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Apologia di un momento


Silverselfer

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Ho iniziato a scrivere una sorta di progetto "genesi" nel link dei racconti erotici. Ho iniziato quasi per gioco e forse sbagliando, in una serendipity letteraria, ho trovato il bandolo di una matassa assai

difficile da dipanare per me...

 

http://www.gay-forum.it/forum/index.php/topic/17567-le-confessioni-di-un-satiro/

 

Mi sono concesso un periodo di pausa per riordinare le idee e decidere cosa fare - proseguire da dove avevo lasciato o scavare ancora all'indietro? Ho optato per la seconda ipotesi.

 

Sul principio volevo ricostruire la storia come fosse un prequel del racconto sopra linkato; poi però, la scelta di quel linguaggio m'incatenava a una tempo inappropriato per un tuffo nel passato remoto. Quindi ho deciso d'iniziare una nuova storia, avente però lo stesso titolo di quella già scritta.

 

Apologia di un altro momento. Non lo so so dove andrò a parare, per ora comincio ...

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Silverselfer

Apologia di un momento, martedì 15 marzo 1988.

 

Don … Don … Don …

 

I rintocchi giungono dal campanile di Piazza dell’Orologio, mentre il tempo che scorre tra queste mura, continua a scrosciare via dal nasone in fondo alla strada. In un vortice di odorosi ricordi, la memoria cade lontano, rapita dal vento come una foglia strappata dal suo albero. L’istante che ricorda gela nel rintocco della campana, cristallizzando in una posa alla mercé della regina.

 

 

-
Regina Reginella quanti passi mi darai per arrivare al tuo castello con la fede e con l’anello?

 

L’eco dalla voce di fanciullo sale dal vicolo che tanta storia ha scorso, eppure non dimentica e smette di raccontare.

 

-
Oh! Bel cavaliere, per giungere al castello mi dovrà ancor due passi da… da granchio.

 

La regina assisa su un trono di spine a dominar la rocca del passato, gioca con l’Orfeo bambino ed il suo irraggiungibile desiderio di sconfiggere il fato avverso.

 

-
Lalla sei una stronza! Non gioco più.

-
Ho detto solo due passi... è lecito, è lecito.

-
Sei una pulciona, pulciona, pulciona!

-
Tu sei pulcione. Io sono la regina e devi fare due passi da granchio.

-
Io non ci torno indietro. Mi hai fatto tornare indietro già due volte e non è giusto...

-
Vanni è un pulcione. Vanni è un pulcione. Vanni è un pulcione…

-
Tu vuoi sempre far vincere lui. Io me ne vado.

-
Non è vero. Momo è solo più bravo di te…

-
Sei tu che lo fai vincere! Perché a lui non glieli ordini mai i passi da granchio?

 

Caro Vanni, i granchi non camminano all’indietro.

 

-
E come camminerebbero?

 

Li ho visti al mare e camminano di fianco: a destra o a sinistra, mai all’indietro. Mettiti su un lato e avanza di due passi.

 

-
Grazie Momo!

-
Non è valido. Non è valido…

-
Paga il pegno, è la legge … Sono arrivato al castello della regina e ora voglio il bacio.

-
No! Ti odio Momo. Ti odio. Volevo che arrivassi tu al mio castello, perché lo hai fatto? Ti odio…

 

Povero Vanni, ci teneva tanto a te. Tu, invece, ti divertivi ben sapendo quanto ci soffriva. Lo deridevi perché aveva l’erre moscia e portava gli occhiali… Non odiarmi Lalla…

 

Don

 

Eccomi ad ascoltare di nuovo il rintocco del campanile, che risuona nella mia testa in un eco ascendente, fino a farmi tornare a schiudere le palpebre su un presente che potrebbe essere già passato da uno o forse persino cento anni. Tu, che resusciti tale momento nel futuro leggendo queste parole, stai per istillarmi di nuovo il veleno di un vespaio di rimorsi che sciameranno ancora … e ancora.

In una vertigine di concretezza mi ripiombi qui, davanti al computer che aspetta solo la parola“Fine” per ammutolire il passato. Il cuore del mio protagonista si sta per fermare insieme al pulsare del cursore. Questa storia terminerà con l’ultimo floppy che estrarrò dal computer … allora il silenzio colerà come una gelatina vischiosa sulla mia realtà diroccata, coagulando in un’ambra il momento che stai rievocando.

 

Quando non basta più una manciata di “ma” per corrompere il futuro, volto le spalle ad una vita che è implosa in un milione di inutili “se”. Lascio questo che di un momento è la sua apologia, per farti desistere dall’intento di ridare memoria a delle parole che sono state scritte per essere dimenticate.

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Antefatto

Genesi di una mala pianta

 

“Fin che morte non ci separi”

 

Quando sono nato io, questa promessa di matrimonio era ancora un’incontrovertibile legge dello stato, ed era la sola ragione che teneva unite buona parte delle famiglie italiane.

Mia madre ha sempre avuto l’emotività di un’adolescente e credeva nell’amore nella sua accezione più romantica. Primo si spacciò per quel cavaliere senza macchia che aspettava una regina in abito bianco. Dopo il matrimonio si rivelò il solito marito che tornava a casa con il colletto della camicia sporco di rossetto.

 

“Rispettare, ubbidire, onorare, partorire”.

 

La donna doveva annullare se stessa nel sacro ruolo di vergine madre, la cui prerogativa era onorare il nome con cui il marito la marchiava a vita. Se per cultura mia madre era portata ad accettare questi principi, il cuore le continuò a imporre le sue priorità. La prima figlia che ebbe, morì dopo qualche settimana di vita: Bronchite trascurata. Il verdetto dei medici era un atto d’accusa nei suoi confronti. Il dolore della madre si aggiunse a quello della moglie, la cura a entrambi i mali era sempre la stessa: partorire.

 

“Il figlio maschio porta avanti il nome di famiglia”.

 

Ci vuole un “vero maschio” per far partorire alla propria moglie l’erede del proprio nome. Potrà sembrare assurdo, ma questa frase cui oggi non daremmo alcun credito, un tempo valeva l’onore di un uomo. Mia madre partorì per la seconda volta una bambina, il che gettava un’ombra sulla virilità di suo marito. Primo non era più disposto ad amarla e la sera neanche rincasava.

 

“Una madre può tutto per amore dei figli”

 

L’amore per la sua bambina non riuscì mai a sostituire quello che le negava un marito. L’ultima speranza rimaneva mettere al mondo un maschio. Una gravidanza difficile che culminò come peggio non avrebbe potuto. Poco meno di un mese prima del parto, giunse a sorpresa un sequestro immobiliare; Primo aveva perso tutto al tavolo verde. Lo shock nervoso uccise il feto e solo la corsa in ospedale salvò la vita della madre.

 

“Una moglie sterile è donna solo a metà”

 

I medici le dissero che il suo utero era ormai compromesso. Il marito la abbandonò in quella casa destinata a diventare la sua tomba. Mia madre disse no e abbandonò il tetto coniugale. La condanna sociale fu unanime. Il disprezzo pubblico arrivò insieme con quello legale, che le portò via l’affidamento della figlia. Costretta a cercarsi lavoro, trovò un posto di domestica presso una ricca famiglia ebrea della capitale.

 

“Il lavoro rende libere anche le donne”

 

Il 1968 celebrava un mondo nuovo, dove tutto poteva essere cambiato. Il figlio più giovane del notaio era un avvocato fresco di laurea e prese a cuore la causa di mia madre. Le trovò un portierato che le passava anche un bell’appartamento, necessario per tornare a chiedere l’affido di sua figlia. Mia madre all’epoca aveva trentatré anni e non immaginava che dietro tanto impegno profuso dal giovane avvocato, si celasse una bruciante passione.

 

“Da una cosa storta, non ne nasce mai una dritta”.

 

L’egoismo dell’amore riprese ad ardere con la passione di quel ragazzo ebreo. Purtroppo la medicina non è una scienza esatta e la sorte giocò di nuovo contro mia madre. Il seme della colpa attecchì in quel ventre che era stato dato per spacciato troppo presto.

 

“Un figlio ha bisogno di un padre”

 

Primo era ancora suo marito e lei quel figlio non lo poteva tenere. Sua madre la trascinò in un postribolo, dove una matrona era abituata a cavare via il “problema” delle sue protette con un mestolo da cucina. Se passare per una puttana, era il solo modo di salvare quel poco di rispettabilità che l’era rimasta, preferiva andare avanti da sola contro il mondo intero. Mia madre piantò la nonna in quel bordello e se ne tornò al portierato, diventato una rocca assediata dal perbenismo.

 

“Un figlio di NN non ha futuro”

 

Ogni mattina mia madre si svegliava con la consapevolezza che le stava crescendo in grembo il seme della colpa, cui avrebbe trasmesso alla nascita il marchio dell’ignominia. Un sentimento che s’intrise di rancore. La sua ragione offuscata dalla paura, la portò non solo ad accettare l’inganno architettato dalla madre in combutta con i suoceri, con cui volevano far credere a Primo di essere il padre del suo bambino, ma la indusse persino a credere di poter tornare ad amare il marito.

 

“Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”

 

L’occasione giusta e un bicchier di vino bastarono a riaccendere una fugace fiammella da una brace diventata cenere da un pezzo. I suoceri furono ben felici di riprendersi in casa la nuora, pur di dissuadere Primo dal riconoscere l’agognato figlio maschio che aveva avuto da una prostituta. Fu così che venni alla luce clandestinamente in un paesello sperduto tra le montagne della Ciociaria, segnato all’anagrafe solo tre mesi più tardi. Tutti, compreso Primo, non avrebbero sospettato nulla se quel pazzo idealista del giovane ebreo non si fosse messo in testa di rivendicare il suo ruolo di padre. Ci volle del tempo, ma la famiglia del notaio riuscì a dissuadere il ragazzo dal riconoscere quel figlio avuto da una “mischua” (serva cristiana). Tuttavia il velo d’ipocrisia era stato strappato e per la mia mamma era insostenibile continuare a vivere tra i pettegolezzi della provincia; decise quindi di ritornare al suo portierato, dove si sentiva indipendente e protetta dall’anonimato che le dava la città.

 

“Mai sottovalutare la capacità di auto - persuasione umana”.

 

Fu così che si abbassò il volume alla verità, che con il passare del tempo divenne un lontano ricordo da bisbigliare tra sé. La mia era ufficialmente una famiglia modello, anche se tra noi le ombre dei rancori sopiti, si agitavano minacciose come nembi carichi di elettricità. Io ne percepivo solo la presenza ostile, combattevo “Loro” con l’unica arma che un bambino ha a disposizione: la magia ...

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Floppy 01/01

 

“Loro” vivevano nell’ombra degli adulti. Li seguivano silenziosi cibandosi d’ogni brivido di rabbia represso. Li vedevo allungare le lunghe lingue per dissetarsi alle pozze lacustri, dove si raccoglieva il trasudo di una quotidianità che arrancava verso sera. Giungevano all’imbrunire, quando le pentole iniziavano a sbuffare vapore da sotto i coperchi e l’aria si riempiva dell’acre odore dello sforzo di volontà che mia madre faceva, affinché la nostra cucina diventasse come tutte le altre cucine all’ora di cena.

 

Devo fare pipì, devo proprio e non posso rimandare ulteriormente.

 

Il primo che arrivava a casa andava in cucina e accendeva il televisore. Il silenzio di chi non aveva nulla da dirsi sarebbe stato altrimenti insostenibile.

 

Devo fare pipì, devo proprio e non posso rimandare ulteriormente.

 

Sull’uscio della cucina sbirciavo atterrito la bruma scura, che celava la porta del gabinetto in fondo al corridoio. Fin quando sarei rimasto nella luce, ero al sicuro dalle lunghe lingue bavose di Loro.

 

- Devo andare in bagno.

 

La mamma non prestava mai attenzione alle facezie che avevo continuamente da dirle. Allora le tiravo un lembo dello zinale per distoglierla da quanto stava facendo, e lei mi guardava spazientita.

 

- Hai forse dimenticato la strada del gabinetto? Angela accompagnalo per favore.

- Uffa, ma di cosa ha paura?

 

Sarebbe stato inutile cercare di spiegare chi erano Loro a mia sorella Angela, le avrei solo dato motivo per qualche nuovo sfottò. Aspettavo impietrito dalla paura che la luce creasse un varco nella temibile massa buia e informe, ma le lampadine del bagno e della camera di mia madre non riuscivano a rischiarare una zona buia a metà strada, per quella sarebbe bastato accendere la luce del corridoio, ma era fulminata e nessuno si preoccupò mai di cambiarla. Così dovevo prendere il coraggio a due mani e, dopo aver tirato su un gran respiro, facevo andare le mie scarpe ortopediche al trotto sui marmittoni del pavimento. Durante la corsa sentivo le lunghe lingue di Loro sfiorarmi le spalle, ma alla fine riuscivo sempre a giungere al sicuro nella luce.

 

Per smorzare la tensione facevo pipì dondolandomi in bilico sulla tavoletta del water, stando attento a non volgere lo sguardo fuori dalla finestra perché la notte era composta di un numero sterminato di Loro. Se fissavo l’oscurità, riuscivo a intravederne le sagome tenebrose agitarsi, tutte ammucchiate una sopra l’altra a formare un’unica massa buia.

Sciamata l’impellenza del bisogno fisiologico, al ritorno mi mancava il coraggio d’affrontare di nuovo il corridoio scuro. Chiamavo Angela. Richiamavo Angela. Provavo con la mamma… ma senza il rischio di farmela addosso, nessuno veniva a riprendermi.

 

Come un funambolo in equilibrio su un filo di penombra, riuscivo a raggiungere la camera di mia madre. Là dentro c’era il suo rassicurante odore che mi dava asilo, così potevo aspettare tranquillamente che la cena fosse in tavola e qualcuno venisse a recuperarmi.

A darmi compagnia c’erano le foto incorniciate sul comodino della mamma. Quella che più mi catturava era l’immagine di Lorena, mia sorella maggiore, alla quale porgevo un bacio che posavo prima su due dita, come vedevo sempre fare a mia madre prima di addormentarsi. Lorena era morta ancora in fasce, e in quella foto non stava dormendo come sarebbe potuto sembrare. Col suo volto inespressivo e quelle labbra mollemente schiuse, magnetizzava la mia attenzione per interi minuti.

Angela nel suo ritratto faceva una smorfia difficile da definire, stava ridendo a crepapelle o piangeva disperatamente?

All’epoca non mi accorgevo che la mia foto era la sola che non aveva la cornice istituzionale, quella d’argento che i nonni paterni usavano regalare a ogni battezzo di un nuovo membro della famiglia. Angela mi diceva sempre che ero il frutto del peccato e perciò da me non ne sarebbe mai uscito nulla di buono.

 

- Si può sapere che combini? La cena è pronta, muoviti.

- Angela, ma che vuol dire essere il frutto del peccato?

- Zitto! E guai se dici a mamma che te l’ho detto.

- Perché non posso dirglielo?

- E’ un segreto.

- Allora è magico!

- Zitto e cammina, o spengo la luce.

 

La mamma sedeva dalla parte della cucina a gas, mentre Angela mangiava di spalle alla finestra. Il mio posto era accanto alla mamma, sulla sedia a seggiolone. Solo quando c’era papà si mangiava in sala da pranzo, davanti al televisore grande.

 

- Sta dritta o ti verrà la gobba e non ti vorranno sposare.

 

La mamma rimproverava continuamente Angela perché mangiava col gomito sinistro poggiato sulle gambe.

 

- Voglio l’accattoni…

 

Sì, per pasta volevo solo i rigatoni perché mi capitavano sempre degli spaghetti che non erano buoni per essere arrotolati. Solo per questo che la mamma me li sminuzzava con l’angolo della sua forchetta, poi mi passava il cucchiaio della formaggiera ed io iniziavo a catturarli inseguendoli sulla ceramica scivolosa del piatto.

Si mangiava con il piccolo televisore che continuava a far rumore da sopra l’angolo della credenza, senza che qualcuno lo ascoltasse. La mamma, appena ingoiato l’ultimo boccone, si alzava e iniziava a lavare le pentole mentre Angela sparecchiava. Io avrei desiderato essere abbastanza alto da dare loro una mano, ma arrivavo a malapena al tavolo, figurarsi all’acquaio. Così venivo spedito in sala da pranzo ad accendere il televisore grande.

 

Ero il solo in casa a saper sintonizzare la manopola delle frequenze del nostro vecchio Phonola sui nuovi network privati, che all’epoca iniziavano a trasmettere abusivamente, ma già stavano radicalmente cambiando il comportamento di tutti. Quando ancora non sapevo leggere, già riconoscevo i simboli delle nuove stazioni che trasmettevano i cartoni animati giapponesi o i serial americani che piacevano tanto alla mamma. Del resto trascorrevo tutto il giorno bivaccando su quel divano in finta pelle, con il teleschermo che era diventato la finestra sul mio cortile fantastico.

 

Gli altri bambini andavano all’asilo, erano portati al parco o anche solo nel passeggino quando le madri andavano a far commissioni. Io non uscivo mai. Trascorsi i primi cinque anni della mia vita sotto chiave. Qualcosa spingeva mia madre a tenermi nascosto. Mi amava certamente, seppure desiderasse che non esistessi. Il perbenismo che tanto la spaventava, le aveva saldato addosso una corazza che le impediva di accettarmi.

 

“Se non fai il buono, ti mando all’asilo e non vengo più a riprenderti”.

 

L’abbandono è stata la mia fobia più grande per tutta l’infanzia. Mi mancavano quelle certezze affettive che imbastiscono i gesti dell’amore: una carezza, un sorriso … Quella sottile filatura capace di cucire tra loro le persone. In casa esisteva solo il senso del dovere che ci teneva insieme contro un mondo ostile. Il portone di casa mi sembrava lo sportello di un’astronave e ogni volta che si apriva, temevo che mi potesse risucchiare e disperdermi nello spazio esterno.

 

Sistemato il plaid sopra la finta pelle sempre gelata del divano, aspettavo la mamma e Angela sotto la trapunta, al sicuro nel cono di luce proiettato dallo schermo del televisore. Quello era il momento più bello della giornata. Mi lasciavo scivolare nel sonno tra le uniche persone al mondo che conoscevo. Il loro calore mi avvolgeva in quello che diventava un angolo di paradiso.

 

Come d’incanto mi svegliavo al mattino, nel mio letto. Angela andava a scuola e la mamma a sbrigare le faccende del portierato, così io rimanevo di nuovo solo fino all’ora di pranzo. Loro erano in agguato in ogni angolo buio di casa: dentro gli armadi, sotto i letti e dietro ogni porta socchiusa di casa. Li sentivo far scricchiolare qualche asse di legno, o quando inavvertitamente facevano cadere qualcosa, ma sapevo che non potevano uscire fino a quando non sarebbero sopraggiunte le ombre degli adulti. Così me ne rimanevo al sicuro con i piedi sopra il divano, trascorrendo tutto il giorno in compagnia di Goldrake e Specrteman.

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Silverselfer

Floppy 01/02

 

Colle Camposanto era l’ultima altura dell’Agro Romano che si affacciava sulla grande spianata della Pianura Pontina. Gli era stato dato questo nome per via di un piccolo cimitero edificato lungo la strada statale Appia che ne lambiva i margini. Il casale dei nonni era costruito proprio in cima al colle e nei giorni di sole era possibile vedere il profilo del promontorio del Circeo, o il riflesso luminoso della grande cupola della centrale nucleare di Borgo Sabotino, due simboli che per molto tempo rappresentarono le vacanze estive.

 

- Momooo …Moomo … è pronto in tavola ...

 

 

“Ciao vecchia signora con la veletta, come stai? Non viene mai nessuno a portarti i fiori. Tieni questi bianchi, puzzano un po’ ma sono bellissimi non trovi?”.

 

- Moomooo …

 

 

“Ora devo andare, ma tu puoi venirmi a trovare in sogno quando vuoi. No che non mi spaventerò questa volta. Angela mi chiama e devo ancora passare da Gesù. Sì, questa bellissima rosa gialla è per lui. No, che non posso lasciartela, è per Gesù! E va bene, la prossima volta ne ruberò una anche per te”.

 

Tra le tombe si aggiravano sornioni i gatti e cantavano gli uccelli tra i rami dei cipressi odorosi. Il vecchio cimitero era troppo seducente e non riuscivo a starne lontano. Le escursioni nel circondario finivano sempre tra i muschi di quei vialetti di pietra. Una volta là, tutti quei volti nelle cornici iniziavano a guardarmi, a fissarmi persino. Solo per buona educazione che iniziai a dargli il buon giorno. Dai oggi e dai domani, una parola tira l’altra… fu così che strinsi amicizia con alcuni di loro. Spesso chiedevo in prestito qualche fiore a chi ne aveva troppi, e li portavo a dei poveri cristi che avevano sempre il vasetto vuoto, come la signora con la veletta.

 

- Mooo… tanto lo so che stai qui.

 

“La rosa va nella mano destra, quella di Dio. Bella madonnina, ho portato una rosa per il frutto del tuo seno Gesù; amen” - Ahia!

 

- Così impari. E adesso che andiamo a casa lo dico a mamma che sei venuto un'altra volta nel camposanto.

- E no. Sono solo cinque minuti che sto qui.

- Stavi parlando ancora con i morti! E poi di notte ci rompi le scatole perché te li sogni.

- Non è vero … loro sono miei amici.

- Allora sei il Diavolo, perché solo il Diavolo è amico dei morti.

- Io non sono il Diavolo, scema!

- Ma sei cattivo come gli zingari, dove mamma ti ha raccattato.

- Ci hanno preso te dagli zingari, hai capito?

- I morti non vengono mica a trovare me e ora glielo dico a mamma e poi vedrai chi dei due è lo scemo …

- Non dirglielo dai. Faccio quello che vuoi ma non dirglielo.

- …

- Rispondi. Glielo dirai?

- Non lo so.

- E non glielo dire, dai! Non glielo dire. Non glielo dire.

- …

- Noooon glielo diiiireeee. Ti prego.

- E va bene, basta che cammini.

 

Mia sorella Angela usava angustiarmi con la storia che non ero figlio di mamma e papà. Secondo lei ero stato raccattato in strada, per pietà, da una zingara che mi aveva abbandonato. Era una storia che mi gelava il sangue nelle vene. L’idea di poter essere abbandonato mi atterriva, e in casa ne approfittavano un po’ tutti per ridurmi all’ubbidienza.

 

- Ahia!

 

E giù col primo scappellotto…

 

- Non è vero. Non è vero …

- Invece sì. Era nel cimitero.

 

Spesso di notte sentivo le tentacolari lingue di Loro insinuarsi dentro il naso, la bocca, le orecchie fino a soffocarmi. Cercavo di trattenere il fiato, ma era impossibile non affogare nel buio che espandeva la loro densità, rendendola volatile come l’aria. Se questo accadesse durante il sonno o fossi sveglio, non me lo ricordo. So solo che ridotto allo stremo, finivo per urlare mettendo in subbuglio il resto della famiglia. Tutti erano convinti che i miei incubi notturni fossero causati dalle passeggiate nel cimitero, eppure non erano i fantasmi dei defunti a spaventarmi. Certo che si palesavano sempre in vesti inquietanti, tuttavia non attentavano certo alla mia vita. Gli spettri mi parlavano con gesti amicali, senza l’ausilio di parole, come usava fare nonna Méla.

 

- Non ci vado più. Non ci vado più

- Vorrei sapere chi mi ha mandato questa croce da portare. Esci da sotto il letto …

- No!

- Esci o come ti ho fatto, così ti disfo! Conto fino a tre…

- Non ci parlo più.

- Zitto in nome di Dio! Uno.

- Giuroooo …

- Duuue …

- Lo giuurooo …

- Giurare è peccato …

- (pianto a dirotto)

- Tre

- Nooooooo

- Esci ho chiamo la zingara che ti si riprende… la chiamo?

- Nooooooooooo

- Allora esci.

 

Non c’era bisogno di darmele per farmi disperare. Quando iniziavo a piangere ero un fiume in piena. Continuavo fino alle convulsioni, diventando cianotico. Allora le prendeva pure mia sorella che in un modo o nell’altro c’entrava sempre. Il panico scatenato dalla mia crisi nervosa faceva sragionare la mamma che litigava con tutti, e Primo iniziava a bestemmiare minacciando d’abbandonare quella gabbia di matti.

Per fortuna che in campagna c’era nonna Méla: Paciosa figura tondeggiante dai capelli candidi raccolti sulla nuca. Ogni volta era capace di regalarmi un sorriso dei suoi, poco eleganti ma contagiosissimi, e tutto passava.

 

- Stai qua a nonna. Quelli so’ tutti scemi. Mo’ te porto con me alla stalla, vabbè?

 

Nonna non l’ho mai vista arrabbiata. Parlava poco e niente, anche perché una parola sì e una no si prendeva un accidenti dal nonno. “Le lacrime sono salate” diceva “dove cadono non cresce niente”. M’insegnò quel suo linguaggio che diffidava delle parole, fatto di gesti o improvvisi sorrisi che strizzavano gli occhi.

 

Nonna Méla camminava beccheggiando sulle gambe bianche e grassocce. La seguivo silenziosamente, ma lei non si curava troppo di me, lasciandomi gironzolare libero nell’aia a rompere le scatole agli animali.

I gatti mi affascinavano in particolar modo e per via del cimitero, là attorno non mancavano mai. Costituivano la dannazione del nonno.

 

Un giorno ne scoprii una covata nel fienile. Se ne stavano raggomitolati uno sull’altro al calduccio. La gioia per quella scoperta mi rese nervoso, era un segreto che scottava! Se fossi corso in casa con quella notizia, ci avrei rimediato un encomio, però dopo avrebbero avvertito il nonno che felice del compito, li avrebbe affogati come il solito. Fu più forte il dovere di proteggerli, così pensai di spostarli per nasconderli meglio.

 

Portai i gatti nella casa degli abbandonati. Questa non era altro che la vecchia porcilaia, dove mettevo in salvo qualsiasi cosa mi suscitasse pietà. Anche un barattolo preso a calci per strada era degno della mia attenzione, così lo accoglievo nel mio brefotrofio insieme ai vecchi giocattoli da buttare e alle cartacce che trovavo a vagare disperate, rapite dal vento.

 

Riposi i gatti su un maglione infeltrito e pensai subito di portargli un po’ di latte, ma quello era un compito troppo difficile da affrontare da solo, così decisi di prendere a parte del segreto Angela. Fidavo in lei perché l’avevo vista piangere tanto per il suo gatto, che mangiò una spugna avvelenata cucinata dal nonno.

 

- Che stupido che sei. Ora che li hai spostati, la madre li abbandonerà e moriranno di fame.

 

Tragedia! Il rimorso già mi lacerava.

 

- Hai promesso.

- Non ho promesso niente.

- Non lo devi dire a nessuno.

- Tanto moriranno comunque.

- Gli darò io il latte.

- Moriranno.

- No.

- Invece sì.

- No.

- Ma la mamma lo sa che ammucchi qui le cose che loro buttano?

- Che t’importa.

- Le vipere fanno la casa nell’immondizia, che non lo sai?

- Non ci sono le vipere.

- Invece sì, e si mangeranno i tuoi stupidi gattini.

- No.

- E poi vedremo.

 

Non fu la vipera a mangiarsi i mici, in ogni modo sempre di una lingua biforcuta rimasero vittime, quella di Angela. Lei non esitò un solo istante a raccogliere i plausi famigliari per la scoperta. Non solo, si prese anche la soddisfazione di vedere il mio brefotrofio sfasciarsi, infilzato dalla forcina di papà. Il supplizio era troppo grande e assistetti da lontano allo scempio.

 

Fu tremendo quando vidi arrivare il nonno col secchio. Prendeva i mici per la testa e li gettava nell’acqua senza alcuna pietà. Quelli però erano troppo grandi e l’istinto li faceva nuotare; con le unghie pungenti ferivano le mani del nonno che li malediceva. Furioso li afferrava uno per volta scaraventandoli contro la parete di casa. Non morivano subito, quindi li andava a cercare nell’erba ed io pregavo, pregavo perché non li trovasse. Supplicavo Dio affinché un angelo calasse dal cielo per sottrarli a quel calvario, ma non scese mai nessuno; c’era solo quel demone del nonno che continuava a schiantarli contro il muro. Divertito dalla resistenza di alcuni di essi, li afferrava per il codino e ancora rantolanti, li lanciava sul tetto di casa.

 

Finì così la loro pena? No.

 

Quella notte un miagolio disperato cominciò a riecheggiare per tutta casa. Era straziante e alcune urla più forti fecero rabbrividire anche la mamma.

Primo, sbuffando, scese in cortile e con la scala andò sul tetto per mettere fine a quell’angosciante nenia di morte. Dalla faccia che aveva quando rientrò in casa, si capiva che non gli era piaciuto quello che aveva dovuto fare.

Un odio profondo per il nonno, mi fece pregare tutte le sere per anni affinché morisse nello stesso strazio che aveva inflitto ai quei gattini.

 

Al Nonno non stavo simpatico perché ero un “bastardo giudeo”. Ricordo che ovunque mi sedessi, lui veniva e, punzonandomi con il suo dannato bastone da passeggio, sgomberava la sedia per accomodarcisi lui. No, non mi fu difficile odiarlo. Me lo ricordo sempre lustro con le sue medaglie di guerra appuntate al petto, in posa per farsi fotografare. Il suo sorriso stronzo spuntava sempre da qualche parte di casa, sembrava una maledizione.

 

Quando giunse la notizia che il nonno era sul letto di morte, in me non suscitò nessuna pietà, bensì un istintivo senso di giustizia.

Ancora oggi quando porto i fiori al cimitero e lo guardo in quella foto sul sarcofago, con le medaglie appuntate al petto, non posso fare a meno di provare disprezzo per lui ... allora il rimorso mi fa abbassare lo sguardo, incrociando il sorriso di nonna Méla, pacioso e tranquillo, quasi ironico. E’ solo a lei che porgo un saluto andando via, ringraziandola di avermi insegnato a comunicare senza il bisogno di parole, un modo che funziona anche dopo tanto tempo che si è morti.

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Floppy 01/03

 

Un rumore assordante unito a quel calore che prosciugava la gola…

 

Che scempio! Che scempio!

 

Tutto un mare di papaveri falciato da quel mostro meccanico. Era certo giunto da Vega per mangiarsi i fiori della terra e farne cacca a cubetti rettangolari di fieno. Dove cavolo era finito quel Superman della malora? E Mazinga? Erano tutte fregature come gli angeli e le fate.

 

Una vertigine di petali rossi e il grosso trattore scuro, è quanto mi ricordo di quell’incidente.

 

Si era ormai in estate e nel campo accanto al cimitero era cresciuto un mare di papaveri, un incanto. Posto su un declivio di Colle Camposanto, quell’onda rossa mi veniva incontro correndo, ed io serfavo fino a perdermi in un capitombolo sulla battigia del mondo.

Poi arrivò l’enorme trattore, una massa di ferraglia buia, così me lo ricordo. Mi passò sopra e stava per impacchettarmi come una balla di fieno.

Fu un miracolo a salvarmi, o almeno così mi è stato sempre raccontato. Fu l’impavida madre che colta da un’improvvisa palpitazione mentre era intenta a stirare, si precipitò nell’aia.

 

“Oh! Cielo, sicuramente è Pisellino quella caccola scura che sta per essere investita dal trattore di Bruto”.

 

Si disse iniziando a correre come Olivia di Braccio di Ferro, ululando con la gola trasformata nel batocchio di una campanella antincendio. Pisellino non si muoveva, atterrito com’era da quello stronzo di Bruto alla guida del trattore. Olivia manco si fosse mangiata tutti gli spinaci di Braccio di Ferro, prese a calci il mostro meccanico e mandò in orbita intorno a Saturno quel brutto ceffo di Bruto.

Ma alla fine Pisellino come ne venne fuori?

 

- Io non la voio la minescia! Non la voiooooo…

 

Ebbi un trauma nervoso che mi ammutolì. Rimasi tre mesi senza emettere suono, manco per piangere o ridere… mi si era spento l’audio. Fui portato anche da una santona per scacciare la paura dalla mia testa. Di lei ricordo solo l’alito pesante e un intruglio puzzolente con cui mi lavò il viso. Forse fu proprio per quell’intruglio che sviluppai un’avversione verso ogni tipo di brodaglia.

 

- Tanto non la manscio, non la manscio la minescia… capito?

 

In ogni modo non so se per merito della santona o del logopedista, ma tornai a parlare. La “S” e la“R”, unite in sillabe complesse, le pronunciavo in modo buffo, ma col tempo tutto tornò come prima. La sola cosa che non se n’è più andata è una maledetta balbuzie emotiva che mi trascino dietro ancora oggi.

 

- Tu la mangi e zitto. Nella minestra ci sono gli spinaci, non vuoi diventare forte come Braccio di Ferro?

- Io voio esce alto… (e via di corsa contro lo stipite della porta del salotto a vedere se ero cresciuto dall’ultima intacca). Quanto sciono clesciuto?

- Gli spinaci prima li devi mangiare e poi ti fanno crescere... funziona così non lo sai?

- QUANTO SCIONO CLESCIUTOOOOOOOO?

- Angela. Angela va a vedè quant’è cresciuto che non lo posso più sentì.

- Sto studiando.

- E smetti cinque minuti, mica posso fa’ tutto da sola.

- QUANTOSCIONOCLESCIUTOQUANTOSCIONOCLESCIUTO …

- Angela muoviti! Fallo smettere che mi si sta ficcando nel cervello. Angela!

- Sei diventato più basso… lo vedi?

- Più bascio! Non è poscibile. Alloa devo mansciae tantissima minescia ... che sccc ... che sccc che scc ...

- Ti si è incantato il disco? Tanto tu non diventerai mai alto. I ciccioni non diventano alti.

- Non è veo, busciadda.

- Ciccione …

- MAMMA! MAMMA! Io non la voio la minescia pecchè Anscela disce che mi fa diventae sciscione!

- Ma insomma Angela! Smettila di dirgli che è ciccione … eppure sei grande!

- Lui è ciccione; e poi io devo studiare non posso stargli appresso.

- Allora va a studiare in guardiola che almeno servi a qualcosa. Momo dove stai?

- Eccomi… mi misciui col metlo, pefavoe.

- Tu te lo ricordi la misura dell’altra volta? (Chiese guardinga la mamma)

- Non me lo licoddo.

- Un metro e dieci … Che c’è?

- NOOOOOOOOOO

- Angela! Quanto misurava l’altra volta? Angela!

- Un metro e quindici, ma papà ha barato di brutto, mi ha fatto pure l’occhietto prima di fare la tacca sullo stipite.

- NOOOOOOOOOO

- Insomma basta! Non ne posso più… Io ho da preparare la cena, toglimelo di torno.

- Sto andando in guardiola a studiare, non posso.

- NOOOOOOOOOO

- Zitto per Dio! Mica sarà arrivata l’ora delle botte? Stasera torna papà e dobbiamo essere contenti... tu sei contento che c’è papa a cena?

- Io la minescia non la voio.

- E io te la ficco per gli occhi e te la faccio uscire dalle orecchie, va bene così? Ora va in camera a giocare e… zitto e mosca.

 

Quella volta Primo tornava a casa dopo quasi un mese di peregrinazioni in giro per l’Italia. Il suo lavoro di rappresentante lo prendeva molto, forse troppo. Quando tornava non faceva altro che raccontarci delle prospettive di successo che l’esclusiva nazionale sul suo materiale elettrico ci avrebbe reso. Già, ma intanto a casa scuciva soldi con il contagocce…

Mia madre non lo poteva soffrire eppure ogni volta si faceva in quattro per accoglierlo come un re.

La minestra la preparava per lui, ricetta della suocera, era una questione d’onore che venisse buona ogni volta.

 

Per papà c’era sempre la tovaglia di pizzo San Gallo del corredo, con i piatti del servizio buono e i bicchieri presi dalla vetrinetta del salotto. In mezzo alla tavola c’era il bottiglione di vino delle vigne del nonno, ma anche la Cocacola per noi! La Cocacola mi piaceva, ma non potevo berla perché mi faceva venire la dissenteria. In quelle rare occasioni potevo spuntarne un sorso perché a papà piaceva concedermelo.

 

- Ho dovuto pagare anche la bolletta della luce…

- Se tutti i soldi che ti ho lasciato sono andati via per le bollette, fammele vedere allora, Cristo!

- Tu non sai cosa vuol dire mandare avanti una casa…

- Fammi vedere le ricevute, avrò il diritto di vederle?

- Ma credi che faccio la cresta su quei quattro soldi che mi lasci?!

- Schei e osei fin ghe ne ciapei, vero?

- Ma se per stare in queste quattro mura mi sono ridotta a fare la serva.

 

Tipica discussione familiare. Quei due non potevano restare soli nella stessa stanza senza litigare. Di solito il pretesto lo fornivano i conti del bilancio famigliare, quella volta però c’era qualcosa di più grosso che ci covava sotto. L’atmosfera era particolarmente tesa e la mamma pareva sull’orlo di una delle sue crisi nervose.

 

- Sta ancora tutta nel piatto quella minestra!

 

Mi disse all’improvviso con gli occhi arrossati dalle lacrime trattenute a stento.

 

- Sì. Io non la voio la minescia.

- Ma lo senti? “La minescia”. A questo servono i soldi che sperperiamo in specialisti, parla come un mongoloide.

 

Certo che se avessi capito cosa si stavano dicendo ci sarei rimasto male, ma quella era la normalità.

 

- Smettila di chiamarlo così che se fosse per te …

- Fosse per me cosa? So io cosa gli ci vorrebbe. Mandiamolo all’asilo, facciamolo uscire, giocare con gli altri ragazzini della sua età.

- Ti piacerebbe vero? Così risparmieresti i soldi delle visite. I soldi, quelli che ti servono per andare a femmine; non è così? Quelle che incontri quando vai a giocare a carte; non è così? Rispondi. Non è così?

- Io me li vado a sudare i miei soldi, hai capito? Piacerebbe anche a me starmene a letto, allargare le gambe e aspettare che i denari mi piovano dal cielo.

- Che farei io! Questa stronza lavora dalla mattina alla sera. Credi forse che con quei tuoi quattro soldi ci pago il maggiordomo?

- Non ti bastano, vero? Non ti bastano mai a te. Allora fammi vedere le ricevute delle bollette, avanti.

- Non ci stanno le tue maledette ricevute, non ci stanno perché ho dovuto comprare le scarpe ortopediche per Momo, quelle che aveva erano piccole ormai.

- Scarpe ortopediche! Ancora con questa storia delle scarpe ortopediche. Il dottore ha detto che non ne ha più bisogno.

- Il dottore non capisce un cazzo.

 

E già, le dannate scarpe ortopediche. Il pediatra le aveva consigliate per via della mia considerevole mole, che durante i primi passi poteva crearmi danni alla postura del piede. Ma oramai di passi ne avevo compiuti assai, però la mamma “per sicurezza” mi costringeva ancora a metterle.

 

- Io voio la Cocacola

 

Decisi che il tempo era maturo per sfoggiare il sorriso sdentato a papi e fare la gentile richiesta, pronto per il siparietto simpatico che mandava tutti in brodo di giuggiole.

 

- Tieni bello di papà, bevi alla faccia dei dottori.

- Gli fa male! E’ allergico alla caffeina.

- Ma che allergico, e allergico. Smettila di trattarlo come un malato del cazzo.

 

Non mi era mai stato permesso di bere un intero bicchiere di Coca cola. Sapevo che la mamma non voleva, però l’occasione era troppo ghiotta. Stavo per afferrare il bicchiere, quando lei mi bloccò il polso. Con un abile strattone mi fece finire stretto nella morsa delle sue cosce. Conoscevo bene quella posizione che usava per ridurmi all’impotenza. Con una mano mi premette la fronte, per tenermi il capo all’indietro e contemporaneamente il naso turato, mentre col cucchiaio nell’altra cercava un appiglio tra i denti per fare leva. La minestra in un verso o nell’altro mi finiva in gola, almeno quella volta non era bollente.

 

Io piangevo per svariati motivi, ma mai per le botte.

 

Quando la mamma mi lasciò, ormai soddisfatta dell’esibizione di potere dinanzi al marito, risistemai bene le gambe sotto il tavolo e a mani conserte, come siedono i bravi bambini, vomitai a fontanella il grumo schifoso che mi stava appestando le viscere. E così che la preziosa tovaglia di pizzo San Gallo s’impreziosì dei ghirigori prodotti dai rivoli giallognoli dei miei succhi gastrici.

Il mio spruzzo biliare li aveva finalmente zittiti e nell’aria risuonava solitaria la sigla del telegiornale delle otto. Il puzzo acido si espandeva nell’etere come incenso maledetto, penetrava nei loro corpi disgustati e non poteva essere corrotto da nessuna ipocrisia.

 

La mamma teneva il volto nascosto in una mano, singhiozzando. “Io sono un bambino molto cattivo”.

Papà era scattato in piedi, voltandosi di spalle per non essere costretto a guardare il mio schifo.

