avrei fatto volentieri a meno, ma ero praticamente ai ceppi e Bruno non mi avrebbe permesso di uscire con lui.

 

-   Allora sta attento a non divertirti troppo durante la tua punizione …

 

Che palle! Era mai possibile che dovessi farmi mettere addosso anche l'ansia delle sue paturnie?

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Spiriti reduci da tempeste, or divenute brezze, tra i capelli insinuano voluttà di carezze.

Impertinenti vezzi da Venere che soffia, intimidite i miei occhi piegati in una smorfia.

Evapora nel cielo uno sguardo che riscalda e crepa il ghiaccio che il sole sfalda.

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-   Quando vorrai smettere di portarmi il broncio?

 

Partimmo il sabato mattina per Civitavecchia, dov'era ormeggiata la barca. Ero felice di uscire dopo aver trascorso due giorni in compagnia del pensiero angosciante di Bruno che rovistava nella mia vita privata.

 

-   Lo capisci che non puoi andare avanti in questo modo?

 

Che poi a me i lunghi tragitti in macchina fanno venire sonno e ascoltare lui di nuovo entrato in modalità loop …

 

-   Ma ti pare il momento di addormentarti! Quando uno ti sta parlando di cose importanti?

 

Io non mi addormento, svengo dal sonno … non dipende da me.

 

-   Beh, ora mi fai il favore di rimanere sveglio.

 

Che strazio! Non sapevo più in che lingua dirgli che mi dispiaceva e avevo capito la lezione. Se poi non mi voleva credere, erano cazzi suoi. Insomma, ma che pretendeva da me? Gli sarei sempre stato grato per come aveva saputo togliermi dai guai, però ora non poteva chiedermi di spiegargli cose che neanche io sapevo perché erano andate in quel modo.

Iniziai a frequentare il gasometro della Magliana principalmente per rincontrare il Brusa … ma lui era già sparito e Lavinia poi fece pace con Nino e in pratica si trasferì nel suo furgone a disegnare tatuaggi, così capitava spesso che m'invitasse alle loro "cene sociali", dove conobbi un sacco di artisti o presunti tali come Digianantonio detto "il Pinza", un graffitista pieno di talento compagno di scuola di Lavinia. Venne con sé farmi coinvolgere in discussioni politiche e siccome ero convinto che la violenza fosse nei fatti un elemento fondamentale dei cambiamenti sociali, forse mi attirai delle simpatie sbagliate, ma non m'importava niente di loro e dopo quanto accaduto, non ero intenzionato a perseverare in degli scioperi e manifestazioni che ritenevo oramai al loro atto finale.

 

-   Se solo ci permettessi di aiutarti …

 

Bruno pretendeva gli raccontassi la verità, quando era lui il primo a negarla. Faceva finta di non ricordare le nostre conversazioni telefoniche, eppure con l'aiuto della cornetta ero riuscito a confidargli la parte più intima di me stesso e lui aveva accettato di buon grado le mie provocazioni. Nonostante questo fingeva di non ricordare, esattamente come aveva fatto il fratello durante il matrimonio di mia madre.

 

-   Ehi ragazzino, non si può fare quello che ci pare, esistono delle regole e dei doveri …

 

Non sentivo alcun dovere verso quelle dannate regole che mi avevano ridotto a un protocollo legale. Tutte le persone cui tenevo mi avevano scaricato: Angela, mia madre, Primo e anche la zia. Mi sentivo forgiato da tutto quel dolore e ora mi sentivo in grado di scegliere le persone che mi accettavano per quello che ero. Era inutile che Bruno continuasse a chiamarmi "ragazzino" per impedirmi di mettere in crisi quei doveri cui aveva demandato la propria identità.   

 

-   Allora dimmi tu cosa dovrei fare per te? Fregarmene come fanno tutti gli altri?

 

Beh, se voleva proprio aiutarmi, poteva evitare di mettersi quegli accidenti di pantaloncini da surfista, abbinati poi a un golfino indossato a pelle … con tutto quel ben di Dio esposto peggio di una battona in tangenziale, come poteva aspettarsi che riuscissi a pensare a qualcos'altro?

 

-   Io con te non mollo, chiaro? Intanto per cominciare ti accorgerai quanto sia faticoso mettere in mare una barca a vela …

 

Che fosse faticoso, lo avevo capito da come Adele si era smarcata dai preparativi approfittando della giornata di scuola di Francesco. Ci avrebbe raggiunto solo nel tardo pomeriggio. Eravamo soli: io e il lupo di mare …

 

-   Ti presento Claretta … mia madre si chiamava Clara … che te ne pare?

 

Era vecchia, ma non glielo dissi. Bruno era molto orgoglioso di quella barca. Credo che rappresentasse per lui buona parte della sua famiglia. Quando da piccoli i suoi tornavano in Italia e li prelevavano dal collegio, trascorrevano le brevi vacanze estive nella casa di Santa Marinella e, immagino, quella barca avesse costituito il fulcro di tutte le attività famigliari.

 

-   Metti queste ai piedi e sta attento a non …

 

Regole. In nessun altro posto al mondo ne esistono tante come su di una barca. Forse era anche per questo che piaceva tanto a Bruno. Le regole sono rassicuranti e t'illudono che in cambio del loro rispetto, ti sia data protezione contro l'imprevedibilità del destino.

 

-   No! Devi fare così e così …

 

E che palle! Potevo anche scendere se temeva tanto che gli rovinassi qualcosa.

 

-   Abbassa la cresta ragazzino! A bordo sono il tuo capitano … scattare!

 

Che scemo … Il suo sorriso mi colse alla sprovvista e meditai la resa incondizionata …

 

-   Vado a cercare il custode del molo. Nel frattempo cerca di non far affondare Claretta, ok?

 

"Nel frattempo vedi di non fare affondare Claretta" per quello che m'importava a me. Lo seguii di soppiatto con lo sguardo e appena mi accertai che aveva svoltato nella direzione giusta, via! Una corsa scavezzacollo fino al piccolo chiosco del bar tabacchi per comprare un pacchetto da dieci di Marlboro Light. Sgommai meglio dello struzzo Bip Bip quando fa fesso quel coglione di Billy il coyote … ma in realtà me la sarei potuta prendere anche con calma perché Bruno non si vide per un bel pezzo. La prima sigaretta la bruciai per il timore che lui sopraggiungesse da un momento all'altro. Della seconda, invece, aspirai con gusto tutta la nicotina che mi rilassò parecchio. Finalmente distolsi lo sguardo dal buco nero che l'ansia mi aveva scavato nel petto e mi accorsi del mare, dello sciabordio di Claretta e del gran baccano del vento tra le funi dell'albero maestro.

 

-   Brutte notizie …

 

Il bollettino meteo diceva che dopo mesi di siccità, proprio per quel fine settimana era previsto cattivo tempo. E pazienza, Claretta ed io ce ne saremmo fatto una ragione.

 

-   Tu puoi occuparti della pulizia mentre io guardo il motore … e da una mano ad Alvaro quando porterà l'acqua … visto che ci stai, potresti anche rifare quelle cime?

 

Bruno disse che una barca non si cura certo in navigazione, quindi avremmo comunque eseguito le manutenzioni di routine. Devo ammettere che grattare la schiena a Claretta mi divertì parecchio. L'attenzione nel non sbagliare i prodotti per pulire e poi tutte quelle cere dagli aromi allettanti, mi coinvolse nell'impegno di far tornare splendenti gli ottoni e tutti i legni pregiati di quella vecchia signora; tanto che persi la cognizione del tempo …

 

-   … non hai fame?

 

Io preferisco mangiare verso le quattro del pomeriggio, così unisco pranzo e cena e buona notte al fischio.

 

-   … neanche un pezzetto di pizza ... qualcosa …

 

No.

 

-   Beh, io non ce la faccio a stare senza mangiare …

 

Poteva andarci da solo in quei luoghi puzzolenti di carcasse animali bollite, così mi sarei fumato un'altra strameritata sigaretta.

 

-   Vuoi che ti porti qualcosa da bere?

 

Magari se si sbrigava a togliersi dai piedi, mi sarei andato a prendere da solo una birra fresca al chiosco del bar tabacchi …

 

Quella birra mi mise proprio nell'umore giusto per godermi il sole tiepido d'autunno. Mi sdrai sulla prua a farmi cullare da Claretta mentre il vento continuava a giocare tra le funi. I gabbiani veleggiavano sospesi nel cielo come aquiloni e la voce del mare prese a sussurrarmi negli orecchi le sue tempestose storie provenienti da luoghi remoti.

 

-   Questa cos'è?

 

Non fu un bel risveglio ritrovarmi Bruno con la bottiglia vuota della birra in mano. Ora rovistava anche nella mondezza pur d'incastrarmi?

 

-   E tutto quello che c'eravamo detti?

 

Quante storie per una stupida birra!

 

-   Innominiddio! Lo capisci che ti stai rovinando la vita?

 

E basta! Per quanto tempo ancora sarebbe durata la sua opera redentrice? Avevo bevuto solo una dannata birra …

 

-   La birra, le canne e le pasticche e tutto il resto che io non so …

 

Obiettivamente … se avesse saputo anche del resto …

 

-   Aiutami a capire con chi ho a che fare …

 

Ok, inutile perseverare in quella farsa. Mia madre quella notte di quindici anni prima fu rapita dagli alieni e …

 

-   Smettila con questa strafottenza! Pensa se non ci fossi stato io a toglierti dai guai …

 

Non avevo certo ammazzato qualcuno e poi bastava vedere quanto era accaduto con Lele che era già tornato in piazza …

 

-   Tu sei come lui? No, perché io ho il dovere di proteggere la mia famiglia dal cinismo dei delinquenti …

 

Certo che non ero come Lele! Non volevo essere come lui …

 

-   Allora perché frequenti quella gente? Sembri che ci trovi gusto a farti del  male. Ti addormenti ovunque tranne che nel tuo letto, non mangi e ti avveleni con tutta la merda del mondo …

 

Ma che ne sapeva lui di me?

 

-   Innominiddio! Hai solo quindici anni e mi sembra di dover gestire un … non so cosa. Hai persino messo in scena quel teatrino delle feste con gli amici di buona famiglia per ingannarmi e ora che dovrei dire al Generale? "Hai ragione papà, tuo figlio è un incapace che si è fatto prendere per il  naso da un ragazzino" Santo Iddio, ti rendi conto che figura di merda! Il mio "fratellino" se ne va per tutte le scuole di Roma a sobillare gli studenti per conto di una brigatista …  

 

Brigatista! Tra un po' l'avrebbe chiamata pure terrorista. Carmela aveva solo militato in Forza Continua e per sua informazione era stata sposata con un agente della DIGOS. Io avevo solo dato dei consigli e scritto qualche volantino, era mai possibile che bastasse così poco per diventare un pericolo pubblico!

 

-   E l'Icona?

 

Ancora con quella storia!

 

-   E anche per tutto il resto … io non so con chi ho a che fare, lo capisci?

 

Ero stanco di sentirmi un mostro ed ero stufo di farmi insultare da lui. Dovevo forse accecarmi per non vedere le cose come stavano? Non accorgermi quanto il sistema era ipocrita a promuovere la libera associazione per poi reprimerla con metodi da polizia segreta? E Lele e Brusco e anche la rispettabilissima principessa non erano le facce di una stessa medaglia che lucra sui bisogni della gente? Oppure dovevo imparare a fingere come predicava Maurizio, per poi razzolare nella vergogna al fine di chiamare "peccato" la semplice realtà dei fatti?

 

-   Vorrei solo capire cosa ronza in quella tua testa matta.

 

Non era difficile capirlo, visto che glielo avevo detto diverse volte. Lo abbracciai approfittando di quel momento che sapevo favorevole. Lui sulle prime non mi respinse credendo che cercassi solo conforto. Forse era anche vero perché non volevo che mollasse mai con me e desideravo ardentemente trovare una persona capace di dominarmi. Però … l'istinto del predatore … l'odore del sangue attraverso il calore della pelle mi salì su per le nari, inebriando ogni più recondito istinto del cervello. Deliziato dal miele delle sue suppliche, trattenni sulle labbra un po' di sapore della carne viva.

 

-   … smettila … ti prego …

 

Durò meno di un attimo, ma l'intensità della passione non si misura certo con le lancette di un orologio.

 

-   … non vorrei che avessi frainteso la natura del mio interesse per te …

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Sui vagoni dei treni, in certe brutte strade periferiche o lungo i binari delle stazioni ferroviarie, mi piace leggere il romanzo metropolitano dei graffitisti. Ci sono Panda e Pandone che non ho ben capito se si tratta della stessa persona, certo è che per un po' hanno fatto scintille con una certa Spice. In quel periodo i loro colori sono esplosi in un arcobaleno di emozioni stilistiche.

(…) Mi piace seguire anche Trota, Caos, Koma … da qualche tempo non vedo più Kiashian, spero non gli sia accaduto qualcosa di brutto. Comunque, il mio preferito è Near. Non riesco a capire se si tratti di un ragazzo o una ragazza perché ha un tratto deciso ma anche sensibile in quelle sfumature sempre piene di mistero. Purtroppo non è uno che si spreca molto, ho visto solo quattro o cinque suoi graffiti. Tra l'altro non sono enormi, anzi … Deve essere un tipo timido e sicuramente non ama stare con gli altri perché le sue tag non le vedi nei soliti posti. La più bella l'ho trovata in fondo al marciapiede della metropolitana di Eur Fermi. E' un'opera piccola non più grande di un metro per cinquanta. L'ho guardata per un sacco di tempo ed era geometricamente perfetta, dai colori sfumati dal rosso all'arancio come un tramonto languido che si eclissa su un fondo nero d'inquietudine (…)

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Adele non guidava più da quando era stata coinvolta in un brutto tamponamento, quindi andammo ad aspettarla alla stazione dei treni. Manco a dirlo, c'era stato un guaio sulla linea ferroviaria che stava provocando una serie di ritardi esagerati. Mi ero messo a camminare su e giù per il marciapiede pur di smarcarmi dal silenzio in cui Bruno si era trincerato.

 

-   Oh, mio Dio! Temevamo di non arrivare più …

 

Un'ora di ritardo stipati su un convoglio come un carico di povere bestie, aveva completamente sfinito Adele. Non l'avevo mai vista così indisponente ma non volevo credere che la sua bonaria allegrezza fosse solo una maschera. Trattò malissimo Bruno perché non la sentì chiamarlo quando scese dal treno. Francesco si era addormentato lungo il tragitto e non volle sentir ragioni di svegliarsi al momento di scendere, così Adele se lo era caricato in braccio fin davanti alla stazione.

 

-   Devo assolutamente farmi una doccia …

 

Non mi rivolse neanche uno sguardo. Salì in macchina e ordinò di portarla a casa perché non sopportava di avere quell'odore di treno addosso. Loro continuarono a discutere mentre io mi caricai Francesco sul sedile posteriore. Era stato piacevole sentire le sue braccia cercare istintivamente protezione in un abbraccio. Mi si arrampicò addosso accomodando la testa su una mia spalla. Mi dette una tale pace quel corpicino da accudire, che almeno per quel breve tragitto dimenticai ogni altra contingenza.

 

-   Obbedisci e zitto, per la miseria!

 

Inspiegabilmente, quando arrivammo a casa e scendemmo nella piccola rotonda del giardino di fronte all'atrio, Francesco iniziò a frignare. Avevo terminato ogni lembo di stoffa per arginare il suo moccio e chiesi ad Adele dei fazzolettini di carta. Lei mi strappò via il bambino di dosso e lo scosse violentemente per un braccio, intimandogli di obbedire. Non lo so cosa mi successe. La allontanai da lui sicuramente con troppa foga. Mi prese una roba che non saprei spiegare. Ci volle Bruno per ricondurmi alla ragione.

 

-   Credimi, Adele non voleva picchiarlo … è solo un po' nervosa …

 

Che stupido! Avevo paura di essere pazzo quando perdevo il controllo in quel modo. Mi vergognavo. Chiesi scusa ad Adele ma lei non mi rispose. La sua era un'indisposizione di spirito che il viaggio in treno aveva solo esasperato.  Era gelosa della venerazione che Bruno aveva per il ricordo della madre e quindi anche di Claretta che gli contendeva le attenzioni del marito. Compresi anche quanto le doveva essere pesato ospitarmi per tutti quei giorni. Io ero solo un'altra incombenza che quel suocero despota imponeva al figlio e quindi anche a lei.

 

-   Te lo sto chiedendo per favore … altrimenti costringi Adele a cucinare.

 

Non mi andava proprio di uscire per cena, ma il tono con cui me lo chiese Bruno, mi fece capire quanto da questo dipendeva la pace famigliare dei prossimi giorni.

 

-   Potevi almeno metterti un paio di pantaloni e una maglietta …

 

Che palle! Mi era stato detto che dovevamo stare al mare per andare in barca, non pensavo certo di dovermi portare un cambio anche per una serata glam. Del resto nella casa dell'Aventino tenevo lo stretto indispensabile e avevo portato con me solo la vecchia tuta che usavo per andare a correre al Circo Massimo. Come potevo immaginare che si andasse a mangiare una pizza in un ristorante cinque stelle con maneggio e spiaggia privata?

 

-   Levati almeno sta felpa rotta … tieni, mettiti il mio pullover.

