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“Dai!? Avevamo detto che cenavamo assieme e poi ti riaccompagnavo io a casa!”.


Wunderkind

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Comincia così quella che sarebbe stata una fra le giornate più felici che avrei per sempre ricordato nel cuore. Se me l’avessero detto prima, mi sarei messo a ridere, non ci avrei mai creduto. Se me lo avessero detto prima e ci avessi creduto, avrei sicuramente fatto in modo di dirottare l’avvenimento, tanta sarebbe stata la mia ansia e il mio imbarazzo. Se me lo avessero detto prima e ci avessi creduto e non fossi riuscito a rovinare tutto, sarei stato più attento ad ogni singolo momento, ad ogni parola, ad ogni gesto e ad ogni sguardo, ma non sarei stato così felice per com’è realmente accaduto.

Nemmeno a crederci, sono sull’autobus in direzione del centro città perché devo incontrarmi con una persona per studiare assieme. Non è mia abitudine, anzi, esperienza mai provata, ma mi lascio convincere, il che mi fa apparire irriconoscibile. In autobus sono pensieroso ma conosco bene la strada e non perdo la percezione dello spazio. Sono contento di vedermi con quella persona: per me è un’emozione strana, nuova; fra me e me penso che male che va, ho fatto un favore a qualcuno e alla mia mente esausta, che tanto chiedeva un po’ di svago in quel periodo. Il luogo dove ci dovevamo vedere, io lo avevo sempre visto da fuori e un po’ mi atterriva l’idea di doverci entrare. Premo il pulsante sul citofono, così mi aveva detto di fare, ed entro. Ricordo così bene quegli istanti che mi sembra di esser ancora lì: mi chiede se mi va un caffè, un’ottima idea penso fra me, e annuisco. Ci spostiamo in un’altra stanza molto spaziosa, tutta per noi: ricordo un tavolo molto largo dietro il quale vi era una finestra molto estesa che dava sulla strada sottostante; era abbastanza comoda per studiare come stanza e anche se ogni tanto si sentiva il rumore delle auto passare, come se si stesse agli ultimi piani di un grattacielo, tutto sommato erano davvero poche le fonti di distrazione. Ci sediamo per studiare, ma come già sapevo fin troppo bene, non sono io quello che ne trae beneficio. Tuttavia mi sta bene, non mi pesa, non vedo perché andare via, rimango ancora. Mi fa piacere quella compagnia, che conosco da poco certo, ma che ispira così tanta fiducia. Non sono occhi vuoti, falsi, ostili, quelli che mi scrutano mentre mi muovo con tanta disinvoltura in una disciplina all’altro relativamente oscura. E mi provocano non poco disagio. Ma il pomeriggio passa molto in fretta e un po’di stanchezza si fa sentire. Decidiamo di concludere per quella giornata oramai. Raccolgo le mie cose e faccio per salutarlo e andare via, quasi senza pensarci. Ma vengo incalzato: «Te ne vai? Dai!? Avevamo detto che cenavamo assieme e poi ti riaccompagnavo io a casa!». Avevo dimenticato che in una frase confusa glielo avevo precedentemente promesso e probabilmente, per lui, doveva essere più importante dell’ascoltarmi in lunghi e complicati argomenti. Rimango per un po’ di sasso. Non so che fare, mi assale uno di quei dubbi dell’ultimo momento che ti logorano e a cui sembra impossibile dare risposta. Ma la risposta diviene chiara di lì a poco: “il mio compagno di studi di fortuna” sta sistemandosi la borsa con i libri e ha già smesso di insistere, ma lo guardo e capisco che ci è rimasto male per la mia esitazione e decido di fare l’ennesima scelta della giornata più azzardata di tutta la mia vita: accetto! Non pretendo di riavere acceso il sorriso in lui, ma vedo che l’espressione è cambiata. Almeno per quel momento avevo fatto una cosa buona. “Raggiungiamo prima un posto per una cosa davvero importante”, mi dice, “e poi scegliamo cosa mangiare”. Il tempo di avvertire casa e scendiamo in strada. Era Maggio e nemmeno mi ero accorto che ormai le giornate si erano allungate così tanto che per ora di cena il cielo era ancora perfettamente azzurro e nonostante la sera, l’aria era molto piacevole sul viso. La città è ricolma dei suoni del traffico dovuto all’orario di rientro dagli uffici sempre più prossimo. Non faccio in tempo a dare un attento sguardo alla strada che vedo quel furbacchione salire sul suo motore e porgermi il casco. «Oddio e ora che faccio!?!?». Il