 

Angela mi pulì con un tovagliolo e poi lasciò l’allegra tavolata. Io la seguii in silenzio fino in camera. Non c’era bisogno di dirci nulla, sapevamo perfettamente cosa dovevamo fare. Lei iniziò a spogliarmi per mettermi il pigiama.“Giochiamo a mille e torna indietro?”.

 

Il gioco consisteva nello scrivere su un foglio da uno fino a mille e poi tornare indietro. Quella sera però a mia sorella non andava di segnarmi il primo numero di ogni nuova decina perché sapevo solo copiare automaticamente. Era troppo turbata dagli scoppi d’ira di mamma e papà che avevano ricominciato appena ci eravamo allontanati.

All’epoca ero convinto che tutti i genitori del mondo fossero come i miei e sentirli litigare era quasi rassicurante. Avevo paura solo quando Angela spegneva la luce e sopraggiungevano Loro, eccitati dai tuoni che scrocchiavano in casa.

 

- Anscela…Anscela…Anscelaaaa…

- Che Vuoi?

- Già dommi?

- Zitto.

- Anscela…

- Finiscila.

- Anscela… me la dai la mano?

- No, e non rompere.

- E dai… Anscela… dammi la mano.

- Fa freddo.

- Solo scinque minuti… Anscela…

- E dammi sta mano.

 

La mano di Angela stretta alla mia formava una fune che impediva a Loro di rapirmi. Di solito funzionava per il tempo che serviva a farmi addormentare, ma quella sera la tempesta li eccitava troppo e Angela ritrasse la mano troppo presto. Tirai su la coperta fin sopra la testa a delimitare uno spazio il più piccolo possibile.

D’improvviso gli scrocchi della tempesta si ammutolirono. Uno scalpitio reboante e rapido come la piena di un fiume, si abbatté sulla porta della cameretta che non resse all’urto e si spalancò deflagrando. Di quell’istante mi è rimasto nella memoria solo l’acuto dello strillo di Angela. Subito dopo venne squarciato il ventre in cui mi ero rifugiato e fui tratto via da una forza dalla potenza inaudita. “Sono Loro che mi rapiscono”.

 

Volevo urlare, ma il panico mi aveva di nuovo tolto l’audio. Poi riconobbi le braccia di papà dall’odore di dopobarba sul suo collo, ma immediatamente dopo sentii altre mani che cercavano di trarmi via, era la mamma. Volevo andare con lei e iniziai a divincolarmi, ma l’abbraccio di papà diventò una morsa che m’impediva anche di respirare. Il corridoio con la lampadina fulminata mi passò davanti in una vertigine e mi ritrovai in piedi sul tavolo, insieme al bottiglione di vino del nonno, la Coca Cola che mi faceva venire la dissenteria e con i piedi nudi sulla minestra che avevo vomitato durante la cena.

Quei due continuavano a urlare e strepitare, nominando un sacco di quelle parole che Gesù non voleva ascoltare. Cercavo disperatamente i loro occhi per trovare una conferma che esistevo ancora, ma i loro sguardi mi attraversavano come se fossi diventato invisibile. Eppure stavano parlando di me, papà continuava a indicarmi con l’indice come se fosse un pungolo con cui infilzarmi. “Sono decisamente il bambino più cattivo del mondo”.

 

Gli insulti che si lanciavano mi si appiccicavano addosso come sputi e mi colavano dappertutto facendomi sentire lordo e schifoso. Piangevo senza volere piangere, mi ascoltavo frignare allo stesso modo di come sentivo il colonnello dell’aeronautica declamare dalla tv le previsioni meteorologiche.

D’improvviso il silenzio. Era successo qualcosa. La mamma sgranò gli occhi con lo sguardo fisso su papà. Pareva che una freccia le avesse appena trafitto il cuore. Scappò dalla cucina, Primo la rincorse… li sentivo urlare ancora dalla camera da letto.

Scesi dal tavolo stando attento per non scivolare con i piedi nudi sul vomito, poi corsi a sbirciare in corridoio. Li vidi tornare con mamma che si trascinava dietro una valigia. Cercai di chiamarla ma non mi uscì neanche un filo di voce, volevo rincorrerla ma rimasi paralizzato sui miei passi. La mamma fu risucchiata dal mondo esterno e papà le sbatté forte il portone di casa dietro. “E’ tutta colpa mia”.

 

Una brina gelata invase improvvisamente casa e iniziai a tremare dal freddo. Angela aveva raggiunto papà che la abbracciò per farla smettere di singhiozzare. La sollevò in braccio e mi passarono accanto senza accorgersi di me. Temevo seriamente di essere diventato una delle tante ombre che affollavano il buio. Iniziai a muovere alcuni passi sul pavimento gelato. Volevo attraversare il corridoio fino al portone. Il terrore di scomparire definitivamente mi diede il coraggio di affrontare le lunghe lingue scure di Loro.

Giunsi finalmente sotto il portone, alzai lo sguardo e quando vidi la maniglia ancora troppo alta per essere raggiunta dalla mia mano, un urlo ruppe il ghiaccio che aveva paralizzato le corde vocali. Fu così grande lo sforzo di spingere fuori tutto quel fiato dalla gola, che diventai cianotico e iniziai a tremare come un ossesso.

 

- NOOOOOOOOOO…

 

Papà arrivò subito ma gli mancò il coraggio di toccarmi, forse gli facevo schifo perché mi ero pisciato addosso. Angela mi prese a sberle come aveva sempre visto fare alla mamma, mi diceva qualcosa, ma il mio urlo era troppo forte per riuscire a sentirla. Finalmente la paura di essere scomparso sciamò, e fui felice di ritrovare la mano di Angela che mi strattonava per farsi seguire in bagno. Mi lasciò lì per qualche istante, poi tornò con delle mutandine asciutte... però non mi aiutò a metterle; era un bel guaio! Le mutande erano difficili da mettere. Infilavo il piede in un buco e le tiravo su sempre al contrario, cercavo quindi di farle ruotare intorno alla gamba, ma non funzionava mai… erano proprio un gran rompicapo quelle mutande.

Quando Angela tornò, era molto arrabbiata con me. Mi diede dell’imbecille e mi tirò su le mutandine che misteriosamente presero subito il verso giusto. Mi trascinò a letto e raccattò alla ben in meglio le coperte sparse per la stanza

 

- M… ma io sciò feddo scc… scenza pisciama.

- Eccoti il pigiama, però te lo metti da solo. E smettila di piangere.

- I… io non pianscio m… m… mai.

- Voglio vedere… ora torno di là e guai a te se mi chiami, hai capito?

- V… voio la l… luce ascesa.

- Voglio non esiste, esiste per favore.

- P… pe…favoe.

- E vedi di rigare dritto o io e papà ti abbandoniamo al supermercato.

 

Avevo il terrore del supermercato. Quando ero costretto ad andarci mi ancoravo al carrello. Avevo paura di finire come uno di quei bambini che l’alto parlante diceva di passare a riprendere in direzione. Di volta in volta attendevo trepidante che lo speaker desse la buona notizia: “Il bambino ha ritrovato la mamma”, ma non succedeva mai e oramai iniziavo a sospettare che ne facessero salcicce per i clienti.

 

Dopo il feroce litigio di quella sera, fui mandato da nonna Etta, dove aveva trovato rifugio la mamma. Insieme tornammo presto al portierato, ma le cose non furono più come prima. Angela tornò a stare con noi solo più tardi, quando anche Primo prese a farsi rivedere saltuariamente. La mamma non gli preparava più la minestra e anche i loro litigi non furono più così violenti. Certo, continuarono a beccarsi ad ogni occasione, però senza pretendere l’amore smisero anche di odiarsi.

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Silverselfer

Floppy 01/04

 

 

“Eccola!”

 

Finalmente ero cresciuto quel tanto che mi serviva per aprire le serrature del portone blindato. Tuttavia, lo spazio esterno mi appariva alieno e preferivo guardare dal balconcino della cucina i ragazzini del rione che giocavano nel vicolo. Mi avventuravo solo fino alla guardiola, dove sedeva la mamma, oppure raggiungevo l’appartamento della zia Pina, all’ultimo piano dello stabile.

 

“Sì, è proprio lei”

 

La zia non era veramente nostra parente. Mamma era sua amica, anche se qualche volta, la chiamava “sporca ebrea”. La zia Pina era, infatti, un’ebrea convertita, ma non era assolutamente sporca. Fu per sua intercessione che mio padre genetico riuscì a farci avere il portierato.

Quando avevo un problema, la aspettavo sempre sui gradini che davano sul lungo corridoio d’ingresso del condominio. Incontrarla per caso non era difficile perché usciva ogni mattino per fare la spesa.

 

- Ah! Ecco il mio salvatore. Finalmente un gentiluomo che mi aiuterà a portare la busta della spesa.

 

La richiesta d’aiuto era sempre la stessa eppure ogni volta mi riempiva d’orgoglio. Veloce scattavo in piedi e le toglievo la busta dalle mani.

 

- Non sarà mica troppo pesante per te?

- No! Sciono forte io.

- Cosa? Non ho capito bene…

- So-no forte. Non è pe-s-ante.

- Ecco, ora sì che ho capito. Ma che ti è successo alle orecchie? Sono rosse come peperoni!

 

Durante le otto rampe di scale che ci separavano dal suo appartamento, lei indagava se avevo qualche problema da confidarle. Quel giorno però indovinare le fu fin troppo facile.

 

- Allora andrai finalmente a scuola. Sei contento?

 

“La scuola!”

 

Quella mattina avevo ricevuto la prima lettera della mia vita, era il municipio che m’invitava al primo giorno della scuola dell’obbligo. La notizia mia aveva gettato nel panico. L’idea di rimanere solo con gli alieni del mondo esterno mi atterriva.

 

- Io non ce voio anda’.

- Io… non… ci… voglio… andare... Ripeti.

- No!

- Hey, non fare il testone! Con me lo sai che non la spunti.

- Io non ci vo-glio andare a scuola.

 

La Zia cercò d’indorarmi la pillola raccontandomi quanto sarebbe stato bello incontrare tanti bambini della mia età. Mia madre, invece, aveva perso le staffe a sentirmi frignare. L’euforia che quella notizia le aveva messo addosso mi offendeva; voleva forse liberarsi di me?

 

- NOOOOOOOOOOOOOOOO

 

Avevo preso a urlare mettendo a dura prova la sua pazienza, quindi via a nascondermi nell’unico luogo dove la sua ira non poteva raggiungermi: tra il muro e l’armadio della camera.

In quella fessura c’ero già rimasto incastrato con la testa un paio di volte. Quando tentavo di uscire, le orecchie mi si attorcigliavano in avanti facendomi un male del demonio.

 

- In nome di Dio! Bada che prendo la scopa e ti faccio fare la fine del topo.

- NONCIVADOASCOLAAAA!

- Esci! Che se ci rimani incastrato un’altra volta invece del falegname chiamo il macellaio che ti taglierà quelle orecchie d’asino.

- Io non ho le orescie d’ASCINOOOO!

- Se non andrai a scuola finirai come Pinocchio, con un paio d’orecchie d’asino. E allora rimarrai incastrato per sempre… pensaci. Io me ne vado in guardiola, così la prossima volta ci penserai due volte ad infilarti là dietro.

 

Quella volta la mamma fece sul serio e mi ci lasciò, ma stringendo i denti riuscii comunque a liberarmi, anche se le orecchie mi si arrossarono al punto da sembrare due peperoni.

 

- Pulcino mio, fammi mettere comoda e poi ne parliamo a quattr’occhi.

 

Mi piaceva quando la zia mi chiamava pulcino.

 

La zia non era bellissima. Due gravidanze le avevano dato la tipica robustezza di una donna di mezza età. I capelli ossigenati tagliati corti le mettevano in risalto uno sguardo sornione che faceva il paio con un sorrisetto beffardo. Si vestiva sempre con abiti in tinta pastello, dalle scarpe al foulard, tanto che ricordava una Doris Day un po’ soprappeso.

 

- Allora, dimmi un po’ questa stupidaggine che non vuoi andare a scuola.

- Ho pau-ra

 

“L’ho detto!”

 

Quel giorno avevo aspettato la zia proprio perché volevo dirle che avevo paura, era la sola cui potevo confidarlo senza essere deriso. La mamma trovava la mia paura esilarante, mentre Angela la usava sempre per schernirmi. Eppure doveva essere chiaro il motivo del mio terrore.

 

Ero certo attratto dagli altri bambini e da quando avevo conosciuto Nando, fantasticavo di raggiungerli giù in strada. Nando era il figlio del falegname che aveva il laboratorio poco distante dalle finestre di casa. Lui era un tipo assai sveglio e un giorno mi stupì chiamandomi per nome. Io stavo al solito sul terrazzino della cucina e mi chiese se poteva usare il bagno di casa. Si arrampicò sul tetto della falegnameria e cagò nel mio gabinetto, senza neanche chiudere la porta. Per me costituì un oggetto di studi interessantissimo. Avrà avuto almeno dieci anni ed era così alto! Mi fece vergognare dei miei bellissimi album illustrati delle fiabe, però non fece nessuna storia quando gli chiesi di leggermi qualche numero dei suoi fumetti della Marvel. Di lui mi ricordo in particolar modo l’ombelico che disegnava un piccolo sorriso al contrario. Un giorno, mentre si divertiva a sconfiggermi in nome di qualche superpotere, mi ci trovai faccia a faccia e glielo morsi. Fu un istinto irresistibile e quell’immagine rimase per sempre stampata nella mia testa.

 

La zia Pina riuscì a carpirmi anche il segreto dell’amicizia con Nando e spifferò tutto alla mamma. Loro odiavano i falegnami e restauratori che affollavano le botteghe del rione, per via della puzza chimica dei prodotti che usavano. Mamma poi disprezzava particolarmente Nando perché bestemmiava come fosse un naturale intercalare del romanesco. Così un giorno ci sorprese e scura in volto, strinse le labbra e mi appuntò addosso il suo sguardo come fosse un spillo. Gli chiese con deferenza se il padre sapeva che era in casa nostra, poi lo accompagnò fino alla falegnameria e di Nando non seppi più nulla.

 

- E di cosa avresti paura? Quando siamo andati a iscriverti, mi era sembrato che ti piacesse la scuola. Hai fatto colpo anche sulla direttrice. Passami il barattolo dei pelati. Ricordi di quando le hai raccolto il foglio?

 

Quel giorno un raggio di sole tagliava in due l’aula, dove era seduta la direttrice. Io avevo appena percorso con crescente inquietudine quei corridoi deserti, dove bacheche facevano bella mostra di sé con trofei e foto di bambini. Poi quel foglio scivolò giù dalla cattedra e ondeggiando planò sul pavimento…

 

- Io sc sc SSS-ono bascio!

 

Zia sorrise mentre i pelati sfrigolarono nel soffritto del ragù come se la applaudissero.

 

- Smettila di dar retta a tua sorella. Tu non sei basso e mangiare non fa diventare ciccioni. A proposito, rimani a pranzo con noi, vero?

- Mamma non vuole.

- Smettila di dire così! Ho parlato con tua madre e dice che la metti molto in imbarazzo.

 

La zia non poteva sapere che la mamma non voleva che mangiassi da lei perché temeva che la sua cucina mi appestasse l’anima. La regola era che dicesse “Sì”, ma io dovevo poi rispondere sempre di “No”.

 

- Se resti potrai farti raccontare da Iaia e Tommi com’è bello andare a scuola.

 

Adoravo Iaia perché mi faceva sentire un principe bellissimo. Mi scattava continuamente foto che poi sviluppavamo nella piccola camera oscura che si era creata nella sua cameretta. Con Tommy era diverso, lui non sempre era contento ad avermi tra i piedi, però quando gli girava bene, metteva uno dei suoi dischi di musica klezmer e facevamo balli folli ed esilaranti, che spesso coinvolgevano anche Iaia e persino la zia. Era una follia capace di rapirci fino a far rimanere tutti senza fiato per le risate.

 

- Vieni a dare un baciotto alla tua comarella …

 

Iaia è Tommi mi avevano retto al battesimo, il prete non voleva perché erano troppo giovani, ma poi la zia riuscì a convincerlo. Lei sapeva sempre convincere tutti. Nel condominio era temuta per via della sua propensione al pettegolezzo e l’intrigo. Non c’era disputa di cui non tenesse le fila. Le cattive lingue sostenevano che la mamma fosse una sua pedina.

 

- Lo sai che il signorino qui presente ha ricevuto la lettera per partire militare?

- Oh, mio Dio! Sta diventando un vero ometto.

- Sì, ma non ci vuole andare. Gli ho detto che se continua a fare il coniglio lo cucinerò arrosto con le patate.

- Io non so-no un Co-ni-glio.

- Certo che non sei un coniglio! E tu mamma smettila di prenderlo in giro. E’ solo spaventato. Che ne dici se la tua comarella ti accompagnasse in classe il primo giorno di scuola?

 

“Wow! L’idea mi piace”

 

- Bisogna prima chiederlo a sua madre, sai quanto è suscettibile su queste cose.

 

La zia sapeva bene che la mamma era infastidita dalla mania di Iaia per le fotografie. Mia madre non amava guardarsi nelle foto, si vedeva brutta anche se non lo era.

 

- Bello della comarella tua. Dai vieni che ti faccio provare il vecchio grembiule di Tommi.

 

E poi mi avrebbe scattato altre foto, ma a me piaceva sentirmi al centro dell’attenzione. Del resto, qualsiasi cosa facessi a casa della zia, mi faceva stare bene. Il bell’attico ristrutturato dallo zio Gerardo era così pieno di luce, non c’erano angoli bui, dove Loro potessero trovare riparo. Il tempo trascorreva lieve, senza noia.

 

http://www.youtube.com/watch?v=7uGC13G_g4o&feature=related

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  • 2 weeks later...
Silverselfer

Floppy 01/05

 

Al solito Iaia scattò troppe fotografie e arrivai tardi all’appello del primo giorno di scuola, davanti al portone dell’istituto scolastico E. Granturco. Alla fine fui affidato a Rosetta, la bidella del primo piano: alta, segaligna e con degli occhi bovini che agitava nervosamente, sempre alla ricerca di un colpevole.

 

- Scegli un banco e ascolta insieme con gli altri le regole che dovrete rispettare.

 

Della mia classe ero l’unico giunto in ritardo e l’imbarazzo mi avvampò le guanciotte paffute. La maestra disse di andarmi a sedere, ma prima dovevo compiere quanto mi aveva detto di fare la zia Pina.

 

- Non essere timido. Va e siediti in uno dei posti rimasti liberi.

 

Senza spiccicare una parola, scesi la cartella dalle spalle e tirai fuori la mela che la zia mi aveva detto di dare alla maestra insieme con una lettera che aveva scritto per lei.

La maestra sembrava non aver mai visto una mela in vita sua. Cadde in un brodo di giuggiole. Con i suoi modi istrionici spiegò a tutti il significato di quella mela, che era un’usanza tipica del mondo anglosassone regalarla il primo giorno di scuola all’insegnante e bla… bla… vantandosi del marito inglese che insegnava al Trinity College.

 

- E così tu sei il nipote di Giuseppa. Iaia è stata una mia eccellente alunna. Lo sai che dovrai studiare molto per renderle onore?

 

Il sorriso della maestra era perfetto, aveva dei denti bianchissimi incorniciati da labbra lucide di rossetto. Indossava una camicia candida dal colletto ampio, i primi bottoni sciolti lasciavano intravedere un generoso decoltè. Ero affascinato dalla sua gonna che la inguainava fin sotto il polpaccio e le metteva in evidenza dei fianchi robusti. I quali esprimevano ogni sua emozione: s’inchiodavano quando era arrabbiata e ballavano gai quando era felice.

 

Dopo aver fatto spostare un bambino dal primo banco, mi disse agitando l’indice della mano destra:

 

- Ti assegno un posto di prestigio, ma dovrai meritartelo.

 

Io ancora non capivo la parola “prestigio”, ma ne compresi la gravità dal movimento intimidatorio del dito dell’insegnante.

 

Trascorsi i primi giorni di scuola con gli occhi fissi sulla maestra, senza neanche guardare in faccia la mia compagna di banco. Era la prima volta che mi trovavo da solo, non ero mai stato in mezzo a tanti altri bambini. Mi sentivo vulnerabile, privato dell’esclusiva condizione di “marmocchio capriccioso”. Lì ero uno dei tanti e non mi sarebbe stata riservata nessuna attenzione particolare.

 

La maestra non la temevo; anzi, era per me la garante della legge. La sua autorità mi rassicurava durante le ore di lezione. L’incubo cominciava quando sopraggiungeva la terribile campanella della ricreazione. L’anarchia mi spaventava perché i bambini parlavano una lingua che non capivo, seguivano regole che non conoscevo… la sola cosa che sapevo fare era sfuggirli.

 

Gli altri trangugiavano la merenda e anch’io avrei voluto mangiare la mia, ma uno strano pudore m’impediva di farlo. Era come se si trattasse di un bisogno fisiologico troppo privato per poterlo consumare davanti agli altri.

A proposito di bisogni fisiologici, il mio più grande problema era la pipì. Arrivare a casa per farla era ogni giorno sempre più difficile. Fu proprio quel bisogno che mi costrinse ad abbandonare il banco. Studiai attentamente il momento migliore per affrontare con passi da equilibrista il tragitto che mi separava dai bagni.

 

I gabinetti si trovavano dall’altra parte del corridoio. La prima volta mi fermai a pochi metri dalla meta, perché non trovai il coraggio di affrontare la bolgia che c’era lì dentro. Il giorno dopo notai che uno dei due bagni era più tranquillo, ma appena varcai quella soglia si scatenò l’inferno. Avevo forse varcato la cortina di ferro? Forse anche qualcosa di peggio, quello era il bagno delle ragazze, che mi gettarono fuori come il peggiore degli eretici, avevo violato uno dei dogmi fondamentali della società occidentale: gli uomini non entrano mai nel bagno delle donne.

 

Mi ci vollero un paio di giorni per riprendermi dallo shock di quell’esperienza. Poi il bisogno mi spinse a ritentare l’impresa. Il gabinetto dei ragazzi era un covo di delinquenti. Alcuni bambini erano presi di mira e messi alla berlina, il terrore di fare la stessa fine mi tagliava le gambe.

Avevo trovato un angolino tranquillo lungo il corridoio, in una piccola risega, dove era alloggiato il termosifone di ghisa. Mi ci appostavo aspettando il momento migliore per tentare di guadagnare un orinatoio. Notai che circa a metà ricreazione il bagno si spopolava, si trattava solo di pochi minuti, a volte anche meno, quindi dovevo essere pronto a cogliere il momento.

 

Ogni giorno la questione pipì era quella che mi prendeva di più. Del resto il mio rendimento scolastico era ottimo. A casa facevo diligentemente quanto mi diceva la maestra, studiavo e mi curavo di mettere sempre tutto nella cartella, al fine di non essere costretto a chiedere nulla a nessuno. La mattina non facevo storie per alzarmi e Rosetta non ebbe più modo di riprendermi per qualche ritardo. Ero un alunno semplicemente perfetto, anche se non m’importava esserlo.

 

Con il passare delle settimane affinai la mia tecnica e la ricreazione non la trascorrevo più seduto al banco, dove la mia inerzia attirava la curiosità della maestra. Mi trasferivo silenziosamente nella piccola risega del termosifone lungo il corridoio.

 

Avrei trascorso tutta la vita in quel modo, se un giorno non avessi incontrato Vanni. Lui non era della mia classe e lo notai quando aspettavamo fuori dalle aule che suonasse la campanella dell’uscita. Una procedura resa necessaria perché la scuola era sita in un edificio civile e aveva delle scale troppo anguste per farci uscire tutti assieme. Quindi ogni piano aveva la sua campanella, e venivamo accompagnati in fila per due fino all’uscita del palazzo. Noi che frequentavamo la prima elementare e stavamo al primo piano, dovevamo aspettare che sfollassero i bambini della materna al piano terra.

 

Conoscevo benissimo lo strazio di quegli interminabili minuti, con la pipì che stando in piedi non voleva saperne di aspettare ancora. Quel giorno a Vanni accadde l’irreparabile.

La fila della sua classe non era distante dalla mia, e vidi chiaramente il color panna dei suoi pantaloni diventare più scuro. La macchia umida colò fino alle scarpe e, inarrestabile, traboccò da esse formando una pozzanghera imbarazzante. La bambina in fila con lui scattò appena le sue preziose scarpine si bagnarono di pipì. La maestra, forse per non umiliarlo ulteriormente, finse di non capire da dove proveniva quella misteriosa “acqua”, al che giunse la mia insegnante a chiarire il dilemma. Io avvampai d’imbarazzo insieme a Vanni. Era vero che ci conoscevamo solo di vista, ma da quel momento divenne un fratello di sventura.

 

Nei giorni a seguire presi a tenerlo d’occhio. Del resto chi parla poco ha molto tempo per curarsi degli altri.

 

Vanni aveva un problema congenito alla vista e portava gli occhiali, quindi lo avevano soprannominato “quattrocchi” fin dalla scuola materna. Come se questo non bastasse a rendere difficile la vita di un bambino, si ritrovava anche l’erre moscia. Da quando poi aveva avuto quella disavventura, iniziarono a chiamarlo pure “piscione”. La sua vita sociale era praticamente un inferno.

 

Lo avvicinai con cautela durante la ricreazione. Era seduto a colorare un disegno. Nella sua aula i banchi erano posti a ferro di cavallo, contigui uno all’altro senza possibilità di distinzione di merito. Al contrario della mia, dove i banchi erano rigidamente incolonnati in tre file, i più bravi erano seduti davanti e i somari dietro.

 

Gli chiesi cosa stesse facendo. Fui sorpreso che la loro maestra gli permettesse di disegnare Mazzinga durante le ore di lezione. Ne nacque una vivace discussione perché io ritenevo il suo robot inferiore al mio idolo, che era Goldrake.

 

Di punto in bianco gli chiesi se aveva paura di andare nei bagni.

 

- Non ci posso andare.

 

Senza staccare lo sguardo dalla sua battaglia spaziale, mi disse che gli altri ragazzini non lo facevano entrare. Lui era uno di quei poveracci che la legge dei più forti aveva interdetto dai bagni. Quel luogo era indispensabile e i bulli lo usavano come strumento di potere.

Fu allora che gli spiegai la mia strategia e da quel giorno c’incontrammo puntuali contro il termosifone del corridoio.

 

Vanni prese subito sul serio la nostra amicizia, al contrario di me che lo avevo coinvolto solo per solidarietà. L’amicizia era qualcosa di cui non sapevo che farmene. Per il vero trovavo persino molesto il suo eccessivo attaccamento. La solitudine mi aveva insegnato a essere autosufficiente nelle avversità e, nel frattempo, non avere bisogno di condividere i momenti di gioia.

 

Un giorno, durante la ricreazione, ce ne stavamo appoggiati al termosifone del corridoio, quando giunse il momento e scattammo contro gli orinatoi del bagno deserto, mentre Fabiana, l’amica cicciona di Vanni, s'infilò in uno dei due gabinetti con la porta. Sì, perché anche nel bagno delle ragazzine le cose non andavano meglio per gli sfigati, con l’aggravante che le bambine ci stazionavano permanentemente per tutti i venti minuti della ricreazione. Così anche Fabiana si era unita alla tribù delle “Chiappescottate” dal termosifone di ghisa del corridoio, e faceva la pipì con noi nel gabinetto dei maschi.

 

- Ah!

 

Cos’era successo? Vanni si lasciò sfuggire un urletto per lo spavento preso a vedersi Randolfi, Armandi e Alessandro l’unno, appoggiati contro la porta d’uscita che già pregustavano il linciaggio.

 

Randolfi – Da quando i piscioni la fanno nei bagni?

 

Io rimasi immobile davanti all'orinatoio.

 

Vanni – Vaffanculo.

 

Pessima mossa. Vanni non aveva cognizione del suo ruolo di sfigato, per questo finiva regolarmente per provocare la reazione dei bulli. Pensai che lo scontro oramai fosse inevitabile. Mi tirai su la lampo della patta con rassegnazione, pronto a subire quanto la cattiva sorte mi avrebbe elargito. Quando mi voltai, nessuno mi si filò.

 

- E tu che hai da guardare? Smamma bello.

 

Mi disse Armandi. Avevo paura ma cercai di avviarmi verso l’uscita camminando lentamente. Quando Alessandro l’unno mi fermò, un gelo paralizzante pervase ogni mio muscolo:

 

- Aspetta che rientriamo insieme in classe.

 

Mi parlò come a un suo pari e la cosa mi lusingò, quindi rimasi al suo fianco e voltai lo sguardo sul nemico… ma chi era il nemico? Mi ritrovai a guardare dalla parte sbagliata quanto stava per accadere.

Assistetti imperturbabile alla scena di Vanni mentre si dimenava come una marionetta senza controllo tra gli spintoni di tutti. Fui così codardo da fingere di ridere per compiacere Alessandro l’unno.

 

D’improvviso la porta del cesso si spalancò e Fabiana ne caracollò fuori come un bisonte impazzito. Sicuramente lei era anche più spaventata di me, ma il sentimento d’amicizia che la legava a Vanni la costrinse a fare qualcosa. Travolse Armandi ma Alessandro l’unno riuscì ad afferrarle uno dei suoi ridicoli codini. Peggio per lui perché Fabiana continuò a correre e lo trascinò fin nel corridoio. Gli altri due, aizzati dal fervore di Fabiana, gli saltarono subito addosso. Io rimasi immobile, impermeabile a tutto quanto mi stava accadendo attorno.

 

Quando le bidelle sopraggiunsero mettendo in fuga gli stronzi, Vanni dolorante raccattò gli occhiali storti per terra e Fabiana cominciò a frignare, mentre io non esitai a usare la mia credibilità di alunno perfetto, per darei una versione dei fatti molto diplomatica alle maestre, di modo che nessuno se ne avesse a male, soprattutto Alessandro l’unno.

 

In me non ci fu alcun moto di rabbia verso chi aveva umiliato i miei presunti amici. La verità è che provavo imbarazzo per loro. Scambiai quella mia sterilità d’animo per un superpotere, che mi rendeva più forte degli altri perché capace di fare a meno di loro.

 

Se fossi stato mosso da qualsiasi scopo personale, avrei certo colto la gratitudine dei bulli salvati dalle mie frottole; invece, me ne rimasi contro il termosifone di ghisa con Vanni e Fabiana, i quali mi riconobbero anche una certa furbizia e da quel giorno rispettarono le mie scelte come fossero degli ordini.

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Silverselfer

Floppy 01/06

 

I giorni trascorsero e i colori della piazza del Panteon mutarono insieme al susseguirsi delle stagioni. Dalla finestra della mia aula vidi chiudersi gli ombrelli scuri dell’inverno e fiorire la primavera in dosso alle turiste tedesche, sempre più accaldate per il sopraggiungere dell’estate.

Una volta concluso l’anno scolastico avevo sperato di ritrovare la noia della mia vita famigliare, trascorsa fra il divano davanti alla televisione e le vacanze in campagna dai nonni. Quel tempo però pareva definitivamente finito.

 

Vanni aveva preso fin troppo sul serio la nostra amicizia e invase anche la mia realtà domestica. La timidezza non sapeva cosa fosse, iniziò a invitarsi da solo a pranzo e finì per trascorrere con me anche le vacanze in campagna. La sua invadenza a volte mi toglieva il respiro, ma alla mamma stava simpatico e le piaceva quando le trotterellava in torno cercando di strappargli un sì che puntualmente arrivava. Era questo che più m’infastidiva. Mi faceva sentire inadeguato come figlio. Io che parlavo sempre meno, non sapevo esprimere i miei stati d’animo, non riuscendo a coinvolgere gli altri nella mia vita. Goldrake, Gundam e Gig Robot, loro erano i miei amici e trascorrevo il tempo muto a costruire avventure tratte dagli ultimi episodi visti.

 

Vanni, invece, si cibava di presente, e se stava male faceva stare male anche chi gli stava attorno, ma se stava bene non poteva gioire senza coinvolgere tutti. Per fortuna non riuscì a plagiare Angela, che appena poteva gli dava dello stupido stronzetto. Ma lui non si scoraggiava e si era pure messo intesta di fidanzarsi con Lalla, la mia cuginetta preferita.

 

- (…) non si sono mai sposati. Pare che sia una femminista e adesso vive in America tra gli hippy.

 

Vanni viveva solo col papà e la governante polacca. Suo padre suonava nell’orchestra di Santa Cecilia e se ne stava tutto il giorno a studiare spartiti. A casa sua si viveva in punta di piedi e per Vanni era una liberazione stare da noi.

 

- Beh, dopo tutto lui è sempre un artista, e si sa come sono gli artisti. Dio solo sa il dispiacere dei suoi genitori quando l’ha messa incinta.

 

L’estate passò in fretta e il nuovo anno scolastico era iniziato da un pezzo, ma per me la seconda elementare fu solo un prolungamento della prima. I compagni di classe continuavano a rimanermi estranei e passavo il tempo a contare le goccioline di pioggia che scivolavano giù dal vetro della finestra, facendo diventare la piazza del Panteon un melanconico caleidoscopio. Poi sopraggiunsero le luminarie del Natale e al ritorno dalle vacanze d’inverno, la solitudine del mio banco iniziò a pesarmi come un peccato mortale.

 

- Ho letto su Selezione che in queste comunità hippy si pratica l’amore libero.

 

Gennaio portò con sé due novità. La prima fu che papà iniziò a dormire a casa tutte le domeniche, e più di qualche volta si faceva vivo anche in mezzo alla settimana. Una gran noia per me perché quando c’era lui dovevo dormire nel mio letto. La mamma veniva comunque a controllarmi durante la notte, per sentire se respiravo affannato o mi scappava un colpetto di tosse, nel caso mi spalmava il petto di crema al tiglio e mi faceva prendere un cucchiaio di sciroppo; ma poi se ne tornava sempre da lui.

 

- Pare che da ragazzo fosse comunista, è così che l’ha incontrata.

 

L’altra novità fu l’improvviso interesse della zia Pina per tutto ciò che riguardava la famiglia di Vanni. Per Natale gli fece pure lo stesso regalo che diede a me: un modellino da costruire del mitico Herbie, il maggiolino tutto matto. Compresi che l’improvviso ritorno a casa di Primo e l’interesse della zia per Vanni avevano una radice comune, quando un giorno assistetti ad una conversazione tra lei e mia madre. Stavano preparano le castagnole al miele, era Carnevale!

Mentre guardavo i Flingstone alla tele rubacchiavo qualche pallina dolcissima.

 

- Eppure lui è una persona così squisita.

- E chi lo mette in dubbio? Capirai! La sua famiglia ha un patrimonio immobiliare a sei zeri.

- Non intendevo per quello… e poi Vanni è un ragazzino così ben educato. Con Momo sono inseparabili. Momo è vero che Vanni è il tuo miglior amico?

 

“Certo Vilma. Non potrei vivere senza il mio Barney”

 

- Ho un’idea! Invitiamolo a cena.

- E perché?

- Per fare conoscenza. Primo torna sabato prossimo, potremmo benissimo organizzare su da me. Per noi sarebbe una buon’amicizia, con tutti quei cantieri aperti che hanno, vuoi che non gli serva un ingegnere e forniture di materiale elettrico?

 

Zio Gerardo era ingegnere ed era orbo a un occhio; ogni volta mi pizzicottava la pancia facendo pernacchiette buffe.

 

- E’ così riservato che non accetterà mai.

- Se ha un minimo d’educazione accetta. Mo, è vero che il papà di Vanni ci verrebbe a cena dalla zia?

 

“Cara Betty, e che ne so io?”

 

Pier Gianni Maria, cioè il papà di Vanni, era alto e dalla corporatura asciutta. Credo che rientrasse in quei canoni che definiscono un uomo: un bell’uomo. Portava degli occhialini dalla montatura sottilissima e sorrideva sempre. Parlava poco, ma sapeva sempre dire la frase di circostanza giusta anche quando si rivolgeva a noi bambini. Amava profondamente Vanni e non si vergognava a dimostrarlo. Li guardavo sempre sorpreso quando si abbracciavano teneramente. Sì, l’invidiavo anche un po’, però non lo davo a vedere. Quando Vanni rimaneva a dormire a casa nostra, praticamente un giorno sì e uno no, la mamma gli telefonava e dopo aver riagganciato esclamava estasiata: “ Che uomo squisito!”.

 

- Allora faglielo dire da Mo.

- Ma sei matta! Se hai tanta voglia di conoscerlo te lo presento e basta.

- Scusami, però non ti capisco proprio. Passi la cena che al limite potrebbe anche essere fuori luogo, ma è carnevale! E’ normale che i bambini diano festicciole. Organizziamo una cosina senza pretese con tutti gli amichetti di Mo. Saremo almeno una trentina di persone, cosa vuoi che sospetti?

- A Pi’ quando ti ci metti sei peggio di un tarlo.

- Mo è vero che ti piacerebbe se la zia Pina ti organizzasse una bella festicciola in maschera?

 

“No! Non me lo metto il vecchio costume di Zorro. No! Non voglio rendermi ridicolo davanti a tutti”.

 

- Lo vedi che anche Momo vuole che facciamo la festa.

 

Ma perché non riuscivo a dirlo quel maledetto no? Quando ero più piccolo i miei "no" risuonavano come campane, ma col tempo presero a deflagrarmi solo nello stomaco.

 

- E va bene. Però vediamo di non spendere una fortuna.

- Di questo non devi preoccuparti; penserò a tutto io. Vedrai che li lasceremo di stucco. Inviteremo anche la maestra Russo. Lei se li ricorda bene il livello dei miei ricevimenti.

- Ora non esagerare però…

- E invece sì. Sarà anche una buon’occasione per mettersi in ghingheri. Mi sono stancata di vederti con questo zinale.

 

Continuavano a parlare senza capire che non volevo assolutamente quella festa. Il nervoso mi fece diventare livido di rabbia. I denti si serrarono fino a farmi male e le dita iniziarono a scavarmi il dorso delle mani.

 

- Ma che gli succede?

 

Finalmente si erano accorte di me, ma era troppo tardi per potermi fermare.

 

- E’ solo una delle sue crisi di nervi.

- Ma non sarà epilessia?

- No! E’ solo il nervoso…

 

La mamma iniziò a scuotermi e a muso duro mi tirò delle gran sberle intimandomi di smetterla.

 

- Lo fa solo per spaventarmi, ma ora gli do lo sciroppo così impara.

- A me non sembra che stia fingendo.

 

Il dottor Carrisi, il nostro medico di famiglia, mi aveva fatto fare anche l’elettroencefalogramma, da cui era risultato che le mie crisi non erano dovute a epilessia. Disse che si trattava della solita questione nervosa. Secondo lui ero troppo viziato e quando non potevo averla vinta facevo così, per capriccio. Lo sciroppo mi veniva cacciato in bocca con lo stesso metodo usato per la minestra. Era un calmante ma ci metteva sempre più tempo a fare effetto. Troppo per la pazienza della mamma.

 

- Tu sei la mia croce. Vorrei sapere se ho messo io i chiodi a Gesù Cristo per meritarmi tutto questo.

- Calmati! Così finirai per spaventarlo ancora di più. Dillo alla zia cos’è che non va.

 

Il mio diaframma era troppo contratto per riuscire ad articolare la voce, mi mancava persino il respiro e tiravo il fiato a stento con la bocca. Le mani della zia mi carezzavano energicamente il viso fin sopra la testa. Quel massaggio affettuoso mi arrivava fin dentro l’anima. Sentivo il suo calore sciogliere il crampo che mi attanagliava il cervello.

 

- Non vuoi che facciamo la festa di carnevale?

 

La zia capiva sempre quello che mi spaventava. Con uno sforzo al disopra delle mie possibilità riuscii a cavare via quel “no” che mi era andato di traverso. Dalla bocca mi venne fuori una parola deforme, con una voce gutturale che nemmeno io riconobbi. La zia mi strinse a sé. Col viso nascosto sulla sua spalla, mi sciolsi in un pianto convulso. Tutto il corpo si abbandonò tra le sue braccia e lentamente tornai a respirare in modo normale.

 

- Tutto questo per così poco! Al Diavolo la festa di carnevale. Tu non lo sai ma anche la zia le trova stupide e mai e poi mai ne daremo una. Zia te lo promette.

 

Quelle crisi di nervi mi lasciavano spossato, lo sciroppo calmante faceva il resto. Così al solito venivo messo a letto.

 

- Forse dovresti consultare uno specialista.

- Ci manca pure la parcella dello specialista... così Primo mi caccia di casa. Fortuna che non c’era! Ci gode a dare sempre la colpa a me.

- Ma il dottor Carrisi che dice?

- Niente, che vuoi che dica? Non è epilessia. E’ solo colpa di queste dannate tonsille. Lo indeboliscono, e poi ci ha sempre sofferto di nervi fin da piccolo.

 

La zia non mi staccava gli occhi di dosso. Era la prima volta che mi vedeva in quello stato e le spiegazioni della mamma non la convincevano. Il suo sguardo per una qualche sconosciuta ragione mi commuoveva e facevo fatica a trattenere le lacrime.

 

- La zia ora deve andare, ma prima di sera torna a darti la buona notte, va bene?

- Ma che torni a fare? Pì, tanto tra cinque minuti dorme come un sasso e non si sveglia fino a domani mattina.