 

E non mi ero accorto che la felpa si era strappata su un gomito. Glielo avrei potuto insegnare io come si sta in società a quei due borghesucci, uffa! E se proprio lo volevano sapere, quel posto pareva poco più di uno di quei chioschi prefabbricati che si vedono sui litorali, altro che cinque stelle di un minga.

 

-   Innominiddio! Toglietela e basta …

 

Quella sera poi ci saranno stati al massimo altri tre o quattro clienti oltre a noi … Mi ero accorto che Adele aveva iniziato a lanciarmi occhiatacce fin da casa, ma pensavo fosse ancora offesa per come l'avevo trattata quando aveva picchiato Francesco. Del resto lei indossava dei comunissimi jeans … e che cavolo! Quando mi alzai per andare in bagno, mi ritrovai Bruno che mi guardava pisciare. Mi rimproverò perché, ovviamente, l'avevo fatto apposta a vestirmi male per mettere in imbarazzo Adele.

 

-   Potevi almeno metterti una maglietta sotto la felpa …

 

No, io non le usavo le magliette della salute dei vecchi bacucchi e poi non faceva neanche freddo!

 

-   Mettiti la mia … tanto ho la camicia … muoviti!

 

Era inutile discutere con quella testa di carabiniere … e poi … mi piaceva quando perdeva le staffe per farmi ragionare. Mi piaceva la complicità con cui mi parlava … e poi … guardarlo togliersi la maglietta … a petto nudo … la vertigine di uno sguardo che inevitabilmente precipitava su quel seducente confine segnato dalla cintola dei pantaloni … con quei due incavi sull'inguine che parevano segnali stradali a indicare una prateria di cui mi era concesso vedere l'inizio e solo immaginare la fine …

 

-   Ehi … ti sei incantato?

 

Tirai su un sospiro e a quanto pare mi si accese il banner in fronte, perché a Bruno venne da ridere a leggerci la verità di un adolescente in preda alle caldane. Tolsi la felpa senza avere più il coraggio di tornare a guardarlo. Sentii solo le sue mani scivolarmi su per la schiena e la solidità della sua carne aderire alla pelle. Mi trasse a sé con una tale foga che per poco non perdevo l'equilibrio. Mi ritrovai seduto sul lavabo senza riuscire a respirare, con lui che mi premeva tra le cosce tenendomi stretto con la forza delle braccia. Non lo so se raggiunse l'orgasmo o fu solo la ragione che gli fece comprendere di essermi saltato addosso nella toilette di un ristorante, in ogni modo rinvenne presto da quell'accesso passionale. Rilasciò un rantolo caldo sulla mia orecchia prima di ritrarsi per imboccare la porta di un gabinetto.

 

-   Abbassati il maglione … si vede … insomma … si vede …

 

Ansimava ancora quando lo vidi tornare dal gabinetto mentre si rassettava il ciuffo di capelli. Non mi guardava e questo mi dispiaceva. Avrei voluto dirgli quanto era stato pazzesco, ma non ce ne fu bisogno perché gli effetti di tutto il subbuglio che mi aveva messo in corpo, erano evidenti attraverso il cavallo della mia tuta …

 

-   Io torno di là … tu … insomma … datti una rinfrescata che … sei un po' sudato.

 

Solo un po' sudato! Mi aveva appena issato su una pira e poi dato alle fiamme … e ora mi lasciava così?

 

Tornai al tavolo tuonato come un mulo. Nella mia testa c'era il vuoto e non so assolutamente cosa si dissero per il resto della serata. Mi venne una fame del demonio e ricordo solo il gusto di quel cibo … m'inebriava masticarlo e ancora di più ingoiarlo a grossi bocconi. Poi uno scrocchio temporalesco parve salire su dal pavimento facendo tremare le vetrate. La luce andò via e un brivido di paura mi ricordò quanto poco tempo era trascorso da quella brutta notte in campeggio.

 

-   Passate per la cucina, io porto la jeep sul retro …

 

Saremmo dovuti andar via prima che arrivasse il temporale. Venivano giù degli scrosci d'acqua da far spavento e i fulmini saettavano illuminando il mare nero. L'asfalto arso da mesi di siccità schiumava di giallo i bordi dei marciapiedi. I tergicristalli della jeep andavano avanti e indietro come matti senza riuscire a spazzare l'acqua. Adele voleva che Bruno si fermasse per andare a chiedere ospitalità in qualche casa, ma lui la rassicurò perché la Jeep non avrebbe avuto problemi su quelle strade divenute torrenti.

 

-   E apriti!

 

Il cancello non poteva certo aprirsi senza corrente elettrica. Giunti a passo d'uomo fin davanti alla villetta, Bruno s'intestardiva a voler aprire il cancello con il telecomando. Era convinto che la corrente elettrica ci fosse perché in quel momento l'allarme di casa stava suonando. Non ci capiva proprio niente di elettronica! Gli spiegai che quello ha una batteria e che nel mazzo di chiavi dovevano esserci anche quelle dei bracci meccanici del cancello.

 

-   Aspetta … non andare!

 

Pioveva ancora intensamente, ma la buriana era ormai passata. Bruno scese col mazzo di chiavi e si mise ad armeggiare su un braccio meccanico del cancello. Era evidente che non sapeva dove mettere le mani e decisi di rendermi utile. Adele mi esortò a rimanere in macchina fiduciosa nelle capacità del suo uomo, il che significava sperare solo nel provvidenziale ritorno dell'elettricità.

 

-   Innominiddio! Torna in macchina … è inutile che ci bagniamo in due.

 

Paolo riconosceva le mie qualità e di conseguenza non mi trattava mai da ragazzino; invece, quel capoccione di Bruno scartava ogni mio consiglio a priori, come se da me non potessero provenire che sciocchezze. Non volle sentir ragioni e mi rispedì in macchina, dove risalì anche lui dopo essersi inzuppato inutilmente. Adele colse l'occasione infausta per ribadire che quella casa stava cadendo a pezzi e sarebbe stato meglio venderla una volta per tutte. Si doveva trattare di un vecchio contenzioso tra quei due perché Bruno sclerò di brutto.  Le rinfacciò di avergli fatto trascorrere l'estate in quel buco di consorzio nella casa dei suoi, solo per fargli il dispetto di tenerlo lontano da Claretta e, di conseguenza, occuparsi della manutenzione della casa. Lei di tutta risposta gli chiese perché doveva occuparsi solo lui di quella casa?

 

-   Spetta sempre a noi accollarci i problemi di tuo padre …

 

Fu molto sarcastica nel sottolineare come Bruno scattava sempre sull'attenti quando il "Generale" dettava i suoi ordini.

 

Francesco si era rincantucciato in un angolo del sedile e fissava fuori dal finestrino. Si pensa basti il viscerale legame genitoriale per i propri figli a farli crescere sereni, ignorando, invece, il semino d'anima nel loro cuore che ha bisogno per svilupparsi della luce irraggiata dall'amore tra mamma e papà. Quelle esplosioni di rabbia sono come le radiazioni di una bomba atomica che ne alterano il DNA, i cui effetti deformanti saranno imprevedibili.

 

-   Che figo! Ma come ci riesci?

 

Da piccolo avevo sempre diffidato delle parole degli adulti e non ne pronunciai a Francesco. I bambini non ne hanno bisogno perché loro credono nella magia. Gli feci un giochino che mi riesce muovendo le mani come un prestigiatore, le dita si aprono a ventaglio e richiudendosi creano un effetto ottico come una scia luminosa. Non me l'ha insegnato nessuno, da bambino credevo fosse un super potere, anche se non servì mai a niente.

 

-   Non te ne frega della tua famiglia, importa solo quello che ordina il grande capo …

 

Quei due non si potevano più sentire, allora mi allungai fin sul cruscotto e tirai via il mazzo di chiavi di casa. Senza neanche avere il tempo di realizzare cosa volessi fare, scesi dall'auto e mi arrampicai sul cancello, balzando oltre le sue punte di lancia come manco l'uomo ragno avrebbe saputo fare. Intuii subito dove stesse nascosta la serratura dei bracci meccanici e sbloccai la frizione. Dopo di che, a forza di braccia feci scorrere la loro vite senza fine. Compii tutto nel giro di pochi minuti. Eccellente! Certo non mi aspettavo gli applausi, ma neanche ingratitudine …

 

-   Volevi forse romperti l'osso del collo?

 

Quando li raggiunsi sotto il porticato, Adele era già entrata in casa con Francesco e Bruno mi accolse con il broncio. Lo mandai affanculo e mi barricai in camera meditando vendette estreme. Nonostante la giornata pesante, tutto quel trambusto prevalse sulla stanchezza e il sonno se ne volò via. Approfittai della televisione in camera per guardare la nottata dedicata a tutta la serie di Star Track.

Era ormai notte inoltrata quando mi accorsi di stare accendendo la terzultima sigaretta. Era un guaio perché in tasca mi erano rimasti solo degli spiccioli che non bastavano per ricomprarle. La riposi nel pacchetto cercando di concentrarmi sui soliti patemi tra la logica del dottor Spock e il sentimento del comandante Kirk.

 

-   Ho sentito la televisione accesa e …

 

Avevo lasciato le imposte appannate della porta finestra che dava sul terrazzo, su cui apriva anche quella della camera matrimoniale. Mi spaventai anche un po' quando la vidi aprirsi lentamente. Era Bruno che immaginando mi fossi addormentato con il televisore acceso, stava entrando di soppiatto come un ladro.

 

-   Ah, pure le sigarette … non si era detto che avresti smesso di fumare?

 

Le canne … gli avevo promesso di smettere di fumare le canne, mica le sigarette.

 

-    .. e la birra di stamattina?

 

Pure di notte doveva rompermi i coglioni?

 

-   Il Generale mi ha messo in guardia "se non riesci a tenerlo a bada, chiamami subito", mio padre non ha mai avuto molta fiducia in me … come dargli torto?

 

E ora cos'era quel tono mogio? Si era seduto sul bordo del letto accanto a quello dov'ero io e gesticolava con la mano destra come se cercasse di acchiappare le parole che sfuggivano al suo pensiero.

 

-   Non so cosa devo fare … tu sei incontrollabile … e poi guardati! Appena esci da casa fumi, bevi e se domani tornerai da quella gente? Io non posso …

 

Cioè? Magari gli sarebbe riuscita meglio se l'avesse presa un po' più da lontano. Cos'era successo mentre ero chiuso in camera?

 

-   Adele pensa che tu debba prendere le pasticche … quelle che ti dava tua madre … forse mio padre si sbaglia se te le ha prescritte anche quel medico del consultorio, no?

 

E certo, il medico mi aveva proprio prescritto Plegine e Roipnol … E come mai la sua cara mogliettina era giunta a quelle conclusioni?

 

-   Oggi l'hai assalita! E stasera in macchina? Sembravi un invasato quando hai scavalcato il cancello.

 

Allora, io ero il matto e lei che stava aggredendo il figlio come un'isterica, cos'era? E in macchina avevo solo preso le chiavi e aperto il cancello, mentre loro si stavano scannando per una stronzata. No, la verità non poteva essere questa. Se la raccontavano così per qualche secondo fine.

 

-   Tu sei un ragazzo difficile … persino tua madre non riesce a controllarti!

 

Beh, riuscirci standosene dall'altro lato del pianeta era effettivamente complicato.

 

-   Con tua sorella che si rifiuta di collaborare, come faccio ad assumermi la responsabilità …

 

Sua moglie doveva piantarla di sparlare di Angela e soprattutto sarebbe stato il caso che avesse iniziato a parlare in faccia alla gente.

 

-   Adele è solo preoccupata … Francesco si sta affezionando troppo …

 

Qual era il problema? Possibile che non si accorgeva di come la moglie faceva leva sul bambino per condurlo dalla sua parte?

 

-   Anch'io sono preoccupato … insomma … ti abbiamo visto tutti come te la intendevi con Franco e … forse tu non lo sai, ma Franco è … è un uomo molto pericoloso.

 

Questo non voleva dire che ero come lui.

 

-   Invece, temo proprio di sì …

 

Perché? Perché continuava a darmi del mostro? Che cosa gli avevo fatto di tanto brutto per meritare un tale verdetto?

 

-   Tu non te ne rendi conto, ma gli somigli … sei incontrollabile come lui.

 

Avrei preferito che mi prendesse a schiaffi piuttosto di continuare a starlo a sentire. Mi raccontò la storia di quando da bambini trascorrevano le vacanze insieme in quella casa. Io ero proprio sul letto di Franco e lui dormiva sull'altro dov'era seduto in quel momento. Mi disse di quel gioco proibito che gli insegnò e poi, quella mattina quando gli fece troppo male e la corsa al pronto soccorso perché perdeva sangue.

 

-   Era già successo e loro lo sapevano e non hanno fatto niente, lasciandomi dormire qui con lui!

 

Bruno si teneva la testa tra le mani, con i gomiti puntati sulle ginocchia, mentre mi prendeva a parte di quel segreto che tanto gli costava ricordare. I suoi toni erano ben diversi da quelli spavaldi con cui Franco si era vantato della stessa storia. Rialzò la testa solo quando domandò a me il motivo per cui i suoi lo avevano lasciato dormire insieme a quella bestia. Bruno disse che all'epoca era già accaduto con il cugino mezzo prete, Franco lo aveva indotto a fare cose disgustose e solo quando quello trovò il coraggio di confessarlo a scuola, riuscì a liberarsi dal suo aguzzino.

 

-   Io devo proteggere mio figlio …

 

Scesi dal letto e lo supplicai di spiegarmi cosa gli avevo fatto per credermi capace di tanta efferatezza? Giurai che mi sarei ammazzato piuttosto di diventare così.

 

-   Innominiddio! Lo sai, no? Tu … anche prima … e durante quelle telefonate … avrai la ragazza, ma andiamo … anche Franco, lo hai visto anche tu con chi si è presentato al matrimonio, no? Io … non so come fai … tu sei capace di … di … guardami … non so cosa cazzo mi prende.

 

Lo sapevo io cosa gli stava prendendo. Il bambino in pericolo non era Francesco, ma lui. Era se stesso che voleva salvare e non certo da me.

 

-   Io devo proteggere la mia famiglia …

 

Gli avrei dovuto far conoscere Maurizio, almeno così avrebbe imparato a fare anche lui i bocchini in ginocchio, sentendosi un martire votato ai sacri valori della famiglia.

 

-   Lo vedi? Lo vedi che sei come lui? Non avete rispetto per niente, pensate solo a … a quello.

 

E a me? Perché nessuno mi rispettava? "Oh recchione, guardate oh recchione" Non ero abbastanza maschio perché non avrei fatto cagare figli a una giovenca idrofoba, dando così licenza a madri e mogli di sputarmi addosso? O dovevo portare rispetto a quelli come lui, come "il ragioniere"; patetici invertebrati incapaci di esistere senza il consenso altrui.

 

-   Non puoi fare come ti pare, ci sono delle regole …

 

Affanculo lui e le regole. Non sarei rimasto un altro minuto in quella casa di martiri e madonne immacolate con gli armadi pieni di scheletri.

 

-   Ma dove vai? Aspetta … è notte, per Dio!

 

Avevo smesso di temere il buio da quando compresi che "Loro" facevano meno paura "Degli Altri". I mostri non ti rincorrono più quando ti volti e li guardi in faccia; per quanto spaventosi, ti accorgi che sono fatti di verità negate. E' l'ipocrisia "Degli Altri" che li relega nel buio, riducendoli a vizi inconfessabili di virtù tanto alte quanto è profondo l'abisso che le partorisce.

 

-   Stai delirando …

 

E' possibile.

 

-   Vieni qua … non ti lascio andare.

 

Lasciami.

 

-   …

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Qual era la colpa di Dioniso se era della sua carne e del suo sangue con cui le baccanti s'inebriavano?

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Quella notte in cui stavo per essere rifiutato un'ennesima volta, si rivelò al contrario una delle più belle della mia giovane vita. Non potendo uscire di scena sbattendo la porta, cercai di mandare via Bruno divincolandomi dalla sua presa, ma quando le sue braccia si staccarono da me, sentii il freddo entrare in quella piega fossile che aveva saputo scavare nella mia carne. Se fossi rimasto solo, sarei stato rincorso per il resto della notte dai tormenti più mordaci. Doveva accadere qualcosa, qualsiasi altra cosa, purché mi avesse spinto avanti nel tempo.

 

-   E' meglio che me ne vada …

 

No che non era meglio, signor Spock. Maledetto me! Perché avevo respinto il suo abbraccio? Divincolarsi per scappare dove, stupido capitano Kirk? Ora se ne sarebbe tornato dall'infingarda klingoniana, che avrebbe traviato ulteriormente la sua già fallace logica. Dopo essermi scusato, gli chiesi gentilmente di rimanere almeno il tempo di un episodio di Star Track. Lui disse che non era il caso, ma poi devo avergli fatto proprio pena perché ci ripensò.

 

-   Lo vedi che con te è sempre così!

 

Non mi bastò che si sedesse di piedi al letto con lo sguardo fisso nel piccolo televisore. Cercai di avvicinarmi ma lui scattò via. Avevo solo bisogno di un contatto fisico … sapere che non gli facevo schifo.

 

-   Ok, allora ci sdraiamo sul letto … guarderemo la televisione e basta, ok?

