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Eredita dalla compagna Susan Super tasse per la fotografa Leibovitz


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La fotografa dovrà pagare 15 milioni di dollari per i beni della Sontag

 

 

Quel che non hanno potuto le convenzioni sociali (loro erano libere, intelligenti, e famose), né il bisogno di fingere per guadagnarsi tranquillamente la vita (loro erano famose, e ricche), e neanche la normale fine della fertilità femminile (grazie a una figlia via fecondazione assistita fatta da Annie a 51 anni, più due successive gemelle via utero in affitto; fin esagerato, suvvia) ha potuto il fisco americano. Quello che neanche la morte ha diviso è finito nelle mani di un'agenzia di ipoteche. Neanche si trattasse di Al Capone; la coppia di donne più celebre, affascinante, creativa e ganza dei nostri tempi è crollata sulle tasse. Non tasse evase, tasse di successione. Susan Sontag, scrittrice-saggista- icona intellettuale, e Annie Leibovitz, fotografa di gran talento amata da pubblico e vip, hanno vissuto insieme per vent'anni; fino alla morte di Sontag, nel 2004, di leucemia. Sontag ha lasciato «diverse proprietà» a Leibovitz.

 

Non erano sposate, all'epoca non c'erano nello stato di New York forme di unione civile che consentissero a un partner dello stesso sesso di ereditare. Così, Leibovitz – non una poveraccia, la fotografa star di Vanity Fair — ha dovuto pagare una tassa di successione pari al 50 per cento del valore dell'eredità di Sontag. Così – neanche Sontag era una poveraccia — ha dovuto ipotecare le sue proprietà e i diritti d'autore delle sue foto. Per 15 milioni di dollari, prestati da ArtCapital e ArtLoan, società che fanno credito in cambio di opere d'arte e hanno tassi di interesse fino al 24 per cento. Chiaramente: Leibovitz vive ancora benissimo, lei e tutta la prole innovativa. Sarebbe stato peggio, fossero state due commesse, o due pensionate con la minima. Ma è proprio questo il problema. Una fotografa di fama mondiale che ipoteca la sua opera onde tenersi case e accessori per trenta milioni di dollari non sarà il personaggio più commovente, il più adatto a convincere il pubblico medio in recessione della necessità di leggi che regolino l'unione tra persone dello stesso sesso. Ma in un mondo ossessionato (bombardato) dalle celebrità, Leibovitz è l'unica vedova lesbica che riesca a far notizia. Per fare mente locale: è lei l'autrice delle foto di Demi Moore nuda e incintissima, di Whoopi Goldberg nera a bagno nel latte, della regina Elisabetta, di chiunque.

 

 

Snobbata dalla critica alta; apprezzatissima dal pubblico medio; sicuramente fotografa che ha fatto epoca, ha reso quasi simpatici, quasi disneyani moltissimi personaggi antipatici e a volte importanti. Lei è la stessa che nella sua mostra A Photograph's Life ha affiancato foto di divette scosciate a immagini della sua Susan ridotta malissimo a fine vita. La stessa Susan che nel saggio di culto uscito nel 1977 (prima di incontrare Leibovitz), On Photography, descriveva la società contemporanea come «alimentata dal consumismo estetico»; incluso quello della Celebrity Culture, dei rotocalchi, delle scemenze pop. Che analizzava la fotografia in molti modi; come qualcosa che, a furia di mostrare, desensibilizzava le persone su orrori schifezze e tragedie; ma anche come «memento mori », perché fare una foto, scriveva Sontag, vuol dire partecipare alla mutevolezza, alla vulnerabilità, alla mortalità di un'altra persona (Sontag è mancata prima di vedere i milioni di foto taggate su Facebook, forse si sarebbe arresa, chissà).

 

Così, di questa bega ereditaria in America si discute sui siti gaylesbo come su quelli di fotografia. Se ne parla in modo pragmatico; c'è chi si stupisce perché la moribonda Sontag non ha venduto tutto a Leibovitz per un dollaro, chi obietta che Leibovitz avrebbe comunque dovuto pagare tasse sul valore reale; e altre amenità. Sarebbe meglio spettegolare sulla loro storia d'amore, più interessante di tante altre, allora (per chi pensa che la battaglia pro Pacs-Dico-ecc. sia un vezzo superfluo: è appena uscito il dvd di "Improvvisamente l'inverno scorso" di Gustav Hofer e Luca Ragazzi, divertentissimo documentario alla Michael Moore, premiato a Berlino, in cui una giovane coppia gay segue le polemiche sui Dico e si rende conto di quanto, spesso, è sgradita; neanche loro erediterebbero, neanche il diritto a subentrare nell'affitto al Pigneto, e non ci sarebbe nemmeno la notizia sul Web).

 

Maria Laura Rodotà

05 marzo 2009

 

Corriere della Sera

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