 

La mamma non sopportava che qualcuno s’impicciasse dei miei stati di salute, non voleva neanche che ne parlassi in giro. Così si liberò sbrigativamente della zia e una volta soli mi appunto addosso il suo sguardo severo.

 

- Sei contento adesso? Hai fatto una gran bella figura davanti alla zia. Io non so proprio cosa devo fare con te. Ma lo sai che quella festa ci avrebbe fatto proprio comodo, adesso chi lo dice a papà? Si arrabbierà con me e sarà solo colpa tua; perché al signorino non piacciono le feste in maschera.

 

“Sono un bambino troppo cattivo”

 

- Come sei pallido! Fammi sentire se hai la febbre.

 

Ogni volta che le labbra sottili della mamma si premevano contro la mia fronte, il responso era sempre lo stesso: Una febbretta che andava preventivamente stroncata.

 

- Prendi l’antibiotico e non fare storie. Ti piacerebbe startene a casa invece di andare a scuola, vero? Ma a me non m’incanti mica…

 

Dopo l’antibiotico arrivava puntuale anche la mezza pasticca d’aspirina perché tanto male non poteva fare.

 

- Ci pensa mamma tua a te, altro che specialisti. Ha ragione papà, quelli rubano solo i soldi ai poveri imbecilli che gli stanno appresso.

 

Lo stomaco iniziava lentamente a inacidirsi e la mattina seguente mi sarei svegliato con un pessimo alito. La nausea mi avrebbe impedito di terminare il latte a colazione, così mi toccava pure ingurgitare la fiala puzzolente di ricostituente. Tutto proseguiva come sempre e almeno questo mi rassicurava molto.

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Silverselfer

Floppy 01/07

 

Si presentò con il vestito di Actarus ed io ci rimasi davvero male. Sì, perché poi la festa in maschera la zia Pina la diede lo stesso, anche senza di me. Fu deciso che mi sarei dato malato, solo che alla fine mi ammalai davvero, del resto le tonsille marce mi davano ormai la febbre una settimana sì e l’altra pure. Fu così che quella sera Vanni passò a salutarmi prima di salire dalla zia ed era vestito da Actarus, il principe di Vega che pilotava Atalas Ufo Robot, Goldrake per intenderci. Lo presi come un affronto, lui che aveva sempre tenuto per quel ridicolo Mazinga.

 

Quell’episodio demoralizzò ogni mia speranza di poter diventare come gli altri. Alla festa ci sarei voluto andare, ma allo stesso tempo non mi dispiaceva restarmene nella mia tana, insieme alle mille fantasticherie che m’ispiravano i manga giapponesi, i libri illustrati di Salgari e Dumas o i melanconici supereroi dei fumetti della Marvel. Mi pesava essere così perché mi metteva addosso una sensazione d’inadeguatezza, non solo rispetto agli altri ragazzini, ma anche a casa, dove iniziavano a guardare le mie abitudini solitarie con sospetto.

 

Complice la febbre e la mamma che oramai mi considerava un malato cronico da rimpinzare di medicine, chiusi definitivamente il mondo fuori dalla porta di casa. Quando tornavo a scuola, gli altri mi apparivano come quegli animali feroci dei documentari televisivi, a volte mi sembrava addirittura di ascoltare la voce fuori campo che ne commentava i movimenti.

Il mio rendimento scolastico non risentiva del mio stato di salute, e quindi nessuno si preoccupava seriamente per me.

 

L’intero secondo anno didattico costituì una progressiva deriva in un mondo fantastico, lontano il più possibile dalla realtà. Poi arrivò l’ultimo giorno di scuola e quella mattina il latte preso a colazione, mi si era inacidito nello stomaco, provocando fastidiosi rigurgiti che me lo facevano tornare in gola, infuocato come la lava dei vulcani:

 

“ … essa sfoga dalle viscere della terra attraverso l’esofago della montagna fino al comignolo. Copiosa e inarrestabile, la lava defluisce anche dalle narici, dette bocche secondarie del vulcano …”

 

Più o meno fu questa la risposta che mi fece guadagnare un nastro blu alla gara di scienze. Da quando il ministero della pubblica istruzione aveva abolito l’esame di seconda elementare, nella mia scuola la prova fu trasformata in una gara per assegnare delle piccole borse di studio finanziate dal Banco di Roma.

Io mi ero aggiudicato già un nastro per la prova scritta d’italiano, che insieme con quello di scienze, mi faceva entrare di diritto tra i migliori studenti del primo biennio scolastico, non male per uno che aveva trascorso l’ultimo trimestre a letto malato.

Inutile dire quanto fosse importante per la maestra Russo battere la sua rivale storica: La maestra Terzani.

 

“C – U – cu – S – I – cusi…”

 

Sbagliato!

 

Un torpore mi salì lentamente nella testa. L’udito ovattato trasformò il brusio dell’aula magna in qualcosa d’ipnotico.

 

“CU –SI…”

 

Sbagliato!

 

Mi facevano male le ossa, in particolare le ginocchia, quello sì che era un segno inequivocabile: avevo di nuovo la febbre.

 

“CUS…”

 

Sbagliato!

 

La parola scritta in maiuscolo sulla lavagna stava facendo strage dei miei compagni, che tentavano inutilmente di leggerla in modo corretto. La maestra Russo tamburellava nervosamente le dita sul tavolo in crescente imbarazzo.

 

“CU – S…”

 

Sbagliato!

 

In fondo all’aula magna c’erano i genitori venuti a vedere i propri pargoli alla loro prima prova della vita. La zia Pina mi aveva chiesto di non dire nulla a casa. Capii subito che stava tramando qualcosa, ma a me piaceva essere suo complice.

La zia era con lo zio Gerardo e stavano in piedi vicino alla porta. Spesso li vedevo indicarmi con il dito mentre confabulavano con un tizio che era con loro.

 

“CUSI…”

 

Sbagliato!

 

Era quasi arrivato il mio turno di sbagliare. Volevo fare in fretta. Ero così stanco e il latte acido non voleva più saperne di starsene ancora nello stomaco.

 

“CU… CU – SCINO”

 

Giusto!

 

Indovinai la parola scritta sulla lavagna solo grazie a quell’ormai remoto difetto di dizione che mi trascinavo dall’infanzia, ma a nessuno importava saperlo. La maestra Russo scattò in piedi con le mani giunte al petto, lasciandosi sfuggire un “Bravo” che poi la mise in imbarazzo.

Per fortuna Pomponi Stefano, lo stoccafisso primo della classe della maestra Terzani, mi strappò il primato dei nastri; ma non potei comunque scampare all’onore delle foto di rito da esporre nelle bacheche. La maestra Russo era furiosa.

 

- Oh! Giuseppa, amica mia, è un’ingiustizia bella e buona. Momo meritava di vincere, ha una media superiore. Lasciamelo dire, è inaudito che si assegni anche un nastro per educazione artistica in seconda elementare.

- L’importante è che il bambino si sia distinto. Stavo quasi per svenire quando ha dovuto leggere l’ultima parola.

- Oh, santo cielo! A chi lo dici, stavo sprofondando dalla vergogna. Quei testoni mi hanno fatto fare una tale figura. Tutta colpa dei soliti che non mi lasciano lavorare con gli elementi migliori.

- Ma non devi preoccuparti. Noi tutti abbiamo completa fiducia nei tuoi metodi d’insegnamento. Del resto col ministero che impone classi di venti alunni, tenere un buon livello come fai tu è un vero miracolo.

- Sapessi quanto è vero quello che dici! Prendi Momo, nonostante le assenze, riesce sempre a recuperare in maniera eccezionale, a dispetto di alcuni che non ti sto a dire. Vengono solo per scaldare il banco. Ma che ci vuoi fare, stiamo in Italia! Mio marito che insegna al Trinity College non ha di questi problemi, da loro i migliori sono messi in classi speciali dove possono portare avanti un programma più avanzato.

 

Basta. Ero stanco, stanchissimo. La luce mi feriva gli occhi e le loro celie mi stavano facendo addormentare, altri pochi minuti di quello strazio e sarei caduto per terra, davanti a tutti.

 

- Questo signore è un lontano parente della zia e vorrebbe tanto conoscerti.

 

Lo zio Gerardo mi stava presentando il tizio con cui avevano confabulato per tutto il tempo. Il tizio aveva un nome strano. Mi disse che potevo chiamarlo Esra. Il suo sguardo si protendeva talmente verso di me, da apparirmi molesto. Forse si aspettava qualche parola, ma oramai stavo progressivamente scivolando dentro i miei bulbi oculari, e guardavo il mondo come su uno schermo televisivo.

 

- Cosa ne dite se andassimo a festeggiare con un bel gelato?

 

Esclamò la zia. Io avrei preferito andare a vomitare, ma non sarebbe stato educato dirglielo.

 

- E’ un bambino timido …

 

Sottolineò la zia, tentando di giustificare la mia apatia.

 

- Mi raccomando Momo, approfitta delle vacanze per rimetterti in salute, così il prossimo anno potremo migliorare la tua media.

 

La Maestra mi salutò agitando felice i suoi poderosi fianchi, mentre mi lasciavo trascinare senza alcuna volontà verso un bar per festeggiare chissà cosa.

 

La zia mi ordinò un gelato al cioccolato, crema e pistacchio. Io odiavo il pistacchio! In quel bar, come in ogni bar, c’era un forte odore di caffè espresso che mi faceva salire ancora di più la nausea. Per fortuna che Esra accese la sua pipa e il profumo del tabacco mi diede sollievo. Era un tipo strano il lontano parente della zia, mi sembrava troppo giovane per fumare la pipa, anche perché non aveva i baffi e fino a quel giorno ero convinto che non si potesse fumare una pipa senza due bei baffoni.

 

Gli zii, con piglio da imbonitori, non la smettevano di esaltare le mie qualità, infarcendo il discorso d’imbarazzanti aneddoti. Che stessero cercando di vendermi! Esra continuava a guardarmi con un sorrisetto orgoglioso, ma perché? Io arrossii quando mi pescò mentre mi sbarazzavo di una cucchiaiata di gelato schiaffandola nel vaso della siepe. Mi fece l’occhiolino, e gli fui grado di non farne una tragedia come sarebbe successo con mia madre: perché non mi meritavo la fatica che faceva per mettermi il cibo nel piatto. Però mi sentii lo stesso obbligato a cacciarmi un po’ di gelato in bocca. Il suo sapore mi fece rabbrividire come se fosse stato gelato alla cacca. Lo allungai con dell’acqua per riuscire a ingoiarlo, ma subito dopo sentii formarsi minacciosamente in bocca la disgustosa acquolina del vomito. Sapevo bene che se avessi deglutivo, non sarei riuscito a trattenere uno dei miei disgustosi e deplorevoli conati.

Era un’emergenza! Tirai un lembo del vestito della zia e con lo sguardo implorante riuscii a pronunciare la parola magica: “Pipì”.

 

La zia chiese in fretta al barman le chiavi del bagno. Una volta dentro cercò di aprirmi così velocemente la patta dei pantaloni che feci fatica a fermarla. Spazientita mi disse che quello non era il momento di fare il pudico. Io deglutii e le chiesi scusa. Presi quindi la via del water più vicino. Avrei preferito che non mi guardasse, ma non c’era più tempo. Appoggiai una mano al muro per meglio tenere il bersaglio, sapevo per esperienza che altrimenti un capogiro mi avrebbe fatto sporcare tutto. Con l’altra mano mi sostenei da solo la fronte, mentre guardavo l’acqua nel fondo del vaso di ceramica come un poeta che aspetta l’ispirazione. Ingoiai un po’ d’aria per stimolare la malefica aquilina. Il conato era preceduto da una leggera vertigine che mi saliva dalla nuca, poi esplodeva copioso in un getto violento, ma non rumoroso. Avevo imparato a farlo silenzioso per non scatenare il solito putiferio in famiglia. Però la zia non era abituata e s’impressionò a guardare la ceramica bianca imbrattata dal rosso del mio vomito. Tutta preoccupata mi sgranò gli occhi in faccia, chiedendomi da quando mi succedeva di vomitare sangue e se lo avevo detto alla mamma. Forza di rispondere proprio non ne avevo, ma avrei voluto tanto chiederle di tenere il segreto. Poi finalmente si accorse che ero febbricitante e che era davvero il caso di riportarmi in camera mia, lontano dal mondo.

 

Quando tornammo al tavolo, la zia sfoderò uno dei suoi sorrisi scusandosi per il contrattempo, ma dovevamo proprio andare perché secondo lei l’emozione degli esami, mi aveva fatto certamente venire qualche linea di febbre. Si alzarono e si salutarono, con Esra che non la smetteva di ringraziarli per quello che facevano per lui. E poi, di sorpresa, mi afferrò in vita e mi sollevò. Fu una vertigine tale, da farmi credere di star per spiccare il volo. Un brivido inaspettatamente divertente che mi fece sorridere.

Esra continuò a parlare per qualche tempo con gli zii, sentivo la sua voce rimbombargli in petto mentre mi teneva seduto su un braccio. Certo non stavo meglio di qualche momento prima, ma tutto divenne più sopportabile.

 

Penso che esista una sorta di memoria arcaica nel corpo, che gli permette di riconoscere le cellule da cui è scaturito. Si tratta di una memoria rudimentale, fatta di umori, odori, secrezioni. In quei momenti le mie cellule stavano riconoscendo istintivamente quelle del corpo di mio padre. Chiusi gli occhi abbandonandomi al loro rassicurante abbraccio, e le sentii quasi guarirmi da quel crampo alle viscere che, malattia o meno, mi accompagnava da tutta la vita.

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Floppy 01/08

 

Si spandeva densa e oleosa da ogni angolo buio, la sera allagava la stanza fino a sommergere ogni parete. Mi ripetevo che “Loro” erano solo il frutto della mia immaginazione, però l’oscurità mi toglieva il fiato lo stesso. Avrei voluto spiegarlo al dottor Carrisi che il fatto di conoscere la verità sulle mie paure, non mi aiutava a controllare la percezione di una stanza liquefatta nel buio della notte.

 

Sapevo che non viveva nessuno negli armadi o nascosto sotto i letti, eppure, specie quando la febbre saliva, li vedevo uscire con le loro lunghe lingue appiccicose. Si cibavano della mia paura che ingrassava le loro sagome mucillagginose. Il peso della loro inconsistenza mi opprimeva il petto. Nell’intento di tenere fuori da me quel lardo flaccido e scuro che cercava d’insinuarsi attraverso ogni pertugio del mio corpo, finivo per non respirare più, fino a cadere nel panico di chi affoga nel proprio terrore.

 

Le mie condizioni di salute dall’ultimo giorno di scuola avevano subito un brusco peggioramento. Il dottor Carrisi continuava a cambiarmi tipo di antibiotico, e la mamma ormai faceva la collezione di quei variopinti flaconi che la gratificavano come genitore attento e affettuoso.

Le giornate erano scandite dal colore delle scatole delle medicine, e spartite in due dalle iniezioni di penicillina del mattino e della sera. Però non mi pesava restarmene fermo a letto, la volontà di fare qualsiasi cosa se n’era andata insieme alla forza fisica. Di tanto in tanto spostavo lo sguardo dal soffitto alla finestra, passando in rivista i disegni simmetrici sulla carta da parati, attento alle vertigini che questa peripezia poteva darmi. Persino pensare mi provava parecchio e preferivo tenere la testa sgombera da ogni fantasticheria.

 

Ero profondamente infastidito quando qualche conoscente veniva a farmi visita. La mamma li accompagnava in camera dopo aver preso il caffè in cucina. Come la guida di un museo, mostrava loro tutto il suo affetto contenuto in millilitri nei flaconi dei medicinali messi in fila sul settimino.

Puntualmente qualcuno sentiva il bisogno di farmi una domanda che per quanto banale, richiedeva uno sforzo di concentrazione che non ero in grado di compiere, quindi non ci provavo nemmeno più a rispondere, lasciando che intervenisse la mamma. Io preferivo restarmene nel mio limbo in cui i pensieri non avevano bisogno di parole, e fluivano liberi come emozioni.

 

Intanto l’estate continuava a scorrere fuori dai vetri della finestra, mentre nella mia stanza i brividi e i sudori freddi della febbre sostituivano le calure del sol leone. La zia Pina e Vanni presto sarebbero tornati dal mare; invece il Papa morì a Castel Gandolfo, così Roma trascorreva un Ferragosto in trepidante attesa di una nuova fumata bianca. Per quanto mi riguardava i secondi si dilatavano in ore, e le ore in intere giornate che si susseguivano indistinte. Compresi che era festa perché papà era tornato a casa, ma per quanto ne sapevo, poteva trattarsi di Natale invece di Ferragosto.

Papà appena mi vide bestemmiò perché, disse, gli sembravo un morto che respirava. La mamma al solito perse le staffe e finirono la litigata in cucina, solo dopo papà tornò e mi diede un bacio scusandosi. Le sue labbra erano fredde perché avevo di nuovo la febbre, per un malato non esistono baci caldi.

 

“Papà torna e se vince, ci andiamo domenica prossima, ti va?”.

 

Annuii con la testa solo per farlo contento e mandarlo a cena senza rimorsi. Mi aveva promesso che se vinceva la scommessa fatta sulla prossima fumata bianca dal cupolone, mi avrebbe portato in Africa a vedere i Leoni. Mi sarei accontentato di una domenica allo zoo cittadino, e senza bisogno che per questo si dovesse prima eleggere un Papa.

 

Mentre loro erano in sala da pranzo, io mi accorgevo dal fischio nelle orecchie che la febbre stava salendo. Le tre lampadine del lampadario presero a scintillare. Splenditi e affilati dardi di luce si stagliavano nell’aria ferendomi gli occhi. Lacrime magiche diluirono la solidità delle cose. Pareti e soffitto fluttuavano immersi in una luce che formava sfere di accecante bellezza. Bolle di sapone o pianeti di un universo sorprendentemente reale, dove il letto pareva galleggiare e sembrava a tratti di sprofondare. Cadere era pur sempre volare, e allora volavo tra quelle ampolle cangianti, appese a rami di luce di un surreale albero di Natale. Prospettive vertiginose mi costringevano a far roteare gli occhi, e poi giù in picchiata dentro il materasso, fino a tuffarmi nel pavimento gelido che prendeva a colarmi addosso.

 

La mamma stava inzuppando uno straccio nella bacinella col ghiaccio e me lo strofinava su tutto il corpo. Un brivido che congelò di nuovo il mondo nella sua banale solidità. Riconobbi Angela sdraiata sul letto accanto che mi sgranava gli occhi addosso, e papà che entrava e usciva dalla stanza nervosamente. Il fischio assordante che avevo negli orecchi m’impediva di capire cosa si stessero dicendo, volevo solo rassicurarli quando decisi di cantare una bella canzoncina natalizia.

 

- TU SCENDI DAAALLE STEELLEEE… RE DEI CIEEELIIII…

 

Beh! Sapevo certo di non essere intonato, ma guardarmi addirittura in quel modo truce, mi sembrò una tal esagerazione che mi venne da ridere. Era così bello ridere, non ce la facevo più a essere triste. Volevo che tutti gioissero con me. Mamma e papà erano andati a prendere altro maledetto ghiaccio, quando cercai di complottare con Angela uno scherzo per tirargli un bel tiro birbone, ma chissà perché, invece di darmi retta, scappò via manco le si fosse parato davanti il diavolo in persona.

“Femmine” mi dissi, deciso a fare tutto da solo. Finsi di dormire e quei due sciocchi iniziarono a bisbigliare per non svegliarmi…

 

- AHHHHHHHHHHHHHHHHH!

 

Feci partire un tale urlo che manco una sirena della polizia, e continuai fino a quando la voce non mi si strozzò in gola… il che accadde presto; però altro che se li spaventai!

Papà iniziò a tirar giù tutti i santi del calendario con certi moccoli irripetibili. La mamma cercava di tenermi fermo, ma al diavolo! Avevo proprio voglia di divertirmi. Mi sarei messo a saltare sul letto se solo ne avessi avuto la forza; invece, quelli cercarono di cacciarmi in bocca un dannato cucchiaio colmo di merda liquida.

 

“Venderò cara la pelle. Io sono Orzowey. Voi Swazi che mi avete raccolto nella foresta sudafricana non siete più la mia famiglia. Traditori!”.

 

- ORZOWEEEY.

 

Fregato. Papà approfittò del mio grido di battaglia per cacciarmi in gola ben tre cucchiaiate di sciroppo calmante.

 

“Sono ancora sveglio?”

 

Le palpebre diventarono trasparenti. I ricordi si confondevano con i sogni e gli incubi mi rincorrevano fin nella realtà. Ero ancora nella mia stanza, innegabile, ma a volte le pareti sembravano venirmi incontro come se la tappezzeria ondeggiasse, mossa dal vento di una finestra aperta. Riuscivo ad ascoltare la luce, o magari erano i suoni che s’irradiavano nell’aria come fossero raggi luminosi.

 

“Eppure non sto dormendo”.

 

Era accaduto di nuovo: un attimo si era dilatato a dismisura proiettandomi nel futuro. Era mattina e le campane di tutta Roma suonavano a festa perché era stato fatto un nuovo Papa.

In casa c’era una strana calma. I flaconi delle medicine erano spariti da sopra il settimino, invece, accanto a me era comparsa un’asta cui era appesa una strana bottiglia rovesciata. Il letto di Angela era stato spinto a ridosso dell’armadio; per tutta la camera c’erano sparse delle sedie.

 

- Pulcino, sei pronto per una bella gita in macchina?

 

Era tornata anche la zia Pina! Quindi l’estate era finita. Era ancora difficile capire se avessi perso conoscenza per più di dieci giorni, o solamente li avevo trascorsi in una diversa dimensione. Capivo solamente che l’iperspazio era meno faticoso da sostenere, a confronto della realtà in cui anche muoversi costava tantissima fatica.

 

- Ha parlato?

 

Riconobbi subito il ciabattare apprensivo di mamma lungo il corridoio.

 

- No, ma adesso sembra che mi ascolti.

- Dì qualcosa a mamma tua… sforzati.

 

Le parole. Il suono. La luce. Quante cose c’erano da riordinare nella mia testa.

 

- E’ vero che ci stai sentendo ora? Da bravo, fa solo un cenno con la testa alla zia Pina.

 

Le feci contente e annuii con il capo. Dopo di che continuarono nelle loro faccende con più frenesia di prima. La mamma mi mise seduto sul letto e con l’aiuto della zia che mi sosteneva da dietro, mi spogliò. Mi strofinarono sulla pelle un panno umido molto profumato. Mi piaceva. La malattia puzza ed ero stufo di sentirmela addosso. Se non fosse stato per il freddo, non avrei avuto nulla da obiettare, ma le mie membra erano tutto uno spasmo e i denti battevano la cucaraccia.

 

- In nome di Dio! Angela porta quella dannata stufa elettrica.

 

“Angela. E’ Angela!”

 

Mi sembrava di rivederla dopo tanto, tantissimo tempo. Avrei desiderato abbracciarla, dirle quanto le volevo bene. Mi sforzai almeno di tirare le labbra in un sorriso e sputare fuori uno “ciao”, ma non era facile acchiappare le parole che sgusciavano via come anguille tra un pensiero e l’altro. M’illusi che bastasse il suono della voce per farmi capire.

 

- Pulcino! E’ Angela! La riconosci vero?

 

Che domande? Era lei che pareva non avermi riconosciuto, scambiandomi per chissà cosa che l’aveva fatta scappare via. La mamma la costrinse a tornare a suon di sberle.

 

- Non mi va di parlarci, mi fa impressione … non voglio che mi attacchi la sua malattia.

- Zitta!

- Tu mi odi… mi odiii. Ci ammazzerai tutti come hai fatto con Lorena.

- ZITTA! Sono quei bastardi che ti dicono queste cose, vero? VERO?

 

I bastardi in questione erano i parenti di papà. Per fortuna intervenne lo zio Gerardo a sedare l’ira di mamma, altrimenti Angela le avrebbe buscate di brutto.

 

- Vestitelo e portiamolo via.

 

Il tono perentorio di zio Gerardo risolse la faccenda.

 

“Vestitemi e portatemi via”.

 

Lo zio mi prese in braccio e la mamma mi buttò addosso un plaid che mi coprì fin sopra la testa. L’automobile ci aspettava col motore acceso davanti alla falegnameria del padre di Nando. C’era anche lui tra i curiosi che mi guardavano come fossi un alieno.

 

Fui messo sul sedile posteriore. Ci trovai già seduta la mamma che mi strinse tra le braccia. Era bello. La macchina aveva i riscaldamenti accesi al massimo e il tepore finalmente mi rilassava le membra intirizzite dal freddo. Se solo avessi potuto, avrei dilatato quegli attimi fino a farli durare per sempre.

 

Purtroppo il dolore non permetteva distrazioni. Quello che per tutti è normale, per un malato diventa una conquista estenuante. Il corpo era pesante come una zavorra che mi trascinava dentro, in fondo ad un pozzo, dove la sopravvivenza era uno scorcio di luce sempre più distante, sempre più pericolosamente trascurabile.

 

Sentivo l’aria secca dell’auto attraversarmi la gola come carta vetrata. La sentivo giungermi fin nei polmoni che si gonfiavano facendomi male. La espellevo subito perché il torace era troppo indolenzito per contenerne troppa. Respiri brevi e veloci, solo così riuscivo a prevenire la tosse che mi sconquassava in maniera micidiale.

Ero così stanco e stufo di ascoltarli mentre cercavano di parlarmi, e non m’importava un fico secco di dove mi avrebbero portato quando sarei guarito, perché io stavo male in quel momento e l’attimo dopo non mi riguardava.

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Silverselfer

Floppy 01/09

 

 

- … lo Streptococco beta emolitico di gruppo "A" è responsabile dei danni a carico del cuore, dei reni, delle articolazioni; inoltre può essere ...

 

Questo era il primario che passava in rivista i pazienti, seguito da un codazzo di tirocinanti.

 

- Qualcuno si è preso la briga di visionare la cartella clinica di questo bambino?

 

Anche se avessi tenuto gli occhi aperti, loro avrebbero continuato a parlare di me come se non ci fossi stato.

 

- … l’abuso degli antibiotici ha lacerato i tessuti gastroenterici …

 

La zia mi aveva trovato un posto letto a Villa margherita, un’esclusiva clinica sulla via Nomentana, dove mi avevano tempestivamente asportato le tonsille marce e due adenoidi grosse come noci.

 

- … danni cerebrali?

 

Durante il giro di visite del primario, la mamma aspettava in corsia e quando rientrava, mi guardava intenerita da chissà cosa e mi carezzava il volto prima di rimettersi a sferruzzare. Non ci provava più a parlarmi; forse le faceva impressione sentirmi dire cose senza senso, perché le parole che riuscivo ad afferrare, spesso non combaciavano con il pensiero che cercavo di elaborare.

 

La stanza in cui ero non saprei descriverla perché non aveva niente da essere ricordato. Trascorrevo il tempo a guardare le bollicine librarsi nella bottiglia rovesciata della flebo.

Il mio corpo intanto recuperava energie e pretendeva anche di disperderle. Stare a letto diventava ogni giorno più scomodo e la noia mi faceva desiderare una vita come quella degli altri ragazzini. Le parole ripresero a fluire nella mia testa tornando ad essere tutt’uno con i pensieri. Così ripresi contatto anche con la realtà, che non aveva mai smesso di scorrermi attorno. Gli altri ancora non lo sapevano, ma io li ascoltavo, senza però sentire il bisogno di comunicare con loro.

 

La mamma, esausta, alla fine accettò l’offerta della zia Pina per dargli il cambio al mio capezzale. L’avrebbe sostituita tutte le mattine, così poteva andare a rinfrescarsi e riposare un po’. Ma la zia aveva insistito troppo e chi la conosceva, capiva al volo che stava tramando qualcosa.

La mamma credeva che il conto della clinica l’avrebbe saldato lo zio Gerardo che, secondo il racconto della zia Pina, aveva dei crediti in sospeso con il direttore dell’ospedale. La verità era un’altra e la ascoltai mentre la zia ne parlava con il suo lontano parente Esra. Quest’ultimo si raccomandava di non lesinare spiccioli per curarmi. Esra accompagnava la zia tutte le mattine. Mi raccontava cose sconvolgenti senza pretendere mai una risposta. Mi disse che avevo un fratello e presto sarebbe arrivata anche una sorellina. Se mi avesse detto anche di essere mio padre, certo me lo ricorderei, invece quello lo compresi nei giorni a venire, quando il piano della zia saltò in aria a causa di un “vaffanculo”.

 

L’ultima mattina trascorsa nella lussuosa Villa Margherita, mi svegliai senza flebo; peccato, perché mi ero affezionato a quella fabbrica di bollicine. La zia non era ancora arrivata e la mamma sferruzzava il suo ennesimo lavoro a maglia, quando un infermiere mi rivoltò su un fianco facendomi cigolare tutte le ossa. Mi fece un’iniezione dolorosissima, tanto che non potei esimermi da un sonoro “vaffanculo”, un termine che a dire il vero non era mai stato consueto per me! La mamma scoppiò in lacrime a sentirmi pronunciare qualcosa con cognizione di causa. Chiamò tutti quanti, dai medici agli infermieri, i vicini di stanza e anche gli inservienti, fece venire su cabaret di paste e caffè per tutti. Meno male che quando arrivò pure il primario li fece sgomberare, non ne potevo più di pizzicotti e sorrisi dall’alito pesante.

Per il vero il primario non sembrava contento del mio recupero, e mi visitò piuttosto scettico. Tamburellò sulla mia schiena, poi auscultò il cuore facendo brutte smorfie e quindi mi cacciò in bocca la maledetta paletta di legno. Col piglio di chi ha capito il problema disse:

 

“Ha solo ingoiato i tamponi, per questo ha parlato”.

 

Insomma, se avesse potuto, mi avrebbe “ritamponato” pur di scucire ulteriori giorni di degenza dal portafogli di Esra. Probabile che fu proprio perseguendo questo fine, che l’ignaro luminare delle tonsillectomie ebbe un assaggio della caparbietà della mamma, decisa a portarmi in una struttura pubblica. Il primario allora pretese di parlare con la zia o con Esra prima di dimettermi. Appena i sottorifugi della zia si rivelarono, accadde il fine mondo. La mamma odiava Esra, ma di un odio a dir poco “omicida”. Neanche quando la zia si scapicollò alla clinica, la mamma si calmò, anzi, per poco non saltava addosso anche a lei, rifilandogli degli improperi disgustosi. Non c’era verso di ricondurla alla ragione, e urlò anche contro di me, chiedendomi di confessare chissà quale colpa e minacciando di abbandonarmi al mio destino infame. Neanche il padreterno l’avrebbe fermata, e quando la zia lo fece capire a tutti, le lasciarono preparare la mia valigia e ci accompagnarono all’uscita, dove preventivamente ci avevano chiamato un taxi.

 

La mamma era sconvolta. In macchina cercò di convincermi che non ero figlio di Esra e che quello sporco ebreo era come tutti gli zingari, che rubano i figli alla brava gente timorata di Dio.

Cercò ancora di spaventarmi con la storia dell’uomo nero che si aggirava intorno a casa per rapirmi, e allora cosa avrei fatto da solo, abbandonato da tutti? Quante volte avevo ascoltato quella storia con il panico che mi stringeva il cuore. Quante volte avevo sbirciato la strada da dietro le persiane, nel timore di vederci il temibile uomo nero. Beh, fu un sollievo scoprire che si trattava solo di Esra.

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Silverselfer

Floppy 01/10

 

 

La mia vita non fu più come prima.

 

- Questa sarà la mia nuova cameretta. E’ più piccola di quella bellissima che ho ora, ma qui l’architetto di mio padre costruirà il letto su un soppalco, sarà super …

 

Quando tornai a casa dalla clinica, speravo in una piccola convalescenza da trascorrere nell’inedia domestica; invece, il giorno successivo fui mandato a scuola. La maestra stessa aveva chiamato la zia Pina per raccomandarsi di non farmi perdere ulteriori giorni di lezione. Per la mamma e la zia fu anche il pretesto per un riappacificarsi almeno formalmente.

A scuola mi accolsero come una celebrità, con tanto di festicciola di ben tornato. Fui fatto sedere accanto a Fierimonte Antonella, la più brava della classe. Il suo compito era aiutarmi a rimettermi in pari con gli studi, e devo dire che mi accudì con una tenerezza tale da toccare il mio cuore.

 

- La vedi quella finestra al primo piano? E’ la finestra di Momo. Quando dormi da lui, potremo augurarci la buona notte…

 

Mi furono concesse un paio di settimane per mettermi in pari con gli altri alunni. La tranquillità di non essere interrogato, rese le ore scolastiche ancora più tediose. I problemi arrivarono quando la maestra mi prese il quaderno, stupendosi nel trovarlo disordinato, con dei compiti svolti solo a metà e pieni di errori. Avevo difficoltà di concentrazione non solo a scuola, ma anche guardando la televisione o ascoltando qualsiasi altro discorso. La mia mente tendeva a scivolar via in quel limbo di pensieri senza parole, facendomi rimanere incantato su dei dettagli del mondo che parevano sfuggire a tutti.

 

- Questo è un “walkie talkie”. L’altro trasmettitore l’ho dato a Momo, così quando mi trasferirò, potremo parlarci.

 

La maestra diventò un continuo perché e per come su ogni mio comportamento. Io cercavo di darle sempre risposte pertinenti e rassicuranti, ma era come parlare a un ispettore di polizia che cercava d’incastrarmi. Poi, una mattina, verso le dieci si presentò la mamma. La maestra non le diede neanche il tempo di sfilarsi il foulard che portava in testa. I suoi fianchi presero a ondeggiare a forza nove, piena tempesta! Sul volto della mamma colò lentamente un grigiore plumbeo.

Andavo male, così male che la maestra non mi riconosceva più. Secondo lei la malattia mi aveva leso nell’intelletto, insomma, secondo lei ero diventato scemo. La mamma, invece, fu del parere che ero solo sfaticato. Altro che psicologo, a me ci voleva una bella scarica di botte.

 

- Naturalmente prima dovrò trasferirmi qui.

 

Forse aveva ragione la mamma: “Ero solo uno sfaticato” perché dopo appena una settimana la maestra stessa telefonò a casa per congratularsi del mio “eccezionale recupero”. In ogni modo fui mandato anche da una psicoterapeuta. La diagnosi della dottoressa Anna fu che non dovevo essere lasciato solo, altrimenti sarei caduto in un autismo indotto dal malessere che avevo attraversato.

Mia madre fece dunque arrivare in città la mia lontana cugina Lalla. La sua famiglia era indigente e presero di buon grado l’opportunità di lasciare crescere la figlia in casa nostra. Lalla era più grande di me di qualche anno, ma ogni estate che trascorrevo in campagna dai nonni, diventavamo inseparabili. Con lei fu tutto più semplice, mi bastò delegarle ogni mia scelta. Io, Lalla e Vanni diventammo inseparabili.

Intanto la zia Pina aveva saputo mettere a profitto l’amicizia con la facoltosa famiglia di Vanni. Il suo ultimo successo fu convincerli ad acquistare l’intero palazzo dove vivevamo e a dare allo zio Gerardo l’incarico della sua riqualificazione. Primo divenne il fornitore ufficiale di materiale elettrico del cantiere e divenne addirittura socio di un importante ingrosso della città. Insomma, affari d’oro per tutti.

 

- Ti piacerebbe vederci tutti i giorni?

 

Vanni si sarebbe trasferito nell’appartamento lasciato sfitto dalla compianta signora Galatina, e sperava così di frequentare di più anche Lalla. Aveva sempre avuto un debole per lei. Un sentimento assai poco corrisposto.

 

- Manco morta. Io ho un sacco di fidanzati bellissimi, ricchissimi e gelosissimi.

- Bugiarda. Se sono gelosi allora perché non si sfidano a duello tra loro?

- Perché non si conoscono. Non sono mica scema!

- E allora tu non dirgli di me.

- Io a te non ti bacerò mai, mai, mai, mai, maaaai.

- Ma io ti amo e tu devi baciarmi, questa è la regola.

- In guerra e in amore non esistono regole, che non lo sai? Sei proprio un ragazzino.

- Però con Mo ci giochi a marito e moglie.

- E che c’entra? Mo è mio cugino.

- Apposta, io devo fare il marito.

- Come no! Il giorno del mai dopo il poi.

- E allora io dico a tua zia che giocate a marito e moglie nel letto.

- Cosa? Mo glielo hai detto!

 

Santa pazienza! Quei due non si stancavano mai di litigare. Lalla ed io avevamo giocato a marito e moglie fin dal primo anno che c’eravamo conosciuti. Succedeva durante il sonnellino pomeridiano. Lei mi chiedeva solo di abbracciarla, anche se col tempo le sue pretese si fecero sempre più complesse. Arrivammo fino a calarci le mutandine e devo dire che per chissà quale ragione, quel gioco proibito mi piaceva sempre di più. In tal senso, Vanni c’era parecchio d’intralcio e forse era anche per questo che Lalla non lo poteva soffrire.

 

- Bambini, l’autista del pulmino del centro sportivo ha citofonato. Vi sta aspettando di sotto.

 

La novità del citofono inquietava molto la mamma, sospettava che fosse il primo passo verso il suo licenziamento. Del resto, da quando la zia Pina si era messa in testa di cacciare gli affittuari per far diventare il nostro palazzo, un prestigioso e moderno condominio residenziale, tentava di convincere la mamma ad accettare un prestito per accendere un muto e acquistare il nostro portierato. A casa mia erano mesi che si litigava al riguardo, con Primo che non ne voleva sapere d’indebitarsi e la mamma che al solito lo accusava non solo di volerla far rimanere una serva per tutta la vita, ma rischiare persino di perdere la nostra casa.

 

- … e fate attenzione in piscina!

 

La piscina era una delle prescrizioni mediche volute dalla psichiatra. Il moto fisico mi avrebbe aiutato a stabilire un nuovo rapporto con il corpo. Soprattutto, secondo lei, mi avrebbe reso più appetente, visto che il cibo non mi attraeva più. La dottoressa Anna pareva dimenticarsi che buona parte del materiale commestibile umano, mi provocava infiammazioni lancinanti con vomito e diarrea, senza contare i misteriosi eczemi cutanei che andavano e venivano, senza che nessuno ci capisse nulla. Mia madre poi prese a pomparmi di ricostituenti e integratori alimentari, facendomi diventare un’enorme e disgustosa vescicola di grasso chimico. Oramai avevo risolto che non ci si poteva aspettare niente di buono dagli adulti. Ascoltavo quindi senza darci peso i discorsi della dottoressa, secondo cui la malattia mi aveva fatto dimenticare il piacere della fisicità della vita. E nuotare me l’avrebbe dovuta far ritrovare?

Sul pulmino per la piscina Lalla scatenava tutta la sua “fisicità” in un parapiglia con tutti i suoi presunti fidanzati, facendo imbronciare ancora di più Vanni. Si ricordava di lui appena arrivati al centro sportivo, quando organizzava la spedizione al distributore automatico dei dolci.

 

- … perché non li vai a chiedere a uno dei tuoi fidanzati?

- E allora io e Momo ce le compriamo da soli.

- E chi se ne frega …

 

Vanni quella volta cercò di far pesare il fatto che era l’unico ad avere sempre i soldi in tasca, ma questo non fece che indispettire ancora di più Lalla.

In due racimolammo le monete per una sola “Sizzle Gum”. Prendemmo la bustina argentata e con estrema cura la aprimmo per non far cadere la preziosa polverina di cui era fatta la gomma da masticare. Appena quella robaccia iniziava a sfrigolare, pregustavo l’acidità di stomaco che mi avrebbe procurato. L’intrepida Lalla, invece, puntualmente mi scherniva con la lingua in bella mostra, mentre quella schifezza chimica gliela colorava progressivamente di fucsia.

 

- Vuoi sbrigarti! Claudio sta facendo l’appello.

 

Mi disse Vanni.

 

- Momo fa come gli pare e quindi sta con me.

- Se facesse come gli pare, non si farebbe comandare a bacchetta da una stupida.

 

Lalla era di due anni abbondanti più grande di me. Presto si sarebbe lasciata alle spalle le poco onorevoli scuole elementari e in virtù delle sue due noci che usava definire “tettine”, si sentiva già degna di frequentare i ragazzi delle medie, cioè la folta schiera dei suoi presunti fidanzati. Io avrei fatto volentieri a meno di accompagnarla da quelle canaglie, ma aveva ragione Vanni: lei mi comandava a bacchetta, e anche quella volta mi costrinse a fare manca all’appello. Sfuggire al controllo degli istruttori non era difficile, ma bisognava stare attenti a non farsi vedere scorazzare in giro.

 

Ci infilammo i costumi e come schegge corremmo verso i trampolini. Stare dietro a Lalla era sempre una sfida alle regole. Impavida s’inerpicò sulla scaletta a pioli verso il trampolino più alto, mentre io le andavo dietro solo per non fare la figura del bamboccio.