 

No, non andava bene. All'inizio magari sì … era bello sentirlo vicino … ma poi non mi era bastato più. Mi voltai con molta cautela su un fianco per guardarlo meglio. Non disse nulla, sempre con lo sguardo dritto verso il televisore. Allungai una mano sul suo petto giocherellando con un bottone del suo ridicolo pigiama da vecchio.

 

-   Non è un pigiama da vecchio … e poi me li compra Adele.

 

Tipico gusto di una borghesuccia.

 

-   E allora tu che dormi con gli stessi stracci con cui vai in giro?

 

E da quando ci si mette il pigiama per guardare la televisione?

 

-   Allora faresti meglio a mettertelo il pigiama perché appena finisce questo episodio, spengo la televisione. Domani ci aspetterà una giornata pesante in barca …

 

Domani … domani … ci si preoccupa sempre di domani, dimenticandoci che quando arriverà, si chiamerà anche quello "oggi". M'infilai la maglietta di Silversurfer e sfilai i pantaloncini stralerci che avevo usato per lavorare su Claretta. Dopo di che gli saltai "simpaticamente" sopra.

 

-   Piantala o me ne vado!

 

Non andava bene così … volevo che mi parlasse … se rimaneva zitto come avrei potuto dimenticare tutte le cose brutte che c'eravamo detti prima?

 

-   Chiudi almeno la finestra o ti prenderai un malanno a dormire in mutande …

 

Oramai non mi azzardavo a rivolgergli la parola perché mi rispondeva sempre più scocciato. A un certo puntò sbuffò e spazientito cercò di sistemarsi meglio sul piccolo materasso. Si preoccupava solo che mi prendessi un raffreddore con la finestra aperta.

 

-   Scordatelo! Ma sei proprio incredibile …

 

Gli spiegai che fin quando portavo i calzettoni non mi sarei raffreddato e subito dopo gli chiesi se me lo faceva vedere. Beh, visto che mi aveva lasciato a cazzo dritto nel cesso del ristorante, me ne doveva una …

 

-   … non so cosa mi sia preso, potrai mai perdonarmi?

 

Oddio, no! Stavo fresco se gli riprendevano le paturnie ... Tagliai corto e gli dissi che era stato pazzesco e mi era piaciuto un botto, quindi ora si calava le brache e stavamo pace.

 

-   … per te è tutto un gioco, vero? Non capisci che questa è una roba seria! Non puoi andare in giro a farlo così … non … è pericoloso e devi avere rispetto per te stesso …

 

Si stava dimenticando il piccolo dettaglio che era stato lui a saltarmi addosso … e poi ero solo un adolescente, avevo il resto della vita per ingrigire in quei discorsi da vecchio parruccone.

 

-   Ho trent'anni e non trecento, chiaro?

 

Ah, finalmente si era aperta una breccia nella rocca in cui si era asserragliato. Tentai subito una nuova sortita saltandogli sopra e bloccando subito le sue braccia con le mani.

 

-   Siccome non senti ragioni … me ne torno da mia moglie.

 

La faceva troppo facile. Avrò avuto anche solo quindici anni, ma ero già un cristo di quasi un metro e novanta che si approssimava agli ottanta chili di solide ossa e ciccia ben allenata. In fondo stava facendo tante storie per una sbirciatina … manco fosse stato il principe di Savoia.

 

-   Tu … sei … matto!

 

Che ne resterebbe della vita senza un pizzico di follia? Scivolai un po' indietro e poi in avanti, di nuovo e ancora una volta, fino a quando la smise di lamentarsi e lo sentii inturgidirsi sotto di me. Ora dovevo solo esser certo che lasciando la presa sulle sue braccia non se ne sarebbe andato; se lo avesse fatto, mi sarei sentito una vera merda.

 

-   Dopo però me ne vado, d’accordo?

 

Mi si svelò improvvisamente davanti calando in un solo gesto l'elastico del pigiama. Gli dissi di fermarsi, nel senso di non fare così in fretta. Volevo guardare con colma quella cornucopia dell'abbondanza che si celava sotto i suoi slip da vecchio.

 

-   Senti chi parla … mio nonno porta esattamente dei boxer come i tuoi.

 

Quelli di suo nonno non erano certo di Valentino. Gli proposi un cambio, giusto per fargli provare la differenza. Lui sorrise dicendo che gli dava fastidio sentirselo ciondolare. Porca miseria, potevo ben capirlo! Io ho sempre avuto una certa passione per l'estetica del cazzo e il suo era perfetto: Opulento nella poderosa nodosità arteriosa che lo avvolgeva in un incarnato spesso dall'aspetto gommoso.

 

-   Certe che le sai sparare grosse …

 

Di grosso in quel momento c'era solo il suo coso. Mi bastò sfiorarlo per fargli dare un sussulto, ma Bruno lo rinfilò subito dentro … poco male … era ancora più seducente attraverso le forme che trasparivano dallo slip.

 

-   Ti piace così tanto?

 

Sì, e guardarlo mi prendeva al punto da farmi dimenticare il resto. Bruno mi permise di coccolarlo un po' attraverso gli slip. Non parlavamo più. Lui mi carezzava le cosce fino a insinuarsi su per i boxer. Poi mi tirò su di sé cercando le mie labbra. I suoi baci sapevano di dentifricio … immagino che i miei avessero il sapore di Marlboro Light, ma a lui non dispiaceva. Ce ne restammo a pomiciare per parecchio. La sigla finale dell'episodio di Star Track giunse troppo in fretta e lui concluse quell'idillio in un sospiro dispiaciuto.

 

-   Tanto alla fine la devi sempre aver vinta tu, vero?

 

Non mi pareva, visto che se ne stava andando, lasciandomi per l'ennesima volta a sbollire un desiderio insoddisfatto.

 

Cercai l'impronta del suo calore nel letto e mi ci acciambellai dentro. Stavo bene ed ero riuscito a scacciare i brutti pensieri dalla testa. Al mattino mi risvegliai abbracciato alle lenzuola che odoravano di stantio, ma riuscii lo stesso a ritrovare un po' del suo profumo e allora feci l'amore con il ricordo.

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Se nasci pecora guardati dall'abbandonare il gregge o il lupo ti mangerà. Se sei nato cane non allontanarti dal padrone o finirai chiuso in un canile. Se miagoli, allora lisciati il pelo e impara a fare le fusa in cambio della libertà di cui hai bisogno, altrimenti diventerai patetico come quei randagi brutti e sporchi, cui nessuno ha più piacere di dar da mangiare a sbafo.

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La buriana della sera prima aveva lasciato dietro di sé una brezza che spazzava il cielo, rendendo ancora più terso un turchese che faceva da sfondo a stracci di nuvole bianche e appetitose come panna montata.

Mi sentivo proprio bene quando scesi da basso per iniziare quella giornata elettrizzante. Saranno state poco più delle sette del mattino e non mi aspettavo di trovare qualcuno già sveglio. Invece, sentii Adele che armeggiava in cucina.

 

-   Oh, tu sei il mio salvatore!

 

Esclamò quando mi vide arrivare già vestito di tutto punto. Stava vanamente cercando di mettere insieme una colazione con quello che c'era in dispensa. Senza darmi modo di replicare, mi mise un deca in mano spedendomi al bar per comprare una ricca colazione. Che le era successo? Mi era parsa raggiante e addirittura più bella del solito! Possibile che sapesse dissimulare così bene l'antipatia nei miei confronti?

 

-   Perché ci hai messo tanto?

 

Rimase in trepidante attesa fino al mio ritorno. Sistemò cornetti e cappuccino su un vassoio e si avviò canticchiando verso la camera matrimoniale. Iniziavo a sospettare la causa di quel suo improvviso cambio d'umore, però mi dissi che al solito pensavo sempre e solo al sesso …

Ridiscese addirittura più euforica e si sedette accanto a me sul bordo della piccola piscina vuota. Mi passò uno dei biscotti che stava rosicchiando come una nutria affamata … poi chiese lei a me, cos'era a rendermi così raggiante.

 

-   Sei addirittura più bello del solito!

 

La risposta a tutti i nostri quesiti giunse dopo un po', con i capelli arruffati da un'asciugatura frettolosa, ancora in accappatoio e infradito ai piedi. Adele gli corse incontro mendicando un bacino affettuoso, lui le chiese per favore un caffè perché non riusciva a svegliarsi … e lo credo, aveva trascorso tutta la notte a cazzo dritto, brutto porco!

 

-   Ehi, ti sei messo in testa di rovinarci la giornata?

 

Certo che alla moglie non sarà parso vero quando glielo avevo rimandato nel letto caricato a pallettoni. A quanto pare era da parecchio che non le ramazzava le ragnatele dalla cantina, se era bastato tanto poco per ridarle il buon umore …

 

-   Allora i discorsi di stanotte non sono serviti a nulla?

 

Non mi pare che tra le tante promesse che mi aveva estorto quella notte, ci fosse anche quella di salvare il loro matrimonio.

 

-   Faremo solo un giro in rada e poi torniamo in porto … pranzeremo in barca … ti piacerà.

 

No, non mi sarebbe piaciuto per niente vederli tubare tutto il tempo come due colombelle.

 

-   Non rovinare tutto proprio ora che Adele è disposta a perdonarti.

 

Sarebbe stato più giusto dire "tollerare la mia presenza".

 

-   Ti prego, definisci questo cartoccio per gli spaghetti allo scoglio di Bruno.

 

«Esoscheletri con liquami di mucillagine putrefatta»

 

-   Sei ancora sicuro di volerti nutrire con della mucillagine putrefatta?

 

Adele era tornata quella che conoscevo e quando ci fermammo dal pescivendolo per comprare qualcosa da cucinare per pranzo, facemmo squadra per tentare di dissuadere Bruno dal rendersi partecipe della devastazione ittica in corso.

 

-   Avete rotto le scatole, oggi il papà cacciatore darà al suo cucciolo un saporito pasto a base di carne, chiaro?

 

La gita in barca non fu poi così brutta come mi aspettavo. Adele se ne stette quasi tutto il tempo sotto coperta perché Bruno volle alzare la vela e di ritorno si navigò per un bel pezzo di bolina. Ammetto che non fu un toccasana anche per il mio stomaco, però Bruno mi fece tenere il timone mentre badava alla randa della vela ed era strafigo! Specie quando veniva a correggere la rotta e per farsi sentire mi parlava nell'orecchio.

 

-   Tieni la prua in direzione del faro …

 

La giornata non si era rivelata l'ideale per uscire in mare. Il vento ci costrinse a mettere i K-way, mentre il moto ondoso faceva beccheggiare talmente la barca che alla fine anche Bruno convenne con Adele per rientrare in porto. Tuttavia fu un'esperienza fantastica! Era come giocare in squadra contro un avversario più forte. La concentrazione tende al massimo ogni senso del corpo e l'azione diventa una scarica adrenalinica: niente più problemi, nessun pensiero, solo un intenso orgasmo con il mondo.

 

-   Allora ti è piaciuto!

 

Sì! Ero euforico quando Bruno me lo chiese. Adele aveva messo nel suo borsone un cambio d'abiti anche per me … roba di Bruno. Fu una vera esperienza erotica tirarmi su le sue mutande, stringermi dentro la sua polo e riconoscerlo nel profumo dell'ammorbidente.

 

-   Che stai facendo?

 

Accidenti! Non avevo tenuto conto che in barca non si ha un minimo di privacy. Bruno uscì dal gabinetto spartano e mi vide mentre annusavo un lembo della maglietta. Finsi di non sentirlo e m'infilai nel bagno per asciugarmi i capelli. Non so se andò via e poi tornò o stette tutto il tempo a guardarmi, ma quando spensi il fono … dopo essersi lamentato perché ci avevo messo troppo tempo e le batterie della barca si scaricavano in fretta … mi chiese se proprio non volevo assaggiare il suo spaghetto allo scoglio. Capirai, la puzza di quel liquame già appestava l'aria … eppure stavo quasi per accettare la proposta … giusto per il gusto di dirgli "Sì".

 

-   Ho avvertito Angela che domani tornerai …

 

Francesco aveva uno stomaco di ferro e il mare grosso non gli aveva minimamente intaccato l'appetito. Chiese doppia razione di spaghetti e Bruno gli insegnò come fare la scarpetta al piatto. Adele ed io ruminammo dello spezzatino di seitan con tanta cipolla … che detesto. In barca si mangia gomito a gomito e quando Adele accennò al fatto che il giorno dopo sarei tornato a scuola e quindi da Angela, il disappunto di Bruno percorse in circolo tutto il tavolinetto e quando gli ritornò indietro, sprofondò lo sguardo nel piatto, poi si versò dell'acqua cercando di dissimulare il silenzio imbarazzato che si era venuto a creare.

 

-   … non può tornare a scuola prima che …

 

A quanto pareva quei due avevano discusso molto animatamente sul come gestire la mia vicenda. Bruno disse che gli era sembrato di essere stato chiaro sulla necessità di chiarire la mia situazione anagrafica. Adele trovava assurdo farmi perdere altri giorni di scuola per una questione che sarebbe sicuramente andata per le lunghe. Quasi istintivamente presi Francesco e mi tolsi di mezzo dicendo che andavamo a prendere un gelato al chiosco del Bar.

 

-   … ma tu dove abiti?

 

I pochi spiccioli che avevo in tasca bastarono solo per comprare un Calippo, così ce lo steccammo in due. C'eravamo seduti sulla banchina del molo e a un certo punto, quando Francesco passò il ghiacciolo, mi chiese chi erano la mia mamma e il mio papà. Gli spiegai che la mia mamma era la sua nuova nonna e che tecnicamente poteva anche chiamarmi zio. La storia non lo convinse del tutto. Dal suo punto di vista un figlio dormiva insieme a papà e mamma … sotto lo stesso tetto. Quando mi chiese dove precisamente stava la mia casa … non seppi rispondere e gli ripassai solamente quello che rimaneva del Calippo. Lui lo rifiutò e stizzito dal mio silenzio, si alzò dicendomi con la schiettezza e la cattiveria che solo un bambino sa esprimere, di non volermi più a casa sua.

 

-   La cameretta è mia.

 

Santo cielo! Stava accadendo quello che più temevo - non volevo distruggere il loro quadretto famigliare.  

 

-   Puoi sempre dormire nella mia cameretta a casa di papà, no?

 

Trovai così desolante il momento in cui lasciammo la villetta di Santa Marinella. Mi parve essere solo e abbandonato come quella casa che nessuno voleva e si allontanava alla deriva di ricordi ormai sepolti dall'evolversi degli eventi.

 

-   Uffa! Tu bari, non esistono le macchine gialle …

 

Nel viaggio di ritorno Bruno e Adele non si scambiarono più di due parole. Io stavo facendo da parafulmine ai loro problemi, tuttavia non sopportavo l'imbarazzo di sentirmi un intruso tra loro due. Proposi a Francesco il gioco di chi vede cosa e almeno come compagno di giochi mi voleva ancora. Che strano pero! Di macchine gialle non se ne vedono …

 

-   Puoi sempre dormire nella mia cameretta a casa di papà, no?

 

Arrivati sotto casa, io e Francesco c'eravamo addormenti nel vano tentativo di vedere passare una macchina gialla. Mi svegliai mentre Bruno prendeva in braccio il figlio … mi chiese di portare il borsone … Adele era già salita in casa. Rimasi inchiodato sul cancelletto pedonale. Le parole di Francesco risuonavano nella mia testa come un anatema. Le vedevo a caratteri infuocati brillare come rune sulla facciata della palazzina signorile, scacciarmi alla pari di un demone maligno che insidiava la pace delle brave persone che vi abitavano.

 

-   Puoi sempre dormire nella mia cameretta a casa di papà, no?

 

Citofonai … mi rispose Adele … le chiesi se poteva mandare giù Bruno. Gli dissi che sarei tornato subito da Angela perché mi rimaneva più comodo svegliarmi là per andare a scuola. Lui cercò di rassicurarmi sull'umore di Adele; disse che se la prendeva tanto solo perché non sopportava quando "Il Generale" impartiva i suoi ordini. Già, ma in quel caso l'ordine esecutivo ricevuto da Bruno era occuparsi di me … in un certo senso … il fatto che lui stava solo ubbidendo a delle disposizioni … mi fece sentire ancora peggio.

Gli riferii le cose che aveva detto Francesco e la mia ferma determinazione a restituirgli ciò che era suo. Bruno parve comprendere come mi sentivo e forse riuscì anche a capire le ragioni di Adele a non volermi prendere come membro della sua famiglia …

Gli sorrisi affinché non si facesse carico anche di quell'addio. C'ero abituato e non doveva prendersela a male. Tirò fuori il portafogli per darmi qualche soldo, ma gli dissi che avevo l'abbonamento per i mezzi pubblici … lui insistette e allora accettai un deca. Mentre me lo dava, cercò di strapparmi la promessa di telefonargli appena arrivavo da Angela … non volevo che si prendesse cura di me e quindi tergiversai. Lui proprio non si fidava e fino all'ultimo cercò di convincermi a rimanere. Mi propose di dormire nella "sua" cameretta a casa di "suo" padre. No, grazie. 

 

Fine prima parte

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Silverselfer

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Seconda Parte

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Solo al centro del mare, in una calma di vento che gonfia la vela del mio tormento.