panico è totale. Odio i motori, non li ho mai potuti soffrire e per di più non ero mai salito su uno di essi, figuriamoci allacciare un casco. Così, in una situazione nella quale ti trovi a pensare a mille cose diverse in un singolo secondo, a mo’ di film, do un’occhiata sconvolta a quel casco che afferro sbigottito. Evidentemente la scena deve essere stata esilarante, soprattutto mentre invano cerco di infilarmi il casco, perché costringo l’altro a scendere dalla sella e aiutarmi. Una volta capito l’algoritmo per salire sulla moto e assicurata per bene la borsa dietro ci mettiamo in marcia. Il mio compagno d’avventura sapeva benissimo della mia passione per i motori e aveva promesso che un giorno o l’altro mi avrebbe fatto prendere un bello spavento: l’intento era finalmente andato a buon fine. E’ strano che non avessi calcolato che potesse essere in motore, anche questo a ripensarci mi stupisce, ma nello stesso tempo sono molto contento di non averlo tenuto presente. Riconosco subito che l’ebbrezza di andare in moto, almeno con due passeggeri, non è poi troppo male. Come prima sensazione poteva andare peggio. Beh si lo ammetto: è davvero spassoso, almeno la prima volta. Durante il tragitto non sento nulla da dire, ho la mente vuota… di vuoti argomenti. Cerco di godermi la passeggiata fuori mano sino in fondo. Certo, non che mi sentissi proprio a mio agio, e credo di aver fatto una strana impressione al guidatore che esordisce ad un tratto prendendomi scherzosamente in giro sul fatto di stare tremando di paura e di non avere il coraggio di fare un minimo movimento per non finire male. Beh, non che avesse torto, ma la verità era un’altra. A dire il vero parlare mentre si è in moto non è facile visto che il vento porta via le parole e le senti male: non è il momento migliore per fare della buona conversazione a mio avviso. Il vero motivo del mio silenzio era molto più profondo. Se era la prima volta che salivo su un motore, un motivo c’era: non che mi andasse di parlarne, ma durante il tragitto più volte mi era capitato di vedere il nostro riflesso sul finestrino di qualche auto; delle fitte allo stomaco e una strana sensazione di euforia mi fecero dimenticare di stare viaggiando su un mezzo a due ruote. Avevo cominciato a pensare a cosa avesse potuto mai pensare la gente che ci avesse visto passare. Mi sentivo tanto in imbarazzo, eppure non uno sguardo sulle persone era fuori luogo. Evidentemente era più normale di quanto io potessi concepire. Mi tornarono alla mente tutte le volte che avevo visto i miei compagni di scuola in sella in coppia e io nemmeno ci avevo fatto caso di cosa volesse più propriamente dire o significare. Ho sempre sentito una grande distanza dal loro mondo per via di questa mia mancanza: sì, possedere un mezzo a due ruote era la prova che appartenevi a quel mondo e io non ero nemmeno al confine. Di solito sono due amici che si muovono insieme in moto, per lo meno la maggior parte delle volte, ecco perché a me non era stato ancora concesso. E questi pensieri mi rattristavano non poco in quel momento. Forse per questo apparivo spaesato, ma cosa fare? Come potevo dirgli la verità? Che motivo c’era di coinvolgere anche lui? Era davvero necessario metterlo al corrente di questi miei sentimenti che avevo provato e per i quali provavo da sempre una profonda vergogna? In fondo ci conoscevamo appena e volevo apparire forte e sicuro di me. In realtà non sono mai cresciuto abbastanza e potendo, mi sarei comportato volentieri da bambino schietto e sincero. Ma qualcosa mi tratteneva, per fortuna o per errore futuro, non saprei. Ero sicuro di una cosa: la questione era complicata e difficile da trattare, non potevo gridarla al vento. E poi lui aveva appena spezzato quella condizione: anche io potevo dire da quel momento di essermi concesso una piccola pazzia. Sì pazzia, quella stessa pazzia che poi lui stesso mi chiese, in un senso che a quel tempo non avevo ancora capito, se avevo mai compiuto, se mi fossi mai messo in gioco per qualcuno o per qualcosa con tutto me stesso. Inevitabile che non fossi stato in grado di rispondere esaustivamente, dato lo scorrere di questa mia vita così pericolosamente ovvia e predeterminata. Ma ora lo so: la mia pazzia è stata la mia amicizia con lui. Ero Felice.