Sul trampolino si nascondevano i ragazzi “tosti”, quelli che se ne infischiavano delle regole e che per questo piacevano tanto alle ragazze. Lalla conosceva Piero che vantava il titolo di fidanzato numero uno. Comunque se Lalla non gli avesse portato delle sigarette, quei brutti ceffi ci avrebbero ributtato di sotto senza pensarci due volte.

Con loro Lalla cominciava a parlare in modo “tosto”. Usava espressioni come: che sballo! Strafigo! E condiva ogni frase con la parola “cazzo”; quindi si dimenticava completamente di me.

 

Il trampolino più alto era un buon posto per starsene tranquilli. Bastava solo non alzarsi in piedi e nessuno dal basso poteva accorgersi di nulla.

Mi sdraiai, ammaliato dal vuoto sottostante, sul margine della piattaforma di cemento. L’acqua da là sopra provocava una strana vertigine emozionante, prendeva alla pancia e faceva formicolare le estremità del corpo.

Quel giorno le grida dal basso si confusero in un rimbombo animalesco e dopo un po’ che stavo lì, mi ritrovai finalmente solo, invisibile, lontano, irraggiungibile. Potevo finalmente spegnere il cervello e lasciarmi andare al vento dei pensieri privi di parole, intellegibile serenità riflessa da quel vuoto capace di riempirmi e farmi scivolare via senza rimpianti.

 

La psichiatra sosteneva che i bambini normali erano tristi se stavano da soli. Ora che ero guarito anch’io dovevo imparare a gioire come facevano gli altri. La parola “magica” che usava spesso era: “Interagire”. Emettere suoni era fondamentale per interagire, il silenzio spaventava le persone felici. La psichiatra pretendeva che dessi a tutti i miei pensieri delle parole e glieli comunicassi, per questo mi diede un diario su cui annotarli. Eppure non c’erano parole abbastanza grandi da contenere l’immensità del vuoto su cui mi trovavo in bilico in quel momento. Il solo modo di percepire me stesso in tutto quello spazio sterminato era l’assoluto silenzio. Qualsiasi parola sarebbe stata un paletto, il limite di una porzione che per quanto grande non poteva che essere infinitesimale rispetto all’infinito. Nessuno poteva capire perché al contrario di me, tutti temevano il vuoto.

 

Pulci con cuffie gialle dell’associazione sportiva “Regione Lazio A.S.” zampettavano freneticamente sotto di me, e sembravano proprio felici! Uscivano dall’acqua e poi ci si rituffavano stridendo il loro sforzo in versi che diventavano un unico inno alla gioia. La felicità doveva essere proprio qualcosa di molto faticoso. Forse era per questo che la psichiatra mi diceva di “sforzarmi” di essere felice? Questo genere di domande non potevo porgliele, altrimenti mi avrebbe guardato in modo strano, e senza rispondermi avrebbe annotato qualcosa sul suo dannato organizer e mi sarei ritrovato con qualcosa di nuovo da fare. Decisi quindi che avrei scritto una commovente pagina di diario, in cui le avrei raccontato la gioiosa fatica che avevo provato quel giorno a correr dietro a tutte quelle pulci impazzite.

 

Sputai nel vuoto il rimasuglio chimico al sapore di vomito che stavo masticando da troppo tempo. La gomma fece un gran bel tuffo ad angelo che cercai di seguire con lo sguardo, ma una vertigine me ne fece perdere le tracce. Poco dopo, da basso, qualcosa iniziò ad agitare le pulci a bordo piscina. Cecchini Gabriella frignava come una sirena d’ambulanza. Un paio di adulti prese ad armeggiare tra la sua folta capigliatura. La Sizzle Gum era atterrata sulla sua testa, non c’erano dubbi. Il grado di sfialcciosità di quella schifezza era spaziale. Più tentavano di staccarla e meglio essa spandeva i suoi tentacoli chimici. Aspettai incuriosito il momento in cui i capelli di Cecchini Gabriella si sarebbero trasformati in un indistinto grumo di cheratina e chewing gum.

Il trambusto giù da basso incuriosì anche gli altri miei coinquilini del trampolino.

 

- Ei, voi la sopra!

 

Quelle cime d’intelligenza da scolari delle medie, si erano alzati in piedi e il direttore del centro sportivo, corso anche lui a bordo piscina ad assistere alla “trasmutazione” dei capelli di Cecchini Gabriella, li vide. Fu il panico. Si affollarono tutti sulla scaletta per tentare la fuga, come se esistesse un modo di scendere senza cadere in bocca al nemico. Rimasi sul trampolino aspettando che uno a uno fossero catturati e strigliati, sperando che si dimenticassero di me.

 

Quasi felice per averla fatta franca, corsi sul bordo della piattaforma per seguire l’evolversi della situazione. D’improvviso il mondo perse la sua staticità e scivolai di sotto. Tutto roteò espandendosi dentro di me, confondendosi in una vertigine di luce mista a colore. Ebbi l’impressione di ascoltare la mia voce provenire dal passato, un urlo che si perdeva senza eco nello spazio. Un tonfo sopraggiunse investendomi, avvolgendomi, togliendomi il respiro. Era l’acqua della piscina, in cui stavo continuando a cadere. L’istinto m’indusse subito a riguadagnare la superficie. Le bollicine d’aria mi guidarono verso la salvezza. Quando riemersi, il suono distorto delle voci che udivo sott’acqua esplose in un acuto assordante. Stavano tutti intorno al bordo piscina che mi urlavano contro come una canizza inferocita dall’odore della preda. Qualche belva iniziò a tuffarsi allora cercai disperatamente la fuga verso le scalette. Nuotai veloce come non credevo di saper fare, ma qualcosa mi sfiorò i piedi. Urlai e bevvi cloro, mi divincolai in una presa troppo forte ma da cui riuscii un’altra volta a sgusciar via.

Finalmente conquistai le agognate scalette, ma sopraggiunse un’intera muta di cani sbraitanti. I loro latrati indemoniati mi piombarono addosso da più parti ed io corsi, corsi rapido e a zig zag come una vera lepre. Ne svincolai alcuni, ma erano tanti, troppi.

 

- AHHH …

 

I piedi improvvisamente arrancarono nel vuoto, persi il controllo e caddi preda del branco. Urlai, urlai di più e ancora, con tutto il fiato che avevo e quando lo finii, continuai lo stesso, dentro di me; perdendo i sensi.

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Silverselfer

Floppy 01/11

 

 

Mr Wigly e Miss Rose erano due bambolotti di colore che Lalla ricevette in regalo, la novità era che non facevano la pipì dal solito forellino praticato tra le gambe, bensì da due organi genitali infantili mirabilmente riprodotti. Sbirciarli ci chiarì molte cose sulle differenze tra bambini e bambine, tanto che, dopo attenti confronti pratici, Lalla chiamò il mio “curioso prepuzio” Mr Wigly.

 

- E’ andata via?

- Macché …

 

Le curiosità di Lalla furono sempre più avanti delle mie, grazie anche a una sorta di “enciclopedia” del sesso che il padre si curava poco di tenerle nascosta. Ogni volta che Lalla tornava da un fine settimana dai suoi, portava con sé qualcuno di quei “giornali zozzi”, così li chiamava lei. Quel termine ”zozzo” m’incuriosiva, nel senso che, eccezion fatta per alcune pagine misteriosamente appiccicate, il resto si sporcava solo dopo qualche tempo che le tenevamo nascoste nel locale dei cassoni dell’acqua, nel sottotetto del palazzo.

 

- Se n’è andata?

- E sta zitto, non vorrai farci scoprire!

 

E’ così che l’innocente gioco di “marito e moglie” diventò sempre più complesso. All’inizio ci abbracciavamo stretti, dandoci un innocuo bacetto. Poi Lalla disse che i mariti dormono solo con le mutande e il nostro abbraccio si trasformò in una vera ginnastica, con lei sotto di me che impartiva ordini alla stregua di un vigile urbano. La assecondavo in tutto tranne che per il bacio a lingua di fuori, quello mi faceva proprio schifo.

 

- Ci mette troppo …

- Adesso se ne va. Tu rimani nascosto.

 

Naturalmente quello che facevamo era un segreto, e come tale diventò subito qualcosa di pericoloso. Col passare del tempo quel gioco soppiantò tutti gli altri divertimenti. Lalla si presentava ogni volta con piani d’evasione dal controllo domestico sempre più arditi. La nostra tana era sul terrazzo, nel locale dei serbatoi dell’acqua. Arrivavamo col fiatone, ci tiravamo giù le brache e con cura facevamo combaciare Mr Wigly sulla sua “fregna”. Lalla ci teneva molto che la chiamassi così: “La patatina ce l’hanno le bambine”, mi correggeva spazientita ogni volta che mi sbagliavo.

 

- Guarda che tra un po’ mamma ci cercherà.

- Aspetta e zitto…

 

La cosa che mi eccitava di quel gioco, era il rischio cui ci esponeva. Un pericolo cui Lalla non perdeva occasione dal mettermi in guardia. Secondo lei tutti sospettavano qualcosa e le precauzioni non erano mai abbastanza.

 

- Basta, io me ne vado.

- Fermo!

 

I nostri incontri clandestini finirono il giorno in cui Lalla fu rispedita in paese per sempre.

 

- Andiamo.

 

Si accedeva nel locale dei serbatoi attraverso una porticina oltre il vecchio lavatoio del palazzo. Solitamente non c’era mai nessuno, tuttavia era ancora usato per stendere il bucato. Quel giorno avevamo incontrato Maria “la Bicocca”, un’anziana signora che lavorava in casa della zia Pina. Io avrei voluto rimandare il gioco proibito e anche Lalla era intimorita dallo sguardo arcigno di quella vegliarda, ma c’era qualcosa d’improrogabile che le impediva di farlo.

 

- Ciao.

 

Quando ci intrufolammo dentro la porticina, rimasi gelato dalla sorpresa di trovarci già qualcuno ad aspettarci.

 

- Stupida, per poco la Bicocca non ci vedeva!

- Lalla sei sempre la solita scema …

 

C’erano le amiche di Lalla ad aspettarci: Giovanna e Roberta. Entrambi figlie dei nuovi inquilini che iniziavano a comprare gli appartamenti sgomberati dai vecchi affittuari. Io non avevo mai rivolto loro la parola perché la mamma me lo proibiva, considerando che i nuovi condomini si rifiutavano di pagarle lo stipendio. Mi resi conto solo in quel momento che Lalla aveva una sua vita sociale, da cui ero stato estromesso con menzogne e sottorifugi. Mi sentii tradito. Poi Giovanna, che frequentava addirittura la terza media, a me stava particolarmente antipatica per quell’aria di sufficienza con cui guardava tutti quanti.

 

- Ma è un ragazzino! Sicura che non è una delle tue solite balle?

 

Disse subito Giovanna lanciandomi una delle sue occhiate.

 

- E’ maschio, no? Esce da tutti i maschi.

 

Lalla mi sfilò la cintura e tirò giù pantaloni e mutandine con fare di sfida. Io rimasi impietrito, avvampando dalla vergogna. Vidi Roberta trattenere un sorriso di scherno. Quella fu la prima volta che mi sentii con un pisello inadeguato “striminzito”, così lo definì la solita Giovanna.

 

- Basta tirare indietro così… e poi diventa grosso; stupide.

 

“Ahia!”

 

Lalla mi prese il pisello in tre dita e tirò forte all’indietro. Quel nuovo gioco non mi piaceva per niente. Mi avevano fatto la stessa cosa quando in clinica mi misero il catetere: un dolore bestiale!

 

“Ahia”

 

Lo fece di nuovo! Le aveva forse dato di volta il cervello? Con un gesto rapido le bloccai la mano trattenendola per il polso.

 

- Non fare il ragazzino.

 

Mi bisbigliò rabbiosamente con uno sguardo truce.

 

“Ahia”

 

Sarò stato pure un ragazzino, ma se continuava in quel modo violento, mi sarei messo a piangere.

 

- Finiscila. Gli stai solo facendo male. Ammettilo che ti sei inventata tutto.

 

Quella volta le parole di Giovanna le trovai sacrosante.

 

- Ti dico che n’è uscito tanto. Avanti, diglielo anche tu.

 

Io? Ma che diavolo ci sarebbe dovuto uscire? Annuii solo perché era quello che facevo ogni volta che Lalla mi chiamava a testimoniare per le sue frottole.

 

- E’ perché prima si deve mettere in bocca. Stava pure sul giornale zozzo, o te lo sei scordato?

 

Giovanna annuì, ma assai scetticamente.

 

Lalla fece quello che in realtà neanche lei aveva mai avuto il coraggio di fare. Sfoggiando una perizia da scienziata alle prese con la sua cavia, si mise in bocca “Mr Wigly”. Lo succhiava come i vitelli che a casa della nonna sorbivano il latte dalla mammella della mucca. Che avesse raccontato alle amiche, che si potesse mungermi?

Intanto tutto quel traccheggiare mi fece salire forte uno stimolo fisiologico. Cercai di trattenermi e quando fui sul punto di cedere … miracolosamente Lalla smise di succhiare.

 

- Sei solo una racconta balle…

 

Le disse Giovanna con quella sua boccaccia antipatica, allora Lalla con più vigore di prima si avventò su di me. Stavolta però cercai d’impedirglielo, ma fu inutile.

 

- Lalla!

 

Tentai di chiamarla a bassa voce, per non farmi sentire dalle altre. Parlare però indebolì la mia concentrazione. Una goccia di pipì sfuggì al controllo e il resto divenne impossibile da trattenere. Si aprirono le cateratte, e seppure mi vergognavo di quanto stavo facendo, il piacere liberatorio che provai fu a dir poco “paradisiaco”.

Irrorai ogni cosa nel raggio di metri. La povera Lalla n’è fu praticamente travolta. Giovanna e Roberta si scompisciavano dalle risate lanciando gridolini di spavento. Subito dopo sarei voluto sprofondare mille miglia sotto terra, quindi tirai su le brache e scappai via. Corsi più veloce che potevo nel tentativo di seminare l’imbarazzo.

 

Il peggio doveva ancora accadere. Un paio di giorni dopo, tornando da scuola, trovai la zia Pina seduta in salotto con la mamma. Mi guardarono entrambi con un tale sguardo torvo, che mi sentii subito dinanzi ad un tribunale della santa inquisizione.

 

La zia sapeva come costringere le persone a fare quello che voleva. Col sorriso sulle labbra era riuscita a comandare anche in casa nostra. La mamma stessa doveva accettare i suoi spassionati “consigli”. Alla zia Pina non era mai piaciuta Lalla. Quando era in sua presenza, non perdeva occasione di chiederle graziosamente di farle qualche commissione, proprio come a un’inserviente.

 

Io no. Tutti in fondo la detestavano, anche se pubblicamente incensavano le sue virtù di donna dal gusto squisito, ma io no. La zia Pina rappresentò per me un baluardo sicuro. Lei mi avrebbe difeso da chiunque, senza curarsi se questo fosse giusto o sbagliato. Io ero la sua piccola opera d’arte, mi diceva, e non avrebbe mai permesso che mi accadesse qualcosa di male. Quel giorno ne ebbi un ulteriore conferma.

La mamma ruppe quel silenzio greve con un sonoro ceffone che mi rivoltò la testa. Ovviamente non emisi neanche un sussurro e raccattai i libri senza neanche voler sapere il perché della sua rabbia. Incontrare il suo sguardo truce era ben più doloroso che qualsiasi schiaffo.

 

- La sola che deve farsi un esame di coscienza sei tu.

 

Sentii avvolgermi dal braccio della zia e istintivamente mi tenni al suo fianco. La zia non sfoggiava uno dei suoi soliti sorrisi accomodanti, quando disse alla mamma di farsi un esame di coscienza. “Sei la gente che frequenti” lo diceva sempre pure a me. Lo aveva ripetuto anche alla mamma che, invece, aveva accettato di prendere Lalla in casa soprattutto per compiacere il marito. Ora che era accaduto quel qualcosa che in realtà mi sfuggiva ancora, non poteva che prendersela con se stessa.

 

E’ chiaro che in qualche modo la zia era venuta a sapere quanto era accaduto nel locale dei serbatoi, anche perché dopo quegli eventi la porta del vecchio lavatoio fu obbligatorio tenerla chiusa. Forse fu la Bicocca che si accorse di qualcosa o magari le amiche di Lalla si lasciarono sfuggire qualcosa in famiglia. In ogni modo, anche solo un sussurro bisbigliato tra le mura del condominio, prima o poi giungeva all’orecchio della zia. Sicuramente la gravità dell’accaduto sciamò presto in casa mia, perché l’estate stessa rividi Lalla, quando andai in campagna dai nonni, e mai nessuno accennò a quella terribile cosa.

 

Quel giorno pranzai a casa della zia e fin quando non tornai a casa, mi dimenticai di quanto era accaduto. Al ritorno Lalla non c’era più. Trovai ad accogliermi solo il volto plumbeo di mia madre. Al solito l’avevo ferita e sempre sul punto di far esplodere la sua rabbia, a stento riuscì a rivolgermi qualche parola nei giorni a seguire. Ero indubbiamente colpevole, ma non di aver giocato a marito e moglie con Lalla, bensì per averla tradita andandomene con la zia Pina.

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Silverselfer

Floppy 01/12

 

 

La quinta elementare fu un inferno. Per colpa delle maledette divisioni a due cifre che mi abbassarono la media, scivolai tre banchi indietro. La maestra mi marcava stretto. Quella era già la seconda volta che mi metteva una nota sul diario, in cui si comunicava a casa che “il proprio pargolo” aveva rimediato una disonorevole insufficienza.

 

- Abbiamo fatto il porco all’ingrasso “Magno, bevo e me ne vado a spasso”. Non è così?

 

La rabbia fece uscire la mamma dai gangheri. Aprì la credenza della cucina e spaccò tutti i piatti. Uno per volta il fragore della ceramica arrivava sulle orecchie come fosse un sonoro schiaffone. Non riuscendo a calmarsi, mi prese poi per le spalle e cominciando a scuotermi, disperata mi gridò contro:

 

- E adesso chi glielo dice a tuo padre?

 

Lo sconforto della mamma nasceva soprattutto dal fatto che, curiosamente, la maestra non pretendeva la firma “di uno dei genitori o di chi ne fa le veci”, ma in fondo alla nota c’era scritto espressamente: firma del padre.

 

- Perché tanto è sempre colpa mia, vero? Sono io che devo fare tutto in questa casa. Ma lo sai che ti dico? Questa volta, signorino, te la cavi da solo. Domani andrai a scuola senza firma. Così ti manderanno dalla direttrice. A me non m’importa più niente di te. Hai capito? In nome di Dio! Adesso basta, mi stai cavando l’anima ... finirò mai di portare questa croce?

 

Quando la mamma era in quello stato, era meglio lasciarla stare. Per fortuna ci pensò Angela a smarcarmi, chiedendole un sacco dell’immondizia per raccogliere i cocci dei piatti.

 

- … andatevene dagli occhi miei; tutti e due, non vi voglio più vedere.

 

Come il solito, Angela ed io ci chiudemmo in camera aspettando che la buriana le passasse. Angela, mentre siglava la firma di papà sotto la nota della maestra, mi assicurò che tanto nessuno poteva confrontarla con un autografo autentico, perché Primo non aveva mai firmato nulla che ci riguardasse.

Il giorno dopo la mamma non mi chiese nulla riguardo la nota. Tutto andò come previsto da Angela; cioè, la mamma rimosse semplicemente quel brutto ricordo dalla sua testa.

 

Mi chiusi in camera determinato a uscirne solo dopo aver “compenetrato” il maledetto sofisma matematico, ma le divisioni a due cifre ancora oggi non le so fare, in compenso quella volta scoprii la Bibbia. Chissà da quando stava prendendo polvere sullo scaffale della libreria, sepolta da tutti i miei romanzi ancora da leggere. Aveva una bellissima rilegatura, con una copertina in cuoio rosso vermiglio e delle affascinanti miniature.

Da quella lettura quasi concitata, trassi la certezza che Dio padre c’era sempre accanto, e lui avrebbe provveduto anche a ripianare le mie lacune in matematica …

 

Fu sicuramente grazie ad un intervento divino che giunse a scuola Camilla, la figlia di un diplomatico Brasiliano amico del marito della maestra (quello che insegnava al “Trinity College”). La maestra Russo la presentò con tutti i salamelecchi di cui era capace, e non smise mai di chiocciarle intorno.

Camilla aveva una corporatura robusta ed era la più alta della classe, più alta persino dei ragazzini. Aveva occhi scuri e carnagione olivastra, i capelli li portava a caschetto e non le donavano per niente. Fondamentalmente non si poteva definire una bellezza, ma non era l’aspetto fisico che mi affascinava di lei.

Qualche minuto prima che finissero le lezioni, la maestra le chiedeva di raccontarci qualcosa della sua terra. L’entusiasmo con cui ci parlava del mare, delle spiagge e dei fantastici animali del Brasile, mi contagiava. Rimanevo rapito dalla sua voce calda dall’accento esotico.

Per la prima volta nella vita mi trovai a desiderare qualcosa. Volevo starle sempre vicino, ma riconquistare il primo banco e soprattutto scalzare Fierimonte Antonella che le sedeva accanto, non era impresa da poco, specie con le mie lacune in matematica.

 

Mi scoprii ogni giorno più intraprendente, ne escogitavo sempre una nuova per ronzarle attorno. Toccai il cielo con un dito quando Camilla, di ritorno dai gabinetti, lasciò il gruppetto delle “perfettine” amiche della Fierimonte, e si fermò a parlare con me, davanti al termosifone di ghisa.

Quella volta mi raccontò di come trascorreva le feste natalizie dai nonni, che vivevano a Rio de Janeiro. E’ così che scoprii un Natale senza cappotti da trascorrere in spiaggia, e che esistevano anche dei miracolosi alberi del pane. Il Brasile per me era una sorta di paese di Bengodi e per un po’ riuscì a scalzare dalle mie fantasie le avventure spaziali dei manga giapponesi.

 

Camilla abitava in un appartamento dietro l’ambasciata Brasiliana di Piazza Navona, c’era da fare solo una piccola deviazione per accompagnarla fino a casa. Quando le proposi di tornare con me e Vanni, accettò subito facendomi uno dei suoi bei sorrisi. Il primo giorno che tornammo assieme, al portone del suo palazzo c’era la madre ad aspettarla e chiese subito a Camilla di presentarci. Vanni con la sua solita parlantina non la smetteva più. Le disse anche che ero il figlio della portinaia! Certo che non lo faceva apposta a umiliarmi così, però era già da un po’ che avevo iniziato a dubitare della sua buona fede.

La mamma di Camilla era bellissima, elegantissima, semplicemente “issima”. La signora Pereira aveva la carnagione chiara e i capelli lisci e biondi, era alta e longilinea; a parte per l’altezza, Camilla non le somigliava proprio.

Ci sorrise per tutto il tempo, e prima di lasciarci andare c’invitò il giorno dopo per la merenda.

 

Vanni si era tutto gasato per quell’invito ufficiale; conoscendolo si era probabilmente innamorato anche della signora Pereira. Il giorno dopo mi chiamò con la ricetrasmittente perché mi affacciassi alla finestra della chiostrina. Doveva chiedermi se la giacca del circolo canottieri gli stava abbastanza bene. Per quanto mi premeva la cosa, poteva anche venire con la giacca da camera. Il guaio è che Vanni pretendeva che mettessi anch’io l’orribile giacca del circolo canottieri. Che assurdità mettersi la cravatta! Ma tanto si faceva sempre come diceva lui. Mi costrinse a indossare la divisa del club sportivo, con la giacca blu e i pantaloni grigi. E non solo, mi convinse anche a mettere la brillantina ai capelli, spalmandomeli fino a farli diventare compatti come quelli di Big Gim. Vanni era tutto soddisfatto. Io ero almeno confortato dal fatto che con quegli occhiali e le orecchie a sventola, lui era molto più ridicolo di me.

 

Mi sorpresi che al domestico di casa Pereira non venisse da ridere guardandoci conciati in quel modo; invece, si comportò con maniere pompose e ridicole quanto il nostro abbigliamento.

Ci rimanemmo di stucco nello scoprire che non eravamo i soli a essere stati invitati. Nel salottino dove fummo introdotti c’era già il signor Pereira in compagnia della maestra Russo e il suo famigerato marito “che insegnava al Trinity college”.

Sulle prime rimanemmo gelati dalla novità; persino Vanni si ammutolì. La maestra scattò in piedi appena ci vide e i suoi fianchi presero subito a ballare la cucaraccia. Ignorò Vanni e mi prese delicatamente per le spalle, sospingendomi in avanti.

 

- Lui è Momo, uno studente davvero sorprendente.

 

Disse proprio così, evidentemente si era dimenticate dell’ultima nota che mia aveva messo sul diario. Mi fece sedere sul canapè accanto a lei e al marito, continuando a sproloquiare sulle mie presunte qualità e il suo metodo di studio meritocratico. In compenso mi presentò come il figlio di un imprenditore.

 

La maestra riprese fiato solo quando sopraggiunse la signora Pereira con Camilla. Pensai che abbigliarsi in modo ridicolo dovesse essere la prassi in quelle occasioni, perché anche Camilla indossava un vestitino tutto pizzi, con i capelli trattenuti da un ridicolo cerchietto fiorito e ai piedi delle scarpette di vernice inguardabili. Fece una piccola riverenza quando fu presentata al marito della maestra e poi si mise a sedere accanto a Vanni.

 

Il domestico ci servì il tè in tazze finemente decorate e fece strano sentire quella costosissima porcellana sulle labbra. Gli adulti parlavano tra loro mentre io invidiavo Vanni che se ne stava in disparte con Camilla. La signora probabilmente si accorse che mi stavo annoiando e invitò la figlia a mostrarci la sua ludoteca. Una volta soli il tempo riprese di nuovo a correre.

 

Nella ludoteca c’erano anche delle marionette e un teatrino. Troppo seducente l’idea di mettere su uno spettacolino. Portai quindi in scena una cosina abbozzata sul momento: L’intero Esodo biblico. Rapito dall’enfasi, andai avanti per chissà quanto tempo e solo quando Mosé stava lanciando i suoi strali contro l’agnello d’oro, mi accorsi che tra gli applausi di un’inaspettata platea, si distinguevano degli entusiastici “bravissimo” della maestra Russo. Forse avevo fatto tuonare troppo la voce di Mosè.

 

Incuriositi dagli anatemi biblici che salivano su per il corridoio, tutta casa Pereira si era affacciata all’uscio della ludoteca. La cosa che non capivo era perché continuavano a complimentarsi con la maestra, ma l’importante era che Dio Padre mi aveva finalmente concesso il suo aiuto e il giorno dopo Fierimonte Antonella dovette cedermi il posto accanto a Camilla. Ero veramente orgoglioso di me. Le settimane a seguire furono semplicemente entusiasmanti. Camilla era il mio faro, la mia stella Polare. Ogni suo desiderio diventava subito anche il mio…

 

Poi sopraggiunse la fine.

 

La maestra ci stava facendo preparare un cestino per la festa della mamma. Camilla ci stupì intrecciando magistralmente un piccolo canestrello che poi dimenticò sul banco. Il giorno dopo non si presentò in classe. Pensai dunque di prendere il canestrello e portarglielo a casa di ritorno da scuola.

 

In casa trovai aria di smobilitazione. La signora mi ricevette nello studio del marito, quello pieno di enormi libri che mettevano soggezione. Lei dette per scontato che avessi capito della loro imminente partenza. Si scusò per Camilla e mi chiese di capirla se a scuola non aveva voluto far sapere nulla. Desiderai ardentemente non essere lì, con quello stupido, patetico canestrello.

 

La signora si accorse del mio disorientamento. Mi si accoccolò vicino e mi carezzò il volto, promettendomi che mi avrebbe fatto avere il loro nuovo indirizzo, così avrei potuto scrivere a Camilla. Odiai quell’emotività che mi faceva illanguidire gli occhi e annodare la lingua. Fu solo per togliermi dall’imbarazzo che gli porsi il cestino. Le chiesi di restituirlo alla figlia, inciampando qua e là in qualche maledetta sillaba. La signora non lo prese e baciandomi in fronte, mi chiese di aspettarla. Dopo qualche minuto si presentò con Camilla. Lei rimase ferma accanto alla madre, fino a quando la signora stessa le disse di venire da me. Allora prese una tale rincorsa che mi travolse in un abbraccio fortissimo. Il pianto che la faceva singhiozzare in modo assai sgraziato, contagiò anche me. Promise che un giorno mi avrebbe portato in Brasile, e allora mi avrebbe fatto ben vedere che sull’albero del pane non crescevano mica pagnotte.

 

Quando la signora Pereira intervenne traendo delicatamente a sé Camilla, io non seppi trovare nessuna parola capace di descrivere quella strana cosa che si era impadronita del mio giovane cuore. Le porsi ancora il cestino con la desolazione negli occhi, ma ormai Camilla aveva nascosto il volto nel grembo della mamma e non poteva più vedermi. La signora con i lucciconi agli occhi mi disse di tenerlo, che Camilla me lo regalava per non farsi dimenticare ... addio.

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Silverselfer

* nel capitolo precedente ho commesso un errore cronologico. I fatti narrati accaddero in quarta e non quinta elementare.

 

Secondo Floppy

 

 

 

Floppy 02/13

 

 

Dieci anni sono una tappa importante della vita, è il momento in cui si raggiunge l’apice dell’infanzia e al tempo stesso, iniziamo a separarcene.

 

Gli anni ottanta, iniziando con tre evi bisestili, sarebbero stati i più lunghi del secolo; con i loro 3.653 giorni, 87.672 ore, 5.260.320 minuti, mi avrebbero formato la mente, trasformato il corpo e accompagnato alla scoperta della vita. Certo che non potevo ancora sapere tutto questo, ma una strana inquietudine dentro di me, mi faceva guardare le cose come se quella sarebbe stata l’ultima volta che le avrei viste così.

 

Era la mattina di San Silvestro, quando mi svegliò lo sfrigolio della pastella che friggeva nelle padelle. La sua doratura aveva colorato di giallo oro ogni capodanno della mia infanzia, appestandone l’essenza con l’odore di baccalà e cavoletti di cui era fatta la loro anima.

L’anno che stava finendo aveva ancora portato in scena, lo spettacolo di una guerra fredda che non voleva saperne di finire, con le Olimpiadi di Mosca boicottate per via dell’invasione sovietica dell’Afghanistan durante il Natale del ‘79. Se il mondo faceva fatica a gettarsi alle spalle la vecchia politica, l’Italia al contrario si era appena regalata l’ennesimo nuovo governo, mentre uno spaventoso terremoto in Irpinia riempiva con le sue macerie i telegiornali della televisione.

 

L’anno che stava finendo portava via con sé anche un sacco di cose vecchie, prima fra tutte il portierato della mamma, che alla fine fu sostituita dal più tecnologico ed economico citofono.

In un modo che ancora non potevo comprendere, diventammo proprietari dell’appartamento. Primo e la mamma si erano scannati ogni sera per la questione della casa. Lui voleva tornare in paese, vicino alla sua famiglia; la mamma si sarebbe strappata le vene a morsi piuttosto di andare a vivere vicino ai suoceri. Un giorno il fragore delle loro liti piombò in un silenzio sepolcrale e Primo non si vide per un sacco di tempo. Avevo capito che la zia Pina ci aveva messo lo zampino, perché da allora a casa mia fece il bello e cattivo tempo. Per quello che mi riguardava, ero felice di non essere più additato come “il figlio della portinaia”.

 

La zia Pina scalzò anche la governante che teneva le redini della famiglia di Vanni. Fu sempre sua l’idea di sistemarci la mamma “perché uno stipendio in più non guasta”, ma soprattutto così poteva sapere tutto quanto accadeva alla nostra principale fonte di reddito.

Da allora Vanni si era in pratica trasferito nel letto di Angela, che dovette traslocare sul divano della sala da pranzo. I rapporti tra le nostre due famiglie divennero così stretti, che fu chiesto al signor Pier Giovanni Maria di farmi da padrino alla prima comunione. Io mi opposi subito, non che avessi qualcosa contro il padre di Vanni, ma era un miscredente che non aveva manco fatto battezzare il figlio! Dio padre certo non me l’avrebbe perdonato un affronto del genere.

 

Il primo giorno della quinta elementare, a scuola c’era stata una vera e propria rivoluzione. La maestra Russo aveva seguito il marito in un college irlandese e fu sostituita da “Rosa”. Lei era giovane, bella, con dei capelli lunghissimi quasi biondi, ma soprattutto era socialista. Rosa ci fece subito disporre i banchi a ferro di cavallo e non esisterono più graduatorie di merito per i posti a sedere. Ognuno di noi svolgeva un lavoro per la collettività: chi la mattina chiamava l’appello, chi si occupava di distribuire gli appunti, chi organizzava i giochi da fare durante la ricreazione. Ogni ultimo del mese si svolgevano le elezioni per attribuire gli incarichi. Scoprii così che il temuto comunismo non era poi tanto malvagio.

 

Durante la discussione aperta del martedì, dove tutti potevamo fare qualsiasi genere di domanda alla maestra, un giorno Pierangeli se ne era uscito dicendo che non erano le donne a fare i bambini ma le cicogne, qualcun altro lo aveva corretto prontamente affermando che i bambini germogliavano sotto i cavoli. Al che la maestra convocò tutte le mamme chiedendo loro di chiarirci “i fatti della vita”, altrimenti ci avrebbe pensato lei. Naturalmente le più timorate di Dio storsero il naso, ma alla fine anche loro preferirono declinare l’imbarazzante incombenza alla maestra.

 

Senza avvertirci di quanto stava accadendo, portò in classe un misterioso libro a fumetti di un bambino che cresceva nella pancia della mamma. Lo lasciò incustodito sulla cattedra, ammonendoci però di non aprirlo. Naturalmente fu la prima cosa che facemmo. Pierangeli appena vide il disegno di un organo sessuale maschile esclamò: “Ma sto libro è zozzo!”. E sì, scoprii che non ero il solo ad aver già sbirciato certa editoria proibita. Rosa ci chiese se avessimo avuto voglia di saperne di più, un sì collettivo sancì l’inizio dell’ora di educazione sessuale.

 

Al di là dei metodi di studio, con la maestra Rosa mi alzavo la mattina senza più apprensioni e al ritorno da scuola avevo sempre qualcosa di nuovo su cui meditare. Tanto che mi era difficile abituarmi all’idea di dover presto abbandonare la scuola elementare, ma le temibili “medie” incombevano e Angela non perdeva occasione per ricordarmi che la pacchia sarebbe finita. Addirittura girava voce che proibissero i cartoni animati! Vanni, invece, non vedeva l’ora di andarci perché altre dicerie sostenevano che alle medie fosse obbligatorio baciare le femmine.

 

Intanto convivere con Vanni aveva già cambiato le mie abitudini. Lui al mattino alle lenzuola ci rimaneva appiccicato, così dovevo aspettare che si svegliasse prima di aprire le imposte. Nei normali fine settimana, lo lasciavo nel letto e andavo a fare colazione in cucina. Approfittando di un ultimo scampolo di silenzio notturno, versavo il latte sui cereali cercando di farli scoppiettare il meno possibile e poi accendevo la tv a volume bassissimo, per guardare un nuovo episodio di Gundam. Se disgraziatamente si fosse svegliato anche Vanni, mi avrebbe costretto a guardare l’ennesima replica di catch giapponese commentato da Tony Fusaro, o magari la serie a cartoon dell’eroe del wrestling nipponico “Tiger mask”. Per ridurmi al silenzio Vanni mi ricordava che il nuovo televisore a colori che stava sulla credenza, era il Telefunken che teneva in camera sua prima di trasferirsi nel nostro palazzo.

Da quando la mamma faceva la governante per il padre, io ero diventato una sorta di suo sottoposto. Certo che eravamo ancora amici e crescevamo come fratelli, però Vanni sapeva sempre come far pesare certi dettagli.

 

Quella mattina dell’ultimo dell’anno preferii restarmene a letto, perché sentivo il giorno rumoreggiare già nel resto della casa. Il freddo dell’inverno rendeva ancora più piacevoli le avventurose fantasie che inventavo restandomene al calduccio sotto le coperte.

 

- Mo sei sveglio?

 

Vanni non aspettava mai che rispondessi, s’infilava direttamente sotto le mie coperte con la torcia elettrica accesa (aveva paura del buio ma guai a farglielo ammettere).

 

- Ho sognato una nuova mossa di catch MI-CI-DI-ALE! Con questa il mio Uomo Puma sarà imbattibilissimo. Potrebbe sconfiggere anche l’Uomo Tigre. È matematico.

- Cavolate, l’Uomo Tigre è troppo forte.

- Beh, forse lui no. Però è sicuramente più forte della tua mossa dell’artiglio.

- Cavolate…

- Cavolate un corno, è matematico.

- Cavolate…

- Staremo a vedere, difenditi…

 

Vanni era sì un dormiglione, però al contrario di me, appena apriva gli occhi era pronto a partire. Quella volta mi afferrò alla sprovvista, bloccandomi nella nuova micidiale mossa di catch giapponese che aveva sognato nottetempo.

 

- Ti ho neutralizzato Uomo Aquila. Inizio a contare, e uno… e due…

 

Era ancora tutto da vedere, mio caro Uomo Puma. Mi aveva lasciato un braccio libero, e anche con una sola ala spiegata l’Uomo Aquila poteva effettuare la temibile mossa dell’artiglio …

Gli afferrai la testa e strinsi con quanta più forza potevo. Lui riuscì a farmi rotolare, aggrovigliati tra le coperte, cademmo giù dal letto.

 

- E’ pari.

- No! Posso ancora resistere.

- E’ pari ti ho detto… Sta arrivando mamma!

 

Riconobbi immediatamente il suo inconfondibile ciabattare per il corridoio. Si abbatté come il solito sulla porta della cameretta spalancandola. La luce ci accecò e il rumore di casa irruppe nella stanza.

 

- E mi sembrava strano che dormivate ancora come angioletti. Guarda che avete combinato!

 

Beh, c’erano solo le coperte in terra, il minimo per un incontro di catch tra l’Uomo Puma e l’Uomo Aquila.

 

- Forza muovetevi, uno in cucina a fare colazione e l’altro a lavarsi.

- Possiamo farci la doccia assieme ... oggi è festa, dai. Possiamo, possiamo, possiamo …

 

Invidiavo Vanni perché riusciva a fare i capricci con mia madre. A me non era mai stato permesso, o più semplicemente, non avevo mai avuto il coraggio di farli.

 

- E come no! Così mi riducete il bagno in uno schifo.

- Rimettiamo apposto noi, giuro.

- Ma guarda che sei proprio un testone! E va bene, solo perché è festa ma guai se poi non asciugate tutto.

 

Avremmo messo il tubo di caucciù al rubinetto del lavandino e fatto la doccia a schizzo! Era “strafigo”.

 

Quello fu proprio un bellissimo capodanno.

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Floppy 02/14

 

 

“Matematica, lettere e applicazioni tecniche…”

 

Il primo giorno di scuola media, Vanni ed io volemmo per forza essere lasciati andare da soli. Io finii nella sezione “E” mentre Vanni nella “A”. Le sezioni furono chiamate rapidamente, e gruppi di ragazzini spaesati furono gettati in quel portone senza alcuna direttiva. Nessuno in quel posto sembrava disposto a darci l’imbeccata. Noi ci guardavamo schivi, ancora ignari di dover dividere buona parte della nostra adolescenza insieme.

 

“Matematica è algebra, geometria e scienze…”.

 

Un bidello, un vero e proprio secondino di caserma, ci ordinò di seguirlo. Durante il tragitto non fece che ammonirci, minacciarci, intimidirci promettendoci ogni sorta di punizione se solo ci fossimo azzardati a: lasciare cartacce in terra, alzarci dai banchi nel cambio tra un’ora di lezione e l’altra e, diretto soprattutto a noi maschietti, pisciare nelle tazze invece che negli appositi orinatoi.

 

“Lettere è: antologia, grammatica, epica, narrativa, storia e geografia…”.

 

Alla prima ora ci accolse la prof di musica. Era una signora truccatissima, inguainata in un completo di pelle marrone, composto di giacca e mini gonna corredata di calze a rete scure. Era bruttissima, col naso camuso e una leggera peluria sulle gote, messa in evidenza da uno spesso strato di fondotinta color “Terra di Siena”. La fissai per tutto il tempo come un esemplare umano a me fino allora sconosciuto.

 

“Per Applicazione tecniche, invece, c’è il libro di teoria e disegno…”.

 

Alla seconda ora arrivò la prof di matematica, una tipa piccola e segaligna, ma con una voce squillante e autoritaria. Mise subito in chiaro che non avremmo trovato in lei un surrogato di mamma, era finita l’era dell’insegnamento pedagogico, ora stavamo alle medie. Quindi iniziò a chiamarci alla lavagna per capire dove erano le nostre lacune… perché dava per scontato che le avessimo, in quanto non aveva una buona opinione delle sue colleghe delle elementari; “tutte venute fuori dalle magistrali”.

 

“Quindi sono: algebra, geometria, scienze, antologia, grammatica, epica, narrativa, storia, geografia, tecnologia e disegno tecnico…”.