Non un insetto, non un pesce che mi aiuti a credere in qualcos'altro che qui riesca a vivere.

Nel cielo terso di un incanto primaverile, non un gabbiano che consoli il mio divenire.

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La fermata del settantacinque, che mi avrebbe portato dritto alla Stazione Termini, era a qualche metro da casa di Paolo … era impossibile aspettare l'autobus senza continuare a sentire il disagio che mi stava opprimendo; decisi dunque di raggiungere a piedi la stazione della metropolitana del Circo Massimo. Mentre scendevo dall'Aventino, pensavo e ripensavo senza riuscire ad afferrare un ragionamento sensato. Aspettando il treno della metro, realizzai di essere sempre stato un incomodo anche per Angela. Nascendo, mi ero infilato tra suo padre e sua madre. Ero cresciuto nella sua cameretta e le avevo conteso l'affetto dei genitori. Infine, avevo distrutto la sua famiglia. Che vergogna!

 

Scesi alla fermata successiva della metro e senza ancora aver preso una decisione, m'incamminai sulla Via dei Fori Imperiali. Era agghiacciante quel senso di panico che mi assaliva a tratti come un conato di consapevolezza. Ero solo. Ero un fantasma. Ero il relitto di un naufragio.

Arrivato a Piazza Venezia, costeggiai l'Altare della Patria per andare ad attraversare davanti al capolinea degli autobus. Mi domandai se stessi tornando a casa … non seppi darmi una risposta. I piedi tennero la barra dritta e m'infilai per le viuzze intorno a Torre Margana. Provai sollievo a riconoscere ogni selcio sconnesso di quei vicoli, ricordare al primo sguardo le vetrine polverose degli artigiani, ma non avevo previsto di arrivare al piccolo pertugio sotto il Portico d'Ottavia. Perché Stavo attraversando il borgo ebraico? Me lo domandai temendo la risposta. Mi diressi verso Piazza Cairoli scrutando i volti della gente. Ero passato tante volte per quel quartiere, ma non avevo mai preso in considerazione la possibilità che uno di quegli uomini potesse essere mio padre.

 

Arrivai davanti a casa sfinito dalla stanchezza. La serratura del palazzo e poi quella della porta di casa chiusero fuori il mondo esterno. Non accesi la luce, non ce n'era bisogno, conoscevo ogni centimetro quadrato di quel pavimento, la disposizione dei mobili e persino cosa c'era riposto dentro … era casa mia. Mi sentii le gambe molli, quando mi abbandonai sul divano della sala da pranzo. Che sollievo! Spinsi il pulsante rosso sul telecomando e mi rattristai nel non trovare più il vecchio televisore a valvole dei miei lunghi pomeriggi solitari di bambino.

 

Il ragionamento compulsivo spesso mi surriscalda il cervello mandandolo in corto circuito … in quel momento ero in fase di reset … formattavo di nuovo il sistema in automatico … cancellavo drive obsoleti e ripulivo le memorie intasate da file inutili - telefono … chiamai casa di Toni, la madre disse che era uscito - i ragazzi del Tasso … muretto di Ponte Milvio? Scartati … Lele? PVC, fumo, Brusco? Approvati …

Feci una doccia per togliermi definitivamente la salsedine di dosso … riposi gli slip di Bruno come una reliquia nel cassetto della biancheria pulita … misi su gli abiti di PVC, ma senza capelli lunghi, mi parve anche lui un vecchio cimelio della vita passata. Volevo ricominciare da zero, senza fingere per essere interpretato dagli altri. Alla fine optai per i vestiti che mettevo per andare a scuola: jeans, felpa e Monkler … ma sì, in fondo le scarpe da ginnastica sono le più comode.

 

Uscii da casa nell'ora delle fate, quando le luci della città iniziano a brillare sotto un cielo ancora luminoso. Il momento più bello in cui mamma Roma ti fa una carezza prima del sopraggiungere della notte.

 

Toni mi aveva detto che Lele si teneva lontano dai guai e quindi non si faceva più vedere in piazza a Ponte Milvio. Passai dunque per il centro sportivo, dove ci trovai il tizio che lo rimpiazzava per spingere il fumo. Mi disse che lo avrei trovato alla bisca. Era trascorso quasi un anno da quando c'ero stato l'ultima volta. La puzza di caffè caldo e schiuma di latte mi riportò a quel giorno di gennaio, aveva nevicato e le scuole erano rimaste chiuse. Era stata la prima volta che ci portavo Lele e in così poco tempo, lui ne era diventato la regina.

 

-   Kiss me … Kiss me Licia …

 

Mi corse incontro sulle note della sigla dell'anime che spopolava in quel momento: "Kiss me Licia". Lele, che orami tutti chiamavano "Lella", lo adorava così tanto da essersi tinto i capelli giallo canarino con un ciuffo rosso come Mirko dei Beehive, la band del moroso di Licia. Conciato in quel modo, era ancora più ridicolo del solito, ma in fondo la bellezza è solo uno stereotipo di massa e lo trovai splendido nella sua stravagante deformità.

 

-   Sudditi! Vi presento mio marito …

 

Dopo essersi entusiasmato per la mia approvazione piroettandomi attorno, mi presentò platealmente come suo marito. Nessuno lo prese sul serio, anche perché chissà a quanti altri era toccato il ludibrio generale che scatenava ogni volta quell'annuncio.

 

-   Elton John portaci due prosecchini nel privè … dai andiamo a raccontarci tutto come due amiche del cuore … mi piace!

 

Lele non era proprio una checca, ma adorava fingere di esserlo. A Roma esiste la maschera di Renato Zero che tutti amano e quindi accettano, allo stesso modo in bisca si divertivano con i suoi tormentoni … l'ultimo era esclamare con faccia entusiasta "Mi piace!" oppure sfigurarsi con una mimica terrorizzata ed esclamare al contrario "Non mi piace!". Quando però rimanevamo da soli, tornava a essere il Lele di sempre.

 

-   Me so cagato 'n mano! La percuisa a casa pe' direttissima!Quer iopide de zio s'è fatto parà con la maria piantata dentro la vasca da bagno ... mortacci sua … le chiavi de cioccolata me stava a fa dà, ma stavorta basta, me ne so ito da quella casa de sfigati … Santo Brusco m'ha sarvato, hai capito mo?

 

Il privè di Lella era una stanza segreta cui si accedeva da uno sgabuzzino. C'erano un tavolino rotondo da poker e una scrivania.

 

-   Ma nun te devi scusà, scemo! Ma me vedi, sì! So' passato de grado. Co' sta storia Brusco s'è accorto quanto me do da fa … se fida. E tu dovessi da smettela a trattallo male. Tu nun poi capì quanno te vole bene a te! E qua e de' là, quanno parla de te pare manco ce fossi fio. E faielo sto favore … guarda che ce n'hai solo da guadagnà, e pure tanto, fidate.

 

Quando anche Lele non perse l'occasione d'intascare la riffa sul mio passaggio nella squadra di Brusco, mi ricordai di Carmelo. Bruno mi aveva domandato cosa aveva deciso di fare … nel senso che mamma era stata più brava di me a perorare la sua causa presso Paolo, trovandogli un posto di lavoro nell'amministrazione della sua società. Era un posto di fiducia e Bruno mi aveva fatto un altro terzo grado per capire se Carmelo fosse adatto. Che dovevo fare? Dovevo dirgli la verità, cioè che era un marchettone, ludopatico, cocainomane, nonché malato di narcisismo esibizionista? Dopo quella piazzata nel dopo partita, la voglia di sfancularlo al suo destino era tanta … ma non ci riuscivo. Voleva quel posto perché diceva che partire era il solo modo per salvarsi da quei vizi che lo stavano trascinando in guai sempre più grossi.  

 

-   Oh, santa pupazza! Ma davero la speciale stai a di'? Ecco perché hanno torchiato mamma! Ma perché nun te l'ho detto che papà mio era un bombarolo … nun me ce fa pensà che è meijo. Aoh, ma si sicuro che hai risorto? Nun è che t'hanno seguito. Bada che co' quelli nun se scherza, sa? Te rilasciano pe' scoprì co' chi te la fai … ecco, mo m'hai rimesso l'ansia addosso, mortacci pure tua!

 

Lele era paranoico, ma c'era da capirlo. Gli spiegai come Bruno aveva fatto sparire il mio fascicolo, però sapermi imparentato con un "bronzo" non lo tranquillizzava. Specie perché gli avevo già fatto una testa tanta su quel fratello che mi stava sempre con il fiato sul collo.

 

-   Senti, nun te la prenne a male, ma qua dentro nun te ce voijo più vedè. Famo 'na bella cosa, mo te ne torni a casa che tanto stasera c'è un giro de carte e il movimento se stoppa colla saracinesca. Io passo e ce regolamo, sai come, no?

 

Mi stava finalmente affettando il fumo che ero andato a mendicare, quando Elton John lo interruppe di nuovo. Gli parlò all'orecchio e mi stupì con quanta durezza lo rimproverò.

 

-   Qui comanno io, chiaro? Io decido se e quanno se fanno li favori. So io che poi devo annallo a di' a chi sapemo noi. Quello è 'na testa matta e nun me frega s'è amico de Brusco. Dije che io non do la robba a babbo morto … no, che non lo voijo vede'. Tu sei pagato pe menà, allora mena, levamelo dai coijoni e sbrigate pure …

 

Uscii con Elton John che non vidi picchiare nessuno come aveva ricevuto ordine di fare. Elton John era un gigante buono e lavorava in Bisca da sempre. Ne aveva visti parecchi come Lele darsi arie da boss per poi mordere la polvere, mentre lui era rimasto al suo posto. Mi commosse persino quando mi chiese di autografare la foto della mia squadra di pallanuoto, che aveva fatto incorniciare e appendere dietro il bancone del bar. In quel suo piccolo universo ai margini della luce del sole, bastava comparire su un giornale sportivo locale per farti diventare una celebrità.

 

-   Se rimani, me fai un favore …

 

Non mi andava di tornare a casa e accettai volentieri la compagnia di Elton John. Mi stupii dell'affetto che mi stava dimostrando quell'omaccione timido con la faccia da mastino … e non avevo idea che da lì a poco mi avrebbe salvato la vita.

Al contrario di tutti gli altri, Elton John mi sconsigliò di entrare nella squadra di Brusco, secondo lui dovevo puntare in alto, mentre se m'immischiavo in mezzo a certi giri, finivo come lui che da giovane aveva sprecato l'occasione di diventare un peso massimo del pugilato.

 

-   Chi si rivede!

 

Mi prese un colpo quando vidi Marcello avvicinarsi al banco del bar per discutere sotto voce con Elton John. Era di lui che Lele voleva sbarazzarsi. Aveva un nuovo look da Teddy Boy completo di dolce vita MR B e Brothel Creeper leopardate ai piedi, ma i capelli col ciuffo non se li poteva permettere ormai da un pezzo. Si era rasato completamente e compensava la peluria mancante in testa con due basettoni esagerati. Tanta cura nei dettagli mi suggeriva che non poteva essere farina del suo sacco. Giacomo, lui sì che era un vero fashion-victim e si vantava anche di essere uno stilista, anche se poi non aveva mai esibito alcun titolo che lo provasse.

 

-   Ciò stile, eh!

 

Non si era accorto di me, non mi aveva riconosciuto oppure non voleva rivolgermi neanche un ciao? Meditai di defilarmi appena salutato Elton John; invece, mi pizzicò a guardarlo e mi sorrise subito. Si avvicinò mimando una ridicola camminata da guitto, esclamando ad alta voce "chi si rivede!" e poi salutandomi con i tre bacetti della mala. Era molto diverso dal Marcello incontrato al ritorno del viaggio della rivelazione gay in Thailandia. Quello che avevo davanti era un'evoluzione esasperata del Panari Felice delle scuole medie.

 

-   Tu invece te vesti sempre peggio. No, dai … peggio de come te vestivi non se po'. Elton John te l'ho mai raccontata la prima volta che so' andato a piallo a casa? Me sembrava Paperino! Invece … invece … chi l'avrebbe detto, eh!

 

Si atteggiava troppo e mi sa che anche Elton John se n'era accorto. Che, a suo modo, volesse impressionarmi? Tra una cazzata e l'altra rimaneva in silenzio e mi fissava come se quello che voleva veramente dire gli rimanesse di traverso in gola.

 

-   Te so' venuto a vede', sa? Due volte. L'ultima quando avete stracciato la squadra de Brusco. Avessi dovuto vedello che strigliata ha dato a tutti quanti. Elton John diglie come ha cacciato quello basso … poi l'ha messo a pulì i cessi, a ve'?

 

Non lo sapevo ancora che a causa di quella sconfitta, Brusco aveva liquidato Carmelo … mi dispiaceva.

 

-   Beh, non dici niente? Sto qua a fatte i complimenti da un quarto d'ora!

 

Aveva ragione, ma non sapevo proprio che dire; quindi diedi fiato al primo pensiero e al solito proferii la cosa sbagliata. Gli chiesi come stava Giacomo e che a quanto vedevo s'intendeva ancora di moda.

 

-   Sta bene …

 

In due battute gli avevo rifilato un dritto e un rovescio. Il primo perché dopo tutto quel pavoneggiarsi, gli ricordai che di vestiti ne capiva almeno quanto me, e il secondo perché nominando Giacomo gli ricordai di come lo avevo trattato quando venne a casa mia a fare coming out rimediandoci solo indifferenza.

 

-   Aoh, ma che è stasera? Lo scrocco party? Non mi piace!

 

A togliermi dall'impaccio ci pensò Lele. Sopragiunse con la sua verve, dandoci a entrambi degli scrocconi.

 

-   E tu che ce stai a fa ancora qua? Su va, aria … ce vedemo dopo a casa per il tetta a tetta. E fatte er bidè che a me piaciono profumati.

 

Che figlio di puttana! Mi fece arrossire davanti a Marcello e persino Elton John mi guardò con sdegno. Presi la via della porta a testa bassa senza salutare nessuno. Marcello mi venne dietro e con la sua proverbiale grazia, mi chiese cosa avesse voluto dire Lele?

 

-   Lella è un grandissimo bastardo.

 

Che cosa dovevo dirgli? Non volevo pensasse che me la intendessi con Lele. Gli raccontai una mezza verità. La parte vera era che con la marchetta mi ci pagavo il fumo, la bugia era che fosse per vecchi buffi.

 

-   Quanto gli devi dà?

 

Che strazio quella situazione! Ora che non faceva più il guitto, avevo davanti il Marcello delle nostre domenica mattina. Non volevo mentirgli ancora e lo implorai di non insistere perché io ero molto peggio di Lele.

 

-   Aoh, aspe' …

 

Mi richiamò … mi voltai … gli chiesi che voleva ancora … lui rispose "niente".

 

-   Aoh …

 

Lo fece di nuovo … non era proprio cambiato! Quel vizio di chiamarmi dieci volte prima di andarmene gli era rimasto e poi … "niente".

 

-   Comunque!

 

Ancora!

 

-   Volevo solo ditte … che con Giacomo semo soci e basta.

 

Gli sorrisi e finalmente mi lasciò andare.

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Ti vedo nello specchio! Mi guardi stupito da un riverbero di passato che ribalza sull'iride … Buongiorno! Numero periodico lungo la parabola spazio temporale. Addio volto del futuro che posso guardare solo nel riflesso di una memoria ormai trascorsa.

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Erano accadute così tante cose in brevissimo tempo che mi pareva fossero trascorsi mesi e non giorni da quel tremendo pomeriggio dell'arresto.

Tornato a casa, composi tutti i numeri di telefono che mi venivano in mente per essere riconosciuto da qualcuno … non rispose nessuno e temetti seriamente di essere diventato un fantasma. Rollai svelto una canna, ma l'hascisc non è una buona medicina contro le paranoie. Al contrario, ti fa diventare pesante anche prendere la decisione di andare a pisciare. Non ci riuscii … dico ad andare in bagno. Mi parve di veder far capolino da dietro l'angolo in fondo al corridoio, la testolina di uno di Loro che mi sorrideva. Lo so che era una cazzata e tutto … ma non me la sentii di svelare l'inganno e pisciai nel lavandino della cucina.

 

Accesi le luci in tutta casa per cancellare ogni ombra molesta. Alzai il volume del televisore nel tentativo di riempire lo spazio vuoto dentro quelle stanze. Non riuscivo a trovare pace. Se rimanevo un altro minuto da solo, mi sarebbe venuto un attacco di panico. Decisi di scendere a fare una passeggiata. Camminare mi ha sempre aiutato a schiarire le idee. Quella volta non funzionò, ma almeno stare tra la gente mi fece sentire ancora di questo mondo. Al ritorno m'infilai nella trattoria del Sor Carlo, quella dove per anni ero andato a pranzo dopo la messa domenicale. Quando c'era anche Primo, ci sedevamo a un tavolo per quattro, altrimenti ci stringevamo in uno da due posti.

 

-   A Carle' ma o stai a sentì? E' venuto a fa il turista … ma vatte a sede' che mo ce penso io.

 

Chiesi alla Signora Gina se facevano il menù turistico anche di sera e lei se la rise della grossa, dicendomi di andare a sedere con lo stesso piglio se mi stesse mandando a quel paese. Mi fecero cucinare la pasta "Cacio e pepe" perché si ricordavano che era la mia preferita. La Signora Gina era una donnina piccola di statura con un faccione largo dalla pelle spessa e callosa, ma aveva due occhi limpidi come quelli di una bambina.