 

Arriviamo a destinazione poco dopo ma devo dire che nemmeno ricordo il posto che avevamo raggiunto , tanto la mia mente aveva vagato durante l’itinerario. Ecco che si profilò all’orizzonte un nuovo ostacolo: togliersi il casco! Fu la mossa più difficile da eseguire quella sera ed infatti non è che ho mai imparato… Più rosso di un peperone, chiesi aiuto per slacciarlo: pensai che per quella sera ero davvero caduto molto in basso. Per lo meno avevo effettivamente dimostrato ampiamente che realmente non ero mai salito in moto, perché credo che l’altro l’avesse preso più che altro per un modo di dire… invece si dovette ricredere subito. Finalmente a piedi, ci vedemmo con altri ragazzi i quali, assieme al mio paziente compagno, a quanto mi parve di capire, erano soliti vedersi in quel posto a quell’ora. Mi presentai a tutti assai più facilmente di quanto potessi sperare: io odio questa prassi, le presentazioni implicano lontananza fra le persone dato che ancora non si conosco e ogni volta può succedere di tutto, non va sempre tutto a buon fine soprattutto perché io ho sempre avuto il terribile vizio, a mio avviso, di stare sulle mie finché qualcuno non mi rivolge la parola per primo, dopo di che parto a raffica senza staccare e solo dopo capisco quanto divento patetico e invadente in questo lasso di tempo. Credo che rispecchi il detto: il dito con tutto il braccio. Beh comunque la cosa che più mi da fastidio è essere di troppo, di peso, ruolo che in effetti interpretai proprio bene in quel momento, visto che non avevo proprio voglia di attaccare discorso con qualcuno, per paura di perdere o dimenticare quella bellissima sensazione che avevo appena provato qualche minuto prima. Insomma credo di non aver fatto una buona impressione e di aver costretto anche il mio compagno di studi straordinario a staccarsi da loro per non lasciarmi troppo in disparte. Non ricordo bene cosa si dissero; parlavano di vedersi dopo cena per dei volantini o cose così, ma credo di aver raggiunto il massimo grado di egoismo quella volta perché proprio non mi importava altro che andare a cena e magari trovare la scusa per parlare di argomenti un po’ più stretti che di discipline accademiche. Cercavo di immaginare cosa avrebbero fatto due amici. Beh non capii bene le intenzioni del mio collega, anzi cominciai ad avere il timore di aver fatto la scelta sbagliata a seguirlo, forse se me ne fossi andato a casa avrebbe potuto seguire i suoi amici. Odiavo il fatto che ormai si fosse preso l’impegno di spostarmi qua e là come un pacco e che dovesse muoversi come se io non gli dessi altra scelta. La verità è che io a tatto ero zero e non potevo sapere quale sarebbe stata la cosa veramente corretta da fare. Forse oggi avrei agito diversamente. Ad ogni modo dopo aver riaffrontato le peripezie per saltare in sella ci dirigiamo per la cena: la scelta era ricaduta sulla tradizionalissima pizza. Molto buona la pizza, per lo meno dal canto mio, ma se avessi saputo che mi sarebbe costata due ore o forse più di attesa avrei optato per qualcos’altro. Soprattutto perché non avevo argomenti a mia disposizione per colmare il vuoto che si era formato fra me e il malcapitato che avevo incastrato in un certo qual modo. O meglio, avevo certamente qualcosa da dire, ma mi sembrava tutto così futile; gli feci delle domande abbastanza classiche visto che comunque ancora non ci conoscevamo da tantissimo. Il fatto di non avere di grandi cose di cui parlare mi sorprese quando pensai che per arrivare a fare quello che avevo fatto già in tutta quella sera, con un mio compagno di scuola, ad esempio, avrei sicuramente fatto trascorrere anni prima di sporgermi così tanto, e invece con lui erano bastate poche settimane per guadagnarsi interamente la mia fiducia… talmente tanto che nemmeno avevo riferito ai miei la verità sul come mi sarei spostato quella sera, per la paura di non ottenere l’autorizzazione. Provai a chiedergli qualcosa su come mai avesse scelto la mia stessa tipologia di studi, cosa si ricordasse della nostra vecchia scuola (visto che avevamo frequentato lo stesso istituto), e poi di prof e roba simile. Vidi subito che gli argomenti erano troppo poco interessanti e l’attenzione calava drasticamente. Che fare? Avevo cambiato pensieri: volevo diventare invisibile sparire o perdermi come mio solito in un libro. Però volevo apparire interessante, mi sforzavo, ma il luogo non era il più ideale per intraprendere profondi dialoghi. In quel momento mi sarei preso a schiaffi per la rabbia, mi odiavo violentemente: ero vuoto, inutile, obsoleto, non avevo uno straccio di particolare interessante da raccontare e nemmeno mi venivano fatte delle domande di ritorno perché vidi che all’altro faceva tra l’altro male un dente, e si massaggiava la guancia incrinando un po’ le sopracciglia per le fitte di dolore. E pensare che io mi sentivo con un passato così solido alle spalle da poter scriverci sopra libri autobiografici di proporzioni enciclopediche. Ero solo un povero sciocco.