 

Per fortuna la campanella d’uscita del primo giorno di scuola suonò alle undici e mezzo, anche se per noi della prima non finì certo così. Appena sul portone sentii un gran vociare, e poi un fuggi fuggi. Era il Sant’Antonio delle spine. Quelli della terza usavano farlo ogni anno, era proibito, ma in ogni modo tollerato. Appena fuori ci presero a gavettoni d’acqua e farina. I bidelli sapevano tutto, così si sbrigarono a richiudere il portone per impedirci d’imbrattare tutto il pavimento dell’androne, col risultato che rientrammo a casa belli e impanati. Naturalmente il giorno dopo partirono le rimostranze dei genitori, ma quelli che si fecero accompagnare persero il rispetto di tutti, compresi i professori.

 

“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci e undici…”

 

Andammo a scuola di giovedì e per i primi tre giorni i professori si preoccuparono solamente di farci comprare i loro libri di testo, perché se il lunedì successivo ci saremmo presentati senza, ci avrebbero sbattuto fuori dall’aula.

Il sabato ci fu dato l’orario delle lezioni, che era un susseguirsi di materie diverse di ora in ora.

 

“Uno, due, tre, quattro… e non c’è dubbio, sono proprio undici!”

 

Il lunedì mi avviai a scuola con un’impressionante pila di libri, tenuta insieme da una cinta elastica tesa fino all’inverosimile.

 

“Undici, sono undici libri… che ci posso farci? Sono proprio undici.”

 

Vanni come il solito se ne andava a spasso con quattro libri, sempre fortunato lui. Aveva trascorso le elementari con un blocco di disegno e ora alle medie doveva essere di nuovo capitato in qualche classe “artistica” dove bastavano due matite e un blocnotes. Io invece a trascinarmi dietro undici pesanti tomi… e iniziava pure a far caldo!

 

Il portone principale della scuola dava su uno scorcio della piazzetta di S. Eustachio. La mattina si formava una piccola folla perché non si entrava fin quando non suonava la campanella d’ingresso alle otto e venti.

Vanni si dileguò con i suoi nuovi compagni di classe; io dei miei non mi ricordavo manco che faccia avessero. Ero a dir poco imbarazzato perché non vedevo nessun altro con tutti quei libri dietro.

Quando suonò la campana d’ingresso, m’inerpicai col mio carico su per le scale come uno sherpa tibetano. In classe poggiai i libri per terra perché sul banco formavano un totem che faceva ridere tutti.

 

- Perché hai portato tutti quei libri?

 

La ragazzina che mi porse questa domanda si chiamava Giada, sedeva al banco accanto al mio. Avrebbe potuto continuare a sghignazzare come facevano tutti, invece decise di chiarirmi come funzionava l’orario delle lezioni.

 

- Accanto alle ore di lezione devi scrivere anche la materia. Oggi a matematica faremo solo Algebra, mentre il professore di applicazione tecnica ci porterà in laboratorio.

- Ei! Voi due piccioncini la finiamo di tubare? O preferite che tolga il disturbo?

 

La prof di matematica era molto sarcastica… però ci chiamò piccioncini. In fondo, se proprio alle medie si doveva baciare una femmina… Giada sarebbe stata perfetta.

 

- Vieni tu. Tu... proprio tu. Così magari riusciamo a farti tornare con i piedi per terra.

 

La lavagna no! Persi cinque minuti solo per capire di cosa stavano parlando, e dopo una decina di battute pungenti della prof, questa mi rispedì al banco. Per il resto della lezione non riuscii a togliermi dalla testa quella figuraccia. Seduto al banco, meditai vendette sanguinarie, anche se poi guardavo la ridicola pila di libri che mi ero trascinato dietro e mi odiavo profondamente. Di tanto in tanto lanciavo uno sguardo furtivo al banco di Giada, la vedevo armeggiare con il righello come se nulla fosse accaduto. Ne dedussi che non le importava un accidenti di me.

 

- Tieni Domenico, ti ho fatto la tabella con l’orario e le materie di studio.

 

Appena suonò la ricreazione Giada si alzò e mi porse il foglio, su cui aveva disegnato una bella tabella, con i giorni della settimana e le materie di studio. Rimasi incantato dalla sua calligrafia ordinata, con i cerchietti al posto dei puntini sulle “I”, e dai fiorellini colorati posti a margine di ogni rigo.

 

- Grazie.

 

Le dissi solo grazie, magari si aspettava qualcosa di più. Trascorsi l’intera ricreazione tra quesiti del tipo: mi ha chiamato per nome, a scuola ci si chiama per cognome, perché mi ha chiamato per nome?

Mi accorsi che la ricreazione era terminata solo perché Giada tornò a sedersi al suo posto, non riuscivo a ignorare la sua presenza, a volte mi sorprendeva a fissarla in modo inopportuno.

Giada era bionda e portava i capelli raccolti in una treccia che le scendeva fino a metà schiena. Aveva la carnagione chiara, gli occhi azzurri e una corporatura robusta. Indossava un completino con gilet e gonna pantalone. Si vedeva che ogni dettaglio era stato scelto con cura. I suoi libri avevano tutti la copertina di plastica, e sul suo banco le penne e le matite erano disposte in modo ordinato. Quello che mi affascinava di più in lei erano i modi misurati, il tono di voce sempre pacato e la capacità di farmi sentire a mio agio.

 

Ormai nella mia testa non c’era spazio che per Giada. Così, quando il prof di applicazione tecnica ci portò in laboratorio, mi preoccupai subito di guadagnarmi un posto nel suo gruppo di lavoro.

Il laboratorio era un’esperienza nuova per noi studenti delle elementari. Ci accorgemmo subito che le regole erano meno rigide di quelle che vigevano in aula. Il professore aveva un assistente e tutti e due non avevano una cattedra, ma gironzolavano tra i banchi o se ne stavano seduti in un angolino senza preoccuparsi se chiacchieravamo o ci alzavamo dai nostri posti.

 

- Nessuno mi chiama Domenico.

 

Beh, sicuramente avrei potuto esordire con una battuta migliore, ma era quella cosa che più di ogni altra mi era ronzata in testa, quindi fu la prima che dissi quando collegai la bocca al cervello.

 

- Scusa, non volevo offenderti.

 

Ma che scusa e scusa, mi aveva fatto piacere!

 

- No! Volevo solo dire che nessuno mi chiama Domenico.

- Okay! Allora non ti chiamerò più.

 

Stavo solo cercando di spiegarle che tutti mi avevano sempre e solo chiamato Momo, tanto da non ricordarmi più nemmeno io il mio vero nome. Ma era troppo tardi per ulteriori spiegazioni sul quel tema così complicato, il prof iniziò a parlare tra i banchi e lei si voltò.

 

Dopo tanto parlare il prof se la svignò lasciandoci in mano al suo assistente. Quello che ci disse in sostanza era che, in quanto matricole, spettava a noi rimettere in ordine il laboratorio rimasto chiuso per tutta l’estate.

Il mio gruppo doveva sistemare la falegnameria. La quale altro non era che un mucchio di cose di legno ammassate alla ben in meglio. Giada riempì un secchio d’acqua ed io, quasi di prepotenza, glielo tirai via dalle mani. Fu un gesto istintivo, forse anche un po’ troppo rude, ma lei mi sorrise lo stesso e misteriosamente mi sentii meglio. Iniziammo a lavorare alacremente grattando via polvere e segatura da ogni foglio di compensato. Si vedeva che eravamo entrambi due tipi molto meticolosi. Gli altri finirono presto, ma non io e Giada che continuammo di buona lena per tutto il tempo. I secchi d’acqua andavano e venivano, ma la fatica non si sente quando c’è armonia. Ridevamo. Ridevamo anche quando strizzavo lo straccio e ne veniva fuori un sudiciume denso e oleoso: “Che schifo” faceva lei, ed io ridevo. “Accidenti” dicevo io, quando per sbaglio mi bagnava i pantaloni con qualche schizzo, e lei rideva di gran gusto. Non riuscimmo a smettere di ridere nemmeno quando uno scricchiolio iniziò a far accartocciare tutti i fogli di compensato bagnati fradici.

 

- Chi vi ha detto di usare l’acqua per pulire il compensato?

 

L’assistente era fuori di sé. Lo avevamo messo proprio in un bel guaio! Ma non era per prenderci gioco di lui se continuavamo a ridere come due beoti.

 

- Ridete, ridete pure. Ma ride bene chi ride ultimo…

 

Ci spedì entrambi dal preside che convocò i nostri genitori l’indomani mattina, intenzionato a farsi ripagare il danno che avevamo combinato. In tempi normali questo sarebbe bastato per togliermi il sorriso vita natural durante, eppure no, in faccia continuavo ad avere stampato un bel sorrisetto gaio.

 

- Tutti mi chiamano Momo.

- Cosa?

- Ieri volevo dirti solo che nessuno mi chiama Domenico perché tutti mi chiamano Momo.

- Allora posso chiamarti anch’io così?

- Certo!

- Grazie Momo, è un bel nome Momo… come la bambina del romanzo, allora combatti anche tu i signori grigi. Hai visto che il preside fuma il sigaro come uno di loro! Non hai per caso delle orafiore per farci scappare?

 

Non sapevo minimamente di cosa stesse parlando, ma ne dedussi che amava leggere anche lei. Che bello! Perché era bello? Avevo una gran confusione in testa. Volevo solo che continuasse a ridere, perché il suo sorriso si rifletteva sul mio volto e nulla riusciva più a farmi essere triste.

 

- Tu mi puoi chiamare Giada… che poi è il solo nome che ho. Cioè, tutti mi chiamano solamente così. Giada voglio dire.

- Giada è un nome bellissimo.

 

Continuammo a parlare serenamente, nonostante i nostri rispettivi genitori ci avessero lanciato occhiate torve prima di entrare nell’ufficio del preside.

L’intenzionalità di cui ci accusava il signore grigio dal sigaro fumante non stava né in cielo né in terra: “Quello cerca solo il modo di spillare soldi alla gente” fu la conclusione della mamma. Il padre di Giada, che era un avvocato, alla fine riuscì a far valere le nostre ragioni, così tutto si risolse nel migliore dei modi possibile… e noi continuammo a ridercela.

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Silverselfer

Floppy 02/15

 

 

Me la regalò per aver superato gli esami di quinta elementare. Io non la volevo, ma quando tornai a casa, lo trovai giù in strada con quell’arnese tra le mani. C’erano anche la mamma e Angela, tutti a festeggiare il suo bel gesto.

Vanni anche ricevette una bicicletta per la sua promozione alle scuole medie. Suo padre la fece addirittura arrivare dall’America. Era blu, con gli ammortizzatori posteriori a molla tutti cromati, il cambio a cinque rapporti e una splendida bandierina a stelle e strisce dietro il sellino lungo da cross.

La mia “Safari 2000” non poteva certo reggere il confronto, ma era comunque il modello più diffuso e almeno in questo non potevo criticare la scelta di Primo.

 

Il mio rifiuto era più che altro al significato intrinseco di quella bicicletta. Quello era un giocattolo che non si poteva usare in casa, riceverlo era come avere la patente per stare in strada senza la sorveglianza di un adulto. Era, di fatto, il mezzo di trasporto con cui ci mandavano alla scoperta del mondo. In altre parole, non mi era più concesso rimanermene in camera a fantasticare.

La domenica, quando tornavo dalla messa, la mamma non mi faceva neanche mettere i piedi in casa che mi diceva:

 

- Vanni è andato al parco. Mi raccomando attraversa al semaforo.

 

Improvvisamente restarmene zitto e buono in camera li insospettiva. Vedermi leggere o magari scrivere qualcosa che non fosse un compito scolastico, li metteva in apprensione, e allora m’incitavano a uscire per approfittare della bella giornata. Odiavo quella dannata bicicletta. Mi ritrovavo in strada senza una meta e, soprattutto, senza alcuna voglia di raggiungerne una.

 

All’inizio andavo con Vanni a fare una partitella a pallone al parco. Vanni alle medie non era più uno sfigato e si era fatto un sacco di amici. In particolare era diventato amico di Panari Felice, il suo compagno di banco. Lo conoscevamo tutti perché era un avanzo di collegio, antipatico e prepotente. Una volta scappò pure da casa e vennero i poliziotti a scuola per interrogarci. Panari era di due anni più grande di noi, non so bene in quale classe era stato bocciato, ma giudicando il tipo poteva essere accaduto già alle materne.

 

Panari Felice era cazzo centrico, ogni discorso per lui era riconducibile ai genitali maschili. Gli stavi antipatico? Eri una testa di cazzo. Lo contraddicevi? Non dovevi cagargli il cazzo. Sbagliavi qualcosa? Eri un coglione. Panari era sboccato, manesco, arrogante e soprattutto “gli stavo sul cazzo”, cioè gli ero antipatico. Durante le partitelle mi veniva addosso come un treno, o mi marcava stretto solo per provocarmi, come quella volta che mi toccò il culo, al che lo spintonai lontano e mi liquidò dicendo: “Chi è geloso di culo è frocio di sicuro”. Da quel giorno prese a chiamarmi “inutile frocetto” ed io al parco non ci andai più. Ci rimasi male soprattutto perché Vanni non cercò di farmi cambiare idea.

 

In ogni modo la domenica mattina non potevo rimanere in casa, specie se ci stava anche Primo che avrebbe cominciato a chiedere spiegazioni alla mamma, del tipo: “Ma perché se ne sta sempre chiuso in casa” oppure “Ma come mai non ha amici”. Così inforcavo la bicicletta e invece di andare verso il lungo Tevere per attraversare il ponte di Castel Sant’Angelo, mi dirigevo su Corso Vittorio Emanuele; cioè, in direzione di Campo dei Fiori. Poi svoltavo per piazza Farnese, superandola; quindi iniziavo una serie di giri concentrici che mi portavano inevitabilmente verso la deliziosa piazzetta della Quercia… dove abitava Giada. Anche lei aveva ricevuto una bicicletta per la promozione in prima media, e se ne stava in giro con la sua Graziella rosa e il paniere bianco attaccato al manubrio. Trovarla non era difficile perché suonava il campanello prima di ogni incrocio, che in pieno centro storico significava fare “Drin Drin” continuamente. Di domenica in domenica era sempre più difficile farle credere che passavo per caso da quelle parti.

 

- Ancora tu? Ma i maschi, almeno quelli veri, non preferiscono giocare a pallone?

 

Tardelli Loredana e Bagatti Lidia, le sue amiche del cuore, mi odiavano. Cosa di cui non facevano certo mistero. Del resto le capivo perché le guastavo la passeggiata. Giada era sempre gentile con me e le lasciava andare avanti per pedalarmi accanto. Loro frequentavano i giardinetti di piazza Cairoli, dove s’incontravano con le altre amichette per celiare continuamente di cose che francamente non ascoltai mai. Quando stavo lì, non avevo occhi che per Giada e a lei piaceva. Spesso capitava però che le altre la convincessero a fare un giretto. Naturalmente capivo perché non m’invitava ad andare con loro, dunque aspettavo che si allontanava e poi me ne andavo.

 

Mi arrampicavo fin sopra al Giannicolo perché adoravo sedermi proprio sopra il muretto che sovrasta il cannone che spara a mezzogiorno.

Davanti a me c’era tutta Roma, che già da Marzo un sole tiepido vestiva dei colori della primavera. Mi facevo carezzare il viso da quella brezza fresca che giungeva dal mare. Stavo ad ascoltare le storie che mi sussurrava negli orecchi, avventure di quando era ancora tempesta e terrorizzava i marinai che incrociavano temerari il mare dei sargassi.

Di tanto in tanto l’ombra di qualche nube mi ridestava, e Roma mi appariva ancora più bella di prima. Le sue cupole dominate da croci non mi parlavano più di Dio. Avevo imparato che il mio Dio Padre non era lo stesso che si celebrava nelle funzioni. I preti mi sembravano solo dei cerimonieri alla corte di una divinità morta e sepolta da troppo tempo.

 

Ritrovavo sempre con piacere l’abbandono a quei pensieri senza parole, capaci di farmi percepire la fluida armonia dell’universo.

“Loro”, invece, non li vedevo più, ma sopravvivevano nel ricordo che trasudava sulle pareti di vetro della mia mente. Condensava goccioline che scorrendo verso il basso, formavano rivoli oscuri che si depositavano da qualche parte, nel fondo. Lentamente stavano formando una palude i cui miasmi erano ancora impercettibili, ma la cui bruma iniziava a colorare di malinconia il mio carattere.

Mi dicevo che non sarei stato come gli altri, perché non desideravo confondermi nel gregge per sentire meno lo smarrimento di esistere.

Ero molto affascinato dal martirio e cercavo un altare degno su cui immolarmi, perché solo interpretando la morte riuscivo a dare un senso alla vita.

 

BOOOM

 

Il cannone sparò puntuale anche quel giorno, inaugurando un nuovo pomeriggio. Saltai di nuovo in sella alla mia Safari 2000 e mi diressi verso casa. Davanti all’ospedale del Bambin Gesù imboccai la salita di Sant’Onofrio, ma da là sopra sarebbe stato il caso di chiamarla “discesa”. Aveva una pendenza esagerata! Lasciai andare la bici rimanendo in piedi sui pedali, perché i sampietrini della strada erano sconnessi e rendevano impraticabile la sella. Era un po’ come precipitare e il tornante che c’era alla fine dell’abisso, sembrava venirmi incontro come un muro. Lo facevo ogni volta senza sapere come avrei affrontato la frenata, e per quei dieci secondi di corsa scavezzacollo rappresentava il mistero più grande della mia esistenza.

 

Celeste. Celeste cielo. Un colore soffice su cui urtai violentemente. Quella volta non riuscii a svoltare sul tornante. Avevo imboccato le scalette poste sulla curva che immettono direttamente sulla Via del Giannicolo. Fui disarcionato dal mio folle destriero metallico e catapultato sul cofano di una Diane Citroen color celeste cielo.

Fissai per qualche attimo la signora atterrita che mi guardava da dietro il parabrezza dell’auto. Io stavo bene, il cofano dell’auto un po’ meno. Raccattai alla svelta la bici rimasta incastrata sulle scalette e filai via, prima che la signora si rendesse conto del guaio che avevo combinato alla sua auto.

Raggiunsi il semaforo davanti al ponte di Castel Sant’Angelo, dove normalmente aspettavo Vanni che tornava dal parco.

 

- Che ti è successo!

 

Forse non stavo proprio così bene. Il mio ginocchio destro sanguinava copiosamente. Eppure non sentivo alcun dolore.

 

- Cazzo, mi si sono strappati i pantaloni buoni!

 

Dissi. Beh, il ginocchio si riparava da solo, ma quelli si dovevano ricomprare, e chi la sentiva ora mia madre!

Cercai di far capire a Vanni qual era il vero problema, e che dovevamo trovare prima una spiegazione plausibile a quel danno e poi chiedere aiuto, ma manco fosse lui quello che stava per dissanguarsi, saltò in sella alla sua bici Yankee e corse a casa per dare l’allarme. Quando faceva così, proprio non lo sopportavo.

 

Arrivarono tutti di corsa. La mamma al solito dette di matto. Si formò subito un capannello di curiosi, qualcuno iniziò a dire di aver visto il pirata della strada fuggire dopo avermi investito, gli rispose prontamente un altro che aveva fatto in tempo a leggere i primi due numeri della targa. Io capii come mai un tempo a Roma fosse così facile finire su una pira.

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Floppy 02/16

 

 

[Parte prima]

 

 

- Ti arrendi?

 

Vanni ed io frequentavamo le medie e guai a chi sosteneva di fare ancora gli stessi giochi dei tempi delle elementari. Eravamo grandi ormai e, anche se il mondo pareva ancora non essersene accorto, solo noi avevamo capito come realmente andavano le cose.

 

- Vaccaccia boia!

 

Come per ogni uomo degno di essere definito tale, ci dovevano piacere solo tre cose: il sesso, poi il cibo e quindi lo sport. Per sport s’intendeva il calcio, questo era chiaro, roba tipo la danza o la pallavolo era per frocetti. Pure il sesso non si doveva fraintendere con “l’amore” e soprattutto con “le femmine”, che erano solo ignare portatrici di figa. Il cibo, invece, quello andava bene tutto, bastava che fosse esageratamente ipocalorico.

Io facevo parecchio sport con la piscina e il circolo di canottaggio, e il sesso era diventato il mio interesse culturale principale; tuttavia, nonostante il cibo mi disgustasse, continuavo a essere cicciottello e a scuola nessuno mi sceglieva mai per le partitelle durante le ore di ginnastica. Giada alla fine aveva ceduto a quelle malelingue delle amiche, e mi frequentava solo in privato, magari per farsi aiutare nei compiti a casa.

 

- Ho vinto io, ammettilo.

- Ti sbagli. L’uomo Leopardo è … è un grande incassator … ohi!

 

Questo era almeno quello che ci piaceva far credere in giro, in realtà l’Uomo Aquila e l’Uomo Leopardo la domenica mattina non avevano mai smesso di sfidarsi. Seppure nelle loro prese di lotta si fosse aggiunto un inconsapevole secondo fine strisciante. C’era ad esempio “la pressa”, in cui si rimaneva schiacciati sotto il peso dell’avversario, che continuava a premere fino a indurti alla resa.

 

- Se continuo, te le spappolo!

 

E poi c’era la temibile “Morsa d’artiglio”. Quando si cadeva preda della micidiale morsa, si era spacciati, eppure anche allora si resisteva fino allo stremo: raggomitolati e con le mani ferme su quelle dell’avversario che ti stritolava le palle. A denti stretti si tratteneva ciò che era sì dolore, ma anche qualcos’altro.

 

- Oddio!

- Ma che cazzo è?

 

Quella volta sentii come qualcosa sciogliersi nella mia mano. Mollai subito la presa e Vanni schizzò in piedi sbracandosi in fretta e furia.

 

- Oddio, mi hai spappolato le palle!

 

Quando Vanni si abbassò gli slip, lo spettacolo fu davvero raccapricciante. Dal pisello gli colava della massa fluida e catarrosa. Il suo sguardo atterrito cercava nel mio una qualche risposta, ma io in quel momento avevo solo paura dei guai che avrei passato, se si fosse venuto a sapere che gli avevo letteralmente squagliato le palle.

 

- Ma no … Ci sarebbe del sangue … Se te le avessi rotte, sarebbe certamente uscito del sangue.

 

Vanni svelto esaminò in punta di dita la massa gelatinosa, e per fortuna non c’era traccia di sangue.

 

- Certo! Lo vedi che non possono essersi rotte?

 

Cercai di convincerlo biecamente che non c’era da preoccuparsi, pensando più a me che alla sua salute.

 

- E allora cos’è sta roba? A te è mai uscita?

- Certo. Una volta. Quando ero in ospedale… Era per il catarro. Io inghiottivo il catarro invece di sputarlo. Il catarro è liquido e si piscia come si fa con l’acqua.

- Anche Felice dice che si deve sempre sputare.

 

Naturalmente stavo mentendo. Ero ben contento che quella terribile cosa a me non fosse mai accaduta. Per fortuna che la storia di Panari Felice confermò la mia balla! Cercai quindi di convincermi che le cose stavano realmente in quel modo, tanto che anch’io iniziai a deglutire con sospetto. Dopo quello spavento non facevamo altro che sputazzare ovunque.

 

Il giovedì seguente al fattaccio, era ancora buio quando mi sentii chiamare con un filo di voce.

 

- Momo! Mo, stai dormendo? Mi senti?

 

Aprii gli occhi e mi ritrovai quelli sgranati di Vanni che m’imploravano.

 

- E’ successo di nuovo!

 

Mi disse urlando sottovoce la sua paura. Sfilò la mano dagli slip e mi mostrò con la torcia elettrica il catarro schifoso di cui si era imbrattato le mutande. Avrei voluto tranquillizzarlo, ma era evidente che gli doveva essere accaduto qualcosa di grave alle palle. Segretamente trattenni il respiro temendo un eventuale contagio.

 

- Mo … Forse è Dio che mi punisce. Sì, perché stavo facendo dei pensieri impuri quando ...

 

Gli avevo confidato del mio tribolo di redenzione per gli atti impuri che ogni estate continuavo a commettere con Lalla, e ora stava cercando di fare sue le mie paure.

 

- E poi ... e poi … Io non sono nemmeno battezzato! Da domenica verrò sempre alla messa con te … lo giuro, ci verrò sempre, tutte le domeniche …

-

Mi sentivo talmente vigliacco mentre lo lasciavo arrivare a conclusioni assurde. Insomma, Dio padre non poteva aver punito solo lui, quando io era da tempo che ero passato dalla teoria alla pratica.

 

[Parte seconda]

 

- Hai finito?

 

Naturalmente la storia di venire a messa non aveva salvato Vanni dalla successiva perdita di materiale organico dal pisello. Era ormai sul punto di una crisi nervosa, ma quel mattino si era svegliato stranamente calmo. La mia reticenza invece mi gettava in uno stato di profonda frustrazione. Lungo il tragitto per arrivare a scuola avevo tentato di abbozzare qualche discorso, ma era ormai chiaro che meditava qualcosa cui non mi voleva prendere a parte.

 

A scuola trascorsi tutto il tempo ossessionato dal pensiero che Vanni potesse morire a causa della mia codardia, e quando alla fine delle lezioni non lo avevo trovato al solito angolo della piazzetta di San Eustacchio per tonare a casa insieme, pensai addirittura che lo avessero portato d’urgenza in ospedale.

 

Fino a quel giorno non mi ero reso conto di quanto Vanni fosse diventato importante per me. Avevo sempre creduto di dover essere suo amico perché lo voleva la zia Pina, lo voleva mio padre che ci faceva soldi a palate e anche mia madre che lavorava a casa sua; invece no, gli volevo davvero bene. L’idea di perderlo mi creò un tale vuoto che, arrivato sulla porta di casa, avevo deciso di confessare la mia colpa.

 

Una volta dentro, però, aspettai che fosse mia madre a dirmi che Vanni era stato ricoverato d’urgenza in chissà quale reparto d’ospedale specializzato in riparazione di gonadi infrante. Aspettai anche un po’ sorpreso nel vedere sul tavolo solo un piatto di pasta, con mia madre per niente preoccupata nel vedermi rincasare senza di lui. Solo dopo aver consumato quel pasto di lancinanti rimorsi, lei mi chiese candidamente se conoscevo l’amichetto che aveva invitato a pranzo Vanni. Panari Felice lo aveva invitato a casa sua!

 

- Hai finito?

 

Certo che conoscevo quel bastardo e lo spiegai bene pure a mia madre chi era Panari Felice. Vendetta? Per carità, lo facevo solo perché ero preoccupato che l’avanzo di galera traviasse l’eunuco.

Avevo trascorso il pomeriggio a fare i compiti. Dopo lo avevo aspettato sul divano davanti al televisore, ma nemmeno l’attacco invisibile di Mimì Ayuhara, era riuscito a distogliermi dal pensiero di Vanni a casa di Panari Felice mentre raccontava come gli avevo rotto le palle.

 

- Hai finito?

 

Il traditore rincasò alle sette passate, quando la cena già bolliva in pentola. Io stavo meditando vendette con Edmond Dantes, quando lui, pieno d’entusiasmo, non mi lasciò prendere alcuna iniziativa.

A quanto pareva Panari Felice si era rivelato un gran maestro di vita, capace d’illuminare il suo discepolo sul perché pisciasse disgustoso catarro. Gli avevo detto chiaramente che non m’importava un fico secco di quanto aveva da dirmi, ma Vanni non era uno che si fermava davanti a un semplice no.

 

Per fortuna la mamma, presa dai sospetti che gli avevo sapientemente stillato in testa, ci aveva raggiunto in camera e pretese di vedere i suoi compiti svolti. Col cavolo che avevano studiato i due compari. La mamma serrò le labbra e gli appuntò addosso uno dei suoi sguardi più raggelanti, dicendo che avrebbe informato il padre delle sue cattive amicizie.

Ero pentito della mia vendetta? Manco un po’, però lo aiutai lo stesso con i compiti.

Vanni riuscì a trattenersi su quanto aveva da dirmi, solo promettendo che lo avrei ascoltato dopo cena; ammetto che a quel punto ero diventato curioso.

 

Dopo appena dieci minuti che eravamo a tavola, lui iniziò a chiedermi:

 

- Hai finito?

 

Capirai, quella sera c’erano pure le frappe …

 

- Va bene, mettile in un piatto e mangiatele in camera; ma guai a voi se fate cadere lo zucchero, che poi arrivano le formiche.

 

Ecco! Questa era proprio una di quelle cose che mi mandavano maggiormente in bestia. A me non aveva mai permesso di portare cibo in camera, glielo chiedeva lui e tutto si poteva fare.

 

- Si chiama sborra

- Cosa?

- La roba che mi esce dal cazzo, si chiama sborra.

- E da quando il tuo pisello è diventato un cazzo?

- Da quando ci esce la sborra, è matematico.

 

Sborra, e cos’era quella novità adesso?

 

- Esce da tutti gli uomini, e serve a mettere in cinta le femmine.

 

Durante le lezioni di educazione sessuale di quinta elementare non avevo mai sentito parlare di quella “sborra”.

 

- Quindi tu potresti fare un bambino!

- Certo. Almeno tecnicamente… se avessi una fidanzata, è ovvio.

 

E allora perché dal mio non usciva niente? Avrei voluto domandarglielo, ma preferii continuare a stare sulle mie e fare lo scettico.

 

- Cavolate.

- Ah, non ci credi? Ora ti faccio vedere come funziona.

 

Vanni si affrettò a sbirciare dalla porta per controllare se la mamma e Angela si fossero già accomodate sul divano della sala da pranzo per guardare la televisione. Io intanto sgranocchiavo le frappe, curandomi di spargere per bene lo zucchero sul pavimento. Poi si prese tra due dita il presunto cazzo e iniziò a stiracchiarselo.

 

- Lo sai come si chiama questa?

- La danza del lombrico stiracchiato?

- Non fa ridere per niente … Questa, bello mio, è una ‘pippa’.

 

Un pippa! Ammetto che la cosa mi lasciò di stucco. Nello slang dei ragazzini “la pippa” era un vero e proprio mito: non vali una pippa, fammi una pippa, sei una pippa eccetera. Mi ero sempre domandato che cosa fosse una pippa. Scoprire che faceva uscire la sborra dal pisello e che a sua volta la sborra elevasse quest’ultimo allo status di cazzo; beh, mi lasciò senza parole.

 

- Non capisco. Eppure oggi ci sono riuscito un sacco di volte.

 

Godevo nel vederlo armeggiare inutilmente intorno al suo lombrico livido dagli strapazzi.

 

- Forse sbaglio qualcosa. Felice è bravo, io devo ancora far pratica a muoverlo.

 

Io azzannai l’ultima frappa mostrando sempre più scetticismo.

 

- Provaci tu.

 

Io!

 

- Non ci penso proprio.

- Ma è strafigo! Prova.

- Stronzate.

- Guarda qua. Me l’ha dato Felice.

 

Ma per chi mi aveva preso! Il padre di Lalla di quella roba ne aveva a iosa, anche se non erano fumetti. Cercai di dissimulare l’interesse, ma non dissi certo di no.

“Tromba”, così si chiamava quel giornaletto. Parlava di un soldato che… “accidenti!” mi dissi; “ Ei, ma … Caspita!”. La dottoressa della caserma faceva al Tromba quello che Lalla mi fece quella volta che io… Quel ricordo mi fece temere il peggio: da Mr Wigly non sarebbe mai uscita della sborra. Il Tromba succhiava le zinne alla dottoressa. Le mie preoccupazioni erano distolte da quelle vignette che parlavano un linguaggio più comprensibile per me, che non le riviste del padre di Lalla.

 

Ce ne stemmo muti, letteralmente senza fiatare. Vanni poggiò il giornaletto sulle ginocchia e voltava lentamente le pagine con una mano, mentre con l’altra continuava ostinatamente a stiracchiarsi il lombrico. Inutile negare che le immagini catturarono il mio interesse, ma non partendo dalla testa. Sì trattava di una strana tensione che mi bloccava il diaframma.

Poi ci fu un sussulto… il mio pisello ebbe una sorta di spasmo muscolare. Francamente niente di che. Giusto quel tanto da catturare un attimo la mia attenzione. Mr Wigly era passato di grado?

 

In effetti, mi bagnai un po’ di viscidume trasparente, ma era niente al confronto di quello che accadeva a Vanni. Decisi di tenere il segreto per me, anche per non dare la soddisfazione a Panari Felice di aver ragione. Me ne andai in bagno e dopo aver vomitato le frappe che altrimenti mi avrebbero tormentato con i bruciori di stomaco per l’intera notte, me ne tornai a letto. “Sicuro che non è successo niente?” mi chiese Vanni che era già sotto le coperte. “NO” gli risposi seccato.

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Silverselfer

 

Floppy 02/16

 

 

"… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

 

La maturità sessuale mi aveva fatto ufficialmente entrare nella pubertà. Insieme con essa era giunta un’irascibilità emotiva che mi portava a riconsiderare ogni abitudine. Qualsiasi cosa avessi imparato prima non era solo sbagliata, ma costituiva l’anello di una catena che mi teneva ai ceppi del conformismo.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Gli adulti mi parevano solo degli stupidi servi del sistema. Paradossalmente il mio atteggiamento rivoluzionario, si risolveva in una frustrante omologazione al mondo adolescenziale in continuo movimento, nel senso che seguiva gli stereotipi di una moda incapace di sopravvivere ai propri slogan pubblicitari.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Uno strano cruccio mi si era disegnato sulla fronte, e nello sguardo era comparsa l’ombra compiaciuta di chi sa di non poter essere compreso. Un ego ipertrofico mi spingeva a credere che fossi depositario di chissà quale destino superiore.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Una nuova fede sostituì l’amore per Dio Padre, era l’idea romantica del martirio di un soldato che s’immola per degli ideali. Un credo intriso di nichilismo che mi faceva fuggire l’entusiasmo per la vita. Secondo me il mondo era solo un’ingannevole illusione pronta a rivelare se stessa.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Tutto questo era ancora un nugolo di pensieri che si librava nella mia mente ogni qualvolta un insuccesso, una delusione o anche solo un pomeriggio di noia, mi opprimeva l’animo. Erano più che altro dogmi con i quali il mio spirito ortodosso cercava di piegare le nuove pulsioni, che mi volevano sradicare dall’eremo in cui ero nascosto.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

La realtà era ben diversa dalle mie elucubrazioni teoretiche. Se da una parte fuggivo ogni rapporto troppo coinvolgente, dall’altra la storia con Giada si delineava ormai come un patimento d’amore.

 

Avevo parlato a Giada del mio nido sopra al Giannicolo, così una domenica rinunciò alla passeggiata con le amiche e pedalò su per quelle irte salite con la sua bicicletta rosa, il paniere bianco attaccato al manubrio e suonando il campanello a ogni incrocio.

Quando ci sedemmo un po’ sudati sul muretto dinanzi a Roma, il cuore ci palpitava forte nel petto. Ci venne naturale come respirare tenerci per mano e sfiorarci le labbra in un bacio, che non aveva nulla a che vedere con i baci di Lalla dati con la lingua di fuori.

 

Giada mi disse “ti voglio bene” e la cosa mi disorientò molto. Mi accorsi solo allora che era la prima volta che qualcuno me lo diceva. Eppure avevo sentito molte volte dire alla zia Pina che voleva bene ai suoi figli, e il padre di Vanni gli diceva “ti voglio bene” ogni volta che lo salutava; invece a me non lo aveva mai detto nessuno, almeno non in modo così esplicito. La cosa più strana di tutte era che mi dava fastidio sentirmelo dire.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Gli incontri con Giada avevano sempre un sentore di clandestinità Il fatto che a scuola non fossi popolare come lei, la metteva in imbarazzo, così preferiva non darmi troppa confidenza in pubblico. Non m’importava molto perché quando c’incontravamo a casa sua nel pomeriggio, era diversa e molto affettuosa. Lei era figlia unica e i genitori pendevano dalle sue labbra. Suo padre mi stava simpatico e la madre era sempre gentile con me, entrambi godevano come pazzi a considerarci come due fidanzatini ...

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Fu la zia Pina che cambiò il corso degli eventi, quando una sera bussò alla porta della mia cameretta. Avevamo già cenato e la mamma era seduta sul divano in sala da pranzo. Vanni era dai nonni, come accadeva sempre più spesso. Io stavo ascoltando una musicassetta col mangianastri comprato per l’audio corso d’inglese. Riavvolgevo continuamente il nastro per ascoltare “Oblio” di Rettore, la mia cantante preferita.

 

“… eppure è già da un po’ che sto accanto a Dio, è lui che mi ha insegnato a nuotare nell’oblio …”.

 

Cantavo sottovoce quelle strofe struggenti, con lo sguardo che andava oltre le pareti, dinanzi a platee acclamanti.

 

“… mi hanno svuotato e buttato in un cestino, vivevo per le maschere e mi hanno chiamato burattino …”.

 

- Ciao bello di zia.

 

Ero imbarazzato da quella visita insolita. Mi fece sedere sul letto insieme con lei, e mi parlò per la prima volta come a un adulto.

 

- Sei grande ormai e anche molto intelligente, quindi sono certa che capirai benissimo. Del resto noi due ci s’intende al volo, non è vero?

 

Certo che era vero. Capii subito che doveva propormi una delle sue alleanze strategiche, come quando mi chiedeva di farle delle commissioni segrete.

 

- Su da me ho a cena l’assessore Orsini con la sua famiglia. Mi hanno detto che vai a scuola con la loro bambina. Stai spesso a pranzo da loro, non è così?

 

Avrei voluto vantarmi e dirle che la nostra era più di una semplice amicizia, ma uno che non credeva nell’amore non poteva cadere in certe contraddizioni.

 

- Bello di Zia! Lo dico sempre che tu sei la mia piccola opera d’arte. Ti andrebbe di venire su con me?

 

La zia voleva speculare su una mia amicizia com’era già accaduto con Vanni alle elementari, ma pur rendendomene conto, lo trovai semplicemente naturale. Salendo mi spiegò che quella cena era molto importante per il lavoro dello zio. Prima di entrare in casa mi drizzò sul muso il dito indice per un ultimo avvertimento.

 

- … e non ti azzardare a uscirtene con una delle tue teorie su Gesù.

 

La sua espressione mi fece ridere, e anche lei trattenne un sorriso tra le labbra. Mi aggiustò i capelli e poi, con lo spirito di chi scende nell’arena contro i leoni, mi disse:

 

- Facciamogli vedere chi siamo.

 

Amavo sentirmi in una squadra. Amavo stare nella squadra della zia Pina. Entrò esibendo un sorriso sgargiante, presentandomi come si conviene a un principe. Giada non mi sembrò molto annoiata, anzi, proprio in quel momento stava raccontando delle stravaganze della sua tartaruga “Camomilla”.

 

Io recitai a meraviglia la mia parte, puntando soprattutto l’assessore Orsini. Prendevo al balzo ogni suo spunto di conversazione. Sapevo che aveva sempre desiderato un figlio maschio, me lo aveva confidato Giada che ne soffriva molto. Cercai di propormi a lui come un pargolo entusiasta del proprio padre, e lui ci cascò dicendomi ogni volta che gli piacevo molto. Dopo quella serata la zia non mi considerò più un bambino, bensì un fedele alleato su cui contare.

 

In seguito il padre di Giada mi portò spesso a pesca nei fine settimana, m’insegnò a fare l’attacco alla lenza, a lanciare con la canna da fondo e a slamare un pesce. Io cercavo d’imparare e lui era orgoglioso dei miei progressi, anche se non riuscii mai a slamare nemmeno una di quelle povere bestie. La mia missione era di carpire notizie sull’affare dello zio Gerardo. Lui era sempre ben disposto a spiegarmi i problemi che incontrava e soprattutto di quanto fosse astuto a risolverli.

 

Certo che avrei potuto chiudere quella farsa il giorno dopo che la commissione edilizia rese edificabili i terreni, su cui lo zio avrebbe costruito una mezza dozzina di palazzi, ma oramai come facevo a smettere di fingere? Decisi di continuare a spacciarmi per quello che non ero, ma rimanere prigioniero di quella maschera, mi portò inevitabilmente a simulare anche con Giada.

 

Dopo quella vittoria la zia m’invitò a cena, come avrebbe fatto con un socio in affari. Insieme allo zio fecero un brindisi in mio onore, e dissero che buona parte di quel successo era merito mio. Sarei voluto rimanere impassibile, ma ero ancora troppo giovane perché riuscissi a celare emozioni così forti, e finii per inumidire gli occhi come un poppante. La zia mi abbracciò stretto al suo petto prosperoso, mi baciò in testa e promise che si sarebbe preoccupata personalmente di farmi avere il mio “bel torna conto”.

 

Fu così che dopo qualche giorno, di ritorno da scuola, trovai la mamma e la zia che armeggiavano nel mio armadio. Sbiancai all’idea che avessero messo le mani nell’ultimo cassetto in basso, quello dei maglioni vecchi, dove nascondevo i fumetti del Tromba.