 

-   Ma che glie hai messo l'acqua!

 

Le fui grato di tenermi compagnia perché penso che non ci sia niente di più triste del mangiare da solo in una trattoria romana. La Signora Gina si sedette di sghimbescio sulla sedia davanti alla mia e quando arrivò anche il Sor Carlo per salutarmi, quello se la prese con la moglie perché mi aveva fatto mettere l'acqua nella piccola brocca del vino. "Questa è carne che cresce" disse "ce vole er vino rosso che fa buon sangue". Furono così affettuosi con me che non volevo rischiare di offenderli … e accettai pure il vino rosso, anche se mi fa stare malissimo di stomaco.

 

-   Mamma tua s'è risposata, so contenta pe' lei … Evelina m'ha detto che s'è trasferita sull'Aventino, a ve'?

 

Mi piaceva che stesse lì con me, però tutte quelle sue domande mi costringevano a riordinare un quadro famigliare molto doloroso da guardare attraverso lo sguardo altrui.

 

-   A pupe', nun te sta a crede … appena t'ho visto entra' che t'ho capito, e no?

 

Mamma ci diceva sempre di non parlare con la Signora Gina perché era un'impicciona e godeva nello sparlarci dietro.

 

-   Ma ch'è successo?

 

Dovevo pur sfogarmi con qualcuno! La Signora Gina era brava a farti le domande giuste e una dopo l'altra le risposte mi fecero dire quello che non volevo ammettere. Mia madre se n'era andata lasciandomi e importava poco con chi, perché ovunque stessi era solo con lei che potevo essere a casa.

 

-   Ce sta che lo dico sempre io "nun te fida' della gente de chiesa" so quelli che c'hanno li peccati più grossi da fasse perdona'.

 

Sarà stata la canna fumata prima di uscire o il quartino di vino, magari successe solo perché ne avevo bisogno, ma esplosi in un pianto dirotto come "un abbacchietto a Natale". Per fortuna ebbi l'accortezza di non aggiungere altro a quanto già mi ero fatto sfuggire.

 

-   Quella da piccoletto te stava ammazzà …

 

Le mie lacrime infervorarono gli animi e mentre la Signora Gina suonava la tromba in un fazzoletto, il marito dava enfasi alle chiacchiere del rione che sempre si erano fatte sul mio conto.

 

-   E azzittate! Che parli sempre a sproposito.

 

La Signora Gina rintuzzò subito il marito che, piccato, si difese rimarcando quanto fosse nota la verità sul mio conto. Pur conoscendo tutte le chiacchiere di quartiere che mi riguardavano, sentirmele ripresentare in quel momento mi fece proprio tanto male. Mi avvidi della scelleratezza di quello sfogo e cercai di pagare per andarmene … ma non vollero i miei soldi.

 

-   Vecce a trova' piuttosto che qua un piatto de pasta pe' te ce sta sempre …

 

Sulla via del ritorno sentii nello stomaco tutta la pesantezza di quello spezzatino di frattaglie fatte con un passato difficile da digerire. Sbarrata la porta di casa, inciampai nel letto e un sonno salvifico mi trasse via da altre pericolose considerazioni.

 

-   Me credevo che non ce stavi!

 

Chissà se quella sera non avessi aperto a Lele, come sarebbe cambiato il corso degli eventi … ma alla fine il ronzio del citofono mi svegliò e dopo aver sbirciato dalle imposte della sala da pranzo, gli aprii il portone. Entrò in casa riempiendola di chiacchiere cui non riuscivo a stare dietro. Aveva portato con sé della roba da mangiare e s'infilò in cucina per preparare uno "spaghetto di mezzanotte". Gli dissi che avevo già cenato, ma non mi volle credere e apparecchiò per due.

 

-   Com'è che conosci a quer culo a trombetta?

 

Mentre masticava a bocca aperta, facendo schioccare la lingua contro il palato, mi chiese come avevo conosciuto Marcello. Me ne parlò come un brutto ceffo da cui guardarsi e già questo appariva piuttosto strano detto da lui. Tuttavia, la cosa che più mi colpì fu l'appellativo con cui lo sfigurò: culo a trombetta. Marcello era "una testa matta" e chi non aveva il coraggio di affrontarlo, usava la sua "difformità" impunemente esibita, l'omosessualità, per sfregiarne l'immagine spavalda.

 

-   Damme retta che me so accorto de come te stava a guarda' quer frocione …

 

Cercai di rimanere sul vago e non gli raccontai nulla di quanto c'era stato tra noi. Gli dissi solamente che eravamo amici dai tempi della scuola. Mi stava talmente infastidendo col suo tono pettegolo, che alla fine gli dissi sul grugno di farsi un bel pacco di cazzi suoi.

 

-   … e mo ch'è sta storia delli sordi?

 

Volevo farlo sparire. Aveva ragione Bruno a sostenere che quelli come Lele andavano tenuti lontano perché c'infettano del cinismo cui ricorrono per perpetrare i loro crimini. Gli restituii la fettina di hascisc, promettendo che gli avrei pagato l'ammanco appena sarei tornato da mia sorella, dove tenevo il gruzzolo. Lele mi rivolse uno sguardo truce come se gli avessi detto una bestemmia.

 

-   Nun me trattà così … nun me lo merito … sapessi che sto a passà!

 

Lele cambiò subito tono e piagnucolò tutti i suoi guai, finendo col dire che, se gli avessi voltato le spalle anch'io, sarebbe rimasto solo come un cane.

 

-   Famme sto favore … parlace te … tu sai impicciatte co' quei discorsi strambi che fa …

 

Lele mi raccontò quanto si fosse deteriorata la situazione a casa sua. Con lo zio agli arresti domiciliari, i "bronzi" si accorsero che la madre si prostituiva e da allora non mancavano mai un giro di ronda. Si approfittavano della situazione e, oltre a non pagare, con la loro presenza avevano allontanato i clienti abituali.

 

-   E' dovuta annà pe' strada … tu a conosci, ce lo sai che nun è 'na battona ... quella è tutta matta, se crede ancora de sta all'anni settanta coi fii de' fiori, li comunisti, all'amore libero, ma oggi nun è più cosa! Nullo vole capì che senza pappa nun ce poi annà pe' strada, se no te taiano!

 

Certo era difficile capire la bontà delle preoccupazioni di Lele perché in realtà non mi stava chiedendo di convincere la madre a cercarsi un lavoro normale, bensì di farle accettare l'offerta di un socio di Brusco per un giro di prostituzione d'alto bordo.

 

-   Dovessi vedelle a que zoccole colli tacchi a spillo, tutte imbrilloccate, co' certi vestiti da fatte cascà l'occhi pe' tera …

 

Non lo so perché accettai di aiutarlo, forse mi ero solo stancato di stare a sentire l'infima meschinità dei suoi ragionamenti.

 

-   Vatte a mette comodo che c'ho pure 'na sorpresa …

 

Doveva solo spurgarmi la sborra stantia dai coglioni e m'infastidiva molto tutta la messa in scena che stava mettendo in piedi. Prima la cenetta con tanto di candela puzzolente per centro tavola e poi lo sguardo ammiccante quando mi disse di andarlo ad aspettare sul divano. Spense la luce e diede fuoco ad altre candele puzzolenti. Tirò fuori dal suo zainetto "pink" una bottiglia di champagne e due bicchieri esagerati da degustazione. Che si era messo in testa?

 

-   Sei sicuro de nun volella armeno provà? E' ma-ndo-rlata, baby!

 

Aveva acchitato anche delle strisce di coca su uno specchietto ovale e porse a me il pippotto d'argento per l'onore della prima tirata. Però a me la Coca-ina fa male quanto la Coca Cola e la caffeina … o come quel dannato vino rosso che già mi stava mettendo in subbuglio. Lo sapevo e lo sapeva anche lui, però iniziò a dire che quella era speciale e che finalmente avrei provato anch'io l'ebbrezza di annusare la figa della dama bianca delle americhe …

 

-   Sexy!

 

Lele disse che ero molto sexy quando m'incipriavo il naso … lui no. Io feci due tirate e il resto se lo spolverò lui, fino ad andare a caccia dell'ultimo granellino sul fondo dello specchio. Rideva sguaiatamente aprendo la bocca enorme senza labbra, col naso per aria dalle nari cavernose mentre i suoi sguardi ammiccanti diventavano grotteschi.

 

-   Iu are mai men.

 

Doveva essere da parecchio che non gli capitava di ciucciare un cazzo, non mi spiegavo altrimenti tutta quell'enfasi. Tolti i pantaloni, mi annusò sinuosamente le palle e s'incazzò quando gli chiesi di rollare una canna.

 

-   A te dovevano chiamatte Scechspir … e fatte sta canna, ma sbrigate perché so' troppo Hot.

 

Mi venne il vomito quando prese a masturbarsi guardandomi rollare. Stava fuori di testa e non so neanche se scherzasse quando tirava fuori la lingua nell'intento di arraparmi.

 

-   Te voijo lecca la figa …

 

La canna non riuscii a finirmela perché di punto in bianco, mi tirò su per le cosce quasi ribaltandomi, ringhiando di volermi leccare la figa. Dà una sensazione strana … una lingua che ti raspa il buco del culo. Lo lasciai fare e non fu sgradevole, almeno non quanto la posizione in cui mi aveva costretto.

 

-   Godi zoccola maledetta!

 

Sentii il sapore della cocaina scivolarmi dal naso giù per la gola, quando mi ritrovai a cosce aperte con il suo dito da ET premuto contro la ghiandola prostatica. Gemevo e lui per questo mi riempì d'improperi, poi finalmente si cacciò il cazzo in gola e successe una roba strana … mi addormentai. Probabile che fu colpa della cocaina, a me fa quell'effetto.

 

-   Kiss me. Kiss me Licia …

 

Mi risvegliai al mattino imbrattato di non so cosa, con la gola fino alla trachea praticamente insensibile e un dolore lancinante al fianco sinistro.

 

-   Devo andare a scuola.

 

Lui era un po' meno brutto alla luce del giorno, però con quelle mutande sgonfie sul culo rinsecchito era lo stesso inguardabile. Andai in bagno e dopo una rapida doccia, riuscii a evitarlo infilandomi in camera. Ritrovai gli slip di Bruno nel cassetto ... li misi per coprire l'impronta di vergogna che quella notte aveva lasciato sul mio sesso. Poi dissi a Lele che non potevo restare con lui perché avevo promesso al mio fratello bronzo che sarei andato a scuola.

 

-   Nun te preoccupà pe' quello che funzioni bene pure quanno dormi … Sexy!

 

Gli chiesi anche scusa per essermi addormentato … insomma, poteva anche essersi offeso; invece no. Era ancora sotto l'effetto della cocaina e parlava svelto, agitando le lunghe dita come fossero delle antenne di qualche crostaceo marino. Gli dissi di chiudere la porta quando usciva e di mettere le chiavi nella buca delle lettere, quindi scappai via.

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

C'è un brusio di fondo in stazione fatto di chiacchiere e annunci di ritardi, di scuse dell'azienda e di stare attenti a non superare la linea gialla dell'assennatezza . Il cielo è coperto da uno strato di nubi opaco come il coperchio di una pentola a pressione, con noi ridotti a patate lesse che trasudano il proprio amido appiccicaticcio.

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Al fine di ovviare il problema di trascinarmi dietro quintali di carta, fotocopiavo i capitoli dei libri man mano che dovevo studiarli e poi li pinzavo in un rilegatore unico, separando le materie con delle schede colorate, di quelle che negli uffici si usano per rubricare i documenti. La stessa cosa la facevo per gli appunti e i compiti a casa. In questo modo potevo agevolmente muovermi portando tutto quanto serviva per studiare. Era anche un modo eccellente per ottimizzare i tempi morti degli spostamenti.

 

-   … zitti!

 

Quel lunedì avevo poco da studiare, specie perché avevo messo in fila quattro giorni di assenza. Avrei dovuto fornire un certificato medico insieme alla giustificazione ordinaria. Io avevo due libretti per le giustificazioni, uno con la firma di mia madre e un altro con quella di Primo. Il secondo lo gestiva Angela, che sapeva imitare perfettamente la firma di suo padre. Lo sapevano tutti come stavano le cose e sia Primo, sia mia madre, solevano dirmi "chiedilo ad Angela" quando c'era da apporre una firma per qualsiasi incombenza scolastica. Mia sorella usava questo suo piccolo potere per indispettire mamma e faceva storie ogni volta che doveva firmare per lei. Siccome dal suo punto di vista, di quei quattro giorni di assenza era responsabile Bruno, toccava a mia madre firmare la giustifica e occuparsi del certificato medico.

 

-   Fumamo uno alla volta o qua dentro famo 'na chiusa …

 

Arrivai alla Stazione ferroviaria di Velletri quando era ormai troppo tardi per entrare alla prima ora di lezione. Per entrare alla seconda ora si passava per l'ufficio del vicepreside, ma siccome quello era un prof come tutti gli altri, in quel momento era in classe a svolgere la sua lezione, così era concesso a tutti di entrare, lasciando agli insegnanti l'incombenza si segnalare sul registro delle presenze il ritardo. Quest'aria grigia di responsabilità mal digerita dai docenti, permetteva ai segaioli seriali di evitare la consegna della giustificazione scritta.

 

-   No, paglia! Quello ce sente pure da la giù

 

Quella mattina stavo per mancare anche la campanella della seconda ora! Non ebbi il tempo di ponderare il problema di avere due ore di chimica all'inizio della giornata. Eppure conoscevo bene il rischio e soprattutto l'ansia di dover aspettare nascosto nei bagni anche la fine della seconda ora di lezione. Appena varcata la soglia della scuola, imboccai la porta dei bagni del pian terreno. Quello era il primo passo per chi doveva nascondersi fino alla prossima campanella, altrimenti, salire su per le scale significava imbattersi nei professori che uscivano dalle aule. A quel punto c'era da individuare il momento propizio per sgattaiolare fino ai bagni del proprio corridoio. Era il passaggio più delicato perché per i bidelli si trattava di una specie di caccia al segaiolo. Più gente era nascosta nei bagni del pian terreno, maggiori erano le possibilità di essere "tanati".

 

-   Ma che t'ho fatto, aoh!

 

Ero agitato … molto agitato. Nel bagno c'incontrai la combriccola di Astolfi. Lui era simpatico ma gli altri cinque erano proprio dei dementi. Non la piantavano di ridere e scherzare e non so come qualcuno non si fosse già accorto di noi. Rimasi dietro la porta per tutto il tempo ad aspettare le vibrazioni giuste per tentare di raggiungere il bagno del mio corridoio.

Poi Astolfi mi ciccò la sigaretta dentro il colletto della camicia … in realtà non si trattava di un gesto denigratorio. Farti sobbalzare al calore della brace aveva lo scopo di chiamarti dentro la mischia. Quando mi voltai di scatto risero tutti, ma solo uno aveva la sigaretta in mano. Sollevai Astolfi a un palmo da terra e lo scaraventai con una tale furia contro la porta di un gabinetto, da far venire su un boato che rimbombò come un colpo di cannone per tutto il piano.

 

-   Via! Via! Via!

 

Come dei topi appena stanati, si scatenò un fuggi fuggi generale alla ricerca di un riparo dalla doppietta dei bidelli. Io scelsi di nascondermi nell'ombra sotto la candela e mi chiusi semplicemente in un gabinetto dello stesso bagno dov'ero. Sentivo i piagnucolii delle prede portate al lazzo nelle gabbie della vicepresidenza e pregavo, pregavo e pregavo ancora per un'immeritata salvezza. Dopo i primi minuti di caos, calò un silenzio dagli scricchiolii inquietanti. Cercai riparo dall'ansia, che rendeva il tempo vischioso come una colla, nell'ultima sezione del mio quaderno degli appunti, quella segnalata con la dicitura: "Note varie". Sulle prime avevo tentato di farla diventare un vero e proprio diario, ma non avevo la costanza di aggiornarlo spesso; così era finito per diventare il mio blocco degli schizzi, dove ritraevo con le parole degli umori estemporanei.

 

-   Chiedilo a quelli da cui sei stato fino a ieri …

 

Approfittai del cambio dell'ora per mischiarmi alla piccola rivoluzione che ogni volta accompagnava la fine delle lezioni. Varcai in fretta la prima dogana, cioè la parete a vetro del corridoio presidiata dalla scrivania del bidello. Ostentando naturalezza, salutai i professori che scendevano le scale dal primo piano … incontrai anche la prof di chimica e sulle prime parve non ricordare chi fossi, però … dopo, tornò sui suoi passi pizzicandomi ad apporre una "R" sul registro delle presenze. Fregato!

 

-   … e non ti credere che finita la vacanza in barca, te ne torni dalla schiavetta …

 

Ero recidivo e per quelli come me esisteva una prassi collaudata. In un certo senso era più facile perché ti beccavi d'ufficio il massimo delle pene disciplinari e poi ti rilasciavano.  Quel giorno, però, oltre ad essere l'unico che avrebbe dovuto portare un certificato medico insieme alla giustificazione, c'era anche il fatto che da parecchio non infilavo una settimana di presenze consecutive. Ebbi dunque l'onore di conferire con il preside in persona.