 

… Avrei voluto tanto, con tutto il cuore, dare una continuazione a questa storia o quanto meno un finale tiepido, ma non è più possibile. Non è possibile perché colma di falsità, sebbene per lo più innocenti, appartenenti ad una persona annientata dal dolore. La verità è che i sentimenti qui esposti vanno al di là dell’amicizia, pur essendone stato all’oscuro in prima persona per molto tempo. La cieca convinzione di essere in un ignaro “giusto”, mi ha portato a sbagliare ogni cosa lungo la strada. Ma ormai tutto ha avuto un senso e subito dopo lo ha perso, perché irrealizzabile. E così il mio amore si è estinto, rendendomi incapace di provare per sempre sentimenti puri e innocenti. Le mie lacrime si sono quasi del tutto esaurite. Oggi capisco di essere definitivamente destinato al dolore, quello che uccide l’anima, lasciando il corpo privo di espressione. Ogni sforzo è inutile, ogni ribellione è soffocata nel pianto, ogni sorriso è obsoleto. Ma il dolore pian piano sta dando vita a nuovi sentimenti. Quando tutto crolla, quando ci si rende conto di essere incapaci di poter dare senso alla propria vita, non rimane che l’odio, quello profondo e smisurato che incanala il dolore e lo usa come autodifesa. Ormai la mia unica ragione di vita è l’odio, che ogni volta che pronuncio mi fa sobbalzare il cuore e mi procura fitte intense allo stomaco. L’odio riempirà di significato le mie azioni, mi renderà forte quando sarà necessario, ma poco a poco mi consumerà, ne sono consapevole. Ma questo è il mio destino, essere odiato e odiare per riflesso. Un giorno mi verrà presentato il conto e io potrò solo avanzare l’obiezione… di non aver mai voluto ordinare.

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