Stavano cercando qualcosa di consono per mandarmi a riscuotere la ricompensa promessa dalla zia: sarei stato presentato alla principessa Alberta Agnoletti della Torre. Dopo tanto cercare la loro scelta ricadde sulla solita orribile divisa del Circolo Canottieri. La mamma la mise sull’asse da stiro e la zia, dopo avermi impomatato i capelli, quasi mi strangolò con la cravatta.

 

- Tu sei la mia piccola opera d’arte.

 

Continuava a ripetermi. Io mi sembravo il solito pirla vestito a festa, ma anche quella volta decisi di rimandare l’inizio di quella rivoluzione che avrebbe finalmente affermato il mio gusto anticonvenzionale.

 

Quando, giunti al palazzo, un domestico ci venne a prendere per accompagnarci dalla principessa, sentii un certo tremolio alle ginocchia. Prendemmo un ascensore foderato di legno, e arrivati al piano, fummo fatti accomodare in un salottino detto dello zodiaco per il soffitto a volta totalmente affrescato con le costellazioni dello zodiaco. L’anticamera non durò molto e il domestico ci annunciò pomposamente prima di farci entrare nel salone dove si trovava la principessa.

 

Io mi aspettavo di trovare una vetusta signora in crinoline, un po’ ammuffita come ogni cosa in quel vecchio palazzo; invece, ci accolse una signora al massimo quarantenne, molto affascinante. Appena ci vide si alzò in piedi e protese le braccia verso di noi.

 

- Carissima Giuseppa!

 

Esclamò, quando la zia le prese una mano e la principessa trasse a sé quel tenero segno d’amicizia.

 

La principessa aveva dei capelli rossi lunghissimi, tenuti all’indietro sulla fronte con una lunga fascia di seta turchese. Aveva la pelle del volto talmente bianca che se non fosse stata puntinata dalle lentiggini, sarebbe stata trasparente.

 

- Lui è Domenico, ma noi usiamo chiamarlo Momo.

- Allora spero che questo privilegio sia concesso anche a me, Momo.

 

I suoi occhi erano di un verde così intenso, che mi rapirono al punto da farmi dimenticare di rispondere.

 

- E’ solo un po’ timido…

 

Si giustificò svelta la zia, mentre mi sospingeva con una mano verso il salottino, dove ci accomodammo per prendere il tè. Notai subito sul vassoio d’argento una scatolina foderata di velluto blu, con un nastro di raso arancione che usciva dal lato come fosse una piccola lingua.

 

- Io e tua zia abbiamo pensato che meritassi una ricompensa per il piccolo aiuto che ci hai dato.

 

I terreni resi edificabili dalla delibera comunale erano di proprietà della principessa.

 

Quando mi porsero la scatolina, tirai la piccola lingua di raso e il coperchio si sollevò magicamente. Dentro ci trovai un portafogli avvolto in un panno di velluto rosso. Francamente ne rimasi parecchio deluso. La principessa e la zia sorrisero nel vedere lo smarrimento sul mio volto.

 

- Si fa così…

 

Mi disse la zia prendendo lo strano portafogli e capovolgendone le due ali, scoprendo su una delle due facce una medaglia. La zia mi sistemò un’ala del portafogli nel taschino della giacca, di modo che l’altra parte rimanesse fuori a far bella mostra di sé.

 

Mi fu spiegato che quel vessillo stava significando che il mio nome era stato scritto in una congregazione dedicata alla Madonna Lauretana. Un titolo che avrei dovuto onorare per il resto della vita. Tutto questo poteva anche lusingarmi, ma fu il resto del discorso che non mi piacque per niente. La zia mi disse, con i lucciconi agli occhi, che la principessa mi prendeva a parte della sua famiglia.

 

Per un attimo temetti che mi stessero cacciando da casa! Poi compresi che la mia tanto acclamata ricompensa, consisteva nell’avermi trovato un impiego nel palazzo della principessa. Diventai lettore ufficiale della sua vecchia madre … che palle!

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Silverselfer

Floppy 02/18

 

La madre della principessa si chiamava Amelia. Era una persona mite e accomodante e fu grazie a lei se decisi di non amare i libri. Prima di conoscerla, mi ero convinto che solo quelli erano i miei veri amici. La Signora Amelia a un certo punto della sua esistenza, decise di rimanere sola con i suoi adorati testi rilegati in pregiate edizioni. Nella sua enorme camera c’era un bel lettone a baldacchino e tutt’intorno delle vetrinette di legno piene di variopinti tomi.

 

- … non se ne accorgerà nessuno …

 

Quando le fui presentato, rimasi soffocato dal silenzio ovattato di quella camera – biblioteca. Lei fraintese il mio disagio per stupore e mi sorrise compiaciuta del suo tesoro. Ne dedusse che condividevamo lo stesso amore per i libri. Nonostante questo, si dimostrò scettica sulla possibilità che potessi diventare il suo lettore ufficiale. Certo che fu molto gentile con me, però mi considerava troppo giovane. Il primo giorno mi chiese di darle una dimostrazione delle mie capacità interpretative. Sorrise quando ordinò di fermarmi … poi mi domandò quale fosse la mia lettura preferita e quando le esposi enfaticamente perché adorassi “Il conte di monte cristo”, sorrise di nuovo, ma in un modo diverso da prima.

Appresi solo dopo che trovava inopportuno che un “bambino” affrontasse certe letture; tuttavia, dispose che mi facessero frequentare delle lezioni di letteratura e di dizione nello stesso collegio frequentato dal nipote.

 

- … tu fa come ti dico io …

 

La Signora Amelia era quasi ottuagenaria e ci vedeva poco. Riusciva a leggere solo con una ridicola lente d’ingrandimento tipo Sherlock Holmes. Il suo lettore si chiamava Francesco ed era un attore dalla voce calda e impostata. Credo che ascoltare la sua voce le desse anche un certo piacere sensuale. Io per lei divenni una sorta di compagno di avventure. Sì, perché la Signora Amelia era una bambina rimasta intrappolata in un corpo cadente. Inventavo per lei dei personaggi che poi cucivo nella trama dei suoi romanzi preferiti. Adorava fantasticare seppure non avesse abbastanza fantasia per farlo. Diceva che sarei diventato un grande romanziere e un giorno anche un mio libro sarebbe entrato a far parte della sua biblioteca. Questa era la differenza tra i nostri modi di amare i libri, per me costituivano un combustibile creativo, per lei erano solo un cimelio da venerare.

 

- … mi pare che ti pago abbastanza per il rischio …

 

Avere un ruolo in casa della principessa significa veramente entrare a far parte di una famiglia. Conobbi anche Matteo, il principino, che aveva quindici anni, anche se ne dimostrava molti meno per via della corporatura minuta. Aveva lo sguardo nervoso e un carattere tendenzialmente melodrammatico. Fu per confortarlo che scoprii quanto sia importante istupidire al fine di regalarsi estemporanei momenti di gioia. Lui era piuttosto scettico su questa mia teoria, ma dopo aver urlato parolacce assurde tipo “cacca secca” o “vacca zozza maiala”, convenne con me che l’ilarità non ha bisogno d’ingegno e ti può salvare un pomeriggio dal tedio della melanconica consapevolezza di te stesso.

 

- … ti pago il doppio, ok?

 

Gli impegni della piccola corte della principessa finirono per riempirmi le giornate. Del resto Vanni era orami quasi sempre dai nonni, che per qualche strana ragione non gradivano che la mamma si occupasse di lui e soprattutto del padre, visto che le dettero il ben servito anche come governante. Io di tutto questo ne seppi poco e niente. Oramai a casa ci stavo pochissimo tra piscina, circolo canottieri, il dopo scuola al convitto, dove avevo anche la mensa e il tardo pomeriggio trascorso a palazzo Della Torre con la Signora Amelia. Col passare del tempo poi, si aggiunsero i giovedì mondani.

 

Il giovedì la principessa riceveva nel suo salotto ed io accompagnavo la Signora Amelia. Le davo il braccio per permetterle di camminare senza bastone e le sedevo accanto per tutta la durata del ricevimento. Spesso le ripetevo nell’orecchio quello che i suoi interlocutori avevano detto troppo in fretta, o semplicemente mi curavo che nel suo bicchiere non finisse l’acqua. Per quanto potesse sembrare un ruolo marginale, grazie ad esso molte persone importanti mi chiamavano per nome e poi la Signora Amelia mi teneva in grande considerazione, chiedendomi spesso di esporre le mie teorie che divertivano sempre gli ospiti.

 

- … okay?

 

Anche la principessa iniziò a considerarmi un fido alleato. La principessa Alberta era ossessionata dall’idea che qualcuno si approfittasse del buon cuore della madre. Il mio compito era informarla di tutta la posta che le leggevo.

Alla fine della serata del giovedì, la principessa mi riceveva nell’anticamera della sua toletta, e mentre si pettinava i lunghi capelli, le riferivo per filo e per segno ogni dettaglio delle conversazioni che amici e parenti avevano avuto con la madre.

Sovente mi chiedeva informazioni anche su Matteo, che la odiava per partito preso e cercava sempre di screditarla agli occhi del padre.

Di tutto questo poi m’interrogava la zia Pina, insegnandomi attraverso le sue domande come si possono carpire tra i risvolti di un discorso le notizie che ci possono tornare utili.

 

- … allora?

 

La zia Pina seppe mettere subito a profitto le mie nuove amicizie, specie quelle che strinsi durante il doposcuola in quel convitto pieno di rampolli della Roma bene. M’insegnò che dalla fortuna dei poveri non ci si cava niente, mentre dai guai dei ricchi c’e sempre da guadagnarci. Così imparai a cogliere gli scricchiolii che si udivano nelle lussuose case in cui ero accolto, nel frattempo riconoscevo mobilia o suppellettili di pregio che segnalavo alla zia. Lei faceva le veci di mia madre, mi accompagnava e all’occorrenza si fermava il tempo di gettare l’amo, fingendo d’innamorarsi di un pezzo d’antiquariato o quant’altro. Se l’ospite abboccava, iniziava la trattativa. La disperazione del padrone di casa era pari al ribasso cui accettava di cedere il pezzo in questione. Sapevo già che la zia prestava soldi a usura, anche se solo allora fui ammesso al cospetto del suo prezioso registro marrone, che compilava con tre penne colorate: in rosso erano segnati i soldi dati a prestito, in blu le percentuali di usura, mentre in nero segnava il valore dei pegni ricevuti in riscatto.

 

- Insomma li vuoi o no i soldi?

 

Mi rendevo perfettamente conto della doppiezza del mio comportamento, però mi faceva sentire forte e soprattutto immune dagli irrazionali sentimentalismi umani. Tutti erano orgogliosi di me, persino mia madre e Primo si vantava al circolo canottieri, raccontando in giro fandonie sui miei presunti successi in società.

La sola nota stonata di quell’idillio erano i soldi. Primo s’inalberava ogni volta che doveva scucire un centesimo. La mamma stessa non capiva che non potevo trascorrere un’intera stagione dentro gli stessi abiti. Tant’è che oramai preferivo discutere le mie esigenze direttamente con la zia Pina. Lei escogitava sempre un modo per regalarmi qualche maglione nuovo, un cappotto, delle scarpe o mi pagava di nascosto la retta per qualche nuovo corso extra didattico, tuttavia non potevo chiederle anche di passarmi una paghetta decente per potermi sentire alla pari con gli altri ragazzini.

 

- … dovrai tenere d’occhio solo quel bastardo del sacrestano …

 

Trovai naturale iniziare piccoli traffici illegali con i miei compagni, alla pari di come faceva la zia con i loro genitori. Certo che non mi potevo mettere a prestare denaro a strozzo, ma non erano i soldi che mancavano a quei bravi figli di papà timorati di Dio, così iniziai a introdurre nel convitto ogni sorta di mercanzia proibita, soprattutto sigarette e riviste pornografiche. Spesso mi chiedevano anche prestazioni particolari, come quando restituii un registro di classe trafugato. Nessuno aveva il coraggio di andarlo a riprendere sotto il mobile della mensa, dove lo avevano nascosto. Io ci andai e lo riposi semplicemente nel cassetto del guardiano. Da allora mi chiedevano anche di fare da palo per strani incontri clandestini. I ragazzi usavano appartarsi per menarsi seghe vicendevolmente. Io non ci trovavo nulla di strano, ma da quelle parti i guardiani erano particolarmente vigili su quei comportamenti, e si rischiava davvero grosso.

 

- Lascia la funzione nel momento che si alzano tutti, o quel porco capirà tutto.

 

La mia attività criminogena fruttava circa un centone a settimana, ma soprattutto mi procurò un’inaspettata popolarità tra quei liceali.

 

Rodolfo era un ragazzo dall’aspetto androgino ma, per quanto mi concerneva, era un buon cliente. Il pomeriggio che precedeva le vacanze pasquali mi tirò da parte prima che iniziasse la messa. Insistette tanto affinché gli facessi da palo per un incontro clandestino durante la funzione. Era molto pericoloso alzarsi durante la messa perché ti notavano tutti. Cercai di farglielo capire, ma quello la buttò giù dura sul fatto che non avrebbe potuto vedere il suo amico per quasi una settimana eccetera … alla fine mi raddoppiò il compenso e mi convinse. Dovevo aprirgli lo stanzino della signora delle pulizie, quindi avrei dovuto precederli e poi fargli da palo fuori dalla porta.

 

- Vedi di non tirarmi un bidone o con me hai chiuso.

 

Mi sedetti a margine del banco per meglio defilarmi durante la messa. Quando mi alzai e mi diressi verso la porticina di servizio, mi voltai solo un attimo per assicurarmi che il sacrestano non si fosse accorto di nulla, fu allora che incrociai lo sguardo di Matteo. Era seduto nei primi banchi, insieme ai suoi compagni di corso, tra cui c’era anche Rodolfo. Per guardarmi si era voltato quasi volgendo le spalle all’abside, mi sgranò gli occhi addosso come per implorarmi a non andare.

 

Spinsi il righello tra il battente e la porta dello stanzino di servizio, facendo scattare la serratura. Niente di più semplice, però quell’abilità mi aveva già fruttato una piccola fortuna. Lì dentro c’era un odore fortissimo di detersivi, misto al puzzo nauseabondo che fanno i sacchi di plastica nuovi dell’immondizia. Il mio riflesso nello specchio della toletta mi parve così squallido accanto al carrello delle pulizie, tra scope e spazzoloni lerci. Lo sguardo fuggì quell’immagine, posandosi su una mensola, dove qualcuno aveva messo un rametto di pianta rampicante in un bicchiere d’acqua. La trovai di una bellezza commovente.

 

- Sta tranquillo, faccio tutto io.

 

Improvvisamente la porta si aprì e si richiuse facendo scattare di nuovo la serratura. Era Rodolfo ma non lo capii immediatamente e per un momento temetti di essere stato scoperto. Dov’era quell’altro? Rodolfo mi sorrise. Notai subito in lui uno strano entusiasmo. Forse si accorse del mio spavento perché mi rassicurò dicendomi che avrebbe fatto tutto lui. Che cosa aveva intenzione di fare? Mi pose delicatamente le mani in vita e si appoggiò sul mio corpo. Ero più basso di lui e mi strinse la testa contro il petto. Mi mancava il respiro e ancora non capivo cosa stesse accadendo. Quando lo sentii palparmi il sedere, lo allontanai bruscamente. Lui alzò le mani chiedendomi scusa. Io avrei voluto protestare in qualche modo, ma non riuscii a sputare nemmeno una parola. Feci per risistemarmi la camicia che mi aveva sfilato dai pantaloni, però lui cautamente mi bloccò le mani, rassicurandomi che ci saremmo fermati in qualsiasi momento volessi.

 

Muovendosi guardingo come un gatto che sta per agguantare il passero, mi aprì la patta dei pantaloni e lo prese in mano.

 

Dopo qualche minuto lo stanzino divenne una fornace, allora Rodolfo si fermò per arrampicarsi con destrezza sul water e aprire la finestrella che ci stava sopra; poi disse che dovevamo sbrigarci o qualcuno avrebbe notato la nostra assenza. Se lo tirò fuori già duro e m’insegnò come dovevo prenderglielo. Al tatto era come la gommina soffice del Big Gim! Non mi fece schifo e mi divertiva comandare a “bacchetta” le emozioni di Rodolfo. Lo masturbai energicamente, tanto che lui smise di tenermelo e si resse con le mani sul ciglio del lavabo. Fece parecchie facce strane prima di colare sulla mia mano.

 

Dopo l’orgasmo, Rodolfo fu preso dal panico di essere scoperti. Mi ordinò di rivestirmi e filare dritto in chiesa, mettendomi in tasca un deca prima di fuggire via dallo stanzino.

 

Tornai al banco per ascoltare quel poco che c’era rimasto della messa. Tutti mi guardavano in viso come se ci portassi scritto quello che mi era appena accaduto. Matteo poi mi raccontò che era stato tutto pianificato per una scommessa tra chi sosteneva che fossi frocio e chi no. Rodolfo disse in giro che glielo avevo preso in bocca e a nulla valse la mia smentita. Quel maledetto l’avrei dovuto ammazzare di botte, invece, abbozzai la figuraccia e continuai a intascare i soldi delle mie commissioni, sperando che quella diceria sciamasse da sola col tempo.

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Silverselfer

Floppy 02/19

 

 

- Sicuro che fosse lei?

 

Checché ne avesse a ridire Matteo, che da quei fatti durante la funzione pasquale non mi aveva più ricevuto a palazzo, il sesso non era immorale e soprattutto pagava bene.

Scoprii una vasta bibliografia da cui attingere notizie sul sesso, tipo: Il mistero della sessualità, Stimolazione tantrica del punto G o, il mio preferito, Topografia di una vagina, che avevo soprannominato “Topa - grafia di una vagina”. Poco o niente si reperiva sul sesso maschile; tuttavia, scovai su una bancarella un interessantissimo vademecum per “L’attivazione del punto K” maschile.

 

Trasponevo quanto apprendevo in quei testi “scientifici” in un romanzo che avevo iniziato a scrivere, che s’intitolava: Il re del sexy condominio. In quelle storie trapiantavo uomini e donne della vita reale, che facevo copulare lascivi in acrobazie sessuali al limite della fantascienza. Una delle mie protagoniste preferite era Milena, l’istruttrice di aerobica del Circolo Canottieri, i cui succinti body stimolavano le mie fantasie più ardite.

 

- L’ho vista che saliva...

 

Il senso di colpa che scaturiva dai miei atteggiamenti immorali, mi spingeva poi all’espiazione e al conseguente ritorno a una religiosità ferrea. Come un pendolo, oscillavo con regolarità tra la lascivia e la penitenza, tanto che l’una veniva esaltata dalla forza dell’altra e viceversa, risultando alla fine complementari.

 

- Forse si è fermata a parlare con qualcuno.

 

Vanni non perdeva un capitolo della mia saga sexy. Quando gli dicevo che era pronto un nuovo episodio, me ne chiedeva subito una copia. Ero lusingato dal suo interesse e spesso mi sforzavo di scrivere cose che sapevo piacergli particolarmente. Qualche volta provò anche lui a mettere su carta delle fantasie erotiche, ma cadeva sempre in noiose smancerie che annoiavano lui prima di me.

 

Vanni, da quando suo padre si era trasferito a Boston, i nonni gli avevano preso un’istitutrice di madre lingua inglese: Margaret. Lei esigeva che non si parlasse in italiano. Figurarsi se, dopo le mille formalità del doposcuola al collegio e poi quelle di casa dalla principessa, mi andava pure di cibarmi le paturnie della sua stronzissima governante. Oramai ci frequentavamo solo durante i pomeriggi trascorsi al Circolo Canottieri.

 

- Eccola! Eccola!

 

Vanni ed io ci stavamo progressivamente allontanando. Ce ne accorgevamo, ma non potevamo fare nulla per impedirlo.

 

- Macché non distingui più una cozza da una strafiga!

 

Quell’anno le vacanze pasquali giunsero quasi all’improvviso. La seconda media se n’era volata via senza che me ne accorgessi. La capitale trepidava dietro ai successi della sua squadra di calcio e si preparava a incoronare Falcao “Ottavo re di Roma”.

 

- Eccola!

- Sì, stavolta è lei …

- Ecco che … se lo toglie!

 

Stavamo vivendo un’era di mezzo, tra l’infanzia e l’adolescenza. Noi ne approfittavamo per godere al meglio i benefici di entrambi l’età. Come quando ci smarcavamo dal controllo del nostro tutore, impegnato con i bambini più piccoli, e ci aggiravamo discretamente nel solarium femminile, dove gli uomini non erano ammessi perché le signore prendevano il sole in topless.

 

- Santo … cielo …

 

Questo era Vanni che ogni volta cadeva in estasi dinanzi a dei seni nudi.

 

- Non fissarla, vuoi che ci caccino!

 

Oggetto delle nostre osservazioni era Milena, l’istruttrice di aerobica. Nell’ultimo capitolo della mia saga sexy, sostenevo che i suoi capezzoli erano così turgidi e lunghi da poterci appendere un quadro. Vanni diceva che era impossibile, così avevamo scommesso un deca e organizzato l’audace spedizione.

 

- Ma non sono dritti.

- Guardali con attenzione quando le passeremo accanto per uscire.

 

Contavo sul fatto che dinanzi a tanta abbondanza, non sarebbe riuscito a tenere fisso lo sguardo solo su un dettaglio.

 

- Guarda che non erano né lunghi né duri, me ne sarei accorto.

- Ma che c’entra, per farli diventare duri al massimo deve eccitarsi.

- Sul serio!

- Certo, che non lo sai?

- Sì, sì, certo che lo so. Solo che non pensavo… Ma sul serio le crescono i cosi! Praticamente funzionano come un pisello.

- Le devi toccare il clitoride e bang! Duri come chiodi.

- Il clitoride?

- Certo. Il clitoride si trova tra le grandi e piccole labbra della vagina.

- Lo so, che ti credi? Però la scommessa l’hai persa, dai che ce la giochiamo al bigliardino.

 

Un deca al calcio balilla! Alla terza partita proposi di spendere il resto dei soldi consumando bibite a un tavolo del belvedere.

Si unirono a noi altri ragazzini e inevitabilmente si ricominciò a discutere su quante possibilità aveva la Roma di conquistare lo scudetto.

 

- Ci diamo alla bella vita, vero?

 

Quando il nostro tutore ci scovò, si sedette con noi attorno al tavolinetto. Il tutore era solo uno studente dell’ISEF, che si guadagnava lo stipendio insegnando i rudimenti di qualche sport. Gli importava poco di noi ragazzini più grandi, viziati e con la voglia di fare gli adulti con il portafoglio di papà.

 

- Vedrete che l’Inter vi segnerà almeno tre pallini …

 

Il tutore dai capelli crespi e l’accento del sud, era convinto che la Roma non avrebbe vinto il prossimo scontro con l’Inter. La conversazione si stava scaldando e stimolava oltremodo la “secchezza delle fauci”; così, prima di finire sul lastrico, decisi di passare alla cassa, pagare e abbandonare il simposio calcistico.

Vanni mi seguì e ce ne andammo nel nostro angolo segreto, seduti sul greto del Tevere, ad ascoltare in silenzio il fiume.

 

- Vuoi fumare?

 

Mi disse Vanni, sfilando dalla tasca dei pantaloncini una sigaretta storta e dei fiammiferi.

 

- No. Da quanto tempo è che fumi?

 

Ci rimasi male. Un tempo era impossibile che uno di noi facesse qualcosa senza che l’altro lo sapesse.

 

- Da un sacco di tempo. Tipo due, forse tre settimane ...

 

Era stato sicuramente quello stronzo di Panari Felice a insegnarglielo.

 

- Il fumo blocca la crescita … e fa venire il cancro.

- E le cazzate fanno diventare froci. Ce la stecchiamo in due?

 

Accettai, ma solo perché mi piaceva l’idea di dividere ancora qualcosa con lui.

 

- Quest’anno non andrai in campagna?

- Perché?

- Maurizio dice che andrai in Francia.

- Gli ho raccontato una balla.

 

Odiavo raccontare bugie, certo non mi mancava la fantasia per farlo, ma detestavo somigliare a Primo. Primo al Circolo era famoso per spararle grosse; per esempio, raccontava in giro di avere un figlio che si faceva rispettare a suon di sberle. Mi sentivo una merda quando le persone esclamavano: “Ma sei tu il figlio di Primo!”. Era chiaro quanto mi stimasse.

 

- Io vado in Marocco con i nonni.

- Beato tu.

- Mica tanto. I nonni si portano dietro pure Margaret.

 

Vanni aveva lanciato la sigaretta verso il fiume, senza passarmela nemmeno una volta. Poi si sdraiò con le braccia aperte, messo così sembrava voler abbracciare il sole. Io guardavo la cicca che era rimasta impigliata in un arbusto. In me salì una tale malinconia da bloccarmi il respiro. Il silenzio era diventato denso come una melma, eppure non lontano c’erano centinaia di persone che si divertivano … Da lì a breve, passarono due canottieri con i remi in barca che si lasciavano trasportare dalla corrente. Avrei voluto alzarmi e andarmene via, ma restai perché lontano da Vanni non sarebbe rimasto più nulla della mia infanzia. Il flusso dell’acqua trascinò i due pigri canottieri oltre l’ansa del fiume.

 

Guardai Vanni e cercai di ricordarmelo com’era un tempo, quando aveva gli occhiali enormi e le orecchie a sventola. Ora le orecchie erano coperte dai capelli scoloriti dal sole, gli occhiali che portava erano alla moda e lo sport aveva reso il suo fisico atletico. Era un bel ragazzino e presto avrebbe trovato finalmente una fidanzata che si sarebbe innamorata di lui. Di tutto questo io non avrei fatto più parte.

 

Mi sdraiai e aprii le braccia per accogliere anch’io quel sole caldo. Ora eravamo come due semi che stavano per germogliare, e i semi da piccoli si somigliano un po’ tutti, è quando crescono che diventano piante diverse. Mi era facile prevedere che pianta sarebbe diventata Vanni, ma io? Chi nasce storto è facile che si ritrovi con le radici per aria a crescere verso il basso ...

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Floppy 02/20

 

 

“Nessuno parve accorgersi di me”

 

Ero seduto in cucina, quando un sussurro si levò come una brezza che percorse tutte le scale del palazzo. Mi alzai dalla seggiola accanto alla porta finestra che dava sulla chiostrina e presi istintivamente la via per l’ultimo piano. Mi arrampicai su ogni gradino, strisciando lungo la parete. Giunsi all’ultimo pianerottolo con il cuore che batteva nelle orecchie e ottenebrava ogni pensiero fatto di parole. La porta di casa era aperta e nessuno parve accorgersi di me. Le donne, tutte prese da un gran movimento in punta di piedi, entravano e uscivano dalla sua stanza. C’era un forte odore di disinfettante. D’improvviso un singhiozzo stirato e sofferto, agghiacciante, mi respinse indietro, giù per le scale, fino al pianerottolo di metà rampa, lontano da quella piccola folla di uomini che bisbigliavano i loro sbuffi di sigaretta.

 

In quel momento percepii la presenza di Dio. Era là tra noi, in quella sofferenza che scorreva tra rivoli e invasi giù per le scale, annunciando gaia la triste novella – Morirete tutti.

Dio era dentro di me. Ne sentivo la mano torcermi le budella, fiaccando la mia diabolica volontà mentre torturava la zia Pina nel suo letto di morte.

 

“Te lo ricordi come si mantiene un segreto, vero?”

 

Il solo modo di preservare un segreto è dimenticarselo. Me lo aveva insegnato lei, insieme con tante altre cose, perché io ero la sua piccola opera d’arte. Mi ricordò la regola di come mantenere un segreto, il giorno quando mi disse che la sua malattia l’avrebbe costretta a lungo in ospedale. Nessuno doveva saperlo, specie i suoi creditori che avrebbero certo rimandato i pagamenti, sperando in una provvidenziale dipartita dell’aguzzina.

 

Lo sapevo che non si trattava della solita ricaduta, quella che l’avrebbe costretta a un nuovo “soggiorno termale”. Ne ebbi conferma quando rincasò. Aveva in testa una ridicola parrucca e in faccia uno strato di biacca colorata che la faceva apparire come un grottesco clown. Lo sapevo, ma lei era la zia Pina e non poteva morire …

 

La zia chiese di nuovo a me di farle da galoppino per consegnare le sue lettere profumate di bergamotto. Feci per lei lunghe anticamere con i debitori che vanamente speravano che quel ragazzino si stancasse andandosene a mani vuote. In quelle lettere la zia li pregava di anticipare il saldo del loro credito, oppure a malincuore si sarebbe vista costretta a liquidare i loro beni dati in pegno. Molti non pagarono e dovetti far da tramite con gioiellieri e antiquari, sempre attento a non far loro sapere che la zia mandava me perché era sul letto di morte.

 

“Un giorno Iddio ti punirà per il tuo atteggiamento immorale ”.

 

Matteo mi aveva messo in guardia dagli atteggiamenti immorali. Mi disse che il Signore non avrebbe tardato a punire la mia insolenza e che essa avrebbe certamente colpito la rispettabilità della mia famiglia. Io non gli detti peso perché era nello stile del personaggio lanciare anatemi, tuttavia era da parecchio che non trovavo più il coraggio di pronunciare i miei peccati neanche al confessore, e ogni domenica ingerivo insieme all’ostia anche il peccato mortale.

 

“Il piccolo mostro dell’ebrea convertita”.

 

Nelle ultime settimane di vita della zia, mi dedicai esclusivamente alle sue commissioni. Un giorno che tornai a palazzo, per consegnare una delle lettere al bergamotto per il maggiordomo, la principessa m’interrogò sullo stato di salute della zia. Io le mentii ma non fui abbastanza convincente. Stavo andandomene, quando mi sorpresi nel trovare Matteo sul loggione che dava nel cortile interno. Cercò di convincermi che era sbagliato quello che stavo facendo per la zia e mi riferì quanto già si diceva sul mio conto: io ero il piccolo mostro dell’ebrea convertita.

 

“ … perché tu rimarrai per sempre la mia piccola opera d’arte ….”

 

Prima di morire la zia mi consegnò una borsa da portare al suo avvocato. Sapevo cosa conteneva perché la zia aveva preparato dei doni speciali da riporre in delle cassette di sicurezza bancarie, le cui chiavi sarebbero state consegnate ai suoi cari in concomitanza di eventi importanti. Era un modo per rimanere con loro anche dopo la sua morte. In quella borsa c’era anche una grossa busta da lettera e non ebbi alcuna remora ad aprirla per scoprire se qualcuno di quei pacchetti era riservato a me.

 

Dalla grossa busta a sacchetto cadde un’altra lettera profumata di bergamotto. Era indirizzata proprio a me. La zia mi parlava teneramente come se fosse già morta e mi guardasse dal cielo. Si diceva certa che fossi diventato un ragazzo responsabile e intelligente, quindi pronto per sapere la verità. Su quella lettera c’era scritto che Primo non era mio padre e che mi disconobbe quando non avevo ancora l’età per ricordarmelo. Fu a seguito di un ricatto di mia madre che accettò di ridarmi il suo nome, ma solo come tutore affidatario. C’era scritto che il mio vero genitore era un ricco ebreo che mi amava profondamente, ma la sua famiglia era troppo ortodossa per accettarmi in casa. La zia mi scriveva come mi sarei dovuto comportare per costringerli a darmi quanto mi spettava di diritto. Sarei stato solo in quella battaglia perché né il mio vero padre e soprattutto mia madre, avrebbero voluto che la combattessi. Solo lei, dalla sua tomba, mi sarebbe stata vicina, concludeva, perché io sarei per sempre rimasto la sua piccola, maledetta, opera d’arte.

 

Nella busta da lettera grande c’erano i documenti che raccontavano la mia storia attraverso le sentenze dei tribunali. Lessi e rilessi quelle astruse parole burocratiche stupendomi ogni volta che incontravo il mio nome … spesso accompagnato da un cognome diverso. Sembrava proprio l’implacabile ira di Dio che si stava abbattendo su di noi. Se alla zia toglieva la vita tra gli stenti di una malattia orribile, a me stava strappando la faccia, privandomi di quell’identità che avevo lordato con il mio comportamento immorale.

 

“Sarà meglio che non ti faccia più vedere da queste parti”.

 

Ero ancora troppo giovane e non avrei dovuto aprire quella busta. Lo compresi quando ovunque la nascondessi, sembrava allungare i suoi viscidi tentacoli opprimendomi il respiro; decisi dunque di bruciare tutto e continuare a credere nella menzogna. Ma sì, cos’era accaduto poi di così grave? In fondo ogni buon romanzo ha il suo figlio illegittimo … i telefilm americani erano pieni di figli di puttana! Dovevo solo razionalizzare e non lasciarmi prendere dagli stupidi sentimentalismi umani. Avrei furbescamente lasciato le cose come stavano e non sarebbe cambiato niente. Dio aveva fatto male i suoi conti con me.

 

La diabolica determinazione di sfidare Dio, mi fece saggiare ancora di più l’amarezza della sua punizione. La verità iniziò a perseguitarmi, la leggevo sui volti che fino a quel giorno avevo creduto la mia famiglia. I ricordi si riempirono di ombre e quelle ombre ripresero a opprimermi con incubi notturni.

Se Dio era diventato il mio nemico, trovai naturale rivolgere al Diavolo le mie preghiere. Invocazioni quelle che nessuno t’insegna, così feci al mio solito incetta di ogni sorta di libro che ne parlavano; scoprendo che alla fine anche Lucifero è consustanziale al Padreterno. Mandai tutti all’inferno e appesi in camera uno di quei poster con delle allegorie dal volto di donna. Divenne il mio dio e acquisì i tratti imperturbabili del fato. Senza pietà, al suo altare la mia dea chiedeva solo il sacrificio dell’inganno cui c’inducono i sentimenti.

 

Dopo quel pomeriggio in cui salii dalla zia e la vidi entrare in coma, decisi che la scelta più logica da fare era di considerarla tecnicamente già morta. Decisi dunque di riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata per assolvere le sue ultime esigenze.

Durante il dopo scuola al collegio nessuno mi rivolse la parola e quando provai ad andare dalla Signora Amelia, il maggiordomo mi fermò sulla porta, dicendomi con sdegno che era meglio se da quelle parti non mi facessi più vedere.

Mi fu chiaro solo allora che Matteo non era dal Padreterno che cercava di mettermi in guardia, ma dalla sentenza della società dei giusti.

 

Trovai conforto nel mio credo materialista, dove tutto mi riempiva travasando via, senza che questo mi lasciasse nulla attaccato addosso. Scoprii presto però che il dolore non è un genere di sentimento. Forse è la sola emozione che esiste in maniera tangibile nel mondo.

 

“Nessuno rimpiangerà quella strega”

 

Mia sorella Angela al funerale della zia non ci venne. Disse sul grugno della mamma che quella strega non l’avrebbe certo rimpianta nessuno. Mia madre, stranamente, quella volta non se la prese e sistemandomi il cravattino nero, si apprestò a raggiungere Primo che ci aspettava sul pianerottolo.

L’odore dei disinfettanti si fece sempre più penetrante mentre ci avvicinavamo alla porta della sua stanza. Rimasi imperturbabile davanti alle squallide vestigia mortali di quella che un tempo era stata la zia Pina. Ognuno di quegli ipocriti là presenti non faceva che ripetere quanto era bella quella carcassa rinsecchita. Certo che la preferivano da morta, altrimenti li avrebbe continuati a tenere tutti in scacco. Compresi Primo e mia madre. Li disprezzavo tutti.

 

Sarebbe filato tutto liscio se non avessi incontrato Iaia. Mi strinse forte e pianse. Pianse tanto che le sue lacrime inzupparono il collo della mia camicia. Diceva che la zia teneva a me come a un figlio e che sarei sempre stato il suo fratellino più piccolo. Ne diceva di cose tra i singulti di quel pianto dirotto. E allora glielo dissi chi era quell’aguzzina che giaceva nella cassa da morto. Era una maledetta egoista incapace di guardare oltre i suoi meschini interessi. Una manipolatrice che ingannava tutti senza pietà per alcuno, compreso me. Avrebbe dovuto mandare i suoi figli a consegnare quelle lettere lorde d’infamia, invece aveva fatto sporcare me per salvare loro. Loro che avrebbero continuato a mangiare il frutto di quei loschi traffici anche dopo la sua morte, mentre a me l’infida ebrea aveva riservato solo una verità infamante.

 

No, non urlai neanche una di tutte quelle sillabe che mi si mischiarono in testa producendo solo un patetico balbettio. Non potevo farci nulla perché il dolore montò come una marea scura dal fondo e iniziò a travasare copiosamente. Mi strinsi a Iaia al fine di non cadere, di non lasciarmi travolgere. Poi lei si accorse che quello non era un abbraccio perché le mie dita avrebbero voluto piantarsi in quella sua ciccia grassa. Cercarono di tirarmi via. Il mio corpo si era irrigidito in una strenua resistenza. Il dolore che gorgogliava da solo come sangue da una ferita aperta, era la sola cosa in grado di far defluire la morsa che mi attanagliava fin nelle viscere. Mi salì un febbrone da cavallo e fui portato immediatamente a casa.

 

Il mio corpo infetto continuò a perdere liquidi per giorni. La marea nera risaliva dal fondo appena il pensiero mi faceva realizzare che la zia era morta e l’onta della sua maledizione era ricaduta su di me. Gli incubi mi tolsero il sonno e finii per cadere di nuovo un centimetro dietro i miei bulbi oculari.

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Silverselfer

Floppy 02/21

 

 

“ Ti aiuteranno a star meglio …”

 

E’ probabile che l’avvocato della zia sapesse della busta riservata a me e non trovandola abbia tirato in mezzo alla storia delle cassette di sicurezza anche lo zio Gerardo. Siccome erano tutti preoccupati, forse lui dedusse cos’era successo e ne mise al corrente i miei genitori.

Di tutto questo io non ne ho mai saputo niente. Per quello che mi riguarda, una sera mia madre mi mise una pasticca di Tavor sul tovagliolo e non ci trovai niente di strano che avesse scovato una medicina anche per curare il dolore di vivere.

 

“Questo schifo in casa mia non ci deve stare …”.

 

La nuova medicina riuscì a farmi riposare, ma non smisi di avere quegli orribili incubi perché, anche se non me li ricordavo più, al mattino continuai a sentirmi addosso la tipica ansia che mi lasciavano addosso. La sola cosa che mi dava sollievo era pensare al sesso, che non voleva dire masturbarmi, che pure sarebbe stato un atto d’amore verso la vita. Sapere di quella carnalità e cercare di comprenderne la meccanica che nella sua semplicità coinvolgeva non solo la mente ma anche il corpo, mi distraeva dal resto che invece continuava a complicarsi, inducendomi a proteggere l’anima da ogni sentimento. L’eiaculazione era solo l’interruttore attraverso cui spegnere quel desiderio a bassa intensità.

 

Il problema più grande che mi dava quella pastiglia, era la sbadataggine. Perdevo le cose, mi dimenticavo quello che mi dicevano di fare e un giorno che mi ero portato una rivista pornografica in bagno, la lasciai sul cesto della biancheria sporca. Apriti cielo quando la trovò mia madre. Piombò in cameretta e me la lanciò contro, urlando a bassa voce che quello schifo in casa sua non ci doveva entrare. Per lei aver trovato quella rivista significava che li stavo prendendo tutti in giro sul difficile momento che attraversavo. Era chiaro che se mi facevo le pippe non stavo così male, anzi, pianificavo tutto per diventare un dissoluto alle loro spalle. Mentre mi diceva tutte quelle cose, le leggevo in faccia quanto mi trovava ributtante, ed io non ne potevo proprio più di sentirmi una merda.

 

“Voglio diventare ebreo”

 

Non so se glielo dissi sinceramente o solo perché era la cosa che le avrebbe fatto più male ascoltare. Le immediate conseguenze di quella dichiarazione non mi dettero modo di rifletterci sopra. Mia madre trasse tutta una serie di conclusioni che per il vero non c’entravano nulla. Se la prese con la zia Pina che secondo lei aveva sempre tramato alle sue spalle, maledì Esra che stava cercando di rovinarmi e poi era certamente per questa insana decisione che non santificavo più le feste andando a messa la domenica. Sicuro non potevo dirle che prima ero diventato un adoratore del demonio e poi addirittura pagano. Capace che mi avrebbe organizzato come minimo un esorcismo. La lasciai dunque credere alle sue paranoie.

 

“Tu sei cristiano …”

 

Quando mi dovetti sciroppare tutta la storia del perché e per come il sangue israelita si trasmette per via materna e non paterna, valutai seriamente di confessare la mia fede blasfema e subire un esorcismo vero e proprio.

Forse non mi era costato neanche tanto scoprire che Primo non era mio padre, quanto sapere che averne uno israelita non era abbastanza per appartenere alla sua stessa razza.

 

Mia madre andò fuori di testa. Non la smetteva più su quanto fossero abietti gli ebrei e certo non faceva eccezione quel lubrico individuo che la indusse al peccato, facendole cagare poi uno stronzo come me. Io volevo al solito cavargli ancora il sangue, prendergli quel poco di serenità che aveva raggiunto con tanti sacrifici. Se volevo ancora svergognarla sulla pubblica piazza, avevo fatto male i miei conti. E sì, piuttosto mi avrebbe ammazzato nel sonno che lasciato diventare come quell’aguzzina ebrea che mi aveva instillato l’odio contro di lei.