 

-   Stavolta i tuoi casini se li risolvono loro …

 

Ci si abitua a tutto e passare da un interrogatorio della DIGOS al colloquio con il preside della mia scuola era persino rassicurante. La mia indolenza indispettì a tal punto il preside, da fargli minacciare la pena esemplare della sospensione. A tale scopo riunì a convegno i miei prof e intanto fui messo ad aspettare il verdetto nella stanzetta della vicepresidenza, con tanto di piantone alla porta.

 

-   Tu non sei più mio fratello …

 

Per il preside doveva essere stata una cocente sconfitta quella di riscontrare un rendimento scolastico tutto sommato buono. Avevo qualche insufficienza, ma niente d'irrecuperabile e tra l'altro controbilanciata da alcuni voti eccellenti. I prof si dovevano esseri opposti a un provvedimento disciplinare troppo severo perché dopo la consultazione fui affidato definitivamente al vicepreside. Lui telefonò a casa per chiedere come stavano davvero le cose riguardo al certificato medico. Non so cosa si dissero con mia sorella, ricordo però il suo sguardo allibito quando mi passò la cornetta del telefono.

 

-   Tu non sei più mio fratello …

 

Angela era inferocita e per lei quello fu solo il pretesto per dirmi quanto era stata costretta ad abbozzare negli ultimi mesi. Mi rinfacciò di nuovo di averla tradita andando a fare da "paggetto" al matrimonio di mamma. Disse che era stanca di vedere come facevo i miei porci comodi spassandomela con "quei bastardi", per poi tornare da lei a risolvere i casini in cui mi mettevano. Riuscì a graffiare la mia maschera d'indolenza, solo quando mi ripudiò come fratello. Forse lo fece per costringermi a dire qualcosa, ma tutte le parole del mondo parevano condannarmi. Le avrei voluto chiedere scusa per aver distrutto la sua famiglia venendo al mondo e che le ero comunque grato per essersi occupata di me. Rimasi, invece, zitto e passai di nuovo la cornetta al vicepreside.

 

-   Quarantuno …

 

Angela diede al nemico il telefono dello "stronzo", cioè Bruno. Non avrei voluto che lo facesse e mentre sentivo il vicepreside scandire i numeri mentre li annotava, riuscii persino a odiarla un po'. Non volevo piangere … le persone deboli non sanno badare a se stesse ed io non volevo dipendere da nessuno. Nascosi lo sguardo in un anfratto della siepe che si vedeva dalla finestra dell'ufficio, lo fissai intensamente cercando d'infilarci dentro tutta la paura di quegli attimi. Al vicepreside rispose Adele che aveva tutte le ragioni del mondo a non prendersi l'onere di farmi avere quel dannatissimo certificato medico … non voleva che Bruno si occupasse di me … voleva allontanarlo da me … come darle torto?

 

-   Dà questo al medico e se non lo convince, digli di chiamarmi …

 

Il vicepreside scrisse quattro righe su un foglio di carta intestata e mi disse di portarlo al mio medico di famiglia. Mentre mi spiegava cosa ci avrei dovuto fare, lessi come gli chiedeva in via eccezionale di certificarmi quei giorni di assenza per evitare "al ragazzo" un ulteriore "aggravio" delle già difficili condizioni famigliari. Risposi con un grazie come da buona educazione, ma appena aprii bocca ci scappò fuori tutto lo schifo accumulato in quegli ultimi giorni. Cercai di tamponare gli occhi con le mani, ma la vergogna scivolava liquida da ogni orifizio … ma perché non scomparivo?

 

-   Ti va di venire a fare qualche esercizio alla lavagna?

 

Forse anche il prof di Tecnologia aveva bevuto vino rosso perché gli venne un cagotto peggiore del mio e a sostituirlo fu proprio la prof di chimica. Nell'ora di supplenza diede la possibilità di svolgere gli esercizi che aveva assegnato per compito a casa. In classe si era creata una di quelle situazioni molto free che meno mi sono congeniali. Un sonno ispirato forse dal desiderio di morire, mi fece crollare sul banco di scuola. A svegliarmi fu la prof, ma non per rimproverarmi. Fu molto gentile, almeno per quanto le riusciva esserlo. Mi spiegò la lezione che avevo perso con degli esercizi alla lavagna. A chimica avevo sempre preso buoni voti senza sforzarmi più di tanto. Trovavo affascinante come quelle lettere potessero combinarsi con metrica matematica, originando nuove catene di una genesi universale dalla poetica esplosiva.

 

-   Mi raccomando …

 

Ci divertimmo. Far sgommare le rotelle del cervello mi eccita e coinvolsi la prof nell'entusiasmo con cui mi nutrivo voracemente del suo sapere. Alla fine si sentì in dovere d'incoraggiarmi a non lasciare che i problemi famigliari finissero per "rovinarmi". Era stato tutto bello fino a quel momento … perché aveva dovuto sporcare anche quella piccola parentesi in cui ero riuscito a sentirmi bene? Non volevo essere trattato con commiserazione. Odiavo quello sguardo negli occhi delle persone … mi sentivo come se al centro della faccia mi crescesse un naso in più o al posto delle orecchie mi spuntassero un paio di corna. 

 

Fine Parte Seconda

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Silverselfer

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Terza Parte

 

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Alla fine di una giornata, dopo ore trascorse sui treni, autobus e sottopassaggi affollati, incespicando nell'incertezza di chi rallenta, dopo ore di strofinio coatto con individui più o meno puzzolenti … si accumula sulla pelle una sorta di elettricità statica che ci rende particolarmente indisponenti … fiere prigioniere della propria routine … individui in fuga da se stessi.

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-   Mbe? Nun sei contento che t'ho aspettato?

 

Se poi ci fossi tornato da Angela, lo sapevo che non mi avrebbe lasciato fuori dalla porta, ma non mi andava proprio di ascoltare per l'ennesima volta tutte le ragioni che il mondo aveva per rifiutarmi. Presi il treno e me ne tornai a Roma. Mi recai al consultorio, dove chiesi dello psicologo che mi seguiva. Sapevo che non c'era, ma con quel pezzo di carta del vicepreside potevo spuntare una telefonata al suo studio. Filò tutto liscio e autorizzò un suo collega a firmarmi un certificato medico. Almeno quel problema lo avevo risolto.

 

-   Nun te so mancato armeno 'n pochetto? Tu a me tanto … tanto … tanto …

 

Le chiavi di casa non le trovai nella buca delle lettere e sulle prime pensai che quello scemo di Lele avesse chiuso la porta dimenticandosele nella toppa interna. Ebbi, invece, la brutta sorpresa di trovarlo ancora in casa. La musica si sentiva fin dalle scale e dovetti attaccarmi al campanello per farmi aprire. Era tutto sudato e puzzava di cane bagnato perché stava ballando. Mi dette un fastidio del demonio trovare i dischi sparsi per la cameretta. Come si era permesso di toccare le mie cose! Si era persino provato i miei vestiti e aveva sporcato tutto con il suo disgustoso disordine.

 

-   Eppure me pare che sta notte t'è piaciuto tanto … tanto … tanto …

 

Lele stava talmente fatto che le pupille gli erano diventate due capocchie di spillo. Voleva scopare, ma non era per quello che desideravo ardentemente ucciderlo. Era già successo che gli pagassi il fumo con una pompa, allora perché quella volta si aspettava di più? M'infastidivano tutti quei suoi atteggiamenti da fidanzatina … per giunta anche gelosa.

 

-   T'ha chiamato er signorino "c'ho er culo stretto" … gl'ho detto de cambià aria perché oggi sei solo mio … Sexy!

 

No, mi ero sicuramente perso qualche passaggio di quel film. Lele si era permesso di rispondere anche al telefono e chissà cosa era stato capace di dire a Toni! Gli chiesi di smammare e di rifarsi vivo quando aveva ricollegato il cervello alla bocca.

 

-   'N altra vorta sola … ho fame di te, stallone …

 

No, gli avevo consesso anche troppo per quella fetta di hashish quasi trasparente …

 

-   Ma lo sai quanni marchettoni me ce pagavo colli sordi c'ho speso pe' te stanotte?

 

Lele si stupì che per me quella era stata come tutte le altre volte.

 

-   E mo me so' proprio rotto li coijoni! Quanno c'avete bisogno venite tutti a piagne e poi? Quesso me meritassi? Eh, certo! Tanto Lella fa le pompe a tutta Roma, no? Ma che ve credete che nun ce l'ho 'n core pure io? Che c'è? Te faccio schifo? Nun so all'altezza de sua maestà sto cazzo?

 

Credeva di piacermi non perché gli permettevo di succhiarmelo, ma per il fatto che gli consentivo di frequentarmi. Gli altri lo trattavano per quello che era - un meschino opportunista che pianificava di diventare il pappa di sua madre.

 

-   Oddio, li bronzi!

 

Il ronzio del citofono interruppe quel delirio che si trasformò automaticamente nella peggiore delle sue paranoie: I bronzi. Quella volta però non si sbagliava. Corse alle persiane della sala da pranzo e dopo aver scorto la macchina davanti al portone, riconobbe a naso che si trattava della temutissima "speciale".

 

-   Maledetto a te e a quanno t'ho conosciuto!

 

Lele sclerò di brutto. Corse in bagno a buttare tutte le dosi che aveva preparato durante la mattinata trascorsa ad aspettare il mio rientro. Poi cacciò nello zaino il bilancino e quant'altro aveva apparecchiato sul tavolo della cucina e quasi svenne perché in quello stesso istante suonò il campanello della porta …

 

-   Porco Disse! Ando' scappo mo?

 

Gli indicai la porta finestra della cucina. Fin dai tempi quando Nando aggirava il controllo di mamma per venire a giocare con me, quella era diventata l'uscita di servizio di casa. Il terrazzino non era molto alto e bastava fare un piccolo balzo nel vuoto per arrivare sul tetto dei garage che davano nel vicolo.

 

-   Bambinello dell'ara cieli aiutame tu …

 

Quante storie per un saltino! Una volta dall'altra parte gli spiegai che il vicolo saliva lungo il muro di Palazzo Orsini, quindi se soffriva veramente di vertigini, gli sarebbe convenuto saltare nel lato più distante da casa, dove il dislivello stradale era solo di un paio di metri.

 

-   E tu nun scappi? Bada che te torchiano! Annamo che so io 'ndo nasconnese … annamo …

 

Lele non aveva capito che quello che stava sbattendo i pugni sulla porta di casa era Bruno. Quando afferrò che non avevo alcuna intenzione di seguirlo, corse via in quel suo modo buffo di saltare sui passi facendo sobbalzare il cespuglio di capelli che portava in testa.

 

-   E' qui con te, dov'è?

 

Non feci neanche in tempo ad abbassare la maniglia del portone, che Bruno me lo spinse contro con tanto di pistola spianata! Lele era tutto il giorno che rispondeva al telefono e quando sfanculò Angela, che voleva sapere dov'ero e chi era lui, questa chiamò Adele che a sua volta allarmò Bruno. Poteva andare peggio di così? Sì …

 

-   Sta scappando dal vicolo laterale …

 

Non ci voleva certo una cima per capire da dove Lele era scappato, visto che la portafinestra della cucina era ancora aperta. Bruno comunicò alla ricetrasmittente la via di fuga, ma la risposta fu negativa. Lele si era già dileguato e almeno questo era stato capace di farlo bene.

 

-   Cristo di Dio!

 

Lele per saltare dal terrazzino aveva posato in terra il suo voluminoso zaino e quando si trovò dall'altra parte, si perse in chiacchiere per convincermi a seguirlo, col risultato di dimenticarselo. Il suo "Pink" di foggia etnica con tutti i gadget del mondo appesi era quanto di meno mi potesse somigliare. Bruno se ne accorse subito e quando lo vuotò sul tavolo della cucina, stavo seriamente per svenire. Di droga non ce n'era, ma tutto il resto sì. Compreso un cucchiaio col manico piegato a U, di quelli che usano i tossici e, per togliere ogni ombra di dubbio, c'era anche uno spadino usato.

 

-   Zitto! Le braccia … avanti.

 

All'epoca si era in piena paranoia AIDS e la gente ci faceva le rapine a mano armata brandendo siringhe sporche di sangue infetto. A Bruno venne un accidenti quando si ritrovò in mano quella di Lele. Cercai di ridimensionare l'enormità che aveva assunto l'intera faccenda, ma lui non sentì ragioni e mi tirò su le maniche della felpa in cerca di eventuali buchi sulla pelle.

 

-   Grazie ... discrezione, mi raccomando … ora me la vedo io.

 

Bruno e il collega perquisirono casa, compreso me. Nella tazza del cesso galleggiava ancora qualche dose di coca confezionata in palline di nailon. Raccontai che quello era un ragazzo che avevo ospitato in cambio dell'hashish che mi avevano trovato addosso. Dissi che lo avevo conosciuto dalle parti del gasometro, ma che veniva da fuori città, forse dal nord perché mi pareva avesse un accento bergamasco … in sostanza descrissi il Brusa.

 

-   Rivestiti …

 

Avevo cercato di ricostruire i loro sospetti in quella storia, però Bruno non se la bevve. Dopo aver confabulato con il collega sulla porta di casa, tornò indietro, si sedette sulla poltrona e mi disse che potevo rivestirmi. Se ne stava lì a fissarmi e non disse nulla fino a quando non fui io a chiedergli cosa aveva intenzione di fare.

 

-   …

 

Lui agitò le braccia, si prese la testa tra le mani … poi m'indicò cercando di acchiappare un pensiero e alla fine non disse nulla. Mi sarei preso a schiaffi da solo. Avevo bisogno di un contatto fisico … un piccolo consenso. M'inginocchiai davanti alla poltrona dov'era seduto e lo abbracciai in vita.

 

«Die liebe unserer vorfahren in der liebkosung der sonne, die gießt»

 

-   Che significa?

 

Lotte era la persona più sola che avevo conosciuto. Quando da ragazzino compravo un libro alla bancarella dell'usato in Piazza Cairoli, mi sedevo su una panchina e ne leggevo le prime cinquanta pagine, se non mi piaceva, lo riportavo indietro e il pakistano me lo cambiava con un altro. Fu così che notai la bellissima Lotte.

Lotte era vecchia ma non aveva rughe e la sua pelle era chiara come quella di una perla; anche d'estate indossava sempre un cappotto grigio come i suoi capelli. M'incuriosì perché scriveva ininterrottamente e un giorno sbirciai uno dei suoi fogli. Scriveva in tedesco e non ci capii niente, però rimasi affascinato dalla bella calligrafia. Il foglio bianco era senza righe eppure le parole si tenevano perfettamente in equilibrio su di un filo invisibile. "E' bello!" Le dissi, quando mi sorprese curiosare. Lei mi guardò o forse no, perché non disse nulla e sul suo volto non si animò alcuna espressione. Come il mondo pareva non avvedersi di quella signora grassottella dai piedi gonfi in scarpette minuscole mentre si trascinava con le sue buste inseguendo il sole, allo stesso modo Lotte si era dimenticata del mondo e la sua vita erano diventati quei fogli bianchi che man mano si vergavano di giorni apparentemente intensi. Io ruppi quell'incantesimo accorgendomi di lei. La osservavo appisolarsi al sole e mi pareva quasi iniziasse a luccicare d'argento.

Quando l'avanzare della stagione portò via il sole dalla piazza, anche Lotte scomparve, ricomparendo l'anno successivo. Ero così felice di rivederla che trovai il coraggio di andarmi a sedere sulla sua panchina e le diedi il buongiorno. Il suo cappotto era sporco e i capelli parevano più unti, anche se ancora ben pettinati. Non mi rispose, però sollevò lo sguardo dal foglio e parve accorgersi di me. Le chiesi come si chiamava. Lei ci pensò un attimo e poi me lo disse senza aggiungere altro. Non le interessava chi fossi, però quando le domandai se le piaceva stare al sole, prese un foglio pulito e ci scrisse quella frase che poi mi regalò. Rividi saltuariamente Lotte … l'ultima volta che la incontrai stava trascinando una vecchia poltrona in un vicolo dietro Campo dei Fiori, la aiutai a sistemarla al sole e lei, senza riconoscermi, ci si appisolò … Il ricordo della sua solitudine mi ha sempre spaventato e in quel suo dono confido ogni volta la speranza di poter trovare una persona in grado di comprenderne il senso.

 

-   Che significa?

 

Nella carezza del sole c'è l'affetto di chi ci ha voluto bene.

 

-   Non posso assumermi la responsabilità di tacere …

 

Era inutile cercare di spiegare qualcosa che neanche io capivo com'era potuta accadere.

 

-   Lo vedi che oramai la tua vita è fuori controllo!

 

Bruno si arrendeva ed era intenzionato a scaricarmi. Voleva dire tutto al padre perché lui avrebbe saputo come riprendere in mano le redini della mia vita.

 

-   Che vuol dire questo?

 

Suo padre avrebbe risolto il mio problema allo stesso modo di come aveva demandato l'educazione dei suoi figli ai preti.

 

-   … mi stai ricattando?

 

Io in collegio non mi ci sarei fatto mettere.

 

-   Oddio … non ci posso credere!

 

Chiesi a Bruno fino a che punto sarebbe stato disposto a raccontare tutto al padre … perché era certo comodo e persino edificante indicare solo i miei errori.

 

-   Mi vuoi rovinare?

 

No … Bruno era la persona più buona del mondo e mi sentivo una merda a infierire su di lui.

 

-   Che cosa vuoi da me? I soldi per andarti a bucare?

 

Non volevo i suoi soldi. Doveva solo tornare dalla sua famiglia. Dalla moglie che lo amava e insieme crescere quel loro bellissimo figlio. Io non c'entravo niente con la sua vita e quello non era un ricatto, ma un'assoluzione. Lo sollevavo da ogni responsabilità. Poteva dimenticarsi di me con la coscienza apposto.

 

-   E se non riuscissi a dimenticarmi di te? Hai calcolato tutto … ma io non sono come te.

 

Col tempo e il passare degli anni, comprendo forse cosa scrivesse Lotte sui suoi fogli.

 

-   Che scemo! Fregato da un ragazzino …

 

Cercare in un foglio bianco la risposta a quel mistero che ci ha condannati alla solitudine.

 

-   Okay, hai vinto tu … Bravo, ora sei ancora più solo di prima.

 

Oggi più che mai mi spaventa il dono di Lotte perché come lei mi ritrovo a inseguire la carezza di un ricordo cercando di scaldarlo con un raggio di sole.

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Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Le persone povere di spirito sono dotate di una volontà più potente perché devono cercare fuori quello che non hanno dentro. Al contrario, le persone ricche di spirito sono dotate di poca volontà perché trovano in se stessi quanto hanno bisogno per vivere.

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E' difficile imporre la propria volontà, specie quando si è dei ragazzini e gli affetti che si recidono fanno ancora male come fossero sottili cordoni ombelicali. Avrei voluto dirlo a Bruno mentre mi abbandonava sconsolato. Rimasto da solo, mi chiesi cosa rimaneva di quella vita appassita precocemente. Guardai l'orologio ed era ora di andare agli allenamenti … spensi il cervello, indossai la tuta, imbracciai il borsone da palestra e mi avviai.

 

-   Rivestiti …

 

Avevo già vissuto giornate come quella, in cui il mondo pare raggiungere il suo punto di rottura.

 

-   … e raggiungimi nella saletta.

 

La squadra aveva perso il suo prezioso allenatore, anche lui alla fine aveva accettato l'offerta di Brusco. Maurizio lo aveva sostituito. L'aria in piscina era particolarmente pesante perché il sabato precedente si era persa una partita importante, che ci aveva fatto retrocedere di due posizioni in classifica.

 

-   Devo sapere su chi posso contare …

 

Quell'ultima settimana io ero scomparso e tutti pensarono a un tradimento. La mia posizione ambigua fece saltare i nervi a parecchia gente. Prima che Maurizio venisse negli spogliatoi e con faccia truce mi ordinasse di seguirlo, i compagni di squadra mi avevano rivolto appena un saluto e qualcuno manco quello.

 

-   I problemi li abbiamo tutti, ma li lasciano fuori da qui perché in acqua si scende per vincere.

 

La questione era nata con Primo che andava in giro a raccontare i motivi per cui sarei passato nella squadra di Brusco … motivi del tutto inventati da lui. La gente gli credeva nonostante la fama di bugiardo perché pochi sapevano che non poteva più firmare come mio tutore legale, e poi adduceva come prova la mancata iscrizione alla nuova stagione agonistica del Circolo Canottieri.

 

-   Non sarai mica handicappato! Vacci da solo dal medico, te li do io i soldi …

 

Non far più parte del Circolo Canottieri comportava una doverosa iscrizione alla piscina, che era comunale. C'era tutta una trafila burocratica da seguire, compreso il fornire un altro dannato certificato medico per la sana e robusta costituzione. Per me compilare quei moduli costituiva un vero e proprio stillicidio e solo per questo che li evitavo come la peste. Sulle prime di campionato, siccome ero cresciuto in seno al Circolo Canottieri, mi fu concesso una sorta di nulla osta che, però, andava al più presto chiarito anche in sede federale.

 

-   Se vuoi far parte di questa squadra, devi dimostrarlo nei fatti.

 

Maurizio usò tutta l'enfasi di cui era capace per spronarmi a un impegno più serio, però a me le sue parole, alla fine di quella giornata così pesante, suonarono come l'ultima tegola di un passato che continuava a diruparmi addosso.

 

-   Mi hai deluso …

 

Lo avevo deluso perché non seppi pescare neanche una parola nel vuoto pneumatico che avevo in testa. Lo guardavo parlare come se l'audio di quel film si fosse spento e aspettavo solo l'atto finale che si sarebbe risolto nel solito rifiuto. Ero stanco di lottare contro un mondo in carta bollata e avrei volentieri sottoscritto la mia morte civile, pur di non starli più a sentire tutti quei corvi neri dai becchi di pennino punzecchiarmi sulla carne viva.

 

-   Raccatta le tue cose e tornatene a casa …

 

Lasciai il centro sportivo senza sapere cosa fare, dove andare o anche solo in che direzione mettere il prossimo passo. Mi sedetti sotto la pensilina della fermata dell'autobus, ma ne passarono diversi senza che mi decidessi a prenderne uno.

 

-   Ti offro qualcosa al bar?

 

Luca veniva spesso agli allenamenti per salutare questo o quell'altro, non si dimenticava mai di nessuno. Lui mi conosceva bene e dopo tutte quelle chiacchiere sul mio arresto, stava aspettando d'incontrarmi per dirmi "Come stai?". Una domanda cui non sapevo mai rispondere e allora proseguiva "Ti offro qualcosa?". Luca aveva la fissa che non mangiassi mai abbastanza e ogni volta mi costringeva ad accettare qualcosa al bar.

 

-   Con sta faccia non ti lascio da solo.

 

Gli raccontai tutti i casini di quegli ultimi giorni e mi fece bene metterli in fila uno dietro l'altro. Forse lui neanche mi ascoltò. Luca non era proprio quello che si può definire una cima d'intelligenza, però era dotato di una notevole empatia e alla fine del mio discorso, tagliò corto dicendo che non mi avrebbe lasciato solo in quello stato. M'invitò a dormire a casa sua, non sarebbe stata la prima volta … ma non mi andava. Avevo un'ansia tremenda che mi opprimeva il petto fin da quando Bruno se n'era andato.

 

-   Allora ti accompagno da tuo fratello …

 

A Luca non raccontai nulla del ricatto a Bruno e quando disse che se non volevo stare da lui, allora mi avrebbe accompagnato a casa di mio fratello, compresi che era la cosa giusta da fare. Solo che, quando arrivammo all'Aventino, mi resi conto di non avere con me le chiavi di casa di Paolo. Avrei dovuto citofonare direttamente da Bruno e non ce la facevo proprio. Dissi a Luca di non rompermi i coglioni con le sue stupide apprensioni e se non mi riportava a casa mia, ci sarei tornato da solo.

 

-   Piantala di fare la testa di cazzo …

 

Luca, però, sapeva bene quanto potesse essere autolesionista il mio orgoglio e mi rispose per le rime. Andò lui a citofonare e aspettò che Bruno scendesse. Io ero rimasto in macchina e non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo dal cruscotto mentre si parlavano.

 

-   Mi vergogno …

 

Luca venne ad aprirmi lo sportello dell'auto e disse che era tutto apposto. Bruno si fece da parte per permettermi di passare attraverso il cancelletto. Tenni lo sguardo fisso sulla punta dei piedi … poi bloccai l'ascensore al piano della casa di Paolo. Supplicai Bruno di non costringermi a incontrare Adele e Francesco … mi vergognavo troppo … gli dissi che mi facevo schifo e volevo morire perché tutto quello che toccavo diventava merda.

 

-   Il tuo amico mi ha raccontato quello che è successo …

 

Luca gli aveva detto che ero stato cacciato dalla squadra e che temeva facessi una cazzata, ma lui lo sapeva che non era per quello che stavo così … o era anche per quello … come potevo saperlo? Gli chiesi scusa per tutto e se mi apriva casa di Paolo, il mattino dopo me ne sarai andato senza combinare altri casini.

 

-   Quando inizierai ad avere fiducia nelle persone che ti vogliono bene?

 

Mai … oramai avevo perso la fede in ogni Dio e tutto il bene del mondo mi appariva solo come una squallida ipocrisia. Bruno mi aprì di buon grado casa di Paolo perché avevo ragione io. Adele mi considerava un ragazzo pericoloso, specie dopo la storia dello spadino di Lele e ora più di prima non mi voleva in casa. Lo sapevo come stavano le cose e non ero certo lì per chiedere di essere accettato.

 

-   Fa pure quello che vuoi, ma io chiamo tua madre …

 

Dovevo togliermi assolutamente quel peso opprimente dalla coscienza. Dissi a Bruno che la storia del ricatto era un bluff e che mai avrei fatto qualcosa che gli potesse nuocere. Lui si arruffò il ciuffo e senza voler sentire altro, disse che la sola cosa importante era aiutarmi e quindi avrebbe chiamato mamma per farla tornare a occuparsi di me.

 

«Tengo paura, tengo paura … Dio che paura!»

 

Avevo paura … Dio se ne avevo! Iniziai a recitare quel mantra che mi teneva compagnia da quando lo ascoltai da Sofia Loren in "Matrimonio all'italiana", mentre gli alleati bombardavano Napoli: ginocchia strette al petto cullandomi con un movimento ondulatorio. Quante volte quel gesto mi traghettò oltre dei momenti che apparivano senza via d'uscita …

 

-   Fammi entrare …

 

Dopo qualche ora Bruno tornò con delle cose da mangiare che Adele mi aveva preparato. Accettai con l'intenzione di sbarazzarmene appena se ne fosse tornato da lei, ma lesse nel mio pensiero e aspettò finché non ingoiai l'ultimo boccone.

 

-   Fammi entrare …

 

Se ne andò e dopo qualche ora era di nuovo alla porta. Mi chiese di entrare … era in pigiama e pantofole … disse che avrebbe dormito con me … ma non nello stesso letto. Lo abbracciai … avrei preferito essere più gracile per riuscire a sentirmi protetto, invece, Bruno era un po' più basso di me e mi dava una sensazione di fragilità tenerlo tra le braccia, anche se poi era lui che stringeva me.

 

-   Cosa mi fai fare!

 

Lo sentii prendere un sospiro profondo per poi farmi rabbrividire con un bacio appassionato sull'orecchio. Lo volevo … volevo che gozzovigliasse con la mia carne e il mio sangue come una baccante con Dioniso … lo volevo perché desideravo essere accettato anche al costo di farmi sbranare.

 

-   Cosa mi fai fare!

 

Non fu bello sentirmelo scivolare addosso e vederlo abdicare al proprio desiderio. Gli tenni la testa mentre m'ingoiava e poi deglutiva il mio succo. Tanta fu la foga che ci mise, che venni prima ancora di diventare duro. Dopo si stava per ritrarre, ma io non volevo che finisse al solito modo. Lo trattenni e lo baciai, anche se non mi piaceva il sapore che aveva in bocca.

 

-   Cosa mi fai fare!

 

Accettò di dormire con me. Prima di coricarci mi raggiunse in bagno … sapevo cosa gli piaceva però mi sorprese lo stesso sentirmelo dietro. Mi passò le mani intorno ai fianchi fino a tenermelo mentre pisciavo. Non c'era niente di male, ma disse la cosa sbagliata: "Cosa mi fai fare!", esclamò in un sussurro, come se quello che accadeva tra noi fosse solo colpa mia …

 

-   Mi farai impazzire!

 

Il mattino dopo Bruno cambiò idea sulla necessità di richiamare mia madre in Italia. Mi accompagnò a scuola e si fece dare un altro libretto delle giustificazioni. Mi lasciò dicendo che tra noi non sarebbe più accaduto nulla e quella notte era stata solo un altro sbaglio …

______________________________________________________________________

Da "Appunti sparsi di un adolescente inquieto"

 

Il più bel sogno, se bagnato da una sola stilla di realtà, solidifica in un'altra inutile speranza.

______________________________________________________________________

 

-   Che ci facevi ancora con quello?

 

Con Bruno si susseguì una lunga serie di "ultime volte" che giungevano a scadenza settimanale. Se non appagavo le sue smanie erotiche, iniziava a tormentarsi in deliri sentimentali che, puntualmente, diventavano sensi di colpa un attimo dopo l'orgasmo. 

In genere mi veniva a prendere a scuola o mi aspettava alla fine degli allenamenti. Si presentava con l'Alfa Romeo perché aveva i sedili reclinabili e indossava la tuta per rendere più agevole il rapporto sessuale.

 

-   Ma la smetti di difendere ancora quel delinquente!

 

Quel pomeriggio, davanti alla palestra di Brusco, mi aveva visto parlare con Marcello e siccome un paio di settimane prima mi aveva lasciato a piedi nella pineta di Ostia e venne Bruno a recuperarmi, lui ricominciò con una delle sue paternali.

 

-   Tu non ti rendi conto che razza di gente frequenti!

 

Bruno usava controllare ogni persona con cui mi vedeva. Gli bastava la targa di un'auto veicolo, un numero di telefono o anche solo la zona dove abitava per riuscire a sapere chi fosse. Me ne accorsi proprio quando scoprì di chi era figlio Panari Felice Marcello. Dette di matto peggio di quando venni arrestato. Secondo lui l'affare dell'Icona rubata, le frequentazioni politicizzate e l'amicizia con il figlio di qualcuno direttamente collegato alla banda della Magliana, erano i pezzi di un unico pericoloso puzzle da ricomporre.

 

-   E se ti succedesse qualcosa?

 

All'epoca mi sbagliavo a credere che Bruno si preoccupasse solo di dovermi coprire con suo padre. Del resto era facilissimo placare le sue ansie e convincerlo a tacere.

 

-   Smettila! Non puoi sempre risolvere tutto in questo modo …

 

Mi bastava allungare una mano, infilarla sotto l'elastico della sua tuta e aspettare quel sospiro che lo avrebbe fatto smettere di lamentarsi per un'altra settimana. Lidia diceva che un maschio ha due teste e se tanto è difficile ragionare con quella che ha sopra le spalle, è altrettanto semplice usare la logica di quell'altra che porta nelle mutande.

 

-   Facciamo presto …

 

Quando mi aspettava fuori da scuola, poi usava infilarsi su per una stradina sterrata nel bosco prima della discesa dei Pratoni del Vivaro, sulla Via dei Laghi. Quel posto era pieno di puttane e nessuno si domandava cosa si stesse facendo in una macchina "infrattata". Ci arrivavamo in silenzio mentre lo tenevo nella mano e mi eccitavo quando lo costringevo a bloccare il mio gesto tirando su un sospiro tra i denti.

 

-   Facciamo presto …

 

Era bello stare con lo sguardo tra le fronde degli alberi, dopo che lui mi aiutava a reclinare in fretta il sedile. Non mi piaceva guardarlo mentre me lo succhiava e preferivo volarmene fuori dal finestrino. Ricordo una volta che vidi un grosso ragno dalle zampe rosse calarsi su un filo di seta e iniziare a tessere un'elaborata ragnatela … poi gli venni in bocca.

 

-   Ti diverti a farlo ogni volta?

 

Beh, un po' mi divertiva guardarlo sputacchiare, ma non lo facevo apposta. Era lui che aveva un modo di deglutire troppo arrapante quando se lo cacciava in gola … e mi faceva schizzare all'improvviso strozzandosi ogni volta. Era così vulnerabile quando mi tornava a guardare con gli occhi arrossati pieni di lacrime e il volto paonazzo … prendermi cura di lui era la parte che preferivo.

 

-   Ti piace tanto quel ragno?

 

No, ma non potevo ignorare quelle zampe rosse, lunghe e dinoccolate come le dita di una mano, acuminate a un'estremità e giunte insieme dall'altra da un minuscolo ventre molle, sotto la piccola testa occhiuta e sopra quell'enorme culo a forma di fuso, da cui tessevano la trama di bave che avrebbe irretito le prede.

 

-   Giuro che a volte mi fai paura …

 

La stessa paura che prova l'ignara farfalla quando s'infila in quel trasparente intrigo ingegneristico. E se il morso avvelenato del ragno desse invece piacere? Se quell'anestetico letale conducesse alla morte attraverso spasmi orgasmici? Forse la paura serve solo a tenere lontano le farfalle dai loro carnefici … altrimenti diventerebbero delle falene che volano accecate dall'amore per quella fiamma che le incendierà fagocitandole.

 

-   … ma sei impazzito!

 

Franco non aveva mentito riguardo alla gattina in calore che il fratellino nascondeva tra le chiappe. La prima volta che percorsi fino in fondo il sentiero tra le sue cosce, per giungere alla tana dell'ignara preda, che poi ghermii dopo averla irretita con le bave trasparenti tessute in punta di dita … Bruno sobbalzò rivoltandosi sul sedile, come una farfalla terrorizzata dallo scoprire quanto potesse essere seducente il morso del ragno.

 

-   Lo sai chi è Gamberetti Giacomo?

 

Il convivente o scopa-amico di Marcello, o come lo chiamava lui: il suo socio, era il figlio dell'avvocato che aveva recuperato il tesoretto dei malavitosi intestato a suo padre morto suicida. L'avvocato a sua volta calò nella fossa in circostanze misteriose e in qualche modo la consorte, nonché madre di Giacomo, si ritrovò intestataria di un considerevole capitale immobiliare, con il quale convolò in precipitose nozze insieme a un commercialista dai trascorsi giudiziari turbolenti.