 

“Dov’è andata mamma?”

 

In tutto il suo sproloquio, mia madre al solito si preoccupò solo di Dio e di cosa avrebbe pensato la gente, che poi era la medesima cosa. Del resto che poteva contare la confusione che mi ronzava nelle orecchie da settimane, al confronto della scoperta che suo figlio voleva diventare ebreo e per questo si masturbava in bagno? Quella volta non distrusse l’ennesimo servizio di piatti, ma optò per il piano di evacuazione anti responsabilità. Scappò dunque sbattendo la porta di casa.

 

Il dolore ha diversi aspetti positivi; per esempio, sviluppa uno spiccato senso di autoconservazione. L’egoismo di quei momenti me ne faceva sbattere altamente di dove si stesse per andare a buttare mia madre. Provavo solo un urgente bisogno di dormire. Andai quindi in cucina per prendere un ulteriore Tavor.

Stavo in punta di piedi per raggiungere l’ultimo ripiano dello sportello dove si tenevano i medicinali in quella cazzo di cucina per giganti troll, quando mia sorella allungò un braccio e mi porse la scatola delle mie pastiglie contro il dolore di vivere. Mi chiese dov’era andata la mamma, ma io ingoiai quella caccoletta di pastiglia senz’acqua e ripresi la via della cameretta. La sentii telefonare a Primo, poi crollai in quel salvifico sonno chimico.

 

Ero stanco. Mi sentivo sempre spossato, fin dal mattino. Per fortuna che l’anno scolastico era bello e terminato. Io avevo messo in cantiere le mie interrogazioni e tutto si limitava al piacevole compito di preparare quelle di Giada. Con lei non era cambiato nulla e mi chiedeva sempre di passare a casa sua. Se non ci fossero stati i pomeriggi trascorsi insieme, forse sarei definitivamente scivolato dentro me stesso.

Studiavamo, certo, ma condividevamo anche scampoli d’infanzia. Seguivamo le avventure di Mimì e la nazionale di pallavolo e la aiutavo a terminare gli album delle figurine delle sue serie preferite. Stare con lei costituiva una parentesi di serenità. Peccato che fosse un segreto e a scuola preferiva non darmi troppa confidenza. Spesso davanti agli altri faceva finta di scocciarsi, quando qualcuno notava che parlavamo con troppa intimità. Questo non aiutava la mia autostima, ma che ci potevo fare? Era la sola persona al mondo che mi aveva detto “ti voglio bene”.

 

Mia madre tornò a casa dopo qualche giorno, giusto il tempo di prepararmi la valigia e spedirmi dai nonni in campagna. Quella volta però mi accompagnò solo Primo. Lui non mi aveva mai accennato nulla sull’accaduto, tipico di lui. Per tutto il viaggio non aprì bocca. Solo quando imboccammo il viale del casale, fermò la macchina e scese a fumarsi una sigaretta. Scalciò qualche sasso e rimuginò alcune cose di cui non seppi mai niente. Rimise in moto e arrivati nell’aia, prima che scendessi, mi disse:

 

“Di quella cosa al nonno non diciamo niente, ok?”.

 

A dirgli quella cosa ci pensò poi nonna Mela. Beh, che non gli fossi mai stato simpatico, aveva già avuto modo di farmelo intendere; anzi, per quel fascistone antisemita che era, si comportò anche in maniera fin troppo comprensiva con me. In fondo si limitò a trattarmi come un estraneo e certo io non me ne sentivo offeso, visto che non c’era persona al mondo che disprezzavo di più. Tuttavia, avrei preferito che non mi scodellassero lì da solo, ad affrontare quella sua compiaciuta strafottenza.

 

Mi aspettava comunque un’estate serena, perché non ero ancora abbastanza grande da aver perduto completamente il super potere proprio dei bambini. Quella sana idiozia che ti fa dimenticare tutto, dandoti a credere che un attimo di presente possa durare per sempre.

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Silverselfer

Floppy 03/22

 

 

Quell’estate sembrava aver segnato un nuovo inizio per ogni cosa. Roma era cambiata. Il mondo non era più lo stesso. L’Aids era la peste del nuovo millennio. La salvezza del corpo o la condanna dell’anima, sembravano vincolate a un'unica parola: preservativo. I preti gongolavano perché finalmente potevano ridare significato alla loro castità. Qualcuno pensava addirittura di proibire i rapporti occasionali, ma la maggior parte delle persone ancora confondeva l’HIV con il nuovo virus influenzale in arrivo con l’inverno.

 

Il mattino seguente al mio ritorno a casa dalla campagna, mi svegliai con la dolce nenia dei rumori famigliari; a occhi chiusi riconobbi il netturbino che cantava stornelli romani mentre ritirava la mondezza, il rumore della serranda della bottega del falegname e il ciabattare funesto della mamma che preparava la colazione.

 

Spalancai le imposte e respirai l’aria pregna dell’odore di pioggia caduta per tutta la notte.

 

Quell’anno ero tornato prima da casa dei nonni. Mi bastò una telefonata perché Primo si presentasse la sera stessa per riportarmi a Roma. Sicuramente temevano che avessi avuto qualche spiacevole uscita con il nonno, riguardo alla faccenda delle mie origini bastarde, ma non era così.

Durante l’estate erano accaduti dei fatti che mi avevano allontanato da Lalla e avvicinato a suo fratello Pino. Per il vero si trattava di un avvicinamento intrapreso fin dall’estate precedente, quando sua sorella lo aveva coinvolto nei nostri giochi proibiti.

 

Pino era un ragazzino pel di carota dalla carnagione chiara come il latte. Io non provai alcuna remora morale ad approfondire la curiosità che mi suscitava quel suo corpo acerbo. L’idea che questo tipo di comportamento potesse in qualche modo classificare la mia sessualità, non mi sfiorava minimamente. Si trattava di un istinto molto razionale che non mi comportava sconvolgimenti interiori. Iniziava con lo stesso interesse di quando cominciavo un gioco che mi piaceva e terminava col dispiacere di una bella partita finita troppo presto, ma niente di più.

 

Indubbiamente il mio approccio con la sessualità non era lo stesso degli altri ragazzini, che pure non parevano dare a questo interesse un valore più profondo di una morbosa curiosità. Era accaduto prima con Lalla, la quale crescendo aveva aggiunto al nostro gioco una possessività che mi toglieva il respiro. Successe qualcosa di analogo con il fratello Pino. Lui si era sentito coinvolto intimamente dai miei gesti. Gli avevo rivolto attenzioni non solo fisiche, ma lo avevo anche aiutato a non essere più preso in giro dagli altri ragazzini del paese. Ero stato forse la prima persona al mondo che lo aveva fatto sentire bello e intelligente. Fu così che scelse me per condividere quel segreto che lacerava la sua famiglia da chissà quanto tempo.

 

Mi bastò appena un accenno di quell’infamia per capire di cosa si trattava. Compresi finalmente come aveva sempre fatto Lalla a procurarsi tutte quelle riviste “zozze”. Era il padre stesso che gliele dava per fini che non volevo assolutamente scoprire. Pino mi diede a intendere che da quando Lalla si era trasferita a servizio in casa dai nonni, il padre aveva spostato le sue attenzioni sessuali su di lui.

 

Io scappai dall’obbligo morale che mi costringeva a denunciare quei fatti abominevoli. Mi dissi che non ci potevo far niente. In effetti, si trattava di qualcosa troppo grande e orribile per uno già incasinato com’ero io. Così cercai di allontanarmi velocemente da quell’aspetto della sessualità, che mi spaventava e non volevo assolutamente riconoscere nei miei comportamenti.

 

Quella mattina che mi risvegliai in città, mi sentivo in salvo. Quei mesi spensierati trascorsi in campagna, mi avevano fatto completamente dimenticare la cocente umiliazione cui la zia Pina mi aveva esposto. Soprattutto, avevo quasi dimenticato di non essere più figlio di Primo.

Probabile che abbandonarmi in campagna senza venirmi a trovare manco per un fine settimana, avesse avuto proprio lo scopo di lasciare decantare le gravose verità che avevo appreso. Da allora nessuno parlò più della mia vicenda.

 

Se per i miei famigliari era rassicurante continuare a recitare quell’ipocrisia, a me iniziò a suscitare solo tanto sarcasmo.

 

Nei giorni che precedettero l’inizio del nuovo anno scolastico, sprofondai nel divano davanti alla televisione. Purtroppo, però, neanche la fantasia riusciva più a darmi asilo. Il tormento di non trovare il coraggio per affrontare la verità, mi gettava in un profondo stato di apatia. Quell’idea eroica cui anelavo si era sfracellata sulla faccia di Pino, al quale non detti neanche il tempo di chiedermi aiuto che me ne ero scappato come il più vile dei codardi. Del resto come potevo sperare di aiutare qualcun altro, se non riuscivo a salvare neanche me stesso?

 

Durante l’estate avevo smesso di prendere le pastiglie contro il dolore di vivere. La mamma si era persino lamentata di quella mia avventata trascuratezza. Così accettai di buon grado di ricominciare a prendere la mezza pasticca prima di andare a dormire. Solo che le giornate erano sempre più lunghe e tediose, così ricorrevo spesso a quel sonno chimico per alleviarne il peso.

 

Un giorno presi tutti gli album fotografici di casa e con la mia indiscussa pazienza certosina, vi cancellai ogni traccia di me. Nessuno se ne accorse o fecero finta di non avvedersene, comunque ne fraintesero certamente il senso. Quello non era un gesto contro di loro, altrimenti mi sarei limitato a ritagliare le foto di famiglia. Era la mia faccia che mi faceva schifo. La trovavo esteticamente ributtante. Quel suino che mi sorrideva come un ebete da quelle immagini doveva scomparire.

 

L’inizio del nuovo anno scolastico finì per complicare ulteriormente il mio stato confusionale. Vanni era partito e con lui molti altri, visto che le iscrizioni alla terza media nel mio istituto scolastico ebbero un crollo verticale. Tanto che l’amministrazione decise di cancellare una sezione, distribuendola nelle altre. Fu così che mi ritrovai in classe: Cecchi Raimondo, Papoccia Alessandro e Panari Felice Marcello; tutti con qualche anno di bocciatura alle spalle, istaurarono in classe un regime del terrore.

 

Erano capeggiati da Cecchi, un individuo cui la natura certo non aveva voluto molto bene. Era piccolo e così smilzo d’apparire storto. Aveva dei capelli biondicci sempre spettinati e poco puliti. Il naso pronunciato e irregolare, stava al centro di un viso appuntito, con la pelle martoriata da peli di barba che imputridivano prima di spuntare. Aveva gli occhi bovini e il labbro superiore della bocca a becco di papera; insomma, roba da citare per danni i propri genitori.

Forse era per le angherie da cui aveva certo dovuto difendersi fin dall’asilo, che aveva sviluppato un carattere talmente violento e dispotico, da riuscire a tenere sotto dei soggetti altrettanto arroganti ma anche fisicamente più prestanti di lui, come Papoccia che era una pertica di un metro e ottanta o Panari Felice che aveva un fisico da boxer.

 

Il primo giorno di scuola questi “Tre dell’Avemaria” tennero un vero e proprio show che aveva lo scopo di terrorizzarci tutti. Devo dire che ci riuscirono benissimo. Ci presero di petto uno per uno, spintonandoci e chiamandoci con gli appellativi più infamanti, non fecero eccezione le ragazze, che Cecchi detestava in modo particolare.

Era impossibile che Panari Felice non si ricordasse di me, data la sua amicizia con Vanni. Memore delle partitelle al parco di Castel Sant’Angelo, temevo proprio che avrebbe ricominciato a chiamarmi “inutile frocetto”. Invece, fu a Cecchi che suscitai un odio a prima vista. “Che hai da guardare? Ti faccio forse schifo!” Ma perché doveva farmi schifo? Chiaro che parlandomi a un palmo dalla faccia, non potevo ignorare il pus dei suoi foruncoli infiammati. Ero terrorizzato certo, ma neanche riuscivo ad abbassare lo sguardo. Continuando a fissarlo un po’ come si fa con quelle strane scimmie allo zoo, lo provocavo costringendolo a eruttarmi in faccia la sua bile nebulizzata in saliva infetta. “Tu marchi male con me, stronzo” Mi disse, dopo avermi spintonato e fatto cadere poco onorevolmente sul cestino dei rifiuti.

 

Comunque il mio problema più grande non era Cecchi, che tanto odiava tutti allo stesso modo e in un certo senso ci coalizzava in una resistenza passiva. No, il mio tormento si chiamava Martinazzoli Federico. Un essere disgustoso. Un bitume di lardo sudaticcio e informe che aveva deciso di sedersi accanto a me solo per copiarmi i compiti. Lo odiavo soprattutto perché non mi permetteva di scomparire, annegare nella noia. Stava sempre lì a celiare di cose che mi rifiutavo di ascoltare. Allora cominciava a insultarmi a bassa voce con epiteti disgustosi, così che almeno un vaffanculo gli avesse dato la soddisfazione di rompere la mia congiura del silenzio. Io lo ignoravo e fingevo addirittura di non vederlo, ma quando mi prese una mano e se la strofinò tra le cosce, fu davvero troppo! Alzai il braccio per chiedere l’attenzione della prof, ma quell’altro infame non aspettò che l’insegnante ci degnasse di uno sguardo e disse ad alta voce: “Professoressa, Domenico mi tocca il pisello”. Non so se gli occhi mi s’incrociarono più per la rabbia o la vergogna.

Ovviamente la Professoressa non diede credito a quella che sembrava solo una boutade, e cercò immediatamente di chetare la classe che era scoppiata in una orgia di risate.

 

Martinazzoli non mi si scollava mai di dosso. Durante le due interminabili ore di ginnastica, cioè quando non si faceva un cazzo perché quei fannulloni dei professori si liberavano di noi gettando nella mischia un pallone da calcio. Io mi dileguavo per evitare l’umiliazione di non essere scelto per la solita partitella.

Fu così che conobbi Alessandro. Si faceva chiamare Alexander con la “X” ed era un bel ragazzino dai capelli riccioli e biondi. Aveva l’esonero per le attività ginniche per non ricordo quale problema fisico. Il suo più grande cruccio era che nella sua classe gli davano tutti del frocio. Diceva che non era così e che il suo problema era solo quello di esprimersi in un italiano corretto e non saper dire parolacce. In realtà neanche io riuscivo ad andarci d’accordo perché aveva una visione della vita troppo enfaticamente “rosa”. Quando cercavo di parlarci per esempio di manga, riusciva a essere smielato più di Giada … ma molto di più. Quando mi portò a far vedere la sua collezione di pettini di Barbie, compresi che era un caso disperato. Ma era comunque una compagnia simpatica che mi aiutava a trascorrere quelle due ore di tedio assoluto.

 

Solitamente passeggiavamo chiacchierando lungo il perimetro della palestra. Martinazzoli ci tampinava per tutto il tempo, non perdendo occasione per tentare approcci con Alexander. Piagnucolava continuando a esortarlo a fargli un bocchino, un lavoretto di mano o roba del genere. Alexander lo respingeva ma obiettivamente non ci metteva abbastanza convinzione. Così, un giorno, gli mollai io un man rovescio che gli rivoltò la testa. Il piacere che provai fu immenso. Il secondo schiaffone lo ribaltò per terra. Era troppo bello affinché potessi fermarmi. Appena rimise insieme il suo lardo, gli menai un calcio allo stinco che lo piegò in ginocchio, ma ormai aveva subodorato l’imminente pestaggio e si accoccolò per terra con le ginocchia al petto … almeno ci provò dato il panzone che si ritrovava. Con una mano sulla rastrelliera alla parete per tenermi saldo su una gamba, con l’altra presi a scalciarlo sulla schiena. Urlava come un maiale scannato mentre Alexander mi esortava a smetterla, ma solo perché stavano per sopraggiungere i professori che già urlavano dall’altra parte della palestra.

 

Si era formato un capannello di gente e il Prof mi dette pure un bello scappellotto per interrompere il pestaggio. Martinazzoli frignava i suoi propositi di vendetta, ma alla fine accolse di buon grado il consiglio del Prof che ci propose di far la pace o ci avrebbe portati dal preside e fatti sospendere. Quando tutto questo stava ancora accadendo, sentivo Alexander che mischiato tra la piccola folla di curiosi, raccontava la sua versione dei fatti. Diceva che sì, anche a lui se partivano i cinque minuti diventava una tale furia eccetera … ma io avevo esagerato e gli ero sempre sembrato un po’ matto. Gli avrei volentieri ficcato nel culo tutti i suoi pettini di Barbie. Gliela giurai peggio che a Martinazzoli e dovetti trovare un altro modo di trascorrere le tediose ore di ginnastica.

 

Intrapresi così il corso di pronto soccorso che teneva l’insegnate di ginnastica delle ragazze … c’ero solo io che lo frequentavo regolarmente, gli altri, quasi sempre femmine, erano quanti che, per un motivo o per l’altro, quel giorno si erano presentati senza tuta. A me non dispiaceva imparare e l’istruttrice mi propose come aiuto in infermeria. Così risolsi definitivamente il problema di come impiegare il tempo libero delle ore di ginnastica e anche gli infausti dieci minuti della ricreazione; risolsi persino il problema di usare il bagno dei maschi, avendo a disposizione quello dell’infermeria, sempre immacolato e soprattutto inaccessibile agli altri ragazzini.

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Silverselfer

Floppy 03/23

 

 

Mancavano 35 minuti, 2.100 secondi, alla fine della giornata scolastica. Era trascorsa un’ora e un quarto dall’inizio della lezione di geometria, 4.500 secondi di tedio assoluto. Sentivo un lacerante bisogno della mia pastiglia contro il dolore di vivere.

 

Ogni secondo era un granello di sabbia che in una clessidra precipitava attraverso il foro tra le due ampolle del futuro e del passato. Il mio presente stava in quel minuscolo buco nero che ogni attimo trafiggeva scomparendo nell’oblio. Riuscivo a percepire ogni granello di tempo attraversarmi, graffiare le pareti della mia anima fino a uscirne, portandosi via con sé un altro brandello di carne. Un caricatore da 60 colpi al minuto, una raffica di 3.600 attimi ogni ora; tutti i giorni cadevo sotto una gragnola di 86.400 secondi.

 

Ogni chicco di sabbia si aggiungeva ad altri migliaia già trascorsi, andando a formare una spiaggia sulla cui battigia la risacca della vita cancellava ogni memoria. Cercavo inutilmente di preservare qualche ricordo, costruendo castelli di sabbia con mura e torri fortificate inevitabilmente destinate a sfaldarsi.

Il futuro mi si parava dinanzi all’improvviso, reale solo per quel momento in cui lo riconoscevo, diventando immediatamente un altro ricordo pronto a cadere, disperdendosi nella moltitudine già trascorsa.

 

Avevo svenduto tutto il mio passato, ma di una cosa non riuscii a liberarmi: il Rolex che mi aveva regalato zia Pina per la prima comunione. Il suo bel quadrante mi ammaliava con la magia del tempo che ci scorreva dentro. C’era un cerchietto, dove girava la lancetta dei secondi, in un’altro speculare al primo, vi girava un po’ più lentamente la freccettina dei minuti. Si trattava di un continuo vorticare di numeri che si rincorrevano, sempre, notte e giorno, senza fallo, con mirabile precisione, instancabilmente.

 

“Ancora 27 minuti al suono della campanella, 60 secondi moltiplicati 27 volte”.

 

A 600 secondi dal suono della campanella iniziavamo a sgomberare il banco da libri e quaderni. Lo facevamo molto lentamente, a rallentatore, per non far capire al professore che era già da un pezzo che nessuno lo ascoltava.

Erano attimi interminabili. Nonostante il vorticoso andare dei piccoli quadranti dei secondi e dei minuti, la lancetta lunga del Rolex, flemmatica e lapidaria, procedeva imperturbabile nel suo lento, lentissimo cammino.

 

L’importante era far incastrare le ruote dentate degli eventi quotidiani in quelle del meccanismo interno dell’orologio. Gli eventi dovevano muoversi su una routine che faceva da rullo a un carillon, il quale suonava sempre lo stesso motivetto rassicurante.

Uscito da scuola, prendevo l’autobus intorno alle 14 e 17 minuti, che mi scodellava in piazza della Chiesa Nuova circa alle 14 e 55 minuti, giusto il tempo per arrivare a casa alle 15 in punto.

Nessuna sorpresa, senza alcun imprevisto. Percorrevo corridoi invisibili attraversando quegli spazi che la gente ignorava, fatti d’invasi temporali che l’incastonarsi degli eventi di ognuno rendeva in alcuni momenti del giorno deserti. Tutto per sottrarmi all’oneroso sguardo di persone cui avrei dovuto un saluto, affrancandomi così dallo sforzo di dover tirare la bocca di traverso, ghignando un mezzo sorriso.

 

Dal momento che rincasavo iniziava il conto alla rovescia dei 5.580 secondi che mi separavano dalla campanella di scuola del mattino seguente.

 

Entravo nella casa deserta ascoltando i miei passi, che seguivano attenti le orme lasciate da quelli del giorno avanti, e avanti ancora. Era importante la precisione perché bastava un nonnulla per scatenare una serie di avvenimenti, che avrebbero turbato la regolarità del susseguirsi dei giorni.

Trovavo il pranzo sopra una pentola con dell’acqua calda. L’odore di quel cibo mi nauseava ogni volta sempre di più, quindi lo lasciavo coperto mentre lo portavo alla finestra del bagno che dava sulla chiostrina. Facevo schioccare la lingua contro il palato e misteriosamente si materializzavano dal nulla tutti i gatti del circondario.

Mentre i felini guardiani dei morti si sbranavano la mia cotoletta, io pisciavo l’urina acida che trattenevo fin dalla ricreazione del mattino. Dopo lavavo il piatto nel lavandino con l’antisettico per la faccia, scioglieva perfettamente l’olio della frittura rendendo la ceramica nuovamente immacolata.

 

Alle 15 e 45 stavo seduto sul ciglio del letto con la punta della scarpa destra fissa sul tallone della sinistra, nell’intento di cavarmi via quelle scarpe da ginnastica portate con le stringhe così strette da togliermi la circolazione ai piedi. Il senso liberatorio era così grande che per qualche attimo mi sembrava quasi di essere felice.

 

Alle 16 in punto ero sdraiato sul letto con le orecchie sintonizzate sulla musica elettronica dei Depeche Mode. Il ritmo costante del beat box somigliava a un metronomo. I ritornelli ciclici erano rassicuranti nel loro ossessivo ripetersi. Nessun cambiamento, nessuna ansia.

Ingoiavo due pastiglie di Tavor perché una non bastava ad alleggerire quel peso che dal mattino mi gravava sulla cassa toracica, facendomi tenere il fiato corto tutto il giorno. Dormire era un salasso di vita che mi affrancava dall’onere di esistere.

 

Prima di sdraiarmi lasciavo libri e quaderni aperti sulla scrivania, così da dare ad intendere a mia madre, quando rientrava dal volontariato in parrocchia, che non avevo passato tutto il pomeriggio a letto.

Trascorsi 480 minuti, riaprivo gli occhi che la cena mi aspettava già servita in tavola. Nonostante la fame che mi attanagliava lo stomaco, rigiravo quegli spaghetti nel piatto nauseato dall’odore del grasso animale sciolto nel ragù. Dopo averne esaminato ogni singolo boccone, accuratamente ripulito da tutti quei dettagli sudici, me lo cacciavo in bocca masticandolo fino a renderlo liquido; solo così riuscivo a ingoiarlo. Quel boccone era una sconfitta verso il mondo che cercava d’inquinarmi. Da quel momento sentivo la necessità di espellerlo prima che ridiventasse grasso adiposo, ossido di vita, stratificazione di realtà, merda che appesantiva le viscere, fibre di esistenza che mi trasformavano in qualcosa di più reale.

La mamma non resisteva allungo a quello spettacolo. Quando la mandavo proprio fuori dai gangheri, mi toglieva il piatto davanti cacciandomi via. Ero ben felice di lasciare lei e mia sorella prima che iniziassero a sbranare brandelli di carcasse animali, servite come secondo piatto di portata.

 

Me ne andavo dunque a fare la doccia. Tra la biancheria infilavo anche una rivista porno. Entravo in bagno intorno alle 20. Sistemavo il portabiancheria davanti al water a mo’ di tavolino. Sfogliavo quelle pagine che conoscevo a memoria. Immagini che inspiegabilmente provocavano il mio interesse, di cui poi mi liberavo senza alcuno sforzo con una manualità ben collaudata. Subito dopo la noia tornava riempiendomi d’indeterminata assenza.

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Floppy 03/24

 

 

Ero cresciuto troppo in fretta e si sa come la saggezza gustata anzitempo, sia una virtù assai amara da gustare.

 

Ero così stanco, sfinito dallo sforzo di trascinarmi in avanti, arrancando verso quel buio che mi dava ristoro in un sonno senza sogni.

La mattina mi alzavo sempre più presto per imparare qualche nozione necessaria a strappare una discreta media scolastica.

La torrida realtà sorgeva con la luce. Arrivava vestita da sergente, passandomi in rivista col suo sguardo impietoso, davanti a quel riflesso della toletta che ormai fuggivo come fosse uno spettro.

 

Leggevo Schopenhauer e sapevo che la sola cosa reale della vita è il dolore. Erano dunque solo dei furbi speculatori quei milionari spacciatori di televisione, capaci di mutuare vite serene in villette di periferia. Quei sentimenti erano un prodotto commerciale fabbricato su un’unica linea di montaggio, uguali per tutti perché non esistevano per nessuno. Ero nauseato da quel buonismo che ci stava lentamente trasformando tutti in personaggi da telefilm.

 

Vivere mi asfissiava sempre di più. Specie da quando il dottor Carrisi decise di ridurmi gradualmente il Tavor. Per fortuna la mamma non fu d’accordo, perché non appena iniziarono a razionarmi le pasticche, cominciai a sputare con sarcasmo la verità in faccia a tutti.

La mamma cambiò medico di famiglia e lo convinse che il Tavor era per lei, però anche quello non fu largo di maniche e le passava non più di una confezione al mese, meno di una pastiglia al giorno! Cercavo quindi di prenderne solo quando la vita mi diventava troppo indigesta. Le portavo sempre con me, ma il problema rimaneva perché ci mettevano sempre più tempo a fare effetto, ed era difficile capire i sintomi dell’umore nero in anticipo. Se cercavo di resistere troppo allungo, l’ansia a volte cresceva fino a diventare panico. Oramai la mia era diventata una vera e propria dipendenza, ma nessuno me ne parlava in questi termini e per me si trattava solo di un aspetto del mio carattere malinconico.

 

A seguito di quel mezzo pestaggio in palestra, Martinazzoli lasciò finalmente il mio banco. Quel posto rimase vuoto e finì per farmi sentire un reietto. Per assurdo, pretendevo che gli altri mi accogliessero, fermo restando che ero io che li ignoravo. Piegato su quel mio dolore senza nome, mi fu facile dargli il volto di tutti i miei compagni di classe.

La legge del contraccambio, quella che regola e tiene unita la società dei buoni, mi sfuggiva. Sia chiaro che a ogni richiesta d’aiuto, mi rivoltavo le tasche e davo quanto più potevo. Quel posto vuoto del mio banco era un via vai di gente che mi chiedeva questo o quel compito, ma nessuno ci si fermava un attimo in più del necessario.

Il contraccambio funziona col dare, certo, ma serve anche l’avere e non c’era niente che quei ragazzini potessero darmi. La mia generosità a senso unico, finiva per sembrare arroganza e la mia indifferenza è facile che fosse fraintesa per disprezzo. Somigliavo dunque ai cattivi; cioè, quegli egoisti incapaci di condividere qualcosa con gli altri.

Mi dicevo che tutti m’invitavano a casa loro solo per farsi aiutare nei compiti. Era indubbiamente vero, com’era sacrosanto che preferivo liquidare quell’incombenza rapidamente, per tornare nel silenzio di camera mia. Potevo donare tutto, ma non il mio tempo che era collassato in spazi così asfittici, da non poter farci entrare nessuno.

 

Quando suonava la campanella della ricreazione e la scuola si riempiva di un boato di gioia, io scivolavo via tra quegli esagitati, fino in infermeria. Dove l’infermiere mi salutava per andare anche lui a rifocillarsi. Durante la ricreazione, l’ambulatorio rimaneva per lo più deserto, ed io potevo finalmente spegnere il cervello. Se arrivava qualcuno, mi limitavo a far suonare il cerca persone dell’infermiere.

 

- … e cazzo, allora tu non lo chiamare.

 

“Un grande potere, comporta gravi responsabilità” Beh, io non sarò stato Spiderman, ma ero consapevole che ricoprendo un ruolo, avevo il potere di gestirlo. L’infermiere era uno scansafatiche e, per esempio, spesso approfittava dell’assenza del preside per dileguarsi dalla porta d’emergenza dell’infermeria. Io ero un discreto e coscienzioso ragazzino cui affidare incombenze come aprire e chiudere l’infermeria la mattina, quando lui arrivava tardi e il pomeriggio, quando lui era già andato via da un pezzo. Avevo imparato anche a misurare la pressione sanguigna, una pratica questa che per talune persone rasentava la divinazione e si presentavano in ambulatorio quasi tutti i giorni. Era un piccolo ruolo, ma sapendo gestirlo, mi conferiva abbastanza potere da farmi salutare dai professori lungo i corridoi, e i bidelli mi coccolavano proponendosi di esaudire ogni mio bisogno. Come mi aveva insegnato la zia Pina – Il contadino deve essere abile nel seminare, se vuole fare un buon raccolto.

 

- Ti sto chiedendo un cazzo di favore … ti ho mai chiesto niente?

 

Panari Felice entrava e usciva dalla classe anche durante le ore di lezione. Al contrario che con il resto degli alunni, i prof non facevano una piega quando alzava la mano e chiedeva di andare in bagno. Si vociferava che avesse problemi d’incontinenza urinaria, ma non era così.

 

Scoprii il suo segreto una mattina che si presentò in infermeria durante la ricreazione.

 

Panari Felice era un ragazzo abbastanza alto, con una muscolatura così asciutta da farlo apparire persino smilzo. Aveva i capelli lunghi fin sulle spalle, ma non erano belli e forse lo sapeva perché li portava sempre legati in una coda di cavallo un po’ spennata. Aveva la fronte alta e un arco sopraccigliare che gravava su uno sguardo nervoso che, quando ti si appuntava addosso, ti faceva gelare il sangue nelle vene. Era un’attacca brighe di prima categoria e nessuno osava mai contraddirlo, sempre se non voleva farsi rompere il naso con un cazzotto.

 

- … quello stronzo mi manda dritto al pronto soccorso, che non la sai?

 

Entrò in ambulatorio richiudendosi la porta alle spalle, facendo ruotare il paletto, e questo non andava mai fatto, perché quello faceva ruotare il dischetto colorato all’esterno della porta da verde a rosso. Se per caso passava il preside e lo vedeva rosso, si sarebbe domandato perché l’infermeria era chiusa.

Io non volevo certo rimediare un cazzotto da quello squilibrato, ma neanche avevo intenzione di contravvenire alle regole per causa sua. La prassi era che dovessi chiamare l’infermiere ma Panari Felice m’implorò di non farlo.

 

- … se vado all’ospedale, non mi rinnoveranno il tesserino della palestra e addio incontri!

 

Sfido io! Dove si è mai sentito che un epilettico possa disputare incontri di box? Glielo dissi che non doveva rompermi le palle con i suoi sottorifugi, perché non mi sarei assunto la responsabilità di gestire una crisi epilettica. Insomma, l’unica cosa che sapevo è che doveva somigliare a quelle crisi nervose che mi angustiavano quando ero bambino, di cui serbavo un pessimo ricordo.

 

- Tu non devi fare nient’altro che tenermi e … e farmi mordere qualcosa … passerà in fretta.

 

Alla fine mi arresi a quei suoi occhi che illanguidivano progressivamente. Gli distesi il telo di carta sul lettino, ma lui preferì stendersi sul pavimento. Disse che sarebbe stato più facile per me tenerlo. Si sfilò il bomberino che indossava sempre anche durante le ore di lezione, poi si slacciò la cinghia e i primi bottoni dei jeans. Cercò qualcosa da mordere e si sdraiò in terra. E adesso? Mi chiesi. Lui mi spiegò che dovevo tenergli le braccia e stare attento a che non ingoiasse la lingua. Come si fa a ingoiare la propria lingua? E come avrei fatto a impedirglielo?

 

L’aspetto che meno potevo soffrire di Panari Felice fin dai tempi della partitella domenicale al parco di Castel Sant’Angelo, era che non razionalizzava mai. All’epoca non voleva mai stare a sentire le mie strategie di gioco e si lanciava a testa bassa dietro il pallone. Poi, quando le cose andavano come previsto da me, s’incazzava dandomi dell’inutile frocetto. Ora, dopo tanto tempo, aveva dovuto lesinare il mio aiuto … non nascondo che lo assistei anche per questo motivo.

 

La sua epilessia era sotto controllo medico e prendeva dei farmaci eccetera. Insomma, non era nulla di violento. Arrivava gradualmente con dei sussulti sempre più frequenti che lo facevano irrigidire come un sasso. Io dovevo limitarmi a tenerlo per gli avambracci mentre guardavo il suo volto tirarsi mordendo un grosso pennarello Uniposca. Niente di che, solo che durò parecchio, ben oltre i dieci minuti della ricreazione. Il problema non era l’infermiere che tanto quello non tornava mai, ma la lezione di scienze con l’antipatica prof di matematica.

 

Lentamente il corpo di Panari Felice tornò a rilassarsi. Sentirmelo sotto le mani per tutto quel tempo, preda di quegli spasmi che lo irrigidivano mentre ansimava col fiato corto … non so che mi prese, ma ero abbastanza turbato. Ammetto che la sua fisicità non mi aveva mai lasciato indifferente, però non al punto da provocarmi un’erezione.

Quando scivolò nel sonno, potevo guardarlo senza che lui se ne rendesse conto. Già mi ero accorto dalla protuberanza che s’intravedeva attraverso i jeans, del suo membro irrigidito dagli spasmi appena patiti. Era da qualche tempo che ne volevo vedere uno, parlo di un cazzo vero come quelli delle riviste porno. Sì, andando regolarmente in piscina, mi era capitato di vedere qualche pisello ballonzolare sotto le docce, ma per lo più erano quelli di adolescenti come me, e poi non potevo certo farmi sorprendere a guardare tra le cosce degli altri ragazzi. No, il cazzo di Panari Felice, che era di qualche anno più grande di me, era una buona occasione per vederne uno vero e proprio.

 

Mi accoccolai e con estrema attenzione riuscii ad aprirgli qualche altro bottone della patta dei jeans. Purtroppo, quelli più prossimi al cavallo dei pantaloni non ne vollero sapere di uscire dalle loro asole. Però mi bastò infilare due dita nella fessura dei boxer, che il suo membro sussultò un paio di volte, mettendosi da solo in una posizione favorevole per essere sbirciato. Forse fu per il mio armeggiare o semplicemente era solito svegliarsi così dopo ogni crisi epilettica, ma appena fu bello duro, Panari Felice si destò dal suo sonno.

 

Io schizzai in piedi e feci finta di sistemare il lettino. Lui sembrava di buon umore e sfoggiava uno di quei suoi sorrisi da faccia da schiaffi. Forse ricordava di non essersi aperta la patta dei jeans da solo? Stava riabbottonandola quando, tirando il cavallo dei pantaloni verso il basso, si stupì di come quel giorno lo avesse in tiro più del solito dopo una crisi.

 

- … e tardi e la lezione di scienze è già cominciata da un pezzo.

 

Aveva ancora in faccia quel sorrisetto, quando se lo tirò fuori sbattendoselo sul palmo della mano. Mi chiese se mi andava di dargli un aiutino per risolvere il suo problema. Beh, non è che non sapessi come andassero certe faccende. Al dopo scuola del collegio era una pratica assai diffusa e poi mi era successo quel brutto fatto con Riccardo nello stanzino delle pulizie … Gli dissi che era tardi e dovevamo sbrigarci a rientrare in classe. Come facevo a fidarmi di lui? In fondo, prima di quel giorno, non c’eravamo mai frequentati. Ci conoscevamo tramite Vanni, ma non si poteva certo dire che ci stavamo simpatici.

 

- Avanti … dottore, mi visiti che ho questo grosso problema …

 

D’improvviso mi parlava come se fossimo amici di vecchia data. Anche se dubito che parlasse in quel modo con Cecchi e Papoccia. Si calò i jeans a mezza coscia e si sdraiò sul lettino a barella dell’ambulatorio, e con una faccia tosta che non sto a dire, agitava il suo cazzo ammiccando come una gran troia. Mi stava sbertucciando? Aveva finto di dormire per tutto il tempo e ora stava tramando di farmi compromettere al fine di raccontare tutto in giro e rovinarmi la reputazione già incrinata dalla vicenda con Alexander e poi quel porco di Martinazzoli che quella volta disse in classe che gli stavo toccando il pisello e poi quell’altra volta con Riccardo che poi raccontò in giro che io … uffa! Ma quanto cazzo pensavo? Che palle, mi dissi. Tanto gli avevo fornito già abbastanza materiale da sparlare di me.

 

- Vediamo cosa si può fare per il suo grosso problema …

 

Un errore in cui tutti incorrevano nei miei riguardi, era quello di credermi “timido”. Presi un laccio emostatico e glielo strinsi alla base dello scroto. Lui esclamò un “Aò” forse un po’ spaventato dalla mia calma e decisa intraprendenza … ma no, che non gliele volevo tagliare. Lui si mise le mani in testa, divertito dal mio “affilato” sarcasmo.

 

- Sei perverso!

 

Non la smetteva di stupirsi di quanto ero perverso, ma per il vero era lui che aveva cominciato a giocare al dottore, o no? Iniziai un’attenta diagnosi del suo “problema”. Checché i libri ne dicessero con le loro classificazioni, non esisterà mai una faccia di cazzo uguale all’altra. Il suo poteva essere assimilato tutto al più a un pene a collo di cigno, solo che la curva caratteristica di un collo di pennuto volge in basso e poi torna con il “becco” in alto … ecco, il suo lo avrei definito più un “crotalo storto”. Nel senso che era lungo e forse un po’ troppo sottile, con un glande ovale leggermente allungato che rimaneva gran parte chiuso nel suo prepuzio, facendolo apparire proprio come la testa di un serpente.

 

- Sbattimelo dai …

 

A un certo punto si era stancato delle mie discettazioni anatomiche. Era tardi e aveva ragione di volersi sbrigare, anche se non credo che la sua fretta fosse ispirata dalla preoccupazione per la lezione di scienze già in corso. Il mio armeggiare glielo aveva fatto tendere fino allo spasimo. Il suo viso si era infervorato e stringeva le labbra in modo curioso. A suo tempo non ebbi modo di osservare quanto accadeva con Riccardo in quello stanzino delle pulizie. Ricordavo chiaramente però quella sensazione di turgida morbidezza stretta nel mio palmo. Il cazzo di Panari Felice era invece durissimo e dava l’impressione di un pezzo di legno nodoso. Durò comunque poco. Giusto qualche colpo di mano e lo sentii fremere in un gemito soffocato. S’inarcò spingendo il bacino verso l’alto e fece partire un paio di schizzi, poi colò via, abbandonandosi al defluire stentato della sua eccitazione.

 

Lo lasciai ansimante riprendere fiato e andai al lavabo per lavarmi le mani. Poi presi dei tovaglioli antisettici e glieli porsi. Mi osservava come se si aspettasse da me un atteggiamento diverso. Mentre si puliva, mi fece un cenno con la testa e poi un gesto con la mano, come se improvvisamente si vergognasse di chiedermi se mi andava di farmi masturbare. Gli dissi che era tardi e dovevamo rientrare in classe. La verità era che non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di farmi mettere le mani addosso. Forse ci rimase male. In fondo lui mi aveva concesso la sua intimità, ed io c’ero entrato con un’invadenza tale, da fargli credere in qualcosa che prevedesse un mio desiderio, lo stesso che magari lui si proponeva di appagare. Invece, gli sbattei la porta in faccia. Per me era assurdo che qualcuno non mi trovasse repellente e disgustoso. Come poteva voler anche solo sfiorare un bitume di lardo come me?

 

Al solito non mettevo in pratica la legge del contraccambio.

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Floppy 03/25

 

 

 

- Do You speck English?

 

“Oh, di nuovo!”

 

- Aiemm no sacc

 

“Ma come si può ripetere la stessa trita, becera, dozzinale battuta ogni volta che la prof d’inglese fa una domanda? Io non lo sopporto più. Quale pena karmica sto scontando per meritarmi Panari Felice?”.

 

Cecchi e Papoccia oramai marinavano la scuola regolarmente e ogni volta che non c’erano, Panari Felice veniva a sedersi nel posto vuoto del mio banco. Io non capivo perché lo facesse e francamente la sua presenza m’infastidiva molto. Improvvisamente mi aveva eletto suo miglior amico e pretendeva che io facessi lo stesso, anzi, lo dava per scontato. Invece, io lo preferivo quando mi angariava, allora avevo perlomeno un po’ di pace tra uno scherzo e uno sfottò.