 

-   Ti sembra ancora tutto normale?

 

Beh, era sicuramente difficile credere che quei due vivessero sotto lo stesso tetto per pura coincidenza, ma del resto non era stato certo pianificato che la loro società si suggellasse tra le lenzuola.

 

-   E smettila che dobbiamo passare a prendere anche Francesco.

 

Uffa! Allora perché si era messo la tuta se dovevamo andare a prendere anche Francesco per andare a Santa Marinella? Era da quel giorno in macchina che agognavo il momento di vederlo arrendersi al mio aculeo avvelenato. L'invito al mare prima delle vacanze di Natale, mi era parso uno dei pretesti che usava sempre come alibi per incontrarci … ma con Francesco la storia cambiava.

 

-   Che c'è? Non possiamo stare insieme senza farlo?

 

Franco sarà stato anche un maniaco criminale, ma almeno con la sua determinazione mi aveva risparmiato anni d'incertezza a torcermi tra i dubbi nell'accettare la mia diversità. Stare con Bruno, invece, era un continuo tormento di se e di ma ed ero stufo di non capire cosa volesse da me. Diceva che non gli interessava il sesso, ma poi si faceva prendere da certe fregole che solo per miracolo non ci avevano ancora scoperto.

 

-   Possibile che con te bisogna sempre litigare!

 

Sta a vedere che era ancora colpa mia … tanto era sempre colpa mia, no? Lui era il casto e innocente bravo figlio di papà … ma vaffanculo! Credeva forse che non avessi meglio da fare che stare appresso alle sue problematiche? Avevo la mia band, avevo una caterva di amici e anche una strafiga per ragazza. Facevo tanto di quel sesso che lui manco rincarnandosi dieci volte sarebbe riuscito a fare. Del resto stavo parlando con uno che era rimasto sopra la prima ragazza con cui era uscito, che poi secondo me Adele aveva stretto apposta le cosce per portarselo all'altare … che fesso!

 

-   Che stai combinando!

 

Stavo ascoltando What I Want dei Dead or Alive in cuffia, mentre provavo qualche passo di danza figo da rifare con Lidia e Veroka in disco, quando lui entrò in camera senza bussare. Aveva trascorso tutto il pomeriggio appresso agli operai che sistemavano gli acciacchi di casa mentre io giocavo con Francesco, poi ci aveva portato in pizzeria e quindi il bravo babbo se n'era andato a dormire con il figlio nel lettone di mamma e papà.

 

-   Sei ancora arrabbiato con me?

 

What I want, what I need, I can have anything that I want … Pete Burns, l'androgino cantante dei Dead or Alive, era la nuova icona pop cui Lidia s'ispirava. Per il vero era Veroka una sua fan sfegatata e aveva convinto Lidia a vestirsi come lui quando si andava in disco. Veroka era una trans brasiliana e tutti e tre ci divertivamo a improvvisare coreografie molto hot in pista da ballo.

 

-   E smettila, dai … lo sai che non so ballare.

 

What I want's got semplicity … Esiste qualcosa più sexy di un uomo che non sa ballare? Persino con quel pigiama di maglina Bruno riusciva a piacermi!

 

-   E la tua ragazza non è gelosa che balli con questa Veroka?

 

Semmai ero io che sarei dovuto essere geloso, visto che c'era gente che le pagava a peso d'oro solo per guardarle lesbicare.  I Know how to wipe up the thin white line …

 

-   Quando il Generale torna, dovrai smetterla con queste stramberie, ok?

 

Listen blue eyes, shut up … Se solo non avesse avuto quegli occhi blu e quel dannato ciuffo di capelli che si grattava come un bambino intimidito, sai quanti vaffanculo gli avrei rifilato? Invece gli sfilai la maglietta del pigiama … e quella della salute … e pure la canotta!

 

-   Ma è inverno!

 

Ballai sinuosamente sfiorando quel suo corpo dalla consistenza solida … ma poi lui si sfregò le mani e srotolando via i pantaloni di maglina del pigiama, si cacciò svelto sotto le coperte.

 

-   Dai vieni a letto che fa freddo …

 

E va bene … in fondo neanche a me piacevano tutte quelle smancerie. Era fantastico sentire il suo abbraccio sulla pelle nuda mentre mi baciava e la passione iniziava ad agitare la risacca contro il mio scoglio. Insinuai una gamba tra le sue costringendolo ad allargare le cosce, tanto da ritrovarsi seduto sopra di me. Lo trattenni in un bacio mentre con le mani scivolavo lungo la schiena per andare a inseguire il mio unico scopo … la mia ossessione.

 

-   Aspetta … aspetta … aspetta …

 

D'improvviso si divincolò dall'abbraccio rimanendo sopra di me. Era spaventato dal passo successivo che desiderava fare. C'era da capirlo se si pensava al fatto che ci trovavamo sul medesimo lettino e nella stessa identica situazione di quando suo fratello lo trascinò dentro a una verità ancora troppo grande per essere compresa da un ragazzino.

 

-   Accidenti … non vuoi proprio capire!

 

Lo volevo possedere, impalare, sfondargli la membrana anale fino a farglielo arrivare in gola e, intanto che si sarebbe arreso sotto i colpi della mia poderosa verga, finalmente lo avrei ascoltato stramazzare tra i gemiti di un irresistibile orgasmo.

 

-   Mannaccia a te …

 

Lo forzai in un abbraccio baciandolo sul collo perché sapevo quanto lo trovasse arrapante. Lui cercava di contraccambiare ma le continue incursioni tra le sue natiche, lo costringevano a difendersi cercando di bloccarmi le braccia. Più si negava e maggiore era quella rabbia che mi accecava di una voluttà assassina.

 

-   Oddio!

 

Non riuscivo a sopraffarlo e allora lo ingannai facendo scivolare una mano tra noi per arrivare alla sua erezione. Abituato com'era alle mie carezze, mi permise di raggiungere i traboccanti slip. Senza neanche pensarci, scansai l'elastico tra le sue cosce e glielo insinuai dentro. Lui ebbe un brivido che lo fece rizzare sulla schiena. Cozzai proprio al centro della sua porta che si chiuse d'improvviso. Sentii tutto il suo peso gravare sopra il perno che per poco non si spezzò. Mi fece un male del demonio e fu solo per fortuna che torcendomi in uno spasmo di dolore, la testa dell'ariete riuscì a scivolare via dall'incavo in cui si era cacciata, scattando come una molla verso il basso.

 

-   Oh … mio … Dio!

 

Che spettacolo meraviglioso guardarlo cavalcarmi. Si toccava sinuosamente il petto e la pancia come per ricorrere un brivido che si espandeva sotto la pelle. Se solo non mi si stesse strappando via la carne contro la stoffa delle sue mutande di carta vetrata, non lo avrei mai fermato … Lo allontanai premendolo dolcemente sulla pancia con tutte e due le mani - Aspetta - gli dissi in un rantolo e mi allungai fuori dal letto per raggiungere il cassetto del comodino, dove sapevo di aver lasciato la mia crema di glicerina.

 

-   … che organizzazione!

 

No, era per puro caso che avevo dimenticato la crema per le mani l'autunno scorso … il tubetto di vasellina lo portavo nello zaino, ma per nulla al mondo avrei abbandonato quel letto, rischiando di far sciamare il momento di passione. Lo vidi alzarsi su di me in un equilibrio instabile per sfilarsi gli slip … quasi non ci volevo credere che lo stesse per fare … Sì lasciò cadere sulle ginocchia e sbatacchiandomi in faccia la sua procace abbondanza, mi scherniva per gioco.

 

-   Ti piace … vero?

 

E porca miseria, se mi piaceva! A occhi chiusi annaspavo tra le morbidezze di quella cornucopia … fame, acquolina … fui preso dal gusto del caprone che lecca il sale dalla pietra dura.

 

-   Cosa mi fai fare!

 

Esclamò ancora, mostrandomi il suo bel sorriso a un palmo dal naso, mentre con la mano mi guidava dentro di sé. Poi strizzò gli occhi e tirò un sospiro a denti stretti. Ci provò diverse volte prima di riuscire a forzare un amplesso che avrebbe avuto bisogno di una preparazione più appropriata. Appena riuscì a infilare la cruna dell'ago, si tirò sulla schiena e iniziai a scivolargli dentro sentendomi tendere all'indietro il prepuzio, era doloroso ma anche stimolante, tanto che dovetti respirare profondamente per riuscire a non venire. La resistenza iniziale cedette d'improvviso e sprofondai in un risucchio spugnoso, caldo e avvolgente. Bruno si abbandonò in un rantolo di soddisfazione appoggiandosi con le mani di nuovo sul mio petto.

 

-   Oh, buon Dio …

 

Finché si mosse lentamente, mi godevo i suoi respiri stentati, ma appena questi montarono in un crescendo affannoso, non mi fu più possibile trattenere oltre quel violento flusso che premeva per uscire. Lui neanche se ne accorse, tanto era preso dalla cavalcata scavezzacollo e fossi dannato se volevo sottrarmi al suo scudiscio … ma la natura del puledro è approfittare della propria gagliarda giovinezza per giungere prima dove, per il vero, l'esperienza gli insegnerà che non serve correre per arrivare.

 

-   … non importa.

 

Disarcionarlo proprio davanti al traguardo, ebbe su di lui l'effetto shockante di un risveglio improvviso. Durante la voluttà di quei momenti aveva dimenticato cosa gli era stato ordinato di non essere. Parafrasando le tre metamorfosi di Nietzsche, Bruno era il cammello che perde le gobbe costituite dagli insegnamenti della memoria, ritrovandosi da solo nel deserto, dove anni di accondiscendenza lo avevano condotto dinanzi al drago "Tu Devi". Lo vidi chiudersi in se stesso mentre tamponava con un fazzolettino la ferita che gli avevo inferto. Mi sentivo in colpa perché non ero stato capace di accompagnarlo fino alla fine, quando il ruggito del Leone si sarebbe levato irresistibile col suo "Io Voglio". Vederlo sul ciglio del letto tenersi il volto tra le mani, mi precipitò nei sensi di colpa perché invidiavo quelle gobbe di cammello che ero inabile a portare e gli chiesi scusa perché mi ritenevo un mostro ad aver privato Bruno delle sue.

 

-   Dall'altra parte di questo muro c'è mio figlio che dorme … mi faccio schifo!

 

Mi avvicinai a lui con cautela per riportarlo sotto le coperte. Volevo consolarlo in qualche modo, invece mi toccò ascoltare il suo assolo di pecora spaventata nel ritrovarsi lontano dal conforto di un gregge. Continuava ad accusare se stesso ma era me che le sue ragioni indicavano come un abominio irredento. Bruno credeva di potersi assolvere confessando il crimine del lupo cattivo che sbrana l'agnello. Diceva che avrebbe avuto bisogno di un aiuto psichiatrico perché rintracciava nel suo passato di vittima il bacillo della pedofilia, mentre non voleva tener conto che io ero felice di godere la promiscuità della mia vita sessuale e me ne sbattevo dei suoi sensi di colpa.

 

-   Sei solo un ragazzino e io non sono diverso da tutti quelli che si approfittano di te …

 

Bruno cercava di raccontare la nostra storia non per quello che era, ma come l'avrebbero letta gli altri. Immagino che trovasse persino rassicurante sentirsi malato, almeno così poteva sperare di guarire.

 

-   Tu non sai ancora cosa vuol dire amare una persona.

 

Si dava il caso, però, che io ero una vittima di quel gran sentimento che dovrebbe infondere il bene nell'universo. Per quanto ne sapevo, l'amore di coppia era una delle forme di egoismo più efferate.

 

-   Sei la prima cosa cui penso ogni mattino e l'ultima con cui vado a dormire …

 

Era dunque dall'amore che scaturiva il suo insano desiderio? Poteva quindi espiare la sua colpa dinanzi all'altare del Dio "LOVE"?  Le leggi dell'amore ci avrebbero ricondotto sul sentiero carovaniero tracciato dalla saggezza di chi ci caricava delle sue gobbe, nonostante la nostra indecente libido ne tradisse gli antichi valori morali?

 

-   Non capisci che lascerei tutto per stare con te!

 

Ero stato rifiutato dagli affetti primari, come potevo credere di essere diventato indispensabile per qualcuno solo perché ci scopavo? Io sentivo di volergli bene ma non capivo il suo bisogno di ricondurre il sentimento nell'alveo di una normalità che disprezzavo. L'amore dei cammelli è seducente perché incardina l'incertezza del futuro a promesse rassicuranti, ma sono poco più di buoni auspici in cui bisogna credere come dogmi di fede che prescindono la verità dei fatti.

 

-   Ti ho desiderato fin dalla prima volta che ti ho visto …

 

Mi sono sempre chiesto se l'attrazione sessuale è una conseguenza dell'innamoramento oppure se è quest'ultimo a essere l'effetto di una buona intesa sessuale. Qualcuno potrebbe sostenere che si tratti di un rompicapo logico, tuttavia non è come comprendere se sia nato prima l'uovo o la gallina.

I meccanismi dell'attrazione sessuale sono ispirati dalla libido, che trae energia dal desiderio, cioè dalla voglia di conquista. Ricondurla a un sentimento che pretende di essere eterno, significa negare che la libido sciamerà insieme all'appagamento della propria ambizione.

 

-   Adele sospetta che mi sia innamorato di un'altra.

 

Si tratta di un discutibile calcolo matematico dedurre l'amore in rapporto alla misura del desiderio che produrrebbe, come se fosse legna da ardere nel falò della libido, fidando nel tempo che questa impiegherà a consumarlo. Il desiderio però non ha peso specifico e può svanire nel nulla, specie quando la propria libido ambisce ben altri piaceri fisici.

 

-   Da quando ti ho conosciuto, non sopporto neanche più sentirla respirare.

 

Sono propenso a credere che sia l'amore a scaturire dall'attrazione sessuale, la quale unisce la coppia nell'intimità di una libido condivisa, ma è comunque un atto di volontà quello di rimanere insieme … qualcosa che ha poco a spartire con la fame che c'ispira il gusto di mangiare, si tratta piuttosto del piacere di sedersi a tavola sempre con la stessa persona.  

 

-   Doppiamo trovare la forza di mettere fine a quest'assurda storia …

 

Bruno mi riteneva incapace di comprendere le sue ragioni e non si sbagliava perché la percezione del mondo è una questione di sensi. I miei non erano in sintonia con la realtà comunemente intesa nella volontà di rappresentarla in format standard. Ero sordo e non ascoltavo la narrazione del mondo, ero cieco e non ne vedevo il film trasmesso a reti unificate, ero come un sordo cieco che tira fuori la lingua per dare gusto alla percezione tattile dell'universo. Guardavo il mondo su una pellicola al negativo, un chiaro scuro grottesco che scarnificava i volti dagli illusori colori del technicolor. La luce nera faceva brillare le ombre e celava nel buio le apparenze.

 

-   Ti mancherò?

 

Ogni volta che cercava di dirmi addio, ricominciava a baciarmi e anche quella volta lo fece allungo, fino a consumare un altro ultimo orgasmo. Prima di lasciarmi nel letto, mi chiese se almeno un po' avrei sentito la sua mancanza.

 

-   Io impazzisco solo all'idea di non averti accanto …

 

Quando il sesso produce empatia, s'instaura un nesso in grado d'influenzare gli umori reciproci, che inducono a proseguire quel gesto al di fuori dal letto, in un continuo scambio di amorevoli sensi. Ecco dunque da dove giunge l'atto di volontà che prescinde il desiderio della libido.

Il sogno di Bruno non riusciva a rimanere tra le lenzuola e voleva proseguire in ogni aspetto della vita. Un sogno che diveniva un'inutile speranza perché gli altri cammelli ci avrebbero respinto, giudicandoci attraverso gli schemi di un romanzo di genere, in cui lui sarebbe spettato il ruolo del carnefice e a me quello della vittima. La normalità cui si appellava per spiegare il suo sentimento, era la stessa che lo condannava a rimanere un peccato da celare nell'ombra.

 

-   Dimmi almeno se ti mancherò …

 

Gli risposi di no, perché non riuscivo a voler bene alle persone attraverso la paura di perderle. Scegliere una cosa significa preservarla dalla mutevolezza del corso degli eventi e avevo già imparato la delusione di stringere un pugno d'acqua. Avevo quindi deciso di non trattenere nulla di quanto mi attraversava, avrei goduto per il tempo che sarebbe durato, mi sarei fatto riempire fino all'orlo per poi travasare senza averne rimpianti.

Mi faceva male pensare che non avremmo più condiviso l'intimità di quei gesti, tuttavia sapevo che quel sentimento non sarebbe morto in un addio. Il bene è un miracolo che nasce dall'incastro di una serie di casualità transitorie, mentre la ferita da cui sgorga un dolore ci apparterrà per sempre. Avrei tenuto cura di quell'ammanco sentimentale, tanto da mantenere viva la sottile sofferenza di quel desiderio, capace di germogliare ogni volta nelle parole ispirate dalla carezza di un ricordo in un raggio di sole.  

 

Fine Floppy 05/52

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