 

- Hai visto? Guarda che capezzoli turgidi! Sta senza reggiseno la porca. Secondo me ci puoi appendere un quadro tanto sono duri.

 

Il riferimento ai capezzoli di Milena, l’istruttrice di aerobica del Circolo Canottieri, era palese. Panari conosceva ogni punto e virgola del mio vecchio romanzo porno. Non avrei mai potuto perdonare Vanni di avergli puntualmente passato le fotocopie dei capitoli che faceva per sé.

 

- Cazzo, ma hai visto che labbra! Quella se te lo prende in bocca è come affondarlo nel miele bollente.

 

Miele bollente: capitolo diciannove. Quando l’amministratrice del sexy condominio fa una colata di miele caldo sul mastodontico pisello del figlio adolescente dell’avvocato dell’interno 5.

In quel romanzo ci avevo descritto le mie fantasie erotiche corredate di nomi e riferimenti che non avrei mai confidato a nessuno, tranne forse a Vanni che le conosceva già per essere cresciuti insieme, ma certo erano cose che non avrei mai fatto sapere al mio peggior nemico: Panari Felice.

 

- Ei, come sta Mr Wigly? Il mio è bello in tiro.

 

Ma come faceva a sapere anche di Mr Wigly! Il pudore mi avvampava quando sentivo uscirgli da bocca i miei segreti più intimi. Mi prefiggevo ogni volta di agguantare Vanni e fargliela pagare cara.

 

- … se qualcuno t’insulta ancora, ci penso io, okay?

 

Un giorno, quando il prof di ginnastica concesse il pallone da calcio, cercò persino di mettermi nella sua squadra. Ovviamente quell’altro che doveva lasciare fuori si lamentò, e chiese al resto della ciurma cosa se ne sarebbero fatti di una palla moscia come me. Tutti erano d’accordo con quella considerazione e se la risero, allora Panari Felice prese di petto il malcapitato e quando io chiarii che non avevo alcuna intenzione di giocare, mi si avvicinò a un palmo di naso, dicendomi che da quel momento avrei dovuto farmi proteggere da lui. Roba che piuttosto mi sarei fatto linciare, pur di non arrivare all’umiliazione di essere difeso da qualcuno.

 

Dopo quei fatti in infermeria, Panari felice mi chiese se potevo ancora assisterlo durante le sue crisi. Quello doveva essere una sorta di rito cui pochissimi eletti potevano aspirare a partecipare. Mi disse che a suo tempo era spettato anche a Vanni, dopo però doveva essere accaduto qualcosa di poco chiaro tra loro, perché Panari Felice gli preferì Papoccia. Ora che quello era stato scelto anche da Cecchi come fido compare di ventura, si trovava costretto a rimpiazzarlo. Ma perché io? C’era per esempio Trinca Emanuele che pendeva dalle sue labbra ed era sicuramente più sveglio di me. Tutti lo rispettavano e con lui non avrebbe rischiato il ridicolo, come succedeva per Giada, che mi doveva parlare con discrezione per non farsi prendere in giro.

 

- … non ti preoccupare che ci pensa zio all’autorizzazione.

 

Sì, in effetti, ci pensò lui o, meglio, la sua donna – Bea. Panari felice mi chiese il libretto delle giustificazioni per le assenze, dove c’era la firma di mia madre, e lo portò a Bea. Lei aveva diversi super poteri! Sapeva parlare pronunciando le parole al contrario, sapeva scrivere contemporaneamente con la mano destra e la sinistra come fosse una fotocopiatrice e, proprio come una fotocopiatrice, sapeva riprodurre qualsiasi calligrafia, compresa quella di mia madre. Il giorno dopo “zio” si presentò con il modulo firmato da mia madre, in cui mi dava il permesso di uscire dalla classe per assisterlo in quei venti minuti che durava l’attacco epilettico. Insomma, poter tagliare la corda per una mezzoretta al giorno non mi dispiaceva.

 

- … andiamo in un posticino che conosco io.

 

Il modulo firmato da Bea in vece di mia madre, diceva che saremmo dovuti restare in ambulatorio, sotto sorveglianza dell’infermiere. Figurarsi se a quello scansafatiche dell’infermiere andava di assolvere un’incombenza del genere. Tant’è che non si era mai domandato dove Panari Felice andasse piuttosto di presentarsi ogni volta in ambulatorio. Quando uscimmo la prima volta dall’aula, io ero convinto che fosse là che ci stessimo dirigendo, allora Panari Felice mi sorrise come di chi la sa lunga, dicendomi che mi portava in uno di quei posti dove usano appartarsi i tipi tosti per sfuggire al controllo delle autorità.

 

Le sue crisi epilettiche erano giornaliere e arrivavano sempre tra le dieci e le undici, però non era sicuro, nel senso che, grazie ai farmaci che prendeva, c’erano anche giorni in cui non si verificavano. Quindi si andava in fondo alle scale antincendio della palestra, da cui si accedeva da una porta di sicurezza che dava nelle intercapedini del palazzo, e ce ne restavamo lì a guardare il mondo che ci passeggiava in testa attraverso le grate del marciapiede.

 

Panari Felice si faceva le canne. Diceva che erano molto meglio dei calmanti che gli rifilavano i medici. Io non ero d’accordo, ma alleviavano l’attesa della prossima pasticca di Tavor. Cominciai pertanto a fumare e mi chiesi se anche Vanni avesse iniziato allo stesso modo – con le canne.

 

Dopo aver fumato Panari Felice diventava molto loquace. Io avevo imparato dalla zia Pina come si fa a dar spago a una persona affinché ti racconti i suoi guai. Brandelli del suo passato travagliato venivano fuori frammentariamente. Leggendo tra le pieghe dei suoi racconti, raccolsi pazientemente le tesserine di un mosaico, la cui figura finale mi mostrò un paesaggio popolato di figure orripilanti.

 

Panari Felice Marcello era il più piccolo di una covata di gemelli. Rimasero orfani del padre quando ancora non avevano l’età per ricordarselo. Lui ne parlava come un impavido eroe che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, anche se poi era solo un barbiere della borgata ultra popolare del Tufello. Per quello che capii, la sua fortuna, o sfortuna, era stata di aver avuto come clienti degli esponenti di spicco della criminalità organizzata romana, che all’epoca non potevano che fare capo alla tristemente nota “Banda della Magliana”. Diventato loro accolito, finì per fargli da testa di legno per molte delle loro attività di riciclaggio. Poi finì in carcere per fatti inerenti a una bisca clandestina celata dietro ad un sedicente Club Culturale. A detta di Panari Felice, i magistrati per vendicarsi della sua reticenza, dettero ad intendere che stava confessando tutto, fregando i suoi compari. Il padre non sopportando l’onta di tale calunnia, si tolse la vita impiccandosi. La sua morte però complicò ancora di più la situazione. La madre fu costretta a diventare la donna di uno sgherro del clan malavitoso. Il nuovo papà di Felice si chiamava Rocco, detto: Lo sciupa femmine. Questo soprannome non se l’era certo guadagnato per le sue doti da charmant, bensì per essere particolarmente sadico con le donne.

Il capitolo epico della vita di Panari Felice si concludeva con il pronunciare il nome di Rocco lo sciupa femmine. Alla presenza di quel nome il suo sguardo si andava a cacciare tra gli interstizi del pavimento. La sua memoria si smarriva tra le pieghe di ricordi che volevano rimanere celati. Le pause del suo racconto tendevano a diventare buchi neri che avrebbero inghiottito ogni proseguimento, se io non lo avessi saputo guidare con delle domande.

 

- Picchiava tua madre?

- Delle volte la legava al letto.

- Tu eri presente quando lo faceva?

- No, mi chiudeva a chiave in camera.

- Da solo? Non con tuo fratello?

- Da solo.

- E tuo fratello?

- Boh … a quel vecchio porco lo dovrei ammazzare per quello ci ha fatto, invece ...

 

Qualunque cosa Rocco lo sciupa femmine gli facesse, era stato così devastante da non poter essere ricordato. Mi raccontò che durante le serate con gli amici, a lui e suo fratello li esibiva con un guinzaglio, costringendoli a gattonare, e tutti ridevano lanciandogli pezzi di cibo da quel tavolo, dove loro “figli di un cane” non potevano sedersi.

 

Poi il sadico sciupa femmine finì in galera, in strana concomitanza con la morte improvvisa del suo fratello gemello. Provai a capire se c’era una relazione tra i due eventi, ma Panari Felice non tentennò mai nella versione che voleva il padrigno finito in un giro di moto rubate nella sua autofficina, e suo fratello vittima di un incidente domestico.

 

Un anno dopo Rocco rincasò e la madre tentò di accopparlo nel sonno con un paio di coltellate. Quando i giudici videro i lividi e le bruciature di sigaretta che la madre aveva su tutto il corpo, le accordarono le attenuanti, ma anche con quelle si fece tre anni di galera.

Panari Felice aveva sette anni la prima volta che fu affidato a una casa famiglia. All’epoca ancora non sapeva leggere, a malapena gli avevano insegnato a parlare.

 

La madre fu rilasciata per buona condotta dopo un paio d’anni, ad aspettarla fuori c’era il suo nuovo compagno. Panari Felice non mi spiegò come avesse potuto farsene uno stando in prigione. Si trattava di un commercialista. Un commercialista bravo che aveva accuratamente risolto il nodo finanziario che la legava al clan malavitoso. Di certo riuscì anche a far sì che una cospicua parte del malloppo rimanesse nelle sue tasche. I due non convolarono mai a nozze e dopo aver risolto i suoi guai, inspiegabilmente la madre si riprese in casa Rocco lo sciupa femmine.

 

- Guarda qua che mazza che mi si è fatta!

 

Capitò altre volte, quando ci appartavamo nell’intercapedine, anche senza bisogno di una crisi epilettica, che Panari Felice mi esibisse orgoglioso il suo alter ego attraverso i jeans tenuti stretti sul cavallo con entrambi le mani. Io non gli davo spago perché temevo fraintendesse l’interesse puramente “scientifico” che mi aveva spinto a ravanare nelle sue mutande.

 

- Oggi il crotalo morderà la sua Cleopatra.

 

Gli doveva essere piaciuto davvero molto il mio romanzo. L’universitario dell’interno dodici si riferiva al suo membro col nomignolo “il crotalo”, e ogni volta che riusciva a portarsi a letto una donzella, usava dire: “Il crotalo a morso un’altra Cleopatra”, con palese allusione ai letali aspidi della ben nota vicenda storica della faraona egizia.

 

La Cleopatra cui si riferiva Panari Felice era Beatrice, la sua ragazza.

 

Bea era una donna vera! Aveva ben venti anni. Aveva abbandonato gli studi prestissimo e ora frequentava le serali per terminare la scuola dell’obbligo. Loro due si erano conosciuti in un consultorio per giovani con una storia di abusi alle spalle.

Panari Felice usava trattarla come un prolungamento di sé, ma anche se mite e accondiscendente, c’era qualcosa in lei che la rendeva irraggiungibile.

Panari Felice ci presentò informandoci sul momento che l’avrei aiutata a studiare. Bea era una ragazza diffidente. I primi tempi riuscivo a strapparle una parola di bocca solo rivolgendole delle domande sulla scuola.

 

D’aspetto non era brutta ma non faceva nulla per mettersi in mostra. Portava sempre dei jeans con degli stivali da cowboy, maglioni ampi per confondere le generose rotondità dei seni, e sul naso metteva degli occhiali da vista enormi con una montatura d’osso all’apparenza molto pesante. Nonostante questo, un occhio maschile la notava subito.

 

Panari Felice non mi risparmiava i dettagli dei loro infuocati incontri amorosi, il che mi lasciava perplesso e mi faceva dubitare sulla sincerità di uno dei due. Insieme non li avevo mai visti farsi una tenerezza, anzi, sembrava che l’uno non sentisse mai la mancanza dell’altro. Lui era sempre infoiato e lei, in fondo, non disdegnava gli sguardi degli altri.

 

Un pomeriggio che andavo a prepararla per una verifica di storia, successe che la vidi pomiciarsi con un tizio nel parchetto davanti al suo palazzo. Avrei potuto far finta di niente, ma se non l’avessi interrotta col cavolo che si sarebbe ricordata del nostro appuntamento. Lei stava seduta su un muretto e aveva tra le gambe un tipetto smilzo con i capelli rasati, tutto borchiato. Manco gli avessi detto quanto mi apparisse ridicolo, quello se la prese subito a male. Io mi limitai a chiedere a Bea se voleva davvero che me ne andassi, come m’intimava il suo sedicente amante, o se preferiva lasciare le cose come stavano e salire a studiare.

 

Bea preferì lasciare le cose come stavano e piantammo in asso quell’imbecille nel parco. In ascensore lei cercava di proteggersi dal mio sguardo rassettandosi alla ben in meglio. Poi, inaspettatamente, mi assestò una di quelle sberle che ti fischiano per un quarto d’ora nelle orecchie. Rimasi sbigottito con la sua mano stampata sulla guancia sinistra. Probabile che si sentisse giudicata da me. La seconda sberla però la bloccai al volo, afferrandole forte il polso che s’irrigidì. Le tremava il braccio per lo sforzo di volontà che metteva nell’intento di farmi del male. Provò a colpirmi anche con l’altra mano. Allora la immobilizzai tenendola per entrambi i polsi. In quel momento successe qualcosa di perverso in lei che mi coinvolse immediatamente.

 

Bea mi venne incontro e prese a farmi le fusa come una gattina in calore. Respirava affannata nello sforzo di sedurmi in quelle condizioni. Cedetti di colpo all’istinto liberandole le mani. Le cavai l’orribile maglione e strinsi quel seno che avevo desiderato fin dal primo momento che la incontrai. Lei mi costrinse a smettere tirandomi forte per i capelli. Mi alzò la testa e mi guardò in faccia vittoriosa. Con l’altra mano cercava di aprire la borchia della mia cintola, io la anticipai frettolosamente sganciandola, abbandonando la mia erezione fra le sue dita.

 

Misteriosamente l’ascensore non si aprì al piano che mi ricordavo chiaramente di aver spinto sulla tastiera, bensì nell’interrato. Lei mi guidò in un angolino appartato. Non era più arrabbiata con me; anzi, era così gentile e accorta da infastidire il mio orgoglio di maschio, che non voleva farsi trattare da quell’imberbe adolescente segaiolo che era.

 

Mi masturbò tenendomi lo sguardo piantato negli occhi per tutto il tempo.

 

Un po’ come accadde con Panari Felice, dopo quella sega anche con Bea le cose cambiarono. Mi salutava sempre con un bacino e cominciammo uno scambio epistolare in cui mi raccontava ogni cosa di sé.

Mi raccontò di quando lei e Panari Felice si erano incontrati e di come trovarono il coraggio di confidarsi i loro impronunciabili segreti. Era la condivisione di una pena che li univa.

 

Fin da tenera età Bea era stata abusata dal padre con la complicità della madre. Dopo aver subito la violenza fisica del primo, doveva subire quella subdola dell’altra che le ringhiava sottovoce di essere una lurida puttanella. Era lei che però le chiedeva di andare col padre quando sentiva che stava per perderlo. Bea parlava del suo aguzzino quasi con tenerezza, mentre odiava profondamente la madre. Mi disse che era orgogliosa di lui perché aveva trovato la forza di abbandonarla.

 

Quando le abbandonò, seguì un’azione giudiziaria perché la madre lo denunciò per molestie alla figlia. Bea raccontò la verità agli assistenti sociali, agli psicologi e ai giudici, ma quelli misero in galera solo il padre, non capendo che lei era vittima della mamma.

Ora viveva ancora con la madre e il suo nuovo compagno, un camionista: “Lo schifoso”, lo chiamava lei. Ci andava regolarmente a letto insieme solo per fare dispetto alla madre, senza capire che facendolo continuava a devastare la sua anima.

 

- … to stick a picture on our right square.

 

Oh no! La colla, no. Ogni volta che si nominava la colla a Panari Felice tornava in mente il capitolo cinque del mio porno romanzo, quando il pestifero figlio dell’avvocato incolla le figure sul cartellone della ricerca scolastica con il proprio sperma.

 

- Colla in stick... ah! Sai che gusto quando ci correggerà i compiti!

 

Odiavo quando mi toccava! Mi afferrava il cavallo dei pantaloni violentemente, strattonandomi per le palle. Ma chi gliela dava tutta quella confidenza?

 

- Ei, la puttana ha fatto venire una bella mazza pure a te!

 

“Di quale aulica favella debbono godere le mie orecchie!”

 

La campana dell’ultima ora di lezione gracchiava ogni volta puntuale su quel cimitero, resuscitandomi come uno zombi. Fino a quando sarei riuscito a tenere la scuola fuori dalla mia vita? Panari Felice continuava a invitarmi a uscire il sabato sera o addirittura a passare il fine settimana a casa sua, mentre Bea mi scriveva lettere sempre più accorate in cui mi raccontava cose che non aveva confidato a nessuno. La mia stanza somigliava sempre più a un maniero con le mura traballanti. Le pastiglie di Tavor erano la pozione magica che mi permetteva di rimandare ogni decisione a un ipotetico domani di gloria, lontano da tutto e tutti.

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Floppy 03/26

 

 

A volte mi chiedo se sia davvero preferibile evitare un disastro. Farla franca senza onorare lo scotto derivante dalle proprie azioni, incancrenisce una condizione sempre più insostenibile. Nulla cambia più e intristisce nella staticità soffocante di un attimo in bilico sull’inevitabile. Perché in realtà l’aspetto diabolico dell’apocalisse sta nell’attesa.

 

A scuola, il ricevimento dei genitori prima delle vacanze natalizie, trascorse senza colpo ferire, mia madre rientrò e si mise a preparare la cena. Solo prima di cacciarmi via, perché rovistavo la pasta asciutta nel piatto senza mangiarla, mi disse di studiare di più, in casa non avevamo certo soldi da buttare in stupide ripetizioni. Evidentemente la media dei miei voti non più eccelsa, la lasciava indifferente. In tutti quegli anni mi ero sbattuto sui libri per niente.

 

Tutto rimase com’era e quella grande macchia nera che era diventata la mia esistenza continuò a espandersi.

 

La zia Pina aveva proprio ragione quando mi diceva di selezionare bene le amicizie, perché noi siamo quelli che frequentiamo. Io stavo diventando progressivamente Panari Felice e soprattutto Bea. Comunicare con lei attraverso la parola scritta, mi permise di dire cose che non avevo mai confidato neanche a me stesso. Lei mi capiva perché il dolore è una corda che vibra per simpatia. Solo che nessuno dei due sapeva reagire e lei, molto più grande di me, divenne una guida sulla via dell’autodistruzione.

 

La madre di Bea mi accoglieva sempre con lo sguardo torvo perché aveva sicuramente intuito cosa succedeva tra noi, quando la chiave della camera faceva scorrere le mandate della serratura e chiudeva il mondo fuori dalla porta. Bea usava il sesso per distrarre l’attenzione sul presente e con me divenne un gioco esilarante. Sì, perché non so neanche se si potesse definire sesso quello che accadeva. Per lo più si giocava alla “fotomodella”. Lei si truccava e metteva su biancheria intima molto sexy e con la mia Polaroid, la immortalavo in pose che diventavano sempre più provocanti. I nostri rapporti non erano fatti di amplessi, ma di carezze che a volte divenivano così appassionate da farsi violente.

 

Presto i nostri incontri di “studio” diventarono indispensabili per riuscire ancora a respirare. Bea m’insegnò come potenziare l’effetto degli ansiolitici mischiandoli con l’alcol. In un certo senso, fu lei a darmi la consapevolezza che il Tavor o il suo Valium, non erano medicine ma deliziose droghe con cui sfuggire al momento che sopraggiunge.

Quando arrivarono le vacanze natalizie e non avevamo più alcun pretesto per incontrarci, non so se mi mancò di più lei o il Valium.

 

- E’ stato Marcello a chiedermi di leggerli. Scusa, non credevo ti dispiacesse.

 

Quel Natale sancì i mutamenti generazionali che erano in corso. I cugini più grandi non parteciparono al cenone, e anche quelli della mia età avevano di meglio da fare che giocare a tressette con i genitori.

 

- Marcello è strano, era invidioso della nostra amicizia perciò ti dava sempre contro.

 

La sorpresa più grande arrivò una sera fra Natale e Capodanno, mentre me ne stavo ad armeggiare con il televisore in sala da pranzo, che non voleva saperne di svelarmi la frequenza su cui trasmetteva il Commodore 64. La nebbiolina nel tubo catodico rifletteva perfettamente il mio stato mentale. Avevo accompagnato la Tavor del pomeriggio con mezzo bicchiere di “Vecchia Romagna etichetta nera”.

 

Ebbi un soprassalto quando la mamma mi piombò addosso portandomi la lieta novella. Primo aveva portato a casa Vanni. Lo aveva incontrato al circolo canottieri, che oramai io non frequentavo più dall’inizio della stagione; c’era andato apposta per chiedere se poteva passare qualche giorno da noi.

Me lo trovai davanti improvvisamente, e provai molto imbarazzo. Strano per il vero, lui era Vanni, la persona che più di ogni altro al mondo poteva affermare di conoscermi. Mi sentivo sciatto … perché lo ero! Mi accorsi solo in quel momento che ero rimasto nella mia vecchia tuta di pallanuoto dal primo giorno di vacanza, con la pelle grassa e i capelli posticci … mentalmente intorpidito.

 

Era cambiato. Sì, ma non quanto me; cioè, era un po’ più alto, un po’ meno magro eccetera … però non era questo che mi colpì. Vanni indossava un denim fintamente sdrucito, un pullover da cui spuntavano fuori colletto e polsini di una borghesissima camicia; sul naso aveva dei costosi occhiali dalla montatura dorata e i capelli li portava con un taglio cortissimo, invece della zazzera che ricordavo io.

 

Vanni lo aveva fatto di nuovo. Alla fine non aveva raggiunto più il padre a Boston e si era iscritto al Collegio, dove un tempo io frequentavo il doposcuola e, putacaso, era anche entrato nella cerchia delle amicizie di Matteo, il principino Della Torre. Lo aveva fatto di nuovo, come quella volta che si presentò per la festa in maschera dalla zia Pina travestito dal mio eroe preferito. Lo aveva sempre fatto. Si era introdotto in casa mia contendendo l’affetto di mia madre, aveva tentato di prendersi anche Lalla e poi quante altre volte aveva fatto sue le mie idee. Ora aveva addirittura preso le mie sembianze, quelle che avrei avuto se non fossi precipitato in quel limbo che era diventata la mia vita.

 

- Tu sei fatto così; cioè, non te ne frega. Agli altri scoccia se non li consideri per niente.

 

Vanni sarebbe rimasto fino a Capodanno, poi avrebbe raggiunto i nonni a Cortina d’Ampezzo - ma perché non c’era andato subito sulla neve? Me lo chiesi perché si vedeva che non gli importava più di tanto della rimpatriata. Trascorreva buona parte del tempo sui libri di scuola, e non mi chiedeva neanche un consiglio, una spiegazione. Mi considerava uno studente di seconda categoria. Averlo davanti tutto il giorno faceva troppo male.

 

- E dai che un po’ è vero che hai la puzza sotto il naso.

 

Prima di andarsene, Vanni mi regalò tutti i suoi giochi su nastro magnetico. Già, perché lui naturalmente si era fatto arrivare dall’America il più veloce lettore floppy disk. Caricare i giochi con le cassette era davvero un dramma e all’ennesima volta che comparse la scritta: Load Error, volevo ammucchiare tutto e tornarmene a leggere Schopenhauer. Vanni, invece, era lì che s’incaponiva ad allineare quella testina del registratore.

 

Tanto per ammazzare la noia che decisi improvvisamente di rompere gli indugi e fargli quella domanda che mi martellava il cervello: Perché si era iscritto al Collegio? Mi rispose distrattamente, come se la faccenda fosse cosa di poco conto: c’erano tanti amici e i suoi nonni avevano insistito molto. Ma quali amici se il suo amichetto del cuore me lo ritrovavo seduto al mio banco di scuola! Almeno la notizia che Panari Felice stava in classe con me non lo lasciò indifferente. Mi guardò preoccupato e poi mi disse di stare attento, secondo lui quello era un tipo strano.

 

- Lui ci chiamava fidanzatini, stupidi frocetti … roba così; solo per questo fui felice quando ci hai litigato e non sei venuto più a giocare.

 

Mi mise in guardia da Panari Felice, definendolo uno psicopatico. Che incredibile novità! Guardai Vanni con la voglia di saltargli addosso e riempirlo di botte. Forse se ne accorse perché tagliò corto e continuò ad armeggiare con il Commodore 64. Io che non volevo perdere l’occasione per dire tutto, gli chiesi per quale ragione aveva passato le pagine del mio romanzo sexy a quel pervertito, e come mai quello conosceva dettagli sulla mia vita che nessuno, oltre il mio miglior amico, avrebbe dovuto sapere.

 

- Gli piaceva quello che scrivevi, anche troppo direi. Te l’ho detto che è strano, quindi sta attento.

 

Appena terminai il mio sfogo, la voce piombò nel silenzio come il tonfo di un sasso nell’acqua di uno stagno. Per qualche attimo pensai di aver parlato solo con la voce del pensiero. Poi il Commodore caricò finalmente il videogioco facendo partire un jingle. Lui iniziò a giocare e solo dopo il primo game-over, passandomi il joystick, cominciò a parlare. Mi redarguì di nuovo nei confronti di Panari Felice, poi si scusò di avergli passato il mio romanzo. Prima dello screzio accaduto tra me e Marcello durante la partitella a pallone della domenica, quello già lo provocava accusandolo di essere amico di un frocetto. Mi disse che finivano sistematicamente alle mani, così arrivò pure a insinuare che fossimo fidanzati. Fu solo per questo che dopo lo screzio non insistette a farmi tornare al parco con lui. Vanni descrisse Panari Felice come un tipo morboso che pretendeva di venire prima di ogni altra cosa, manco fosse una moglie gelosa.

 

Vanni mi parlava solo quando il gioco ricominciava e uno dei due aveva gli occhi sullo schermo del televisore. Era chiaro che mi stava dicendo qualcosa di molto intimo. In quel momento l’acredine nei suoi confronti sciamò via come la foschia di un mattino d’estate. Gli avrei voluto chiedere scusa per aver dubitato della sua buona fede, ma passandomi di nuovo il joystick, il discorso affondava sotto i colpi di “Space Invaders”.

 

Vanni ebbe da rimproverarmi la mia insicurezza cronica, che dall’esterno veniva sistematicamente fraintesa per supponenza. Il mio imperativo categorico di non affezionarmi a niente e nessuno, finiva per far sentire gli altri inutili. Mi ero sempre detto che la vita scorreva come l’acqua ed era inutile cercare di trattenerla stringendo i pugni.

Invidiavo Vanni per la sua quotidianità in sintonia con la vita di un adolescente. Lui era perfettamente nella media: bello ma non troppo, intelligente quanto bastava, con le problematiche tipiche della pubertà, in cui gli adulti potevano riconoscersi; non come me che, come diceva Vanni, non accettavo mai le cose così come andavano bene per tutti gli altri.

 

Vanni partì per il suo capodanno sulla neve e ci salutammo con un addio definitivo. Eravamo cresciuti insieme condividendo ogni aspetto della vita, ma era sempre stato chiaro che eravamo due semi dal destino diverso. Lui era un fiore che stava sbocciando, io solamente una carruba che continuava a ingrassare sotto la terra: il suo destino profumato contrapposto al mio da patata lessa.

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  • 2 weeks later...

Floppy 03/27

 

 

- Vaffanculo Stronza …

 

Avevano inalato del nitrito di amile.

 

- Zitta bastarda …

 

Forse avevano preso anche qualche altra droga, tipo anfetamine o simili. I loro occhi erano spiritati e si esprimevano con una gestualità teatrale. Un’ilarità fuori luogo accompagnava quella follia da esaltati mentali.

 

- Zoccola …

- Troia …

- Puttana …

- Mignotta …

 

Erano i primi giorni dell’anno nuovo quando Panari Felice si presentò a casa mia. La sala da pranzo era ancora affollata dai parenti che la occupavano ormai da giorni, trasformandola in una sorta di bisca di scopone scientifico e tressette. Fui ovviamente sorpreso di vedermelo presentare in casa, specie perché si mise a farneticare su fantomatici amici che ci stavano aspettando. Era chiaro che mi stava lanciando l’esca per tirarmi fuori da quella situazione, quello che non capivo era il perché lo stava facendo.

 

“Allora è questa la tua tana” Esclamò entrando in camera mia, come se fosse uno spazio mitologico invece di quel buco pieno di carta che era. Si comportava in modo strano, come se fosse successo qualcosa che lo autorizzava a violare la mia intimità. “… ma ti fai vestire ancora da tua madre!” Frugò nel mio armadio e si stupì di trovarci solo maglioncini e jeans. “ … perché oggi è un giorno speciale” Dopo avermi annusato, disse che puzzavo come un porco e mi dovevo andare a lavare perché quello era un giorno speciale per me. Cercò poi di vestirmi secondo i suoi canoni di “eleganza”… non ci riuscì. “E’ questa faccia da fesso che ti frega” Quando mi diede del coglione, gli spiegai che se si vergognava tanto di farsi vedere in giro con uno come me, potevamo anche evitare di uscire.

 

“ Arma la belva che ci facciamo una bella scopata”

 

I miei erano felici di vedermi con un mio “amichetto”, dopo che per tutto il tempo avevano cercato di spiegare al parentado lì riunito, che non ero un nerd asociale come sembravo. In effetti, anch’io non sopportavo più dover fingere di apparire “normale”, ma neanche volevo essere come gli altri. Per tutti quei giorni trascorsi con Vanni, mi ero ritrovato a piangere sulle spoglie di un destino mancato. Ero stanco di sentirmi estraneo persino in famiglia perché quel padre non era veramente mio padre e tutto sembrava solo una messa in scena. Sentivo un gran bisogno di urlare … di farmi male per capire se ero ancora vivo … di fuggire via da quella melma soffocante.

 

“Tu sei bellissimo”

 

Bea non mi amava come invece sosteneva Giada che, comunque, si vergognava di farsi vedere con me. Nei nostri pomeriggi d’infantili follie, Bea non mi trovava brutto e sosteneva che non ero neanche così grasso come pensavo di essere. Lei non pretendeva che fingessi per somigliare a qualcos’altro. Stare con Bea mi piaceva e per questo fui contento quando Panari Felice mi disse che andavamo a casa sua.

 

Ci venne ad aprire la madre e certo non mi aspettavo che ci accogliesse a braccia aperte, ma nemmeno che ci prendesse direttamente a male parole. Questa signora era una specie di supplì con quattro stecchini al posto di braccia e gambe. Il capo era direttamente poggiato sulle spalle e in testa portava spesso dei rolli per la messa in piega, tenuti in una retina di nailon. In faccia aveva diverse cicatrici, la più marcata delle quali le attraversava la fronte fino al sopracciglio destro, che le calava un po’ sull’occhio, facendoglielo rimanere mezzo storto. Eppure nelle sue foto da ragazza, di cui erano tappezzate le pareti di tutta casa, lei era bellissima, anche più di sua figlia.

 

“Ma che cazzo sta a di' sta stronza?” La madre di Bea si capiva poco quando parlava, specie se era nervosa come quel giorno. Panari Felice le diede uno spintone che per poco non la sdraiava in terra, poi chiese a Bea che cosa era successo. “Ammazzala a sta puttana ...” Bea era furiosa, non l’avevo mai vista così. Era chiaro che le due stavano litigando, ma non capivo se era a causa della nostra visita. La signora continuava a inveire ma a capirla era solo Bea, che le intimava di stare zitta e spesso minacciava di lanciarle contro qualche suppellettile; allora la signora squittiva impaurita schermandosi il capo con le braccia.

 

“Marce’ … dove sei, Marce’ vie’ e ammazzala a ‘sta andicappata mentale”.

 

La signora nonostante temesse il gesto minaccioso della figlia, tornava subito dopo a inveirle contro. Al contrario, raggelava non appena la figlia chiamava Marcello. Lui era sparito in camera di Bea, quando ne tornò, molleggiava sui suoi passi spavaldi e tirava su nervosamente col naso. Quella grottesca signora doveva aver imparato presto a temere le mani dei maschi. La vidi fuggire dietro al tavolo del salotto come i bambini quando non vogliono farsi acchiappare.

 

“Pigliala … ammazzala … pigliala”

 

Quella fu la prima volta che mi chiesi fino a che punto sarei potuto rimanere impassibile dinanzi a un delitto. Ero certo che non l’avrebbero ammazzata, ma sapevo anche che la maggior parte degli omicidi non sono premeditati e quei due erano chiaramente fuori di testa.

Del resto Bea aveva già tentato di farla fuori. Quando aveva sedici anni, prese una grossa bomboniera di porcellana da sopra il comò della camera di sua madre, e gliela spaccò in faccia mentre lei dormiva. Fu a seguito di quel gesto che finì nel consultorio dove conobbe Marcello. Bea aveva già dato segni di disturbi psichici, ma fin quando questi non divennero violenti, nessuno si era mai preoccupato di aiutarla.

 

Mi aveva raccontato di quando a scuola iniziò a toccarsi durante le ore di lezione, di come gli altri ragazzini la insultassero per questo, e di come lei non riuscisse a fare a meno di quelle umiliazioni. Poi un giorno, senza che ne avesse coscienza, iniziò a spogliarsi ovunque capitava. Fu tolta proprio per questo da scuola e tenuta sottochiave in casa. Dopo aver rischiato la morte in un raptus di follia, in cui si penetrò la vagina con un coltello, rincasò dall’ospedale, prese quella bomboniera e iniziò a menarla in faccia alla madre.

 

“Scappa … corri bastarda … scappa”

 

La signora prese a fuggire per la stanza, con quei due che la paravano ovunque andasse; poi riuscì a prendere la via di camera sua e a testa bassa ci s’infilò dentro, chiudendosi a chiave. Marcello prese a calci la porta, ma Bea lo fermò iniziando a togliersi i vestiti e spogliando anche lui. Si avvinghiarono senza che questo potesse lontanamente sembrare un rapporto sessuale. Sembravano annaspare tra le loro carni pur di non affogare, ma nessuno dei due in realtà cercava o desiderava l’altro.

 

Fu in uno di quegli istanti che Bea si ricordò di me. In quello sguardo riconobbi l’amica dei giochi proibiti. L’occhio si strinse un po’, sorridendomi. Forse sussurrò qualcosa nell’orecchio di Marcello, perché lui si staccò improvvisamente da lei e mi venne incontro.

 

“Arma la belva che ci facciamo una bella scopata”

 

Era dunque per quello che Marcello mi era venuto a prendere. Forse Bea gli aveva sempre raccontato dei nostri incontri di “studio”? Non lo sapevo e neanche ci tenevo a scoprirlo. E’ difficile spiegare perché quel giorno non me ne andai. Magari non ne ebbi semplicemente il coraggio. In fondo loro erano più grandi di me e a quell’età viene naturale ubbidire. Certo è che mi sentivo perso. Tutte le certezze che dovrebbe avere una qualsiasi persona, a me erano state tolte nel giro di una manciata di mesi.

 

La morte della zia Pina mi aveva fatto prendere coscienza di non appartenere a quella classe di ricchi tra cui ero cresciuto. Mi era arrivato come uno schiaffo in faccia scoprire di essere solo il figlio del maggiordomo, cui viene concesso di giocare con il rampollo del padrone di casa. Io non mi volevo sudare il posto nell’alta società, come avrebbe voluto la zia Pina e mia madre. Io ci pisciavo in testa al principino e pure a Vanni, per quando mi riguardava, potevano impiccarsi tutti. Ero solo. La mia famiglia non era quella cosa che avevo sempre creduto che fosse. Non avevo più un padre, se anche non d’amare almeno da odiare. Avevo perso persino Dio che bene o male, mi aveva dato sempre conforto.

 

Non è che quel giorno mi stessi ponendo tutti questi interrogativi. Tuttavia, un grumo inesplicabile di dubbi mi aveva trascinato nella palude oscura che ristagnava nel fondo del mio animo. Il sesso poteva essere una possibile risposta. Lo era già diventata e, in effetti, avevo imparato a prolungare per intere giornate quel misterioso interesse, che mi distoglieva da ogni altro problema contingente.

 

“Arma la belva che ci facciamo una bella scopata”

 

Ovviamente “scopare” non era la stessa cosa di “masturbarsi”, soprattutto perché si coinvolgevano altre persone. E poi non volevo togliermi i vestiti. La nudità era spogliarsi di quegli abiti che ti danno una forma e ti proteggono dallo sguardo impietoso degli altri. Temevo il riflesso che lasciavo in giro perché non mi rispecchiava. La bellezza era qualcosa di così difficile da costruire! Semplicemente odiavo la mia forma materiale, dovermene rendere conto era come prendere atto di un fallimento. La perfezione concettuale nella mia testa era tradita da quel ridicolo ragazzino paffuto dallo sguardo atterrito.

 

“Tu sei bellissimo”

 

Bea diceva che mi sbagliavo e anche quel giorno me lo ripeté di nuovo. Mi tolse il maglioncino e sbottonò la camicia. Per la prima volta accettai di mostrarle il mio ventre gonfio del disgusto per il mondo, di cui ero costretto a nutrirmi. Bea era convinta che il mio disagio fosse qualcosa di simile al suo dolore, e voleva insegnarmi a superarlo usando la sua ricetta. Lei che nel tempo era diventata una strega e sapeva mischiare gli ingredienti per pozioni magiche, quel giorno mi offrì la sua scienza facendomi inalare del Popper.

 

Il mondo ebbe un improvviso tonfo, ma in realtà fu il mio cuore a tremare. Il rush mi fece tenere con le mani salde sulla spalliera del letto. Marcello rideva divertito dall’espressione della mia faccia. Bea venne in mio aiuto rassicurandomi e ricordandomi di respirare. Subito dopo fu troppo divertente. Lei era così affettuosa e mi strinse al suo prosperoso seno. Poi mi trascinò al centro della stanza per fare la danza dei granchietti, che avevamo visto fare nel cartone animato “Kiss Me Licia”. Quella follia gliela proponevo ogni volta come antidoto alla morsa della melanconia. Bisognava instupidire per lasciarsi andare alla gioia e quel balletto era così idiota!

 

“ ... basta dai, scopiamo!”

 

Marcello ci dava degli scemi mentre con le dita aprivamo e chiudevamo le chele, muovendo i passi della nostra danza a destra e a sinistra per mimare il gesto del granchio. Poi però, la nostra ridarella coinvolse anche lui. Dio come stavo bene! Marcello però voleva scopare e alla fine rapì la sua donzella, lanciandosi con lei sopra il letto. Io me ne sarei rimasto anche lì, senza partecipare, ma Bea pretese che li raggiungessi.

 

Credevo che rimanere nudo mi avrebbe almeno fatto arrossire, invece, mi sorpresi a non avere alcuna vergogna. Per il vero quella situazione non m’intimidiva proprio. Del resto ero già intimo sia di Bea sia di Marcello. Stare nudo con loro nello stesso letto era persino rassicurante. Bea mi accolse tra le sue cosce ed io sprofondai nella morbidezza delle sue carni. Non ebbi un amplesso con lei perché sapevo bene quanto le facesse schifo, ma fu ugualmente bellissimo. Sentire la sua pelle profumata aderire alla mia che illanguidiva progressivamente, incontrare il suo sorriso ogni volta che sollevavo il viso dai quei seni prosperosi, mi faceva sentire accolto e persino desiderato.

 

“ … era ora, cazzo!”

 

Quando sarebbe stato il turno di Marcello, questi non parve interessato a continuare la nostra piccola orgia. Forse ci misi troppo tempo perché mentre si rinfilava i suoi orribili slip, mi guardò storto dicendomi di sbrigarmi. Pensai che si fosse ingelosito perché, per quel poco che durò, io a Bea la amai e se anche non avevamo avuto un vero amplesso, quella per me fu la prima volta che feci all’amore. Non lo so, ma sentii di aver sbagliato qualcosa e aver rovinato di nuovo tutto. Bea anche sembrava improvvisamente infastidita e mi salutò sfuggendo al mio sguardo. Marcello neanche le chiese se voleva uscire con noi. Lei rimase in casa e probabilmente riprese a litigare con la madre.

 

Marcello mi portò nella sala biliardi, dove era solita riunirsi la sua comitiva. Mi presentò come suo cugino e gliene fui grato. Mi piaceva sentirmi scelto per essere imparentato con qualcuno. Mentre me ne stavo lì a guardarlo giocare, ripensai a quanto mi aveva detto Vanni. Probabile che gli desse del pervertito proprio per l’intimità che io gli accordavo. Chiunque ci avrebbe definito dei depravati per quello che avevamo appena fatto e, per assurdo, questo mi piaceva. Io non ci riuscivo a stare dentro le regole che andavano bene per gli altri. Quel giorno mi ero sentito per la prima volta liberato dal peso di esistere. Se ero un mostro, era bene che stessi con quelli della mia specie …

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